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Autore: D a k o t a    29/12/2019    10 recensioni
Two-shots su due Natali di Dean e Sam // o di una volta in cui Dean si prende cura di Sam e di una in cui Sam si prende cura di Dean. NO incest.
1. [Weechesters! Dean si prende cura di Sam]: "Non glielo dice, perché Dean è comunque il suo porto sicuro in mezzo alla tempesta in cui è affondata la sua vita quando aveva sei mesi ed era troppo piccolo per capire - per ricordare come era papà prima di tutto o di che colore avesse gli occhi la mamma -, e da cui gli sembra di non essere più riemerso. "
2. [Ambientata fra la 2x01 e la 2x04! Sam tenta di prendersi cura di Dean]: "Non aveva mai desiderato rompere quella gabbia di incomunicabilità in cui papà li aveva intrappolati nel modo disperato e rabbioso con cui ci provava Sam, ma si era promesso di non fare i suoi stessi errori. Il rischio c’era e c’è ancora, perché la parte di John ancora viva in lui ruggisce, gli ricorda la sua presenza, con i suoi cambi d’umore repentini, i suoi scatti d’ira, i suoi interminabili silenzi. "
[Primo posto al contest "A Christmas story" indetto da AleDic]
Genere: Angst, Fluff, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
Capitoli:
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2005

Dean gli permette così raramente di guidare la sua macchina che quando lo fa, Sam sa già che c’è qualcosa che non va, qualcosa che non funziona – non importa che Dean se ne stia seduto al suo fianco, con le labbra ostinatamente sigillate, il collo teso e le spalle rigide. E’ così da quando papà è morto e sembra più grave del solito, perché si è persino dimenticato gli auguri ed è sempre stato Sam, quello che detesta il Natale, sempre. Non che fosse vero: è che ogni Natale prima dei suoi otto anni ha sperato che potessero festeggiarlo come se fosse normale, come se fosse giusto. Dopo i suoi otto anni, ha sperato che vi fosse un Natale con abbastanza pace, con abbastanza amore per parlare di altro oltre che di uccidere demoni. E ve ne era stato uno, in realtà, ma ormai Sam ha stilato una lista delle cose che non ha più e Jessica è fra quelle – ricorda il suo unico Natale a Stanford e il modo in cui Jessica si torturava una ciocca di capelli biondi mentre gli parlava dell’esame di Diritto come se fosse l’Apocalisse, la testa piena di emendamenti e di sogni troppo astratti e confusi nel tempo per essere realizzati. E’ un ricordo che sa di passato e di bugie e di un’illusione e di quel messaggio che era arrivato anche se il loro rapporto era complicato in quel periodo e non si sentivano da una vita e -

Gli lancia uno sguardo preoccupato che vuole essere discreto, ma non lo è, perché Dean risponde con un’occhiata di fuoco. Esita in quello sguardo perché a questo punto si aspetta un’interruzione, una parola, un verso, un “Piantala, Sam”, un “Guarda la strada”, ma Dean inarca un sopracciglio e Sam accende la radio perché davvero, cos’altro può fare?

“Ehi, vacci piano” lo redarguisce infine Dean, quando la radio locale si accende e Last Christmas risuona in quella sua allegria un po’ caricata, un po’ finta. “Ti ho detto di guidarla, non di scegliere la musica”

Dean non può non alzare gli occhi al cielo per il modo in cui l’ombra irrequieta che aveva coperto gli occhi di suo fratello sembri essere sparita, non appena ha aperto bocca. E’ sempre per quella storia, quella di papà – Dean gli ha già spiegato tre volte ogni giorno, mentre il senso di colpa gli strisciava lungo la schiena, che non vuole parlare di papà. Quindi Sam si è messo in testa che deve controllarlo e deve comunque accertarsi di come sta discretamente. Peccato che il suo concetto di “discretamente” sia sempre così opinabile.

E’ così silenzioso che per Sam vederlo fare zapping sulle stazioni radio, alla vana ricerca di qualcosa che soddisfi i suoi raffinatissimi gusti musicali, ha un che di consolante.

“La radio locale fa schifo” sentenzia arrendendosi, le labbra atteggiate in una smorfia che il più piccolo conosce troppo bene, che sa di casa. “Non trasmettono altro oltre a dannatissime canzoni natalizie”

A Sam fa bene sentirlo parlare, almeno di tanto in tanto, ha bisogno di assicurarsi che sia ancora là, nonostante il dolore e la benda bianca sulla sua spalla che gli ricorda quanto è stato vicino a perderlo, ancora una volta. Sam, a ventitré anni, non è estraneo al dolore: la mamma è morta, Jessica è morta, e ora papà è morto. A ventitré anni, conosce tutte le fasi del lutto, ma non ha idea di quale fase stia attraversando Dean adesso. Ci sono molte cose che non sa, ma una la sa per certo: non può seppellirlo, non può farlo nel modo in cui ha seppellito la mamma e Jessica.

“Forse perché è Natale” borbotta in risposta, con un vago accenno canzonatorio perché davvero, lo spirito natalizio non è mai stato il suo forte. In realtà, neanche Dean – Sam adesso può dirlo – ha mai davvero avuto voglia di fare l’albero. Ma l’ha fatto – l’ha fatto per lui.

“Già” mormora il maggiore, e lascia cadere il discorso per un attimo. La verità è che non ha voglia di parlare ed è sicuro che suo fratello lo conosca abbastanza bene da aver capito, da aver compreso quindi, dannazione, che necessità c’è di insistere?

Sam ha gli occhi fissi sulla strada, mentre si appella ad un ricordo natalizio positivo – forse l’unico – per provare a intavolare una conversazione.

“Ti ricordi quella volta in cui abbiamo fatto un pupazzo di neve insieme?”

Dean se lo ricorda. Ogni Natale era l’ultimo Natale di qualcosa, Dean lo sa bene: c’era stato l’ultimo Natale con la mamma, l’ultimo Natale in cui Sam aveva creduto a Babbo Natale, poi l’ultimo prima che Sam se ne andasse a Stanford sbattendo la porta, dopo una litigata con papà - e aveva cercato i suoi occhi, alla ricerca di supporto, ma lui aveva distolto lo sguardo, come sta facendo in quel momento, perché le ultime parole di papà sono come un marchio a fuoco.

“Me lo ricordo, Sammy” dice, rivolgendogli uno sguardo indecifrabile, che si traduce presto in un sorriso ironico e in un leggero movimento della testa. “Credevi ancora a Babbo Natale. Non riesco a capire come tu abbia potuto crederci così a lungo, fratellino”

Sono momenti come quelli, momenti in cui Dean lo guarda e vede negli occhi del giovane uomo che ha davanti quelli del ragazzino coi capelli scompigliati che era stato, che gli era cresciuto accanto dormendo rannicchiato nella stanza di un motel, in qualche angolo dell’America. Tutte le volte in cui Dean lo guarda così, Sam si chiede se quel ragazzino gli manchi, se sia ancora capace di riconoscerlo, nonostante tutti i morti alle spalle, nonostante il sangue. A volte il fatto che il modo in cui Dean lo guarda non sia poi così cambiato è l’unica cosa che lo tiene ancora ancorato a sé stesso, al Sam che a dodici anni aveva letto “Il Buio oltre la siepe” e aveva promesso che sarebbe diventato un avvocato, proprio come Atticus Finch.

“Ehi, piantala” gli dice, e la sua voce emerge testarda e ovattata come – Dean lo sa – solo Sam sa essere. “Ci credevo per colpa tua. E comunque c’erano modi peggiori di scoprire che non esistesse”

Dean non può fare a meno di pensare che è interessante sentirglielo dire, dopo averlo sentito lamentare e guardare con tristezza ogni ragazzino che salvavano e veniva a sapere dei demoni - “Non sarà mai più come prima, Dean. Non guarderà mai più nel buio nello stesso modo” gli aveva detto qualche volta, e di una cosa era certo: Sam, dopo il Natale del 1991, quando aveva trovato l’agenda di papà, non aveva mai più guardato il buio nello stesso modo.

“Non mi aspettavo di sentirtelo dire” risponde, alzando un sopracciglio. “Beh, per fortuna Babbo Natale non esiste. Se ci fossimo trovati Babbo Natale in motel, papà mi avrebbe detto di sparargli o tagliargli la gola”

Non c’è ombra di scherzo in un primo momento nel tono di Dean e ci vuole qualche secondo e qualche battito di ciglia scure, il tempo necessario alle sue parole di farsi strada ed essere comprese, perché Sam elabori e scoppi a ridere perché davvero, è così assurdo ma anche così verosimile che può immaginarselo e -

“Idiota” borbotta fra i denti, mentre le labbra di Dean si incurvano in un sorriso, un sorriso che fa male.

Papà. E’ stato Dean a menzionarlo, alla fine. Sam l’aveva visto troppo spesso di spalle che se ne andava, oppure di fronte, quando gli occhi gli mutavano e quasi gli faceva paura. Oppure quando li guardava, in un mix di sentimenti che né lui né Dean erano mai riusciti a decifrare.

Era rabbia? O dolcezza? O disgusto?

Sono dubbi che nella sua mente persistono ancora.

Erano lì a sei anni, quando si chiedeva perché non lo cercasse.

Era arrabbiato con lui? Forse aveva rotto qualcosa e non riusciva a perdonarlo, tanto che si limitava a parlare al telefono solo con Dean?

Erano lì a dieci anni, quando i suoi compagni uscivano da scuola e trovavano i loro papà ad aspettarli e gli facevano chiedere “Dov’è il mio?”.

Erano lì persino quando John tornava a casa e Sam avrebbe solo voluto che gli desse un modo di amarlo, più che di contestarlo.

Erano lì a diciotto, quando aveva preparato la borsa per Stanford con gli occhi pieni di lacrime che nessuno poteva vedere. Solo Dean poteva a volte, ma era difficile anche con lui perché, per un lungo periodo, c’era stato qualcos’altro ad alimentare quelle lacrime; era la gelosia verso un fratello maggiore che venerava, ma che aveva avuto in quattro anni tutto ciò che che lui aveva desiderato in ventitré – ci fossero state almeno le parole a colmare gli interminabili silenzi, perché il silenzio si presta ad ogni prostituzione; al silenzio ognuno dà il significato che preferisce, talvolta il peggiore.

“Dean. A proposito di papà...” inizia, senza sapere come proseguire. Trovare le parole giuste con lui è come camminare in punta di piedi su un campo minato e Dean ha la mascella serrata come i frammenti di una granata prima che esploda.

“Non c’è nulla di cui dobbiamo parlare, Sammy” lo ferma, e Sam conosce bene quell’espressione, quel modo che ha di atteggiare le labbra in una linea sottile, come rifiuto a qualsiasi tipo di debolezza o vulnerabilità.

Dean si chiede davvero di cosa voglia parlare: di papà? Ha passato vent’anni a disobbedire ad ogni regola, a cercare di condurre la sua esistenza indipendentemente da tutto, e ora vuole psicanalizzarlo riguardo a papà? Cosa c’è da dire, poi?

Nella sua adolescenza, Dean aveva adorato suo padre, il suo lavoro, e soprattutto quel modo che aveva di dire tutto ciò che pensava. Un po’ sbruffone e sicuramente troppo autoritario, sì, perché non si accorgeva di avere dei limiti da rispettare. Eppure gli piaceva e voleva essere come lui: in tutto e per tutto. Fino a quando quel limite non rispettato - “Prenditi cura di Sam o dovrai ucciderlo” - si era schiantato contro Dean stesso. Come? Come era possibile? Relegare un figlio ad un’estraniazione era quanto di peggio si potesse fare, ma lui lo aveva capito e portato quella croce in silenzio. Papà era difficile da capire e a quell’età un genitore non dovresti capirlo, ma viverlo, ma Dean lo aveva compreso; sapeva benissimo che suo padre poteva fare lo spavaldo quanto voleva, ma c’era molta paura e molta rabbia in lui, di cui loro avevano finito irrimediabilmente per essere danni collaterali. Non aveva mai creduto, come Sam, che non li avesse mai voluti, ma dopo la morte della mamma, non sapeva come fare da genitore ad un bambino che dipendeva in tutto e per tutto da lui. E Dean aveva assorbito tutto, anche quella gravosa responsabilità, con coraggio, in silenzio. Nemmeno per una volta, da ragazzino, gli era passata per la testa l’idea che a quell’età non è responsabilità di un figlio comprendere il disagio di un genitore. Non aveva mai desiderato rompere quella gabbia di incomunicabilità in cui papà li aveva intrappolati nel modo disperato e rabbioso con cui ci provava Sam, ma si era promesso di non fare i suoi stessi errori. Il rischio c’era e c’è ancora, perché la parte di John ancora viva in lui ruggisce, gli ricorda la sua presenza, con i suoi cambi d’umore repentini, i suoi scatti d’ira, i suoi interminabili silenzi. Ecco perché, quando erano piccoli, aveva sempre cercato di rispondere a tutte le domande di Sam, fino a quando non erano finite le risposte.

“Va bene. Lo rispetto” suo fratello minore rompe il silenzio con quella frase, e Dean fa roteare gli occhi perché davvero?, sa che sarà capace di rispettare ciò per il prossimo quarto d’ora. Non lo sorprende neanche un po’, quando riprende parola dopo trenta secondi.

“Dean, sappi solo che...” inizia Sam, perché sa benissimo che Dean non gli permetterà mai di prendersi cura di lui nel modo in cui ne è stato capace lui, ma davvero, Dean deve sapere che -

Dean si lascia andare sul sedile e sbuffa appena. Non sembra neanche infastidito, solo stanco.

“Lo so, Sammy” mormora appena.


 

***

Sono nel parcheggio di un motel in Montana qualche ora dopo, e Sam non può fare a meno di ridere guardando le sue espressioni di suo fratello. Dean sta cercando di mantenere la calma perché se non fosse tutto così tragico penserebbe che papà lo stia istigando ad ucciderlo dall’Inferno. Apre il cofano anteriore della macchina, alla ricerca di qualcosa che gli smentisca che l’odore così acre, intenso e caratteristico che ha invaso l’abitacolo della macchina quando hanno parcheggiato non sia davvero -

“Maledizione, Sammy, hai bruciato la frizione!” impreca, e Sam non può fare a meno di pensare che l’unica cosa che è stato in grado di distrarlo oggi è la macchina – ed è quasi grato al fatto che, nonostante tutto, ci sia stato qualcosa a distrarlo. “Chi ti ha insegnato a guidare, idiota?”

Il più giovane non può fare a meno di soffocare la risata che rischia di zampillargli nuovamente sulle labbra, mentre Dean sbuca fuori dal cofano anteriore e ha quell’espressione fra l’arrabbiato e l’incredulo, di chi si è già pentito di aver fatto quella domanda.

“Tu, imbecille” gli dice con aria ovvia, ed è davvero l’unica risposta possibile, l’unica vera – suo fratello non può essere così ingenuo da pensare che gliela avrebbe risparmiata.

Dean ha un’aria vagamente omicida e non può fare a meno di scuotere la testa perché, sul serio, cosa ha fatto di male? Questo non può fare a meno di allargare il sogghigno del più piccolo.

“Oh, davvero molto divertente, Sammy” lo ammonisce, con una smorfia.

Chiude con una lieve botta il cofano anteriore: sarebbe perfettamente in grado di prendersene cura e di metterla a posto, ma è in un parcheggio, non ha gli attrezzi necessari e -

Tutto perché suo fratello non sa tenere il piede lontano da un pedale.

Sam dall’altro lato lo guarda, guarda i suoi movimenti e il modo in cui tradiscono la sua tendenza al comando. Pensa ai Natali in motel, ai pianti, alle lacrime e a Dean, che tentava di consolarlo. Ogni Natale in motel gli era sembrato il peggiore, il più brutto, ma qualcosa, mentre vede Dean armeggiare con il cofano anteriore, imprecare e persino chiamarlo “idiota” lo fa sentire incredibilmente fortunato perché, comunque siano andate le cose, lui è là. Era una cosa che aveva dato per scontata sia da bambino che a Stanford e che, se ne era reso conto in ospedale fissando il suo elettrocardiogramma, era molto meno ovvia di quanto pensasse. Non sa a chi lo deve, se la morte misteriosa di papà c’entri qualcosa – ha imparato a non credere alle casualità -, ma è ancora là. Può vedere le ferite, quelle che nasconde, e ha deciso che troverà per esse anche le cure che la medicina moderna non ha inventato.

“Andiamo, Sammy. Non startene lì impalato” dice Dean ed è solo istinto quello che a Sam fa venire voglia di attirarlo in un abbraccio, che spera che, qualsiasi cosa sia successa, curi un po’ anche lui.

Dean per un momento è rigido, in tensione e ha un’espressione confusa sul volto, prima di rilassarsi un attimo perché è comunque Sam.

“Non hai più sei anni, Sammy. Non ti perdonerò così facilmente per aver fatto del male alla mia bambina” commenta Dean con una smorfia, quando finalmente Sam scioglie quella presa, ma il minore può vedere benissimo che sta scherzando, mentre accarezza il cofano della presunta bambina.

“Non è quello” dice Sam, e nella piega delle labbra di Dean c’è solo un briciolo di curiosità. “Sono felice che tu sia qui”

Dean lo guarda, vorrebbe chiedergli qui?qui dove?, ma sa benissimo che finirebbe per addentrarsi, per percorrere qualche strada che lui non è ancora pronto per percorrere. Suo fratello è così diverso da lui: non ha il suo ermetismo, non ha nemmeno quello di papà, può leggergli in faccia qualsiasi cosa, qualsiasi sentimentalismo. Accenna la cosa più simile ad un sorriso che può fare – per Sam non è molto, ma per quella sera è abbastanza – , gli passa in malo modo una valigia verde militare e si dirige in silenzio verso la strada che conduce alla hall del motel. Sam lo segue a qualche passo di distanza, sapendo che quella sera, Natale o non Natale, non può aspettarsi null’altro che quel mezzo sorriso, che si era aperto come una ferita dolorosa – perché Sam non sa o forse immagina appena come mai lui sia ancora lì. Solo quando arrivano nella hall e una canzone – sempre la solita Last Christmas , allo strenua del ridondante – irrompe, Dean si volta nuovamente verso di lui, inclinando la testa d’un lato, come se avesse dimenticato qualcosa.

“Sammy?” lo chiama, con un sopracciglio alzato e un’aria vagamente distratta.

“Sì?” risponde il minore, confuso.

“Buon Natale” dice, prima di voltarsi e chiedere le chiavi per la loro stanza.

Sam non ha più sette anni: glielo legge nella tensione che traspare dai suoi lineamenti e nell’aria irrequieta che ha, che è tutto fuorché Natale dentro di lui.

Non ha più sette anni ma a volte è ancora sicuro che una squallida stanza in un motel non sarà mai abbastanza per lui, ma è certo anche di un’altra cosa: è abbastanza. E' abbastanza per quella sera.

“Buon Natale, Dean”


NDA 
Eccomi con la seconda shot, ogni volta ho una paura per l'IC che mi sembra di scavare l'Everest, ma hey, c'ho provato. Idealmente questa shot è ambientato in un lasso temporale preciso, compreso fra 2x01 e la 2x04.  Spero che abbiate apprezzato questa two-shots, ho diverse idee per delle shot in questo fandom e niente, spero che ci sarà modo di buttare giù tutto (non letteralmente, ovviamente). Le recensioni sono sempre gradite. 


 

   
 
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