-
Allora, com’è stato?
Chiara, roteando gli occhi,
nascose il viso nella sua immancabile tazza di tè. C’erano trenta gradi, e lei,
Ivan e Carmen erano seduti ai tavolini del bar più frequentato del centro storico.
Quel giorno sarebbero
uscite le pagelle di fine anno, Benedetta era a casa a ripassare per un esame
(alla fine aveva ammesso di non voler tornare a Perugia perché quell’esame la stava
facendo impazzire, e quella che doveva essere solo una brevissima visita per
non lasciare sola la sorella si era trasformata nella settimana di terapia
familiare). I suoi genitori erano tornati in men che non si dica al lavoro, e
nel turbinio generale non avevano neanche raccontato alle ragazze come se la
fossero passata in montagna. Roberta, infine, il giorno dopo (cioè la domenica,
solo ventiquattro ore prima) il suddetto avvenimento secolare, se l’era filata
a casa dall’imbarazzo, non prima però di aver approfittato delle poche ore di solitudine
concesse a Chiara dal ritmo di studio di Benedetta.
Alle tre del pomeriggio
della domenica, infatti, era tornata a casa sbattendo la porta, facendo
ricordare immediatamente ad entrambe una cosa importante: non avevano toccato
cibo da ore.
Chiara ci ripensò,
prendendo un altro sorso di tè alla pesca, per non rispondere. Gli sguardi di Ivan
e Carmen erano morbosamente complici, e lei si sentiva felice ma un po’ sotto
osservazione.
-
Cosa volete che vi dica?
-
Tutto!
Per fortuna Ivan fulminò
Carmen con uno sguardo, aggiungendo: - Beh, non proprio tutto. Abbi pietà di
me.
-
Che scemo. Non ho molto da dire. È stato
bello.
Carmen si allungò sul
tavolo, abbassando la voce. Girandosi intorno, aveva visto un paio di volti
familiari. Il liceo era a qualche isolato, non sarebbe stato strano incrociare
qualche compagno di classe, o gente di altri anni e sezioni. Tutti passavano di
lì per un caffè veloce, una bibita per festeggiare o una birra per brindare
alla propria bocciatura. La paura di farsi sentire da orecchie indiscrete,
però, non le impedì di insistere:
-
Cioè?
Chiara alzò le spalle,
sbuffando, in una piccola risata.
-
Cioè bello.
-
Certo che per essere una tanto brava ai
temi di italiano, sei proprio di poche parole!
A quel punto intervenne Ivan
in sua difesa.
-
Andiamo Carmen, magari è in imbarazzo. Vero,
Chiara?- ma non le diede neanche il tempo di rispondere
che già, rincarando la dose, si lasciò scappare sotto voce Ti è piaciuto?
-
RAGAZZI! Mio dio, mi sento così in
imbarazzo!
-
È a questo che servono gli amici, vero?
Chiara finì il tè e
chiamò uno dei camerieri per pagare. Aveva preso appuntamento con Sabrina quella
mattina, ma incalzata da quella coppia di demoni assetati di gossip, aveva la
sensazione di essere in
netto ritardo. E lei, da brava Torri, non era mai in ritardo.
-
Oddio, sono già le undici e mezza! Ragazzi,
devo andare.
-
Ma no, rimani ancora qui! Non ci hai
ancora detto di che colore porta le mutande Della Corte!
Chiara, voltandosi con il
suo solito sopracciglio ben alzato, sentenziò: - Nere.
E se ne andò, salutando
velocemente dei ragazzi di prima a cui dava ripetizioni di chimica. Aveva detto
a Sabrina che si sarebbe fatta trovare nel parcheggio della scuola alle undici
meno un quarto, questa non gliel’avrebbe perdonata.
**
Roberta, dall’altro lato
della città, si era alzata molte ore prima quella mattina. Da quando era tornata a casa il
giorno prima, non riusciva a stare ferma. Fiondandosi in camera sua, senza
neanche salutare suo padre che- per puro caso- era in casa, aveva iniziato a
scarabocchiare disegnini stilizzati sul suo album. Avrebbe voluto avercelo
dietro quella notte, per poter ritrarre Chiara. O era una richiesta troppo
imbarazzante? Insomma, non è che la volesse ritrarre nuda. Ma- pensava- non
ho mai fatto un ritratto di nudo, e sarebbe interessante. Per fini accademici,
ovvio.
Aveva messo a ripetizione
la canzone ascoltata quel sabato, nella versione originale, e ora se ne stava a
pancia in su sul letto, ora si alzava per mettersi a sistemare vestiti, libri, senza
riuscire a smettere di muoversi al ritmo della musica. Baby girl, shock me
like electric feel.
Fu solo quando suo fratello-
anche lui stranamente in casa- le bussò alla porta per chiederle di abbassare
il volume, che si rese conto di indossare ancora i vestiti del sabato e, sotto
il suo strano sguardo accusatore, se l’era filata in bagno a farsi una doccia.
Ora, alle undici del
lunedì, continuava a sentirsi euforica.
-
Roberta! C’è qualcuno al telefono per te.
Scese velocemente le
scale, saltando i gradini, a piedi scalzi. Entrò nell’enorme cucina bianca e
immacolata, trovando sua madre in tutto il suo splendore (probabilmente in
procinto di raggiungere suo padre nel suo ufficio legale) in piedi con la
cornetta in mano.
-
Chi è?
Senza sapere perché,
rallentò il passo e corrugò la fronte. Aveva in programma di andare al liceo più
tardi, magari vedere Chiara (magari farsi un giro in macchina…), ma aveva la
testa ancora così annebbiata che le sembrava di essersi appena svegliata da
giorni. Spalancò leggermente gli occhi quando sua madre, muovendo le labbra,
sussurrò: Vanessa.
-
Passamela.
C’erano stati pochi momenti
in cui Roberta si era sentita tanto irrazionalmente spaventata come nell’istante
in cui si accostò il cordless all’orecchio.
C’era qualcosa che
continuava a trascinarla giù, mentre tutto ciò che voleva era continuare a nuotare
verso la superficie, arrivare all’aria, godersi il vento, libera, sola. Erano passati
mesi da quando aveva sentito per la prima volta una folata di quell’aria fresca
(non da quando aveva conosciuto Chiara- non era riuscita a capirlo da subito-
ma un po’ più in là, forse dal suo compleanno), che non era solo il suo nuovo
sentimento d’amore- qualcosa di mai provato prima, ora poteva dirlo con
certezza- ma anche un sentimento di pace con se stessa.
Nell’ultimo periodo, svegliandosi,
si guardava allo specchio e sorrideva. Pensava di essere bella senza trucco,
che dipingesse bene e valesse la pena darsi una chance per fare di quella
passione un piccolo lavoro (mostrare i suoi schizzi sarebbe stato impensabile
solo un anno prima), pensava di essere fortunata ad essere Roberta Della Corte
e non qualcun altro. Certo, la sua famiglia non era mai stata particolarmente
affettuosa, con tutto quel lavoro e quei soldi che giravano a nessuno davvero
importava se si facesse colazione soli o in compagnia. Ognuno aveva la sua
vita: suo padre era talmente immerso in sé stesso che si era portato via anche
sua madre, suo fratello non poteva biasimarlo. Aveva cercato la felicità altrove
e a volte aveva l’impressione che i suoi amici fossero la sua vera famiglia. Amedeo,
al contrario di lei, era stato fortunato: in mezzo alla marea di superficialità
che lei sentiva nel suo mondo- tutti quei figli di papà, vestiti di marca e con
l’ultimo modello di scarpe- aveva trovato chi condividesse le sue passioni, chi
lo ascoltava. Lui e il suo miglior amico Marco erano praticamente fratelli dall’asilo.
E lei, invece? Chi aveva?
Erano domande che fino a
qualche tempo prima non si sarebbe mai posta. Quanto più facile era omologarsi,
sorridere, fare esattamente ciò che gli altri si aspettavano da lei? Aveva scelto
la strada più semplice, per poi accorgersi che di semplice non c’era niente. Che
anzi, più andava avanti e più la domanda tornava prepotente. Lei chi era? Che cosa
aveva? Qual era la prova da mostrare al mondo per rassicurarlo del fatto che
lei fosse Roberta Della Corte?
Era curioso come solo
conoscendo Chiara queste domande avessero assunto un’urgenza tale da non poter
più essere ignorate. A volte aveva pensato che, anche se non si fosse
innamorata di lei in quel modo così semplice e genuino, Chiara sarebbe comunque
stata importante per quello che le aveva fatto capire: che ad essere chi si è
non c’è niente di male. E poi Chiara viveva con una tale intensità e non si preoccupava
di contenersi. Aveva i suoi conflitti personali come tutti, ma sapeva che non
avrebbe mai rinnegato i suoi libri- per quanto Vanessa avesse continuato a
nasconderglieli o a buttarglieli nel cestino. C’era qualcosa di lei che arrivava
in profondità, un piccolo seme che sarebbe cresciuto. Nessuno glielo avrebbe tolto.
La scoperta meravigliosa
era stata proprio questa: scoprire che aveva un seme anche lei, che sarebbe
cresciuta, che avrebbe dovuto prendersene cura. Annaffiarlo, proteggerlo,
ascoltarlo. Roberta si era messa a piangere la prima volta che aveva capito di
non essere felice con la sua vita, ma si era messa a piangere anche quando
aveva capito di poterla cambiare. Crescere significava dolore, ma un dolore
buono, come quando cadono i denti da latte e spuntano quelli forti. Avrebbe dovuto
farsi strada da sola, e iniziava a pensare che ce l’avrebbe fatta.
In quel momento, però,
tutto ciò che aveva segretamente allontanato (Vanessa, Angela, il loro giro, le
feste, i vestiti glamour, le chiacchiere cattive) sembrò minacciare di
risucchiarla. Era un presentimento sotterraneo, forse immotivato (Vanessa le
chiedeva solo perché non fosse già al liceo per le pagelle), ma persistente.
-
Beh, mi sono alzata tardi. Sarò lì fra una
mezz’ora.
Sua madre non notò il suo
sguardo preoccupato, né la fretta con cui ci richiuse in camera.
Roberta aveva un cattivo presentimento
e non sapeva spiegarsi il perché.
**
Alle dieci e mezza di
quella stessa mattina, Sabrina era in piedi in mezzo al parcheggio del liceo
(vuoto, a parte qualche insegnante pieno di scartoffie). Era un po’ in
anticipo, si era data appuntamento con Chiara dopo un quarto d’ora, ma era
decisa ad essere ben disposta e ad utilizzare quell’insperata occasione- Chiara
non si era fatta sentire tutto il weekend- per
rimediare ai loro ultimi silenzi.
Le avrebbe chiesto come le
andava la vita, quanti dieci aveva preso. Avrebbero anche potuto andare al bar
e vedere Ivan e Carmen dopo (che, stranamente, erano irreperibili da quella
mattina, ci aveva provato a chiedergli di unirsi), prendersi una coca-cola,
organizzare la gita in spiaggia o la prossima festa a casa. Voleva dire a tutti
che i suoi andavano via un fine settimana e potevano fare un barbecue, ma ultimamente
aveva l’impressione che ognuno avesse qualcosa per la testa e non volesse essere
disturbato. Non voleva pensare male, ma si sentiva un po’ sola.
In più, il suo appuntamento
al cinema con Riccardo era stato un mezzo fiasco: lui era chiaramente ancora
innamorato di Chiara e non aveva fatto altro che parlare di lei. Si era sforzata
di non esserne gelosa, si era detta che forse era normale, che col tempo se la
sarebbe dimenticata- soprattutto se la loro teoria era giusta- e magari le
avrebbe dato una chance sul serio. Eppure, qualcosa le diceva che queste erano
solo fantasie e che, ancora una volta, non c’era da sperarci troppo. A volte, avere
diciassette anni faceva proprio schifo.
Immersa in queste
riflessioni, guardava di tanto in tanto l’orologio e aspettava. Undici meno
venti. Undici meno dieci. Si sedette sui gradini dell’ingresso. Certo, Chiara
non aveva mai fatto ritardo da quando si conoscevano, ma c’era una prima volta
per tutto. Tic, tac. Si prese la testa fra le mani, sbuffando.
Stava giusto per alzarsi
e andare a prendersi una bibita ai distributori, quando alzando lo sguardo si
vide di fronte Vanessa e Angela tutte imbellettate come al solito.
-
Ci fai passare?
Sabrina alzò un
sopracciglio, indicando lo spazio che aveva accanto.
-
Ma se c’è spazio per dieci.
Sentì Angela ridacchiare
malignamente.
-
È che da quanto sei grossa non ti rendi
conto delle proporzioni. Stai bloccando il passaggio a tutti.
Sabrina aggrottò la fronte.
-
Scusa come hai detto?
-
Ha detto che stai bloccando il passaggio,
e ha ragione- intervenne Vanessa, guardandosi le unghie.
-
No, no. Prima. Cosa hai detto prima.
La sua voce tremava, chiuse
le mani a pugno, sentendo il tessuto spugnoso dei guanti senza dita che metteva
quasi tutti i giorni dell’anno.
-
Ho detto che sei grossa. Ma non ti vedi?
Sabrina sentì un colpo al
cuore. Per un attimo perse il respiro, si sentì la testa girare. Lei, era grossa?
Ma se tutti in famiglia erano così! Lei era alta, maestosa, con due spalle da
giocatrice di pallavolo, fianchi larghi, cosce lunghe e generose. Lei era lei!
-
Ma come diavolo vi permettete, streghe?
Si alzò e si rese conto che
le superava, entrambe, di dieci centimetri buoni.
-
La strega sei tu che continui ad andare in
giro vestita in quel modo. A che ti servono i guanti? A nascondere le tue
manone da uomo?
Vanessa e Angela
ridacchiarono di nuovo, e quella risata risuonò alle orecchie di Sabrina come distorta,
come le risate elettroniche delle zucche di Halloween che si illuminano al
passaggio del malcapitato di turno.
-
Ma siete impazzite, volete entrare o
attaccare briga?
-
Oh, attaccare briga con te mai eh, poi ci mandi
all’ospedale con quelle braccia che ti ritrovi.
Fu proprio quando si
stavano allontanando- quando Sabrina, tornando a respirare come dopo una lunga
corsa, pensava che quel teatrino imbarazzante e doloroso fosse finito- che
sentì una cosa che le fece perdere completamente le staffe.
Angela, ridacchiando in
quel suo modo cretino sulla spalla di Vanessa, aveva aggiunto con un’ultima
occhiata: - Secondo me è pure lesbica.
A quel punto, non ci
aveva visto più. Senza pensare a nulla- nemmeno al fatto che lesbica non fosse
davvero un insulto- con la mente completamente bianca (o nera, di rabbia), con
in testa il solo pensiero di ferire a caso per non sentirsi così impotente,
disse:
-
Lesbica proprio no, mi sa che quella ce l’avete
voi.
Quello che stava per succedere,
Chiara venne a saperlo solo mezz’ora dopo.
**
Avvicinandosi a grandi passi
all’ingresso del liceo, Chiara pregava mentalmente che Sabrina non se ne fosse
già andata. Avrebbe dovuto davvero farsi perdonare, e sapeva già come. Le avrebbe
detto perché era in ritardo, perché si era vista con Carmen e Ivan, quali erano
le sue paure, i suoi timori. Si sarebbe aperta con lei, come non faceva da
tempo. In fondo sapeva che Sabrina le voleva un bene enorme, ne avevano passate
tante insieme, per lei si era presa belle batoste (di cui Riccardo era solo l’ultimo
della lista), e sapeva di essere una codarda. Le avrebbe detto tutto, avrebbero
chiarito e si sarebbero prese una coca-cola al bar per festeggiare la mancata
bocciatura di Sabrina.
Quello che si vide
davanti, però, fu tutt’altra scena.
Un’ ambulanza era appena
arrivata, c’era una macchina ferma col conducente con le mani fra i capelli. Un
gruppetto di persone si era già avvicinato per capire cosa fosse successo. Scorse,
per puro caso, Sabrina seduta col volto fra le braccia, sui gradini del liceo. Quando
la vide alzare la testa, notò che aveva gli occhi rossi.
-
Ma che è successo?
-
È stata tutta colpa mia, non avrei dovuto
dirlo… ero arrabbiata e… non ci ho visto più e gliel’ho detto e… quando lei è
arrivata hanno iniziato a discutere e… non lo so, è stato tutto molto veloce, forse
qualcuno l’ha spinta, forse si è allontanata lei…
-
Ma lei
chi? - Chiara quasi urlò per attirare la sua
attenzione in quel delirio.
L’ambulanza aveva parcheggiato nella stradina
laterale, gli infermieri si stavano avvicinando ad un punto alle spalle di
Chiara, ma lei non ci fece caso.
-
Roberta.
Chiara spalancò gli occhi
e si voltò. Iniziò a correre, avvicinandosi al gruppo di adulti che formava un
cerchio attorno ad un punto nascosto.
In mezzo, c’era Roberta.
Aveva gli occhi chiusi e un rivolo di sangue dal naso.