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Autore: CHAOSevangeline    24/12/2019    1 recensioni
{ Orione/Artemide }
"Non c’era ragione di preoccuparsi dell’amore, perché Artemide non gli avrebbe mai permesso di ferirla.
Ma ormai anche se correva fra le file di alberi, nel fitto della foresta e attraversava un terreno sterrato più rapida del suono non c’era angolo di quell’isola dove le sue ansie non la trovassero. Per la prima volta i suoi pensieri erano veloci quanto lei e correre, rotolarsi nell’erba e porre sul loro cammino ostacoli come tronchi d’albero che lei scavalcava rapida come una cerbiatta non gli impediva di raggiungerla."
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Apollo, Artemide, Orione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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II.
Luna crescente
 


 
«Buongiorno ragazze!»
La voce di Apollo era l’ultimo suono che Artemide avrebbe voluto udire allora.
L’accampamento delle Pleiadi era nascosto in una radura cinta di alberi; solo Apollo ed Ermes ne conoscevano l’ubicazione. Ermes perché i messaggi urgenti dovevano pur essere consegnati al legittimo destinatario per potersi dire un diligente messo, Apollo perché era difficile tenergli nascosta qualsiasi cosa. Ma non era mai stato un pericolo: sapeva che Artemide non avrebbe esitato a usarlo come puntaspilli per le sue frecce se avesse osato anche solo immaginare qualche impudicizia sulle sue sorelle acquisite ed era comunque troppo innamorato di quel principe spartano conosciuto qualche tempo prima per vederle come delle possibili amanti.
«Apollo!» trillò una delle giovani.
«Cosa ci hai portato di buono oggi?» chiese un’altra.
«Così mi offendo», si lamentò il dio. «Preferite i miei doni a me.»
Artemide non era nella sua tenda: era seduta su un masso nel fitto degli alberi poco lontano. Udiva tutto, ma non poteva essere vista.
Apollo aveva portato con sé un vassoio di fichi e di datteri per le ragazze. A tratti ricordava un domatore di bestie che si destreggiava nel lanciare tagli di carne per aprirsi un passaggio. Le giovani Pleiadi erano piuttosto gelose di Artemide, o sarebbe stato meglio dire protettive. La dea avrebbe dovuto immaginare avrebbero detto qualcosa ad Apollo circa il suo pericoloso stato d’animo.
Il vociare si fermò e Artemide tese le orecchie.
Il borbottio nel campo era così sommesso che nulla giunse alla cacciatrice.
Stavano parlando solo Merope e Apollo.
«Per fortuna sei arrivato», sussurrò la ragazza quando le altre giovani si furono allontanate con le leccornie portate in dono dal dio. «Artemide è in pena, oggi.»
«Me n’ero accorto», esalò Apollo senza grandi spiegazioni. «Cos’è successo?»
«Credo sia per Orione.»
Apollo si fece cupo come se una tempesta avesse improvvisamente deciso di velare i suoi occhi.
Non sopportava Orione.
«Le ha fatto qualcosa?»
«Non credo. Ma lo conosco e dunque…»
«Me ne occupo io.»
C’erano degli sprazzi in cui gli dei sembravano umani e dei momenti in cui parevano quanto di più irraggiungibile al mondo. Apollo allora, con quella punta di rabbia negli occhi acuminata come una lancia, fu quanto di più inarrivabile in quel campo. Rubò un dattero dal vassoio e si diresse a passo sicuro verso un punto nascosto nel fitto degli alberi.
Superata la linea del sottobosco vide le spalle della gemella e scagliò il dattero verso di lei. Artemide non lo stava guardando ma afferrò il frutto senza sforzo.
«Allora sapevi che ero qui.»
«Fai più chiasso di un elefante, chiunque avrebbe saputo che eri qui.»
«Potevi venire a salutarmi allora.»
«Quando una persona si siede su un masso in mezzo alla foresta di solito non ha voglia di parlare.» Si accorse di essere stata troppo brusca e borbottò qualcosa di simile a delle scuse. «È una brutta giornata.»
Apollo le si posizionò davanti: Artemide aveva il volto poco più in basso del suo e se ne stava accovacciata sulla propria faretra, intenta ad appuntire le proprie frecce tanto da consumarle.
Il dio la scrutò.
I lunghi capelli erano raccolti da un nuovo laccio e il chitone era assicurato con una spilla. Sembrava tutto in ordine.
«… Che c’è?»
Apollo scosse il capo, senza rivelare la ragione del proprio sguardo. Poi fissò i suoi capelli.
«Che hai fatto ai capelli?»
«Niente.»
«Sembrano delle liane.»
«Quindi fammi capire, sei venuto fin qui per insultarmi?»
Apollo scosse il capo di nuovo. Di solito Artemide sbuffava e tornava a occuparsi delle proprie mansioni, non evitava così i discorsi se non c’era nulla da nascondere.
Il dio della luce abbandonò a terra la propria faretra e vi infilò una mano all’interno. Raschiò sul fondo e ne estrasse un pettine.
«… Perché hai un pettine nella faretra?»
«Perché serve sempre un pettine se non voglio rischiare di sembrare irsuto come te in questo momento.»
Apollo si posizionò alle sue spalle e le sciolse i capelli. Artemide immaginò la sua smorfia quando si accorse che alcune delle sue ciocche non volevano saperne di dividersi, poi iniziò a sentire i denti del pettine scivolare inghiottiti dalla sua chioma.
«Allora, perché è una brutta giornata?»
Artemide sapeva che Apollo era lì per una ragione e questa poteva essere tanto salutarla quanto voler scoprire qualcosa che già aveva intuito. O immaginato. O visto. C’erano troppe opzioni e poche scriminanti per individuare la risposta corretta.
«Quanto sai?» fu la risposta di Artemide.
«So che c’entra Orione. Che c’entra un ruscello e che Merope è preoccupata.»
Artemide si irrigidì.
«Come sai del fiume?»
«Hai i capelli bagnati», rispose. «È successo qualcosa che era meglio non vedessi?»
Artemide si strinse nelle spalle.
Apollo era subdolo: la obbligava a spazzolargli i capelli perché lo aiutava a rilassarsi e gli piaceva lamentarsi dell’universo tutto o raccontare ciò che lo rendeva felice mentre la sua chioma lucente tornava a splendere. Artemide si era sempre chiesta quale trauma infantile lo spingesse a questo. Ora però sentiva nascere in sé il dubbio che Apollo per anni l’avesse solo traviata con quell’abitudine, facendo maturare in lei il desiderio di confidarsi a propria volta mentre lui le pettinava i capelli.
«Nessuno avrebbe dovuto vedere cos’è successo lì.»
«Quindi che è successo?»
«Sei sordo o cosa? Ho detto che è megl-…»
Apollo districò un nodo con troppa energia. Voluta energia.
Artemide gemette e si voltò per guardarlo, torva.
«Potevi startene con Giacinto a Sparta? Qui me la cavo benissimo.»
Si preparò a sentirsi strappare qualche capello, invece Apollo tornò ad essere gentile.
«Mi ha consigliato lui di venire qui», rispose. «Ero in pensiero.»
Se Apollo metteva da parte il proprio orgoglio rischiando di sembrare melenso proprio agli occhi di Artemide doveva credere la situazione fosse davvero grave.
«Non ne vedo il motivo.»
«Sapevo che Orione era tornato. E sapevo che non stavi bene.» Apollo fermò l’incedere del pettine mentre cercava le parole giuste. «Cioè, sapevo saresti stata male. Hai capito che intendo.»
Artemide puntò gli occhi su una piccola zolla di terra, quasi come stesse prendendo la mira per colpirla con un’arma immaginaria. Quanto avrebbe voluto farlo.
«Al fiume», fece lei. «Stavo per baciarlo.»
«Cosa?!»
Apollo gridò. Non sbottò, non alzò la voce di poco. Gridò quella domanda con acuta incredulità e Artemide giurò di aver sentito qualche uccellino abbandonare il proprio nido fra le fronde degli alberi.
Era più di quanto si fosse preparato a gestire.
«Sai essere discreto?!» lo rimbeccò nervosa.
«No, mi riesce difficile», rispose lui dando l’idea di aver ripreso contatto con la realtà. «Art, sei seria? Da dea vergine a dea che ruba i quasi mariti alle altre dee? Wow, cioè, papà ti ha insegnato bene.»
La ragazza incrociò le braccia e anche le gambe, afflosciando la schiena.
«Non avrei fatto…» esitò.
«Che cosa?»
Apollo la incalzò e Artemide si ricordò quanto suo fratello gemello fosse terribilmente dispettoso.
«Quello
«Sorellina, ti assicuro che tra il bacio e tutto quel che viene dopo il passo può essere molto breve», le fece presente. «Ovviamente dipende dai casi. Per esempio io e…»
«No, zitto, non lo voglio sapere!» si portò le mani sulle orecchie.
Apollo la fissò solenne e la colpì in testa con il pettine.
«Ahi!» protestò lei.
«Ti atteggi sempre a gran donna, ma appena ci avviciniamo all’argomento sentimenti sei poco più di una bambina.»
Artemide restò in silenzio, perché Apollo non la stava insultando gratuitamente: diceva solo la verità. E quanto aveva detto Apollo, in parte, la spaventava; al fiume non intendeva solo baciare Orione.
Che Apollo lo sapesse con certezza o meno non era fra le informazioni di cui disponeva Artemide.
«Tentavo solo di difendermi visto che sembrava volessi darmi della meretrice.»
Artemide s’aggrappò a una colpa da dare al fratello pur non credendoci. Apollo parve interdetto, come se per un istante avesse davvero temuto di averle passato quel messaggio.
«È da quando hai fatto voto di castità che ti ripeto di aver fatto una sciocchezza. Amare qualcuno fa bene all’anima. E al corpo. E soprattutto rilassa.» Apollo portò le mani sulle sue spalle. «E tu sei terribilmente tesa.» Artemide s’irrigidì ancor di più e Apollo alzò le mani. «Con te la psicologia inversa funzionerebbe bene, ma non ti darei mai della puttana.»
«Wow che classe», fece Artemide. «E comunque per la cronaca se anche l’avessi fatto non potrei batterti.»
Apollo rise, poi tornò a dedicarsi a ciò che stava facendo. Non la vedeva, ma immaginò Artemide mordicchiarsi il labbro.
La dea percepiva il lavoro industrioso del tarlo introdottosi nei suoi pensieri, intento a farla rimuginare.
Non avresti voluto solo un bacio.
«Siamo caduti nel fiume ed ero tutta inzaccherata, prima.»
«Oh», fece Apollo. Poi realizzò. «Ew.»
Artemide gli tirò una gomitata in pieno stomaco ma Apollo la schivò.
«Mi ha respinta.»
Artemide lo biascicò prima di abbassare lo sguardo. Si fissò il petto e si portò le mani sotto il seno, quasi stesse tastando qualcosa che mancava.
Apollo si sporse e la vide.
«… Art, sei seria?»
Artemide scosse il capo in fretta; lo era, ma non era su questo che voleva soffermarsi. Non voleva che Apollo parlasse della sua dotazione non inclusa: sarebbe stato troppo.
«Orione era furioso con Eos, ho pensato di avere un’occasione.»
A quel punto Apollo capì che il discorso era troppo serio per pensare ai capelli della gemella e si arrampicò sul masso, facendola spostare per guadagnarsi un posto accanto a lei. Si sedette al suo fianco, rivolto verso la dea.
Artemide era sempre stata interessata a Orione: parlava di lui, delle sue gesta. Lo lodava e lei questo non lo faceva mai; i complimenti venivano centellinati dalla sua bocca solo nei momenti più critici e per il resto del tempo la sua approvazione era una continua incognita. Trascorrevano insieme quanto più tempo possibile e se fosse stata negligente quanto lui Apollo avrebbe potuto dire di averla vista impazzire d’amore come lui era impazzito per Giacinto.
Lui era stato fortunato, ma la gemella?
Quindi sì, capiva quanto la situazione fosse grave. Lo sapeva, anche se Artemide non voleva vederlo. Non era lì per dirle cosa fare, ma solo per farle aprire gli occhi.
«L’ha sorpresa mentre lei era con Ares. Va avanti da mesi», le disse. «Onestamente il tuo amico Orione è più cornuto dei cervi che ti piacciono tanto.»
Artemide l’avrebbe guardato in tralice se solo la gravità della situazione non le fosse stata subito chiara, portandola a pensare a qualcosa che non fosse la squallida battuta di Apollo.
«Sarà stato a pezzi.»
«Che importa?», rispose Apollo. «Sai che non mi è mai piaciuto Orione.»
«Perché tu non ci passi del tempo insieme», ribatté. «A me importa.»
«Sì beh, di solito non passi tempo insieme alle persone che non ti piacciono.» Attese un istante e riformulò la propria domanda. «Che ti importa? Le questioni di cuore ti sono sempre parse sciocche insieme alle loro conseguenze.»
Artemide avrebbe potuto guardarlo male di nuovo, ma si trattenne sebbene il modo di fare del fratello stesse mettendo a dura prova la sua pazienza.
«Artemide, ti spezzerà il cuore. E non lo dico per esperienza: lo dico perché lo so», protestò. «Ti troverai costretta a fare qualcosa che non vorresti mai fare. Voglio solo evitartelo.»
Artemide conosceva la regola: suo padre aveva imposto ad Apollo di tacere le proprie profezie. Solo l’oracolo di Delfi poteva rivelarle, criptico com’era costretto ad essere il gemello. Era frustrante. Apollo poteva anticipare solo le previsioni più sciocche, spesso piccoli imprevisti più utili se celati per godersi una buffa scena.
Più volte Era l’aveva accusato d’essere un falso profeta, un ciarlatano, ma senza ragione.
Apollo non conosceva tutto, per qualche beffa del destino le Moire non lo mettevano a parte di ciò che più gli sarebbe stato utile sapere, ma gli avevano dato un’occasione: aiutare la gemella. E lui l’aveva colta, perché poco contava dimostrare qualcosa alla madre degli dei, che si sentiva tanto importante pur non essendo la madre della maggior parte di loro.
«Non è come credi di conoscerlo tu», tentò di convincerla. «È un egoista. E dopo oggi diventerà ingordo e presuntuoso.»
«Perché non lo conosci.»
«Può darsi, ma conosco te», ribatté. «E non lo perdonerai.»
La giovane scese dal masso e si voltò.
«Ti prego, risparmiami la ramanzina, Apollo!» gli ringhiò contro. «Vieni qui con le tue previsioni a metà e non mi dici niente di utile.»
Apollo assottigliò lo sguardo. Artemide sapeva quanto lo uccidesse non poter parlare quando conosceva il futuro.
«Se ti fidassi di me un’utilità la ricaveresti. Ma sai che sto dicendo qualcosa che non vuoi sentire e quindi non vuoi nemmeno ascoltare.»
Artemide camminava nervosamente, i piedi scalzi nell’erba e i capelli ancora sciolti sulle spalle. Gli occhi grigi fiammeggiavano per la rabbia mentre guardava tutto meno che Apollo.
Chiunque, o chiunque avesse almeno un briciolo di riguardo si sarebbe fermato; Artemide era al limite della sopportazione, solo un filo sotto tensione a tenere unite le due estremità di una fune. Il filo era l’autocontrollo che le impediva almeno per il momento d’esplodere riversando i propri nervi su Apollo.
Chiunque, prima di proseguire nella propria invettiva, avrebbe almeno tentato di rabbonire la dea, di placarla. Ma Apollo non era chiunque: Artemide non si risparmiava con lui quand’era il caso di non farlo e Apollo allora stava scegliendo la stessa via, ma non per un’infantile ripicca; Artemide non si risparmiava perché era l’unico modo per farlo riflettere e così avrebbe fatto lui.
«Sai come sono andate le cose, tra lui e Merope.»
Giocare quella carta fu un colpo basso anche per lui, un pugno invisibile dritto allo stomaco di Artemide. La dea accusò il colpo trovandosi a trattenere il fiato.
«Adesso basta», sbottò mentre d’improvviso il bosco si faceva silenzioso.
I suoi occhi parvero brillare e il suolo tremò come se l’intera fauna dell’isola fosse sul punto di radunarsi lì per fare scempio di Apollo. Era una vibrazione continua, lieve, come il tremolio di dita tese.
Il dio non si mosse, piantato sui propri piedi, il masso a dividerli come una barriera. Apollo era stoico nella sua espressione ferma e severa; non avrebbe ammesso repliche né accettato Orione. Di tutti i suoi sorrisi non erano rimaste che ombre.
«Lo sai», ripeté.
Artemide non aveva risposto e Apollo una risposta la voleva. La esigeva.
Aveva visto qualcosa spezzarsi oltre la barriera fredda che erano gli occhi di Artemide, un pilastro crollare. Su quel pilastro, ora a terra, stava la sua consapevolezza. Apollo poteva tentare ancora di raggiungerla.
«Quello che so è che sei egoista, fratellino», lo schernì Artemide. «E che può esistere solo la tua felicità per questo.»
Apollo sentì una freccia conficcarsi nel proprio petto con quelle parole e Artemide provò lo stesso nel pronunciarle. Lui non gridò, non disse nulla. Attese.
«Tornatene a Sparta dal tuo bel principe. Non ho bisogno dei tuoi consigli.» La voce di Artemide era gelata come un pezzo di ghiaccio. Afferrò il proprio laccio di cuoio e si raccolse i capelli. «Né di quelli di nessun’altro.»
Apollo non parlò e non smise di guardarla; la fronteggiò ogni istante.
Artemide doveva sapere che non la stava ingannando. Doveva ricordare che i suoi occhi vedevano più di qualunque altro dio o mortale. Lui si era sempre fidato di lei e non l’aveva mai ingannata: perché ascoltarlo doveva esserle tanto difficile?
Perché la sua gemella, la sua controparte, la sua metà doveva crederlo un bugiardo?
Perché fidarsi di un uomo di cui non sapeva quasi nulla?
Gli occhi di Apollo si incollerirono, quasi iniettati del veleno di Pitone stesso.
«Spero non vorrai nemmeno la mia pietà quando ne avrai bisogno», sibilò. «Perché ne avrai bisogno.»
Solo quando Apollo abbandonò l’accampamento delle cacciatrici la terra smise di tremare
   
 
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