Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    27/12/2019    1 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 11


 
Eren

16:30, nel mio salotto.

I miei genitori sono al lavoro e Jean è fuori per fare una spesa dell’ultimo minuto. C’è una donna in salotto. Non riesco a vedere molto da dove sono, ma ha capelli scuri e pelle candida. Alza lo sguardo quando sente le scale scricchiolare e si alza velocemente dal divano, un sorriso brillante le modella le labbra.

“Oh, tu sei Eren, giusto?” Chiede, camminando verso di me per porgermi la mano. “Sono Mina, un’amica di Jean.”

Sbatto gli occhi e le osservo il viso. Immagino sia una bella donna.

“Ciao,” rispondo lapidario. Lancio un’occhiata al salotto e poi torno a guardarla. “Non aveva detto di aspettare qualcuno.”

Fingo di sistemare alcuni oggetti sul tavolo mentre Mina mi osserva, schiarendosi la gola un paio di volte, ma decido di ignorarla.

 “Allora, sei la sua ragazza?” Chiedo, guardandola con la coda dell’occhio. Questa strana emozione mi attanaglia il petto e cerco di sopprimerla. E anche se fosse? Jean ha il diritto di andare avanti dopotutto. Sono passati due anni. Non è che-

“No, non è così,” risponde Mina, le gote rosse dall’imbarazzo. “In realtà sono qui per te.”

“Per me?” Chiedo sollevando un sopracciglio. Incrocio le braccia al petto. “Per cosa?”

“Sono una consulente,” spiega, “Jean mi ha parlato di te.”

Annuisco e combatto l’esigenza di dire qualcosa di poco appropriato. Mina è solo una povera e innocente anima che è stata trascinata in mezzo a qualcosa che non la riguarda. Sarei un idiota a prendermela con lei.

“Allora era serio,” mormoro, in parte a me stesso. “Senti…”

“Mina,” ripete.

“Sì, lo so,” scuoto la testa. “Sto bene, okay? Davvero. Jean esagera. Sei una sua amica, no? Sai com’è fatto.”

Mina si agita sul posto e assottiglia leggermente gli occhi. Poi la sua espressione si fa più mite. Allunga una mano per toccarmi il braccio e sussulto al contatto. Il suo viso si trasforma in puro shock e io torno a mettere a posto il contenitore dove tutti tengono le loro chiavi in modo da non guardarla.

“Già,” replica lentamente Mina. “Ma penso che questa volta abbia ragione.”

“Non mi conosci nemmeno,” sbotto. “Come faresti a saperlo? Sai solo ciò che ti ha raccontato lui. Non ne valgo la pena.” 

“Hai ragione,” risponde Mina e sta davvero cominciando a darmi su i nervi. Quanto sia calma, intendo. Forse sono invidioso che lei riesca a mantenersi composta quando io sto andando fuori dai gangheri.

“Okay,” rispondo ed è un po’ strano che lei sia d’accordo con me.

“Ma capisco che tu sia ferito,” continua. “Non ci vuole un genio per capirlo. Voglio aiutarti. Penso che se riuscissi a estirpare anche solo in minima parte il tuo dolore, Jean si rilasserà.”

“Jean non sa nemmeno come rilassarsi. Fa il poliziotto da sette anni. Deve affrontare i problemi della gente ogni giorno. Non c’è niente di rilassante in questo.”

Mina ride e io aggrotto la fronte. Lei, in risposta, mi sorride.

“Pensaci, va bene?” Insiste. Mette la mano in tasca e ne tira fuori un pezzo di carta sottile. “Chiamami se cambi idea. Possiamo metterci d’accordo.”

Afferro il biglietto da visita, anche se non ho alcuna intenzione di chiamarla.

“Grazie,” dico sinceramente. “Ora devo andare.”

“Oh?” Mina solleva le sopracciglia. “Esci con un amico?”

“Qualcosa del genere,” borbotto. Infilo il biglietto della tasca dei jeans. “Grazie, però. Davvero.”

“Di nulla.”

Mi guarda mentre indosso le scarpe e afferro la giacca. Mi assicuro di avere il telefono in tasca e faccio a Mina un cenno di saluto prima di uscire di casa. Metto il cappuccio in testa e comincio a camminare.
 
***
 
17:01, appartamento di Nick.

Non c’è nulla di gentile nel modo in cui mi scopa, e ne sono grato. Gentile vuol dire intimo, e intimo significa qualche tipo di relazione con cui non voglio avere a che fare. Sprofondo le unghie sulla sua schiena e ignoro il gemito di dolore che emette. Ci porta all’apice e poi esce velocemente, tenendomi contro il muro. Le sue mani afferrano con forza le mie cosce fino a quando non me lo tolgo di dosso.

Nick mi lascia andare e mi guarda indossare i pantaloni. La mia frangia è sudata e alcuni piccoli ciuffi sono incollati alla fronte. Li tiro all’indietro con la mano e tolgo la felpa: fa troppo caldo per tenerla su. Nick va in cucina e prende una bottiglia d’acqua per me.

La prendo e butto giù metà contenuto prima che Nick parli.

“Cos’è successo?” Chiede con voce sottile.

“Nulla,” mento. Non sono dell’umore di parlare. “Grazie per la scopata.”

Nick sussulta, ma lo ignoro. Mi dirigo verso lo specchio nel corridoio e mi guardo il viso. Sono sudato, ovviamente, ma c’è anche dell’altro. Guardo altrove prima di poter vedere effettivamente cosa ci sia di stonato e mi appoggio al muro.

Nick mi osserva e incrocia le braccia. Aspetto che dica che dovremmo smetterla, che questo non è giusto, che ci sono altri modi per affrontare le cose. Ma non lo fa. Non lo fa mai perché è egoista esattamente come me. A chi importa se ci facciamo solo del male? A chi importa se questo non è salutare? È una soluzione temporanea ed è proprio ciò di cui ho bisogno.

Nick si siede sul divano e continua a guardarmi. Si sta comportando come se stesse per esplodere da un momento all’altro e immagino di capirne il motivo. Noto qualcosa sul pavimento e mi accorgo essere il biglietto di Mina. Lo nota anche Nick. Mi piego per rimetterlo in tasca.

“Oh,” dice Nick all’improvviso, i suoi occhi ampi e io scuoto la testa.

“No.”

“No, cosa?” Chiede, insospettito, e mi giro per guardarlo. Mormora qualcosa tra i denti che non riesco a capire.

“Vuoi parlarne di nuovo?” Sogghigno e Nick rotea gli occhi.

“Non ora,” risponde.

“Ormai ci siamo già dentro. Tanto vale andare fino in fondo!”

“Oh, per l’amor del cielo,” ringhia Nick, portando la testa all’indietro. “Forse dovresti prendere davvero in considerazione quella consulente.”

Sbatto gli occhi.

“Stai scherzando.”

“Ti sembra stia scherzando?” Chiede. Deglutisco e aggrotto le sopracciglia.

Voglio dirgli che mi sta tradendo in questo momento, che dovrebbe essere dalla mia parte, ma invece non gli rispondo. Nick sospira.

“A Jean importa molto di te,” sostiene Nick. “Lo sai questo, vero? Se non fosse così, pensi che lui si darebbe tanto da fare per te?”

“Gli dispiace solo per me,” lo correggo, la gola si secca e stringo la bottiglia d’acqua. “È quello che le persone fanno. Gli fai pietà e loro cercano di aiutarti, ma non perché gli importa. È solo perché vogliono sembrare delle brave persone.”

“Anche a me dispiace per te,” mormora Nick. “Ma mi importa di te e lo sai. Non sto cercando di sembrare una brava persona. Per quello ormai è tardi.”

Evito di guardarlo negli occhi. Non mi piace dove sta andando questa conversazione. È troppo… intima.

“No,” dico fermamente, serrando gli occhi. “Non farlo.”

“Perchè?” Chiede, alzandosi in piedi. Scuoto la testa quando sento i suoi passi avvicinarsi.

“Nick, te lo ripeto,” apro gli occhi e gli lancio lo sguardo più severo del mio arsenale. “Non farlo."

Nick ha l’aria sconfitta quando mi guarda. Mi confina contro il muro, ma poi fa un passo indietro.

“Scusa,” mormora e sembra così triste che il mio cuore fa fisicamente male.

“Come vuoi,” scrollo le spalle e prendo la felpa. “Devo anda-”

“Ehi, Eren?”

“Che c’è?” Mi fermo, la mano nascosta dalla manica mentre osservo l’espressione illeggibile sul suo viso.

“Puoi rispondere a una domanda?”

Lo guardo per alcuni secondi prima di annuire lentamente.

“Ossia?”

"Perché non permetti alle persone di avvicinarsi a te?” Chiede, aggrottando la fronte. “Perché allontani chiunque tenga a te?”

Deglutisco.

“Perché sto cercando di proteggerle,” digrigno i denti e infilo anche l’altro braccio nella manica della felpa. Chiudo la cerniera e afferro la giacca. “Altro?”

Nick mi fissa. Sbuffo e bevo il resto della bottiglia d’acqua prima di buttarla nel cestino lì vicino.

“Ciao, Nick,” dico, ma lui non risponde.
 
***
 
19: 45, cucina di Bertholdt.

Non ricordo come io e Bertholdt siamo arrivati a distenderci sul pavimento con un paio di bottiglie di birra, ma così è come mi ritrovo. Ricordo di aver lasciato l’appartamento di Nick incazzato come non mai e di aver mandato un messaggio a Bertholdt. Come siamo arrivati a bere è un mistero, ma se qualcuno mi offre una birra, non sono così scortese da rifiutare.

“Mhm?” Bertholdt sembra mezzo interessato, troppo impegnato a cercare di staccare l’etichetta dalla bottiglia. Le fredde mattonelle sono un sollievo contro la mia pelle accaldata e il lieve rimbombo della musica che esce dal salotto mi rende meno nervoso di quanto non fossi prima.

“Mia sorella non piaceva la birra,” dico. La parte ancora integra del mio cervello mi urla di chiudere il becco, ma la ignoro. “In realtà, odiava l’alcool in generale. Però fumava come un camino. Non l’ho mai capito, ma lo diceva sempre prima di…”

“Prima di…?”

“Niente,” mento, sentendo la lingua improvvisamente troppo gonfia per pronunciare una frase. Mi alzo velocemente camminando dappertutto. “L’ho dimenticato. È passato molto tempo.”

Bertholdt sembra parecchio sobrio quando lo guardo.

“Sei sicuro?” Chiede titubante.

Lo sono davvero? Non lo so. Scrollo le spalle e prendo la bottiglia. Sento la gola secca e quella bevanda dorata è così amara che mi devo sforzare di pensare di star bevendo qualcosa di buono per mandare giù il sorso. Bertholdt mi guarda con rapita attenzione mentre finisco la bottiglia e l’appoggio al terreno.

“Certo,” dico. È una risposta così scontata e ripetitiva che ormai non devo più pensare a un’altra risposta. Stai bene? Certo. Ne sei sicuro? Certo. Quindi non c’è nulla che non vada, giusto? Certo che no.

Bertholdt però non crede alle mie cazzate. Solleva le sopracciglia in un modo che mi fa venir voglia di cedere e confessare, ma sono bravo in questo. Tenermi le cose dentro, intendo. È bello quando tutti attorno a te sono convinti tu sia una specie di caso di carità.

“Non sei nemmeno bravo a mentire,” dice Bertholdt.

“Non puoi saperlo.”

“Invece sì,” insiste.

Grugnisco e mi gratto il retro della testa. So di puzzare di sudore, ma ora posso aggiungere anche l’odore di birra al misto disgustoso.

“Eren?”

“Non puoi giudicarmi,” dico, increspando le labbra. Bertholdt sembra sorpreso che gli stia rispondendo davvero.

“Okay,” risponde lentamente, come se non fosse sicuro su cosa stia accettando. Non posso biasimarlo. “Non ti giudicherò.”

“Non sono solito avere relazioni,” comincio. “Mi piacciono le ‘botta e via’. Non c’è alcun male nel farlo. Te li scopi e poi vai via. Nessun impegno. Nessun obbligo. Non ho problemi nell’impegnarmi in di per sè, solo…”

“Hai paura?”

“Non ho paura,” rispondo con fermezza, ma non appena le parole lasciano le mie labbra comincio a chiedermi se in realtà non ho paura di qualcosa.

Bertholdt scuote la testa e si alza, poggiando il mento sulle ginocchia.

“Hai come delle mura erette attorno a te,” comincia e riesco quasi a rimembrare le parole di Nick dire qualcosa di simile. “Ecco perché sei un lupo solitario, giusto? Non ti piace affezionarti alle persone.”

Sbuffo e distolgo le sguardo, desiderando di non aver finito la birra così velocemente.

“D’accordo, Dr. Phil,” sbotto. “E tu? Qual è il tuo problema?”

“Bassa autostima,” risponde con voce un po’ troppo acuta e mi domando se la birra stia cominciando a scorrergli nelle vene. Non ha l’aspetto di un bevitore accanito.

“Per cosa?” Chiedo, scuotendo la testa. “La gente aspira a baciare il terreno su cui cammini.”

“In realtà no,” dice, storcendo il naso. “Lo fanno solo quando vogliono usare casa mia per fare festa. A nessuno importa niente di me. Perché credi che fossi rimasto così sorpreso quando mi hai fatto gli auguri?”

Mi acciglio al pensiero di quella orribile festa. Ricordo con soddisfazione il mio pugno che entra in contatto con il viso di Reiner.

“Fanculo a quelle persone,” sbotto irritato. “Sono cazzate. Nessuno ha il diritto di sfruttarti per i loro comodi. È fottutamente-”

“Eren,” mi interrompe con dolcezza. Ruoto gli occhi e resto in silenzio finché non parla lui. “Ci sono abituato. Non mi interessa neanche più. Davvero.”

Scuoto la testa, stringendo la stoffa dei miei pantaloni con presa ferrea.

“Fottuti bastardi,” impreco, solo perché non riesco a trattenermi; Bertholdt sbuffa.

“Non è così male,” dice, portandosi le gambe al petto. “Nel senso, questo vuol dire che le persone mi prestano attenzione, no?”

Sbatto lentamente le palpebre, non capendo perché gli vada bene che le persone lo usino quando e quanto cazzo vogliono, ma poi mi viene in mente. Ai suoi genitori non frega nulla di lui. Deve essere questo il motivo per cui sono sempre in giro a fare solo dio sa cosa, mentre lui è a casa da solo con del personale che hanno assunto. Tuttavia, quest’ultimi non possono fungere da sostituti e Bertholdt sta soffrendo proprio per questo.

Mi sale la nausea al pensiero e mi stendo sul pavimento. Le fredde mattonelle rinfrescano la pelle coperta da una sottile maglietta, tuttavia non alleviano la voglia di vomitare.

“Cavolo, amico,” dico fissando il soffitto. “Ne hai passate tante, huh?”

“Anche tu, giusto?” Chiede Bertholdt. Con la coda dell’occhio, capisco che mi sta guardando, ma io continuo a guardare in alto. La luce mi brucia sempre un po’ di più gli occhi più passo il tempo a fissarla.

“Già,” rispondo con voce quieta, “Anche io.”
 
***
 
13:25, ora di ginnastica.

È venerdì, quindi il professor Zacharias ci lascia fare quel cazzo che vogliamo fin tanto che non restiamo seduti. Decido di passeggiare attorno il perimetro della palestra piuttosto di giocare a basket o qualcos’altro. Non sono dell’umore.

Noto qualcuno e rimango sorpreso nel vedere Levi camminare accanto a me. Mi dedica un piccolo e storto sorriso quando i nostri occhi si incrociano, facendomi arcuare un sopracciglio.                   
                                                                                                                        
“Stanno giocando a football nell’altra palestra, sai,” dico e Levi annuisce semplicemente.

“Gioco a football ogni giorno dopo la scuola,” dice sbuffando. “Pensi davvero io voglia giocare con degli incompetenti che non sanno nemmeno le regole? Inoltre, è quello schifo di flag football.”

“Ah, giusto,” faccio un cenno con la testa. “È una cosa da sfigati comparato a quello che fai tu, no?”

“Esatto,” ride sotto i baffi. Affonda le mani nelle tasche dei suoi pantaloni della tuta. “Tra poco finirà anche la stagione. Abbiamo un’importante partita contro Trost oggi. L’ultima della stagione, in realtà.”

“Ooh,” strascico il verso, colpendolo con la spalla. “Sei emozionato? Voglio dire, è la tua ultima partita delle superiori.”

“Immagino di sì,” solleva le spalle Levi. “Sarà la mia ultima partita in assoluto.”

“Eh?” Sbatto gli occhi, ripensando alle sue parole. “Non vuoi giocare a football all’università?”

Levi scuote la testa.

“Non ho mai voluto farne una carriera,” ammette. “Onestamente, mi ero iscritto solo per avere qualcosa da mettere nel curriculum vitae.”

“Cavolo,” fischio scuotendo la testa. “Ma sei bravo, giusto?”

“Le persone sembrano pensarlo,” risponde Levi con un’altra scrollata di spalle. “Sono decente. Alle persone importa solo perché sono il capitano.”

“Già,” dico. “Sai già chi sarà il tuo sostituto?”

“Non ancora,” risponde. “Ho alcune persone in mente, ma la decisione spetta al coach Dok. Sono sicuro farà la scelta giusta.”

“Ovviamente,” mormoro. “Ma in ogni caso, wow, buona fortuna per oggi.”

Levi sembra pensieroso.

“Dovresti venire,” propone. Lo guardo male per alcuni secondi.

“Vuoi che io venga a vederti?” Ripeto, giusto per assicurarmi di aver sentito bene, e Levi annuisce.

“Esatto,” continua. “I ragazzi vogliono organizzare un festa dopo la partita, ma non ho voglia di andarci. Possiamo uscire o fare altro… a meno che tu non abbia altri impegni.”

“Nah, sono libero,” rispondo. Non riesco bene a respirare e non so bene perché. “Va bene, verrò.”

“Davvero?” Sembra sorpreso prima di sorridere. Non lo fa spesso e me ne chiedo il motivo. Ma non ho intenzione di chiederglielo. “Rimarrò dopo la scuola, così possiamo incontrarci dopo la partita.”

“Certo,” scrollo le spalle. “È fatta.”

“Certo,” replico, ridendo.
 
***
 
20.03, campo da football.

Realizzo circa a metà partita che non me ne può fregar di meno del football. Considero di andarmene, visto che non mi sento più le palle e non ha senso rimanere. Ma poi mi ricordo di Levi e mi ritrovo a tormentare le mani all’interno delle tasche della giacca, premendo le gambe assieme per cercare di riscaldarmi.

Non ricordo molto della partita, considerando che ho speso la maggior parte del tempo a escogitare piani per andarmene, ma credo che la nostra squadra abbia giocato bene. È facile capire perché Levi sia una tale star, anche se lui nega sempre la sua bravura. Shiganshina batte Trost per parecchi punti, anche se non mi preoccupo di prestare attenzione a quanto ammontino effettiviamente.

Sono nel mezzo di battere i piedi per generare calore quando sento qualcuno chiamare il mio nome. Sollevando lo sguardo, trovo Levi venirmi incontro. I suoi capelli sono umidi (spero di acqua e non sudore) e si sistema la borsa sulla spalla quando mi raggiunge.

“Pronto?” Chiede.

“Certo,” rispondo.

“Bene,” accenna alla porta d’uscita bloccata da un’orda di persone. “La mia auto è nel parcheggio di fronte.”

Annuisco e ignoro il cuore aumentare i suoi battiti alla menzione di quella parola. Levi mi guida verso il parcheggio e lo seguo a passo lento. Percepisco il respiro accelerare e comincio a imprecare a bassa voce. Levi si ferma accanto alla sua auto e si gira per guardarmi con la fronte aggrottata.

“Stai bene?” Chiede con cautela. Vorrei annuire, ma il mio corpo decide di non cooperare. Rimango fermo in piedi a fissarlo. Lui sposta lo sguardo da me alla macchina prima di fare un cenno con la testa. “Ehi, possiamo camminare.”

“Tranquillo,” dico scuotendo la testa. Levi non sembra convinto e penso a qualcos’altro da dirgli. “Voglio dire, è solo un’auto. Nulla di cui avere paura.”

“Non ho intenzione di fare domande al riguardo,” continua Levi, aprendo il bagagliaio per gettarci la borsa. Lo chiude e spegne la macchina, facendomi sollevare un sopracciglio. “Va bene. Camminiamo. Non fa così freddo, dopotutto.”

Stringo le mani a pugno.

“No, non camminiamo.”

“Eren, davvero. Va bene. Non mi interessa.”

Mi supera e mette le mani nelle tasche. Si ferma quando è ormai a metà del marciapiede, girandosi verso di me.

“Muoviti,” dice.

Rilasso le mani e lo seguo.
 
***
 
Finiamo a prendere dello yogurt congelato e a vagabondare per le strade. È una serata calma per essere venerdì. Non ci sono molte persone in giro. Non che avrebbe avuto importanza in ogni caso. È… diverso.

Di solito ho un motivo per uscire, quindi è piuttosto strano camminare semplicemente in giro senza un obbiettivo. Non sto cercando di scappare da qualcosa e non sto cercando di andare verso qualcosa. Sono solo qui. È bello e bizzarro, immagino.

Levi mangia il suo yogurt in silenzio mentre io invece gioco con la coppetta. Guarda verso di me sollevando un sopracciglio.

“Non ti piace,” constata, non provando nemmeno a farla sembrare una domanda e io sbuffo.

“Non capisco come tu possa illuderti così da solo,” comincio, spostando lo yogurt con il cucchiaio. “Voglio dire, è ovvio che questo sia solo normale yogurt. Avremmo potuto prendere un gelato.”

“Non avevo mai assaggiato dello yogurt congelato,” sostiene scuotendo la testa. “Volevo vivere quest’esperienza.”

“Beh, ora l’hai vissuta,” sbuffo ancora. “Segna un tick sulla sua lista delle cose da fare. Santo cielo, perché mi sono fidato di te? D’ora in poi deciderò sempre io cosa prendere.”

“Buona idea,” acconsente Levi. “Così non dovrò assistere ai tuoi sguardi passivi-aggressivi.”

“Hah. Divertente.”

Scrolla le spalle e butta la coppetta vuota nel bidone della spazzatura lì accanto. Finisco in fretta la mia porzione per buttarla via anch’io, il gusto dello yogurt rimane ancora pungente. Passo la lingua sui denti per liberarmene e guardo Levi. Lui distoglie subito gli occhi e rimette le mani nelle tasche della giacca.

“Quindi cosa ne pensi?” Chiede e io sbatto le palpebre.

“Dello yogurt? Credevo di aver già reso chiaro il mio pensiero. Ho tradito il divino gelato nostro salvatore solo perché tu volevi provare una povera imitazione.”

“No,” sbuffa ruotando gli occhi. “Intendevo dire cosa ne pensi della partita.”

“Ah,” annuisco. “Onestamente, sono stato distratto quasi tutto il tempo. Ma ho visto che avete vinto. Sono certo Reiner sarà su di giri e lo dirà a tutti coloro che lo ascolteranno lunedì.”

Sbuffa di nuovo.

“Ne sono certo,” concorda.

“E tu cosa pensi?” Chiedo. Lui solleva un sopracciglio.

“Tutti hanno fatto la loro parte. Non posso lamentarmi,” scrolla le spalle. “È stato strano visto che era l’ultima partita, ma…”

Smette di parlare e io non insisto.

“Avrei voluto ci fosse anche Bertholdt,” ammette a bassa voce. Deglutisco rumorosamente e mi mordo l’interno della guancia.

“Doveva lasciare la squadra.”

“Lo so, Eren,” scuote la testa. “È solo che… fa schifo. Avrebbe dovuto essere lì con noi a festeggiare la vittoria. Ma per colpa di Reiner-”

“Ehi,” dico, interrompendolo. “Non c’è nulla che avresti potuto fare. Bertholdt doveva pensare a sé stesso e prendere una decisione da solo. Dovresti essere fiero di lui.”

“Lo sono,” risponde Levi. “Vorrei solo che le cose fossero diverse.”

“Diverse...” ripeto e mi domando se dovrei dirgli che desidero anch’io che le cose fossero diverse, lo desidero tutto il tempo. “Non sarebbe bello?”

Levi mi dedica uno strano sguardo prima di guardarsi i piedi, sospirando lentamente.

“Ehi,” dico attirando la sua attenzione. “Ricordi quando hai detto che vorresti cambiare il passato, ma non c’è modo per farlo?”

Annuisce.

“È stato quello che mi ha spaventato,” dico. “Diciamo che non ci avevo mai pensato. Sono così bloccato in un passato che non riesco a superare che non ho mai pensato al fatto che non posso cambiarlo.”

La fronte di Levi si aggrottò per alcuni secondi prima di scuotere la testa.

“È dura,” mormora. “Ogni giorno, desidero di aver potuto fare qualcosa.”

“Ma non c’è nulla da fare, no?” Chiedo conferma. “Perché tutto è passato e ora devi andare avanti con tutta la merda che la vita decide di tirarti addosso.”

“Già,” dice. “Esatto.”

Ci fissiamo prima di distogliere lo sguardo.

“… Ho ancora fame,” mormoro. Levi sbuffa.

“Coraggio, andiamo a mangiare.”

Indica con la testa la fine della strada. Riesco a intravedere una sorta di bar-ristorante, ma non riesco a dar voce alla mia opinione visto che Levi mi afferra il polso e mi trascina in quella direzione. Fisso la sua mano attorno al mio polso prima di sorridere stupidamente.
   
 
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