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Autore: Melanto    30/12/2019    4 recensioni
[Midquel di 'Malerba']
Gli elementi principali dell'ikebana sono tre, chiamati in modi differenti e sintetizzabili in: Paradiso, Uomo e Terra.
Preso nel mezzo, tra ciò a cui appartiene e la fede da ritrovare, l'Uomo si curva e dibatte alla ricerca di un equilibrio ideale. Ma la ricerca può essere guerra, e se dopo tante sconfitte c'è chi riesce ad assaporare la pace delle prime vittorie, allo stesso modo c'è chi, dopo aver passato una vita intera a dominare, inizia a soccombere sotto il peso delle sconfitte nascoste.
Questa raccolta è fatta di vittorie e disfatte diluite nel Tempo, ma senza dimenticare...
...che non è il tempo a perdersi, siamo noi a perderci nel tempo.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Jikan - #6

Note Iniziali: ambientata un mese dopo la shot #5. Siamo quindi a metà Gennaio.

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

- #6: Io sono -

 

 

 

Fermo sul marciapiede che attorno a lui facevano almeno cinque gradi sotto lo zero, e talmente intabarrato in giaccone, sciarpa e cappello che la striscia degli occhi pareva la feritoia del periscopio di un sommergibile, Shuzo pensava che Mamoru facesse presto a parlare. La faceva facile.

Massì, che ci vuole? Vai lì, ti presenti e chiedi del direttore.

Facilissimo, come no. In quei termini lo era di sicuro, peccato che Mamoru non avesse tenuto conto della quantità enorme di varianti. Una su tutte, quella che, dopo quasi tre anni, il direttore Mizuno della Scuola Kadoenshu di Ikebana non si ricordasse affatto di lui.

Salve, sono Shuzo Mori, vorrei parlare con il Direttore Mizuno. Sa, tre anni fa mi aveva invitato a iscrivermi in questa scuola.

Magari avrebbe fatto trascorrere un quarto d’ora di risate a chiunque l’avrebbe accolto in segreteria prima di andarsene accompagnato da un nomacertosaràcosìmachicazzoseiaddio. Tutt’al più senza ‘cazzo’.

Essere abituato alle figure di merda non era sinonimo di divertirsi a farle, così se ne stava fermo fuori dai cancelli scolastici, camminando avanti e indietro e preda dell’indecisione: entrare o andare via? Ma se se ne fosse andato, Mamoru gli avrebbe fatto una testa come un pallone e sarebbe stato capace di accompagnarlo di persona, magari trascinandolo dentro tenendogli la manina.

E quindi la decisione da prendere era tra: fare una figura di merda da solo o farne una centuplicata in due?

«Aspetti qualcuno, giovanotto?»

Shuzo sobbalzò nel sentire quella voce stridula, leggermente nasale, alle sue spalle. In tempi non sospetti, per una simile colpo di sorpresa, avrebbe fatto salti da medaglia d’oro, ma per fortuna le sedute con il dottor Kido stavano mitigando anche la sua paura a venir colto alla sprovvista. Non avrebbe saputo dire, però, se fosse un bene o un male. L’unica certezza era quella di aver ridotto i rischi di infarto del trenta per cento.

La vecchina stava forse cercando di abbassare la soglia?

E poi… perché diavolo doveva sempre incontrare vecchie sulla sua strada?!

Mai una persona con meno di settanta, tutti over.

Questa, in particolare, indossava un kimono da sotto un cappotto nero e una sciarpa appena annodata alla gola. Il primo pensiero non fu per i capelli sobriamente acconciati o per l’eleganza dell’abbigliamento e del modo in cui tenesse tra le mani il manico della borsetta corta, quanto un più pratico: ‘Dèi, ma non muore di freddo?!’.

«Ah, io… ecco, veramente…»

«Sarà mica una delle studentesse dei corsi mattutini?»

La donna si portò maliziosamente la punta delle dita alle labbra, per nascondervi dietro un sorrisetto, ma bastarono le sopracciglia a mostrarglielo ugualmente.

Ed ecco l’ennesima nonnina che cercava di accasarlo pure con i sassi.

Shuzo nascose uno sbuffo nello sciarpone.

«A dire il vero, cercavo il coraggio di entrare.»

«Devi iscriverti?» Da maliziosa e divertita, l’espressione della nonnina si fece sorpresa.

«Dovrei…»

«Allora vieni, ti accompagno io.»

A Shuzo non diede neppure modo di replicare, che gli infilò una mano sotto al braccio.

Eccolo di nuovo incastrato da quelle dannate signore formato mignon cui bastava mettere in mostra le grinze per farlo cedere in un attimo. Perché se era vero che le vecchie parevano avere un debole per lui, era vero anche il contrario.

Shuzo si lasciò guidare attraverso il vialetto che attraversava il cortile della scuola: un fabbricato davvero piccolo, a un solo piano; mattoncini a vista rosso scuro, forme squadrate con siepi curatissime nelle curve che si scontravano con gli spigoli vivi dell’edificio.

«È sempre una sorpresa quando a iscriversi è un ragazzo», spiegava l’anziana signora. «Quando capita, di solito sono i figli dei maestri, che perpetuano la tradizione. E non mi sembra tu voglia fare solo il corso serale per principianti.»

«No, infatti.»

«Molto interessante.» La donna gli lanciò un nuovo sorriso sottile, carico di sottintesi, mentre lo lasciava davanti alla porta della segreteria. «Da qui puoi continuare da solo, immagino.»

«In realtà anche da solo sarei riuscito a entrare, non mi sembrava ci fosse la palude a ostacoli qui fuori.»

«Oh, non sempre gli ostacoli sono quelli che si vedono, ragazzo. E quelli che non si vedono sanno essere i più insidiosi, perché non li riconosci. Io ti ho aiutato a passarne uno.»

Shuzo non replicò, anche se avrebbe avuto una risposta ovvia e ironica come sempre, però la lasciò in bocca, perché sapeva che se non ci fosse stata quella strana vecchina in kimono lui non sarebbe mai entrato. Avrebbe tergiversato e poi sarebbe tornato indietro, inventando una scusa qualunque e mollando la presa.

Ora era dentro, davanti alla segreteria: il primo ostacolo era superato.

«A presto, giovanotto.» L’anziana si era già allontanata di qualche passo, prendendo la strada dei corridoi che portavano alle aule. «E chissà, magari ti troverò come mio allievo.»

Shuzo la vide sparire, accompagnata da una risatina divertita e lasciandolo con un palmo di naso. Aveva appena conosciuto una sensei della scuola e non l’aveva neppure ringraziata per l’aiuto. Pessimo come al solito; non c’era proprio verso che imparasse a essere più ‘pronto’ quando si trattava di relazioni interpersonali.

Shuzo sbuffò e si liberò della sciarpa prima di bussare alla porta della segreteria. Nemmeno a dirlo, dall’interno provenne un’altra vocina che avrebbe catalogato come ‘over-anta’ e non venne smentito: seduta alla scrivania, una signora con occhiali sottili e cordicella, batteva veloce i tasti di un computer. Capelli corti e almeno mezzo secolo sulle spalle e sugli occhi stretti, pieni di rughette.

«Posso aiutarla?» gli chiese, dopo aver spostato lo sguardo dal monitor e aver avuto un leggero sobbalzo nel trovarsi davanti un ragazzo come lui, con una cresta spettinata in testa e l’orecchino. Per fortuna che non si era più tinto e che aveva ancora i guanti alle mani.

Iscriversi a quella scuola continuava a essere una pessima, pessima idea. Pessima.

«Vorrei parlare col direttore Mizuno, se possibile. Mi chiamo Shuzo Mori.»

Una rapida occhiata all’orologio alla parete e la segretaria si tirò su gli occhiali scivolati più verso la punta del naso.

«Mizuno-san dovrebbe terminare a breve la sua lezione, le andrebbe di aspettare qualche minuto?»

«Certo.»

Anche se sarebbe stata l’occasione perfetta per svignarsela, il pensiero degli ‘ostacoli invisibili’ lo fece desistere e lo convinse ad avere un po’ più di spina dorsale. Ormai era lì, andarsene adesso sarebbe stata quella pura e semplice codardia che in sé stesso non era mai riuscito ad accettare, e aveva camuffato con l’abilità dell’indifferenza quando la faccenda era più spinosa e con le botte quando lo era di meno.

La segretaria si alzò e gli fece cenno di seguirlo. Sparirono anche loro lungo gli stessi corridoi per dove si era allontanata la sensei. Corridoi che ricordavano in tutto e per tutto una scuola, come quella delle medie: l’ultimo ricordo che ne aveva era del cesso dei maschi, lui teneva il piede sulla nuca di un compagno costretto con la faccia nel water, mentre un altro bulletto tirava lo sciacquone e il povero disgraziato si pisciava nei pantaloni. Grasse risate di sottofondo che gli diedero fastidio come unghie sulla lavagna. Si poteva essere orribili in tanti modi diversi e lui, che con la faccia nel cesso c’era stato messo a sua volta, li aveva imparati bene e aveva saputo riprodurli alla perfezione.

Ma il corridoio silenzioso, dalle porte chiuse e le targhette che indicavano le designazioni delle aule erano lì e i neon erano accesi sulla sua testa anche se era giorno, ma il corridoio interno era buio, le vetrate erano solo all’ingresso e una sul fondo dell’andito, dove c’era una porta che forse conduceva proprio ai bagni.

«Prego, può aspettare qui.»

La segretaria over-anta dagli occhi stretti lo fece accomodare in un’aula molto spaziosa e vuota. I banchi erano lunghi tavoli bianchi, odore di disinfettante agli agrumi che si mescolava a quello dell’erba tagliata, dei rami recisi.

La scrivania del docente era piena di elementi abbandonati in maniera disordinata: pezzi di tronchi, foglie strappate, rametti sfoltiti e corolle di fiore che non erano state scelte. In ogni cosa esistevano gli scarti, anche nell’arte come l’ikebana in cui tutto sembrava doversi elevare per raggiungere un fine simbolico, dalla base del vaso alla sommità dello shin. E invece, se ci si faceva attenzione, anche nella perfezione della materia prima si effettuava un’ulteriore cernita e per quanto fossero pezzi di Paradiso, rimanevano scarti.

Shuzo ringraziò la donna con un cenno del capo e avanzò per la stanza ostentando una certa sicurezza di sé che però era più apparenza che sostanza. Lo si capiva dal modo in cui si guardava attorno, perché quando era davvero sicuro di sé, Shuzo guardava sempre in direzioni precise senza distogliere gli occhi. Adesso le sue iridi vagavano un po’ per i soffitti con le luci al neon spente, mentre luminosità naturale entrava dalle grandi finestre che affacciavano l’aula all’esterno.

L’occhio si fermò poi sugli unici elementi di interesse presenti nell’ambiente: ovvero la scrivania e ciò che vi era sopra.

Si avvicinò e studiò nel centro la bellissima opera conclusa che aspettava solo di essere spostata in un posto più consono, o di essere mostrata alla classe. La guardò con ammirazione, riempiendosi gli occhi di quelle curve così estreme e precise, dei rami accessori di tsuga che sembravano seguire l’onda invisibile del vento. Il tronco portante aveva un diametro di almeno due dita, infisso nel kenzan. Vaso rettangolare di bronzo, aveva una lavorazione antica di quattro draghi che si trasformavano nei piedini. Doveva essere molto antico e non una copia, ma lui non ne capiva ancora abbastanza; di sicuro il nonno di Natsuyuki avrebbe saputo rispondergli con certezza. Così i suoi occhi risalirono, lungo il ramo del Paradiso da cui nasceva la Terra, in un’origine comune che prendeva diverse strade. L’eventualità della vita. Puoi puntare al massimo e averlo come obiettivo, ma i bivi ti aspettano lungo la strada, ti sorprendono e a volte ti accecano, fino a farti sbagliare tutto. Tra loro, l’Uomo, aggrappato a entrambi ed estraneo, con il rosso intenso dei petali di camelia. Poteva appartenere all’uno o all’altro, poteva essere più vicino all’uno all’altro, ma tutti e tre tendevano all’obiettivo, invisibile come gli ostacoli.

Shuzo appoggiò i gomiti sulla scrivania e si abbassò, guardando la composizione da ogni angolazione. Non aveva mai visto piegature così forti e al tempo stesso naturali all’apparenza: sembrava davvero che il ramo fosse nato così. La vecchia Saito non si era mai spinta a tanto, i suoi lavori erano sì curvi, ma poco nei rami e tanto nelle foglie; a volte restava un sacco di tempo a lavorarle affinché prendessero la piega che voleva.

Poi si guardò attorno, e abbandonati ai piedi della perfezione vide gli scarti. Il troppo che diveniva inutile.

Troppo perfetto, troppo naturale, troppo lungo, troppo corto.

L’ikebana era anche quello: sfrondare affinché l’opera riempisse l’occhio, ma rispettasse il vuoto. E tra gli elementi correva un patto segreto che il semplice osservatore avrebbe potuto solo accettare come un dato di fatto, senza domandarsi niente, mentre l’ikebanista doveva conoscerlo a fondo, perché di quel patto era testimone e doveva farlo rispettare.

Lui col vuoto a volte tendeva a esagerare, isolando gli elementi fino al limite possibile. Forse perché dal vuoto era sempre stato circondato quindi lo interiorizzava anche troppo.

Quell’opera che aveva davanti, invece, nei suoi vuoti gridava ‘forza’ e non ‘solitudine’. Il ramo di tsuga si ergeva con potenza e solidità, sembrava nascere dal fondo stesso del vaso, la camelia brillava come un rubino. Un’opera grande, che stando ben dritto arrivava quasi al suo naso. Non doveva essere stato facile lavorarla, né tagliare l’eccesso, ma aveva un equilibrio generale che lui non era mai riuscito a sentire negli abbozzi di lavori che aveva fatto.

…e che non faceva da troppo tempo, ormai.

Guardando quello che aveva davanti sentì la mancanza dare una bastonata al fianco, qualcosa di doloroso, e poi fargli accelerare i battiti nel petto per il desiderio di volerlo fare: scegliere dei fiori, lavorarci, prendere dei rami. Anche gli scarti, dalle forme bellissime – perché ciò che veniva dalla perfezione non poteva essere meno bello – e i colori intensi come le foglie della camelia.

Shuzo si passò la mano sul viso e sulle labbra, gli prudeva nei palmi e sentiva la smania risalire lungo la schiena come ai tossici in astinenza che hanno la dose a un ago di distanza. Si guardò attorno e prese uno sgabello, avvicinandolo alla scrivania, ma senza l’arroganza di sedersi dalla parte del maestro. La sensazione tattile con i rami, però, non gli tolse il fiato, perché aveva ripreso a lavorarci da mesi al florocafè, la familiarità era tornata subito, ma li rigirò tra le mani, facendo scorrere i polpastrelli lungo le rugosità del legno, poco alla volta, come si toccava un corpo amato: lo stesso rispetto, la stessa sacralità e quella lentezza che ti faceva imparare che sensazione desse, come poterla ricordare e riconoscere la prossima volta, perché una pianta non si conosceva solo dalle foglie o dai fiori, ma anche dal legno. La corteccia di un tronco era importante quanto tutto il resto.

E Shuzo si trovò a rigirare quel ramo di tsuga che era stato reciso dal principale, era stato leggermente piegato sulla punta e questo significava che solo in seguito era stato reputato superfluo. Lo piegò un po’ verso il centro, con il pollice vi fece pressione cercando di accompagnare la curvatura del legno per imprimerne una che imitasse il tronco principale. L’imitazione della perfezione, ma fatta con gli scarti, perché anche ciò che era piccolo e all’apparenza insignificante poteva avere potenziali significati. Lui con i lavori contenuti si trovava più a suo agio, riusciva a tenerli sotto controllo, quasi avesse paura che potessero scappargli di mano e l’essenza di ciò che stava cercando o tentando di intrappolare potesse sfuggire allo stesso modo. Perché ognuno nell’ikebana riversava qualcosa di diverso: chi la rappresentazione dell’ordine naturale, chi il rapporto uomo/natura, chi lo scorrere del tempo. Per lui era un’eterna ricerca del sé; aveva capito che la risposta alla domanda ‘Chi sei?’ era destinata a variare costantemente. Non si era mai qualcosa di definitivo e la mobilità era la sua arte, la rappresentazione del mutamento intrappolato nell’unico istante e poi già diverso quello successivo. Questo era l’ikebana per lui: un’istantanea di sé stesso e dei suoi sentimenti.

Nel tempo che formulava tali pensieri, le mani lavorarono in autonomia, dando forma a una versione miniaturizzata dell’opera che aveva davanti. Una tazza più larga di una yunomi normale e più bassa, quasi tozza, era stata scelta come vaso e non potendo contenere un kenzan, aveva creato dei fermi con dei rametti di legno, sfruttando la tecnica usuale per lo stile Nageire. Arrangiarsi come si poteva e con cosa si aveva a disposizione non l’aveva mai preoccupato nella vita, era un’abitudine. Riuscì a tenere fermo il ramo principale e gliene accostò uno più piccolo e corto che rappresentava la Terra. L’Uomo, invece, era un bocciolo che stava appena iniziando ad aprirsi e il rosso dei petali della camelia faceva capolino con timidezza, accompagnato da due foglie verde brillante.

Quando fu certo che tutto si sarebbe mantenuto in equilibrio, Shuzo allontanò le mani piano piano e poi le intrecciò davanti alla creazione. Si fermò a guardarla, sollevando di tanto in tanto gli occhi sull’opera grande e maestosa. Inclinò il capo, si sollevò sullo sgabello per osservare la propria dall’alto.

Così simili, i due lavori, e allo stesso tempo così diversi nell’interpretazione che recavano, nel messaggio, e anche se la propria opera era chiaramente più raffazzonata, Shuzo fece affiorare comunque un sorriso perché non poteva negare il benessere che gli si era allargato nel petto, come una macchia d’olio: piccola come una goccia, all’inizio, ma che riusciva a divorarti in un solo boccone.

«Lo sapevo.»

Questa volta, Shuzo non riuscì a contenere i gesti e fece un salto che lo portò almeno a tre passi di distanza dallo sgabello.

Sulla porta – dove doveva essere rimasta per tutto il tempo, forse; lui comunque non si era accorto di nulla – c’era di nuovo la maestra che lo aveva scortato all’interno della scuola.

«Obaa-san, che cazzo di modi!» Malerba portò una mano al petto e riprese fiato, sbuffando un paio di volte.

«Vacci piano, giovanotto. Non sono così vecchia e non sono mica tua nonna!»

Shuzo fece per replicare, ma un improvviso déjà-vu gli fece sostituire al viso tondo uno sottile e lungo, però le altezze erano troppo diverse e lui scrollò il capo, pensando di essersi sbagliato.

La maestra, intanto, si era avvicinata per guardare meglio la tazza e ciò che vi emergeva. Annuiva con convinzione, sulle labbra si formarono delle grinze che accompagnarono il sorriso.

Lui si strinse nelle spalle e nascose le mani nelle tasche.

«Stavo aspettando e facevo passare il tempo.»

«E tu passi il tempo in questo modo?» ironizzò la donna, girando attorno alla scrivania, dal lato dell’insegnante. «Una bella contrapposizione, tra noi. Tu tanto grosso con una composizione così piccina, e io tanto piccina…»

«È sua?!» Shuzo strabuzzò gli occhi, indicando la grande opera in stile Seika.

La maestra sollevò il mento rendendo ancora più tonda la prospettiva del viso. «Credi sia così deboluccia solo perché ho una certa età? Queste braccia hanno sollevato pesi che neppure immagini.» Si tirò su la manica del kimono mettendo in mostra un muscolo di pelle cadente e sottile.

Lui soffocò una risata.

«Non essere indisponente!»

«Scusi, mi scusi.»

«La tua tecnica fa acqua da tutte le parti.»

«Non ho mai preso lezioni serie, né ho seguito un corso. Altrimenti perché sarei qui?»

«Ma hai qualcosa di familiare nel lavorare gli elementi…» La maestra strinse gli occhi, avvicinando il viso alla piccola riproduzione. «Ti ho visto, prima.»

«Non si spia.» Shuzo era un po’ sulla difensiva come sempre gli capitava quando qualcuno si metteva nella posizione di giudicarlo. Poi però rilassò le spalle. «Come fa a piegarli così tanto e in questo modo?»

«I rami, dici?»

Shuzo annuì, quelle onde avevano fatto centro al primo sguardo.

«Mai sentito parlare della tecnica kusabi-dame

«La vecchia che mi insegnato le due cose che so fare ne ha parlato qualche volta.» Ma lui non gliel’aveva mai visto fare.

«La ‘vecchia’?!» La maestra rise, lui si passò una mano tra i capelli con una punta di imbarazzo.

«Be’, giovane non era.»

«Ma era una grande artista.»

Una terza voce s’intromise nella discussione.

Shuzo vide il direttore Mizuno avanzare con sicurezza e un ampio sorriso. Il volto era scavato come lo ricordava, così come la sua figura segaligna; solo i capelli si erano ingrigiti di più dall’ultima volta.

«È esattamente come me ne avevi parlato, Yoshi. L’ho capito non appena l’ho visto.» La sensei guardò il direttore di sottecchi, e poi lui, sempre con quell’accenno di sorriso furbo che le riempiva di grinze gli angoli della bocca. «Simili giovanotti non si iscrivono mai per caso a un corso di ikebana.»

«Non potevo farmi scappare tutto questo potenziale, Saito-san. Te l’avevo detto.»

«Saito?!» fece eco Malerba guardando l’anziana maestra con occhi sgranati. La sensazione di déjà-vu trovò la certezza cui non aveva voluto credere, sulle prime, a causa delle troppe differenze con la vecchia dei suoi ricordi.

«Sono Saito Emiko. Saito Hanako era mia sorella maggiore.» Si presentò la sensei con un cenno del capo, poi incrociò le braccia al petto e inarcò un sopracciglio. «E ora spiegami come sei riuscito a sopportare quell’arpia!»

«Emiko-san!»

«No no, Yoshi. Era un’arpia! Di quelle grosse! Non difenderla sempre solo perché era brava. Lo so anch’io che era brava! Ma ciò non toglie che fosse acida come il tofu andato a male!»

Sensei Saito gonfiò le guance e a Shuzo venne in mente un criceto che si era appena infilato in bocca semi e noccioline. «Lei mi sembra sullo stesso filone, come acidità, ma magari mi sbaglio.»

«Cosa?!» L’insegnante tirò indietro il mento, aggrottando le sopracciglia in una smorfia piccata. Guardò Mizuno. «Solo uno con lingua tanto lunga poteva reggere mia sorella! Mi piace!»

Alla fine, la vecchietta gli rivolse un ampio sorriso che lo fece sentire a suo agio. Quell’ambiente, d’un tratto, non gli risultò troppo sconosciuto e la sensazione di un filo che non si era mai reciso tornò a tendersi e a far cadere la polvere accumulata nel tempo.

Shuzo rilassò le spalle, non si sentì tra estranei e un vecchio discorso stava per essere ripreso, quasi con gli stessi interlocutori.

«E scommetto ti piacerà ancora di più nei prossimi mesi, ma ora ti lasciamo al tuo lavoro. Io e il giovane signor Mori dobbiamo espletare le formalità dell’iscrizione. Vogliamo andare?» Mizuno accennò in direzione della porta.

Malerba e Saito-sensei – questa volta si sarebbe comportato per bene, a partire dall’onorifico giusto – si scambiarono un breve inchino di saluto, prima di prendere ognuno la propria strada. Ma solo per adesso. In quell’aula, tra la perfezione e gli scarti, Shuzo era certo che sarebbe riuscito a porre tutte le domande cui ancora non aveva pensato e a ottenere tutte le risposte che non aveva ancora trovato.

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …e il percorso serio, da ikebanista, comincia da qui: nella scuola Kadoenshu (una branca della Scuola Enshu di Ikebana), con la sorella della sua prima maestra :3 Quando si dice il destino…

Shuzo finalmente torna a creare, questa volta nella maniera giusta, affinando l’istinto e imparando le regole come non ha mai fatto con la vecchia insegnante. :3

Noi sappiamo già che alla fine di ‘Malerba’ lo ritroveremo insegnante a sua volta – un sensei! ** – quindi il percorso è andato a buon fine, e anche di più! :D


E con 'Jikan' ci ritroveremo lunedì 6, puntuale! Sarà la vostra calzina della Befana! XD
Ma credete forse che il 1° Gennaio vi lasci a secco? *sogghigna* In questi ultimi anni, vi ho sempre lasciato qualcosa per festeggiare il primo dell'anno, e quindi, quasi come da tradizione - visto che finisce che li aggiorno sempre durante le feste XD - ecco che arriverà una nuova shot della serie Soulmate! *_*

Arrivederci al 2020!!! *_________* <3 Buona Fine e Buon Principio a tutti voi!!! <3

 

 

   
 
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