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Autore: EvrenAll    26/12/2019    0 recensioni
Elettra ha vent'anni ed è una ladra. Le sue sorelle d'acciaio e il profondo desiderio di libertà sono le uniche certezze nella sua vita, ma le Cappe Nere, gilda di ladri ed assassini per cui lavora, non sono intenzionate a lasciarla andare.
Personaggio giocato durante una sessione di D&D particolarmente fortunata, ha deciso di diventare il mio pallino fisso fin quando non ho finito di scrivere la sua storia.
"I suoi occhi si facevano più grandi e tristi nei giorni di pioggia: la guardava precipitare dal cielo sostando davanti ai vetri appannati, e se erano all'aperto, quando credeva che fosse distratto, faceva in modo di alzare la testa verso le nuvole per perdersi tra le gocce silenti e sentirle scendere lungo il viso e sulla schiena.
E sorrideva."
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Oner

Fece oscillare i piedi nel vuoto cercando ancora sotto le proprie unghie un segno di quello che era successo solo pochi giorni prima. Erano pulite adesso, candide ed abbastanza lunghe da essere utili per graffiare chiunque se lo sarebbe meritato.

Erano le sue solite mani, ma la loro immagine, filtrata attraverso gli occhi della ladra, si accendeva di rosso, diventando troppo lucida e vivida. 

Non riusciva a capacitarsi delle sensazioni che aveva provato. 

Sì, c'era una rabbia immensa nei confronti dei suoi aguzzini, alimentata dal puro terrore di morire e dall'istinto di conservazione della propria persona, ma il resto? La soddisfazione? L'assenza di pietà? 

Probabilmente erano collegate alla volontà di preservarsi. Ma allora ciascuna azione avrebbe dovuto diventare piacevole e giustificabile quando in gioco c'era la propria esistenza? No. La morte è morte. 

Non aveva dimenticato Alice e Diane. 

Aveva stabilito giusto solo un omicidio, un omicidio che forse non sarebbe mai arrivata a compiere, e non era quello degli adepti della Gilda che aveva brutalmente assassinato a mani nude. 

Rigirò l'anello d'argento tra le dita, spostandolo sull'indice e poi ancora sull'anulare. Per essere riuscita a scappare con tale facilità doveva essere stata sottovalutata dal Consiglio o da chiunque avesse convocato il suo rito di Passaggio. L'unico dei tre uomini che a posteriori riusciva ad identificare come pericoloso era stato il primo a morire sotto la sua furia, gli altri non erano riusciti a resisterle, ed il giovane... il giovane aveva accolto la sua stretta come una benedizione. 

Viierin, Kaha'lum. 

Quei nomi non le suggerivano niente e non aveva ancora avuto l'occasione di indagare sulla loro natura. 

Non capiva la Gilda, non comprendeva lo scopo della prova a cui l'avevano sottoposta. Non capiva, ma qualcosa le suggeriva che il rito non era andato secondo le loro aspettative. 

Per quello era scappata. 

Sospirò pesantemente, alzandosi in piedi. Arrivò sulla strada dopo pochi istanti scendendo in silenzio lungo la parete della casa su cui si era appollaiata. 

La cittadina in cui si trovava si chiamava Oner, ed era insipida quanto i suoi abitanti. 

Aveva cercato di mettere più distanza possibile tra sé ed il nascondiglio nel bosco senza riuscirci appieno: tre giorni non erano abbastanza. Le sarebbe stata necessaria almeno un'altra settimana per far svanire le sue tracce, soprattutto in una regione come quella, troppo abitata e piena di villaggi. Al loro interno non mancavano mai le persone disposte a vendere i propri occhi per poche monete di rame. 

Essere vista equivaleva a lasciare una traccia, e di conseguenza essere in pericolo. Ma in fondo, era così certa che la Gilda le avrebbe dato la caccia per quel piccolo incidente? 

Senza credere alla sottile voce di speranza che le soffiava all'orecchio, alzò il cappuccio sulla testa, camminando pigramente sulla strada sterrata in cerca della piazza o del tempio attorno ai quali avrebbe trovato qualche segno di vita in più. E magari del cibo. 

Inspirò a fondo, provando a scacciare la crudele sensazione di vuoto che le attanagliava lo stomaco: non aveva previsto di non poter tornare a Gal'Duin ed aveva finito le provviste la mattina del giorno precedente. 

Aveva con sé solo l'equipaggiamento essenziale: armatura, armi, Alice e Diane, lo zainetto di Ewa che aveva voluto pagare di sua tasca per accertarsi delle sue qualità. Al suo interno qualche misera moneta d'oro, alcune fialette dall'utile contenuto ed un cambio di vestiti, rubati appena entrata in città. 

Nessuno diede peso a lei mentre scivolava tra i passanti a bordo strada e si accostava alle mura del piccolo tempio di Dunen, luminoso e bianco come tutti gli edifici dedicati a quella divinità. Alla sua ombra, accartocciato su di sé come uno straccio sporco, un vecchio senza incisivi chiedeva l'elemosina borbottando e tendendo verso la poca gente un consunto cappello di paglia. 

Elettra storse la bocca. Nonostante scene del genere fossero frequenti nelle città maggiori, le riteneva patetiche tanto quanto gli individui che le mettevano in pratica. Erano un insulto per tutti coloro che tentavano di rialzarsi con le loro forze, lavorando più o meno legalmente. 

Interruppe la sua passeggiata quando l'inconfondibile odore di pane fresco arrivò a stuzzicarle il naso. Scosse la testa, scacciando i propri pensieri, e si diresse nella bottega vicina seguendone la traccia. 

Ne uscì con due pagnotte croccanti riposte nello zaino e tenendo tra le mani un panino tiepido condito con uva passa. Le tre monete di rame che aveva speso valevano quel piccolo frammento di dolce e la momentanea tregua dai morsi della fame. Non era una taccheggiatrice, dopotutto. Lo sarebbe diventata solo se costretta dalle circostanze. 

Per reggere ancora nel suo viaggio senza meta, però, avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più sostanzioso del pane, in grado di conservarsi a lungo e darle più energia. Carne secca, magari. 

Sbocconcellando la morbida mollica ricominciò a camminare: quella piccola merenda l'aveva messa di buon umore. Attraversò la piazza principale e si immerse nei viottoli meno frequentati.

L'affare nelle Cripte di Chaku era saltato anche senza lo zampino di Grey: avrebbe impiegato troppo tempo per avere di nuovo il via libera nei territori attorno a Gal'Duin. Un paio di settimane affinché si calmassero le acque da quando avevano scoperto il suo lavoro. Forse, però, se avesse trovato qualcuno della Gilda a cui chiedere informazioni sul proprio conto allora avrebbe potuto... 

Adocchiò la macelleria di paese e ne controllò i dintorni: qualche comare immersa nelle chiacchiere sostava davanti all'entrata in attesa che i clienti della baracca si togliessero di torno. Il posto era al confine Est della città, leggermente isolato dal resto del villaggio e separato dalla campagna verdeggiante solo da un sottile muro di cinta. Il negozio doveva essere stato ricavato direttamente dalla casa in cui i viveva il macellaio e sembrava talmente piccolo da poter contenere all'interno a malapena tre o quattro persone. Certo, quanti clienti poteva aspettarsi da una città di poco più di duecento anime? 

Elettra si morse le labbra. Sapeva di aver terminato gli spiccioli e non voleva attirarsi addosso l'attenzione dei paesani pagando con l'oro che non potevano permettersi. Avrebbero ricordato il suo viso, i suoi tratti... 

Gettò un'occhiata a destra e sinistra prima di intrufolarsi all'interno della proprietà, ma la sua concentrazione fu interrotta sul nascere da un grido straziante che le fece puntare gli occhi nel cortile dietro alla casa. 

Conosceva quel suono: stavano per ammazzare un maiale e lui, come ogni essere della terra implorava per la sua vita. Il macellaio lo stava trascinando a forza nel piccolo capanno dedicato all'uccisione. 

Povero animale. 

Ma la morte in questo caso avrebbe permesso all'intera famiglia di mangiare, e mentre la moglie si occupava dei clienti nel negozio ed il marito ammazzava il maiale, lei avrebbe potuto procurarsi ciò di cui aveva bisogno.

Si avvicinò all'edificio con passo spedito, cercando di ignorare i versi della bestia ed il primo colpo. 

L'avrebbero stordito, gli avrebbero tagliato la gola e ne avrebbero appeso il cadavere al soffitto. 

Data una rapida occhiata attorno a sé per assicurarsi di non avere addosso l'attenzione di nessuno, aprì il cancelletto della sottile recinzione che delimitava la piccola fattoria dal resto dei possedimenti del villaggio. 

Il macellaio sarebbe stato occupato abbastanza a lungo da permetterle di entrare, dare un'occhiata all'intero retrobottega ed uscirne avendo fatto la spesa a modo suo. 

Certo, i grugniti della bestia agitata iniziavano a darle i brividi. 

Accarezzò il muro e una volta arrivata davanti alla porta abbassò la maniglia. Sorrise non trovando alcuna resistenza nel tentativo di aprirla senza scasso. 

Stupido uomo: che teneva lì dentro per essere così tranquillo da non chiuderla a chiave? Dopotutto era solo un villaggetto di contadini: tutti ingenui e semplici... 

Si infilò all'interno dell'edificio e socchiuse il pannello di legno sull'entrata. 

Come aveva previsto non c'era nessun segno di vita. Era una stanza straordinariamente fredda però, perché qualcuno ci abitasse. Sospirò, rilassandosi: i versi della bestia, soffocati dalle quattro pareti di pietra, giungevano alle sue orecchie in modo molto più discreto di quanto avevano fatto fino ad un momento prima. 

Il sollievo fu solo momentaneo: giratasi verso il centro della sala si congelò sul posto. 

Non era entrata nella dispensa, ma nel laboratorio del macellaio. 

Dal soffitto pendevano a testa in giù due cadaveri di maiale freschi abbastanza perché alcune pigre gocce di sangue non ancora rappreso cadessero dalla slabbratura sul loro collo sgozzato; sul tavolo davanti a lei, illuminato dalla fioca luce dell'unica finestra lì presente, il corpo del terzo giaceva scomposto e smembrato, nel bel mezzo della macellazione. 

Zampe e testa staccate dal torso, petto squarciato, aperto in modo che gli organi interni fossero in bella vista. Polmoni, cuore, eccoli lì, ingabbiati dalle ossa. 

Un ultimo verso della bestia nella stalla le fece capire che era arrivato alla fine. 

Il lamento sembrò scuoterla per un attimo. Senza riuscire a distogliere lo sguardo dal macabro spettacolo davanti a lei, arretrò lentamente fino a sfiorare con le mani la fredda porta di legno. 

Il maiale urlò ancora. Le sembrò udire il filo della lama affilata strappargli la pelle del collo ed il gorgoglio del sangue uscito fiottante dalle arterie. Cercare lì le provviste non era stata una buona idea, non lo era stata per niente. 

Uscì dalla stanza con l'intenzione di scappare verso il villaggio più prossimo, ma invece di dirigersi lontano dalla macelleria come avrebbe voluto, le sue gambe la guidarono alla porta dell'edificio adiacente, pilotate da una volontà non sua. 

Tentò di muoversi con l'intenzione di voltarsi all'indietro ed il suo essere rimase immobile, ignorando il comando: Elettra non poté distogliere lo sguardo dalla figura del macellaio e del cadavere della bestia e sentì le proprie mani afferrare con disinvoltura i manici di Alice e Diane. 

«Cosa ci fai qui? Ragazzina, esci dalla mia fattoria» 

Estrasse Diane: gli piantò il coltello in gola senza esitazione e lo fece scorrere attraverso la pelle fino a vedere annaffiare di sangue il grembiule già sporco e gli occhi dell'uomo rivoltarsi all'indietro. 

Affondò la lama al centro del torace forzando verso il basso come doveva aver fatto lui con il maiale nella stanza. 

Sono tutti maiali. 

Ficcò la mano libera nella ferita per allargarla e sentire la consistenza delle viscere: che caldo il suo sangue. 

Bollente. Rosso.

«Papà?» 

Abbandonò il cadavere a sé stesso lasciando che cadesse sulla schiena, precipitando sul pavimento. La gravità gli avrebbe fatto sbattere la testa: il solo pensiero le metteva addosso una strana ilarità. Iniziò a ridere sottovoce non appena sentì lo schiocco umido dell'osso sulla pietra, quindi si girò seguendo quel sottile fiato alle sue spalle. 

Una ragazzina di quindici anni la stava guardando terrorizzata, ma la paura che vedeva in quegli occhi non era nulla in confronto a quella di Elettra che sentiva il suo stesso corpo sfuggirle dal controllo. 

Agiva da solo, svuotato e riempito di qualcosa di buio che era altro da lei e insieme rispondeva ad una parte del suo essere che non aveva mai creduto di possedere. 

Era spaventoso, era totalmente sbagliato. La avvolgeva un senso di esaltazione crescente dato da tutte le emozioni che fino a quel momento aveva intravisto solo per errore nella sala del Passaggio quando aveva ucciso, guidata da un lampo di pazzia ed immersa in una pozza di sangue: la bollente morbidezza della pelle appena squarciata, le carezze del vento che raffreddavano il liquido sulle proprie mani... Ne portò una al viso, accarezzando con vigore la guancia per lasciare la sua impronta. L'odore metallico e dolce le riempì le narici, un brivido freddo la scosse nel profondo e le fece saggiare con la lingua il sapore del nettare vitale. Piena di orrore percepì distintamente una presenza sovrapporsi alla sua identità, uno spettro che l'obbligò a stringere gli occhi e tendere i muscoli per prepararsi, eccitata, istintiva. 

Prepararsi a cosa? 

A giocare. 

La bocca le si storse involontariamente e le sue gambe scattarono inseguendo la bambina verso la strada: la afferrò per i capelli e la sgozzò osservando come il sangue fiottasse dall'arteria in un getto che non avrebbe mai pensato essere così irruento. 

L'urlo di una vecchia la distrasse da quella fontana seducente.

Cercò di chiudere gli occhi, di fermarsi afferrando con le mani il palo di legno che delimitava il recinto da cui stava per uscire, ma fallì miseramente: il suo corpo non le obbediva e sentiva in lei crescere l'euforia che aveva già provato nell'assassinio dei tre adepti delle Cappe Nere. 

Questa volta Diane si piantò in corrispondenza dello stomaco squarciando la pancia della donna. Ne uscì seguita da viscere bollenti. 

Usò la mano libera per strapparle e far urlare di nuovo la vecchia che nonostante la ferita rimaneva ancora viva. 

La spinse a terra ed infilzò la lama più volte nel suo petto, fino a quando l'Ombra decise che era abbastanza. Ma c'erano ancora rumori, ancora singhiozzi. 

Si alzò seguendo il suono innocente del pianto di un piccino che cercava di scuotere la sorella a terra di schiena, senza realizzare che con la gola squarciata non avrebbe potuto più vivere. 

«Le puoi fare compagnia» 

Elettra non avrebbe voluto parlare. 

«Che ne dici?» 

Calciò il piccolo corpo ignorando il lamento di dolore e terrore proveniente da quelle labbra arrossate, fissò gli occhi chiari e pieni di lacrime, uguali a quelli della ragazzina riversa sulla strada. 

Appoggiò il piede di peso sulla caviglia del bambino godendo dello scricchiolio proveniente da sotto la suola del suo stivale. 

Elettra avrebbe voluto solo piangere e chiudere gli occhi mentre la sua bocca augurava buon viaggio ed anche Alice si sporcava di sangue innocente. 

Altri rumori, altra carne. 

C'era bisogno di più silenzio. 

 

* * *

Fu silenziosamente grata alle guardie che le bloccarono le braccia dietro la schiena e la sollevarono da terra. Aveva sentito la tensione sciogliersi e le sue membra cedere sotto il peso della gravità e si era lasciata trascinare al suolo, incapace di riappropriarsi del corpo che aveva smesso di essere suo. 

Non aveva ancora provato a muoversi: aveva troppa paura di non riuscire a farlo. 

Lasciò che la trascinassero così come avevano fatto con i cadaveri riversi a terra. Ad occhi chiusi distinse il rumore dell'acciaio sull'elsa delle sue lame. 

Alice. Diane. 

Un singhiozzo le uscì dalle labbra. 

Sorpresa di poterlo fare, scattò: strinse appena le mani e cercò di divincolarsi. 

Trattenne un lamento di dolore quando le afferrarono le braccia con più forza e la colpirono sulle gambe per farla alzare in piedi e camminare. Per nulla incoraggiata, incespicò su sé stessa. 

«Avanti!»

Le guardie continuarono a sostenerla, facendole compiere un passo dopo l'altro. I due uomini armati al suo fianco e i quattro che le camminavano attorno scortandola la guardavano come una bestia pericolosa, inorriditi dallo spettacolo ancora visibile a pochi metri da loro. 

Ma non era stata lei a compiere quella strage. Non aveva voluto uccidere quelle persone, non era stata lei a farlo! 

Sapeva che nessuno le avrebbe creduto. 

«Quella puttana ha ucciso mio figlio! Li ha uccisi tutti!» 

Un lampo di agitazione percorse i volti dei presenti: una donna urlava inseguendo il corteo, sola voce nel silenzio della morte sceso sul villaggio. 

«Kul'ZaTur, ti strappi gli occhi, maledetta!» 

Un uomo la bloccò sulla strada stringendola tra le braccia. 

«Kul'ZaTur, ti faccia annegare nello stesso sangue che hai spanto!»

La forza del paesano non le impedì di continuare a chiamare quel nome proibito: le parole fluivano dalle sue labbra creando un nuovo anatema, preghiera per il demone il cui solo nome era presagio di sciagura e morte. 

«Kul'ZaTur ti tolga tutto!» 

I lamenti di disperazione seguirono la piccola processione fino alla cita muraria rimbalzando tra le case. 

Elettra avrebbe riso se la maledizione che già aveva sulle spalle non si fosse manifestata in quel modo solo poche ore prima. I vecchi spiriti non la spaventavano. 

Arrivati nei pressi del cancello la legarono troppo stretta e la fecero salire su un carro insieme a due delle guardie. Un altro degli uomini si pose alla guida del mezzo affiancato dallo sfortunato funzionario che aveva la responsabilità di amministrare il paese. 

Chiusero il portone. 

«Spero che ti ammazzino» 

Nessuno le avrebbe creduto. 

«Come cazzo ha fatto questa pulce a fare un lavoro come quello?» 

Sentiva il loro sguardo truce sulla pelle. Osò alzare la testa: erano coperti di maglia di colore argentato ed equipaggiati di una semplice spada corta. Sembravano abbastanza grossi da riuscire a metterla a tappeto senza difficoltà e tranquillizzati dal fatto che lei fosse disarmata e inerme. 

Il moro le sputò ai piedi con disprezzo, mentre il collega esordiva in una smorfia di soddisfazione e si avvicinava afferrandole i capelli con forza. 

«Ringrazia che tra quelli non ci sia stato mio figlio, cane, altrimenti non avrei aspettato la giustizia del re» 

Lasciò la presa facendole sbattere la testa sulla parete di legno. 

«Il boia avrà un collo in più su cui calare l'ascia» 

Strinse i denti ignorando la botta e senza abbassare lo sguardo. 

«Una morte rapida e indolore» concluse, sfacciata. Preferiva la morte alla tortura. 

Le guardie le legarono una benda sulla bocca, impedendole di parlare, ma non riuscirono a sfuggire in nessun modo da quello sguardo scuro e intenso, portavoce di un'anima triste e profondamente determinata ad andare incontro al futuro, qualunque esso fosse.

 

 

  
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