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Autore: Melanto    16/12/2019    5 recensioni
[Midquel di 'Malerba']
Gli elementi principali dell'ikebana sono tre, chiamati in modi differenti e sintetizzabili in: Paradiso, Uomo e Terra.
Preso nel mezzo, tra ciò a cui appartiene e la fede da ritrovare, l'Uomo si curva e dibatte alla ricerca di un equilibrio ideale. Ma la ricerca può essere guerra, e se dopo tante sconfitte c'è chi riesce ad assaporare la pace delle prime vittorie, allo stesso modo c'è chi, dopo aver passato una vita intera a dominare, inizia a soccombere sotto il peso delle sconfitte nascoste.
Questa raccolta è fatta di vittorie e disfatte diluite nel Tempo, ma senza dimenticare...
...che non è il tempo a perdersi, siamo noi a perderci nel tempo.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Jikan - #4

Nota Iniziale: siamo ancora ad Agosto, quindi stesso mese della shot #3

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

- #4: L’Uomo (prima del Padre e del Figlio) -

 

 

 

Akio si alzò dopo essere rimasto in ginocchio per una ventina di minuti.

Davanti alla lapide di Yuzo c’era ancora un po’ di confusione, tra fiori ormai secchi che erano stati sostituiti da altri freschissimi. Corolle sgargianti, che facevano bene agli occhi e male al cuore come ferite vive.

Akio aveva portato una busta per i rifiuti, e nonostante il caldo aveva lavorato con dedizione e un sorriso. Camicia a maniche corte, pantaloni jeans dal taglio più classico e adulto. Diede una spolverata alle ginocchia e poi si tirò dritto, per guardare il lavoro d’insieme.

«Che ne dici, ti piacciono? Erano di questa mattina, arrivati da poco.»

Akio osservò soddisfatto i gambi dei lunghi gladioli gialli, arancioni, magenta e sfumati. Aveva smesso di prendere sempre il solito mazzo di fiori, e aveva iniziato a rivolgere maggiore interesse alla scelta che compiva. Da quando si era fermato a comprare la Caesalpinia per l’inaugurazione del Mori no Kokoro dopo la ristrutturazione, aveva cercato di ridurre la distanza che aveva messo tra sé e le piante fin da quando i suoi figli erano piccoli, con risultati a volte disastrosi e a volte incoraggianti. In esse seguitava a rivedere la composizione di Shuzo sotto la campana di vetro. Solo i Lycoris erano rimasti la scelta che sentiva imprescindibile, come il suo dolore.

«Non ne ho mai capito molto e lo sai, ma penso di preferirli alle rose. Sono più belli e penso, sì… che forse sarebbero piaciuti di più anche a te. Nella serra c’erano sempre così tanti colori…»

Anche quel ricordo era vivo allo stesso modo e faceva male in egual misura. Gli rammentava che era stato attento e distratto nel medesimo istante e lo mortificava.

Akio raccattò la busta e ne chiuse la sommità dopo avervi infilato le rose secche. La tomba era pulita, la superficie del marmo lucida, l’incenso bruciava.

Lui giunse le mani e rivolse tutte le preghiere più belle che aveva a quel figlio inafferrabile, mentre il cimitero rimaneva silenzioso in quel sabato mattina d’estate.

Agosto non perdonava con la sua afa, ma c’era una cicala proprio sul tronco del glicine sopra la tomba di Yuzo che disperdeva un canto continuo che gli rinfrancava lo spirito e non lo faceva sentire troppo solo. Un verso di cui qualcuno, quando era arrivato, si era lamentato. Ma per Akio era come lamentarsi del caldo. Ora che era rimasto solo già da un po’, aveva potuto godersi quell’intenso frinire in tutta tranquillità, ricordando le estati di famiglia – troppo poche, si rese conto, e troppo brevi – trascorse tra la minka dei Morisaki e il mare. Ci erano andati tutti gli anni e per loro, che vivevano in una prefettura bagnata dall’acqua, rinunciarvi sarebbe stato come privarsi di una parte del proprio spirito. Ricordò anche questo, i momenti che avevano vissuto come famiglia felice, quando i bambini erano piccoli, e tutto era gioco, anche il rimprovero. Tutto era semplice come svegliarsi la mattina e passeggiare sulla spiaggia, riempiendosi i polmoni dell’odore del mare.

Tra una preghiera e l’altra, e in mezzo ai ricordi, Akio pensò che Shuzo fosse fuori già da quasi tre mesi e lui non aveva approfittato di nessuna occasione per avvicinarlo. Si era ripromesso che lo avrebbe fatto, che non sarebbe scomparso dalla sua esistenza, a qualsiasi costo e prezzo – il conto della via dell’odio era sempre salato – eppure la paura dell’ennesimo rifiuto lo aveva frenato, accompagnata dalla paura che Shuzo potesse fare qualcosa per cui sarebbe finito di nuovo nei guai. Tra le mille cose che non voleva più fare, minare la serenità di suo figlio era al primo posto. Soprattutto adesso, che aveva saldato il debito con la giustizia, che aveva un posto stabile in cui stare, brave persone che gli volevano bene… qualcuno che lo amasse.

Yumeko gli raccontava sempre tutto ciò che lo riguardava, e per Akio era come viverlo attraverso di lei, felicissima come non la vedeva da tempo. Serena.

Tutti lo erano, lui sperò di poterlo tornare col tempo.

Akio portò le mani alla fronte e le disgiunse, chiudendo anche la sua preghiera che non cambiava mai, e vedeva sempre la famiglia al centro: sua moglie, suo figlio; e la speranza che il figlio che li vegliava dall’alto continuasse a prendersi cura di loro come aveva fatto fino a quel momento.

Akio si guardò attorno, aveva sistemato tutto e sarebbe anche potuto tornare a casa, ma voltare le spalle alla lapide era qualcosa che gli era sempre costata fatica e alla fine, pur se non ci fosse stata una reale necessità, avrebbe finito con l’indugiare un po’ di più, prendersi fino all’ultimo secondo possibile per stare con Yuzo o con ciò che ne rimaneva. D’estate, poi, era ancora più facile attardarsi, tra il caldo, la brezza e il sole.

«Che dici, ragazzo mio, ti va se resto ancora un po’?»

Ma il rumore di passi che si avvicinavano gli disse che non sarebbe più stato da solo e che forse non era il caso di farsi sentire mentre parlava con una lapide. La disperazione era un dolore troppo personale per essere mostrato davanti a chiunque, e lui non voleva compassione.

Akio tirò indietro le spalle, si finse affaccendato e spostò la busta con i rifiuti da una parte all’altra, in attesa che l’ultimo arrivato passasse alle sue spalle e raggiungesse la propria destinazione; invece si ritrovò affiancato.

Si volse, convinto che fosse qualche amico di Yuzo; passavano spesso quando rientravano a Nankatsu nelle pause del campionato, soprattutto Ryo. E invece i suoi occhi si fecero enormi nell’incontrare, prima di qualsiasi altra cosa, il tatuaggio di un cobra che si attorcigliava a un braccio fino quasi a fondersi col disegno colorato di una carpa che poi spariva sotto la manica corta di una t-shirt, mentre i suoi occhi salivano, salivano ancora e si trovarono a seguire il dondolio di un ciondolo a forma di rosa dei venti che pendeva da un orecchino circolare.

Capelli corti, spettinati in una cresta, e un profilo che non era solo familiare quanto genetico nel naso dal taglio dritto come una scogliera.

Akio si tirò su a mano a mano che gli occhi svelavano la presenza al suo fianco, e lo stupore che lo invase aveva tanti aspetti che si mischiavano tra loro da non fargli comprendere bene quale stesse prevalendo.

Forse che Shuzo fosse lì, forse che lo aveva raggiunto di proposito, forse che non l’avesse ancora apostrofato male.

Forse che era felice di averlo accanto, a prescindere da quello che sarebbe accaduto nei prossimi minuti; per lui quei secondi in cui stavano condividendo lo stesso spazio valevano più di tutto il resto.

 

Non era stato un caso se al cimitero ci era andato di sabato: aveva chiesto lui a sua madre quando Akio facesse visita a Yuzo, di solito; il giorno, l’orario.

Da dove pensi che nasca la tua rabbia? Da un sentimento, da un evento, da una persona?

Perché aveva imparato che esistevano ostacoli che non andavano abbattuti con la forza. Non andavano abbattuti e basta.

Credo… anzi, ne sono certo: da una persona.

Dopo quella volta che era andato a comunicargli della sentenza di Daidouji, Akio non gli aveva più fatto visita.

E chi?

Aveva rispettato la sua volontà; era stato lui a dirgli di non tornare e non era tornato. Fuori dai cancelli di Fuchu non ci era stato, né lui l’aveva cercato con gli occhi o si era aspettato di trovarlo. Anzi, se l’avesse fatto, se fosse stato presente, era stato certo che non l’avrebbe presa bene e l’emozione dell’uscita sarebbe stata contaminata dalla collera.

Mio padre.

Ma Mamoru gli aveva detto che Akio era andato varie volte al Kokoro e non solo durante le festività comandate.

Perché?

In quell’occasione, era stata la prima volta che la presenza di Akio in spazi che considerava ‘suoi’ non lo aveva infastidito: l’aveva presa come un dato di fatto, come fosse stato un cliente qualsiasi. Anche se l’ultima volta che l’uomo era stato al Kokoro era finita con le mani e la sua rabbia era strabordata in maniera incontrollabile.

Perché non mi ha mai considerato degno di essere suo figlio.

Il fatto che non si fosse arrabbiato, che non avesse avvertito il cannibale premere per uscire in qualche modo, fosse stato anche solo attraverso un insulto, aveva suggerito a Shuzo che avrebbe potuto provare: provare ad avvicinarsi all’ostacolo, guadarlo senza avere la foga di volerlo abbattere a tutti i costi, in maniera testarda e ottusa, proprio come Akio era stato nei suoi confronti in passato. Le volte che lo aveva fatto non avevano portato a niente. Allora magari era venuto il tempo di studiarlo, questo ostacolo, e capire cosa ne avrebbe dovuto fare e come lasciarselo alle spalle, se era quello che davvero voleva.

Era entrato nel cimitero con estrema sicurezza, molta di più di quanta ne aveva avuta la prima volta, perché con suo fratello si era già chiarito e non aveva più nulla da farsi perdonare ai suoi occhi. Nella mano stringeva un mazzo di gerbere, semplicissime e senza composizioni particolari, ma i petali creavano un arcobaleno serrato nel palmo.

Aveva camminato spedito, ricordando la posizione della tomba di Yuzo, e solo quando aveva notato la figura di Akio aveva sentito distintamente l’eco del rancore arrivare in fretta da un punto lontano del cuore per rimbombargli nella testa e far destare il cannibale. Il respiro pesante aveva ansimato alle orecchie come un cane idrofobo e i vecchi torti, le parole avevano battuto ai timpani. Non puoi dimenticare, dicevano, non puoi. Non potrai.

Non puoi perdonare, non puoi. Non potrai.

Un’altra eco si sovrappose alle sentenze che la rabbia non riusciva a scrollarsi di dosso, e aveva una voce diversa dalla propria.

Della visita in carcere, Shuzo non aveva dimenticato neppure un particolare, tanto da poterne trascrivere tutto il dialogo che avevano avuto, parola per parola.

Kido aveva cercato di fargli capire perché l’avesse segnato così tanto, così come l’aveva segnato lo scontro avuto al Kokoro. La domanda di Mamoru, anche a distanza di due anni, non aveva ancora trovato una risposta. Lui non l’aveva ammessa, perché negare era più facile. Ammettere avrebbe significato scontrarsi con una debolezza che aveva ancora i piedi d’argilla del bambino che era stato e braccia corte che cercavano di allungarsi come potevano, ma afferravano solo aria.

Allora perché ti fa così male?

E dunque, così come il mostro era emerso con la sua sete di guerra e rivalsa, tanto velocemente si era ritirato; un passo alla volta, era tornato indietro, ma aveva scrollato il capo lasciandogli in petto un piccolo senso di fastidio, perché non era stato d’accordo, non era stato convinto.

Anche lui era tornato a camminare quando si era sentito di nuovo pienamente padrone di sé stesso, e i passi erano stati compiuti in avanti. Nel frattempo che la distanza era andata riducendosi, il suo studiare l’ostacolo era già iniziato. Studiare le espressioni che era riuscito a carpire dal profilo, e poi i gesti, i movimenti di braccia e spalle. Ampi, sicuri, metodici, attenti.

Akio aveva delimitato il proprio spazio e possesso attorno a quella tomba.

È mio. Mio figlio. Non vi ci potete avvicinare. È mio. Il mio amato figlio.

Perché, sì, i suoi gesti lo erano stati: pieni d’amore.

Come puliva la lapide, come toglieva le erbacce, come cambiava i fiori.

Oh, aveva iniziato a sceglierli? Shuzo aveva notato che non erano gli stessi dell’altra volta, quelli dall’aria compassata e che, era stato certo, aveva portato tal quali ogni volta. I gladioli facevano un effetto bellissimo, ora. Erano pieni di fantasia. Ma la nota che gli aveva fatto capire che quei fiori li aveva portati Akio era nei Lycoris. Shuzo era stato sicuro che, in ogni suo dono floreale per Yuzo, ci sarebbero sempre stati. Perché Akio era Lycoris, il fiore dei morti, velenosissimo, che si sconsigliava da donare come regalo, ma che nasceva accanto all’acqua o dopo forti piogge.

Il giglio uragano.

Infestante, che cresce accanto alle porte dell’Inferno e sulla strada di chi non si incontrerà mai più.

Una malerba piena di dolore.

Shuzo riuscì a vederla per la prima volta, fu come un lampo, quella congiunzione di pensieri che passano i blocchi mentali e i rifiuti per andare oltre, dove non ci sono rancori, dove si riesce a ‘mettersi dall’altra parte’, dove prima del ‘padre’ e del ‘figlio’ c’è solo l’Uomo.

Riuscì a vedere la sofferenza di Akio raccontata nei gesti, nei Lycoris.

Un attimo. Brillò on-off, interruttore che si accese e spense e poi lui tornò indietro, dalla parte dei blocchi e dei rifiuti che continuavano a vedere solo l’amore strabordante per un figlio e il vuoto assoluto per l’altro.

Shuzo non aveva mai preteso di avere un posto superiore a suo fratello nell’affetto dei loro genitori. Nati insieme e uguali, uguale sarebbe stato l’affetto di chi li aveva messi al mondo, o almeno aveva creduto che così sarebbe stato; si era illuso come tutti i bambini. Poi era cresciuto e aveva conosciuto la disillusione, aveva cercato di conviverci e farla divenire alleata più che nemica, ma il vuoto era rimasto, un vuoto tra le radici. Sua madre lo aveva riempito in parte e da poco, ma c’era ancora spazio e lui si era talmente abituato a quell’assenza da non sapere più se avesse voluto o meno vederla riempita adesso.

Il cannibale sussurrò disappunto quando girò per dove si trovava la tomba di Yuzo e l’immagine di Akio era vicinissima ormai. Venti passi. Diciannove. Diciotto.

Il glicine era un tripudio di foglie verdi, faceva ombra protettiva dalla calura.

Tredici. Dodici. Undici.

Magari sarebbe potuto tornare indietro, era ancora in tempo, ma che senso avrebbe avuto se aveva fatto tanta strada e l’ostacolo era solo a sette, sei, cinque passi?

Che senso avrebbe avuto non fermarsi al suo fianco e capire che si aveva tutto lo spazio per superarlo, e allo stesso modo l’occasione di non farlo?

Tre. Due. Uno.

Shuzo si fermò davanti alla tomba di suo fratello per realizzare le cose che lui e Akio continuavano a compiere al contrario. Non stare insieme quando avrebbero potuto farlo, ma farlo ora che non avrebbero potuto mai più.

Lui da un lato, Akio dall’altro.

Non si dissero niente, non ce n’era bisogno e forse avrebbe finito per spezzare il primo vero equilibrio che avevano raggiunto da che lui era venuto al mondo.

Si inginocchiò, sciolse il laccetto di rafia che univa le gerbere e le sistemò assieme ai gladioli e Lycoris nei due vasi. La tomba di suo fratello esplodeva di colori, e davano gioia al solo vederli e malinconia allo stesso modo, con la stessa forza.

Quando fu soddisfatto si alzò, infilò le mani nelle tasche dei jeans. Non aveva bisogno di giungere i palmi per innalzare preghiere, a lui bastava pensare e sapeva che suo fratello l’avrebbe sentito ovunque.

Così come sentiva il sottile ringhiare del cannibale che era accucciato, faceva il bravo, ma reagiva alla vicinanza di Akio in maniera istintiva e continuava a sussurrare che non poteva dimenticare, non poteva perdonare.

L’occhio gli cadde sui Lycoris.

Non ancora.

 

“Sto passando dei momenti duri,

ma prometto che sarò forte per te, come hai detto,

e mi terrò in carreggiata.

Ma resterò quaggiù a sentire la tua mancanza.

Così, la tua mancanza.”

 

Have a great flightYelawolf

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …questa volta è Shuzo a fare un passo avanti.

Fino alla fine di Malerba (Capitolo XXIX) abbiamo visto come sia stato sempre Akio, in maniere diverse, a cercare di fare dei passi verso Shuzo e a sentirsi sempre rispondere picche. S’è pure beccato un pugno, e quando è andato a trovare il figlio in prigione – quell’unica volta che lo ha fatto! – si è sentito dire di non tornare più.

Ma sappiamo che nell’Epilogo le cose tra Shuzo e suo padre sono cambiate, si sono evolute e hanno perso quella distanza che abbiamo sempre conosciuto. Un po’ alla volta entrambi hanno fatto dei passi avanti, fino ad arrivare ad avere delle conversazioni, cenare allo stesso tavolo. Ma come è avvenuto tutto questo se ogni volta Akio prendeva solo risposte negative?

Ovviamente, grazie ai passi che ha fatto anche Shuzo. Qualcosa che Akio stesso non si sarebbe mai aspettato potesse accadere.

Invece eccoli, prima di essere padre e figlio: due uomini, spalla a spalla. Ed è così che Shuzo vede suo padre per la prima volta: come un uomo che sta soffrendo per la perdita di una persona cara. Akio perde, ai suoi occhi, l’aura quasi mitizzata di questa creatura terribile per diventare un suo pari, con lo stesso dolore sulle spalle.

Un primo passo piccolo, quasi insignificante, ma di un’importanza pantagruelica. :3

 

 

PS: la prossima settimana, l’aggiornamento arriverà mercoledì 25 Dicembre! per festeggiare il Natale con voi e i personaggi di questa storia! :D.

Per chi mi segue su Facebook: l’anticipazione arriverà comunque sempre di Sabato. :3

Grazie a tutti e... ci rileggiamo a Natale! :D

 

 

   
 
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