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Autore: _Lightning_    03/01/2020    4 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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Coraggio
I


 
"Dancing with the missing
They’re dancing with the dead
They dance with the invisible ones
Their anguish is unsaid
They’re dancing with their fathers
They’re dancing with their sons
Dancing with their husbands
They dance alone"


[They Dance Alone (Cueca Solo) – Sting]
 


Febbraio 2019, Complesso dei Vendicatori

L’unico completo elegante che si è portato dietro gli va largo.

Emette uno sbuffo spazientito e prolungato di fronte allo specchio, scrollando per l’ennesima volta le spalle che non riescono assolutamente a riempire quelle della giacca antracite con cui sta combattendo da un quarto d’ora. Coi pantaloni non va meglio, ed è stato a un passo dal dover aggiungere un buco di fortuna alla cintura per evitare che gli scendano troppo in vita. Ha rimesso su un po’ di peso, ma arriva appena ai sessanta e lui non è mai stato un fuscello, col risultato che il completo Tom Ford su misura è adesso molto fuori misura. Si tasta le costole sotto la camicia, le clavicole sporgenti, i fianchi troppo stretti e angolosi, e non c’è modo di coprire quegli spigoli, di mostrarsi nei panni del Tony Stark impettito che il mondo ricorda. I suoi occhi infossati nel volto smunto lo fissano dallo specchio, scoraggiati.

«Cristo,» impreca, sistemandosi di nuovo la fibbia della cintura che gli arriccia l’orlo dei pantaloni.

È tentato dal lasciar perdere tutta quella farsa, di buttarsi a letto solo per rimanere insonne, divorato dalla sua inettitudine. Sta andando avanti solo a orgoglio e sensi di colpa, pur di non rimangiarsi la parola già data e non sfigurare. Afferra la cravatta dall’armadio in un gesto automatico, per poi congelarsi nel gesto di farla passare sotto al colletto. È una frana a fare il nodo, una vera frana. E adesso non ha nessuno ad aggiustarglielo, che lo rimbrotti per non aver mai imparato a farlo decentemente. La realizzazione gli appanna la vista a tradimento. Prende un lento respiro che quasi gli buca i polmoni e torce quella striscia di tessuto nero satinato cercando di non far tremare le dita. Fa un nodo semplice, troppo piccolo e storto, tenendo le labbra tirate. Se le morde, piantando a fondo i denti e inviandosi una stilettata di dolore. Non scoppierà in lacrime per una cazzo di cravatta.

Si fissa un’ultima volta nello specchio, si passa un palmo sul pizzetto rasato di fresco – maledizione, da dove spunta tutto quel grigio? – e si rassetta i capelli di nuovo presentabili con una presa di gel appena accennata sul davanti, abbozzando solo una copia stinta e malriuscita di se stesso. Un fantasma in ghingheri, una sorta di allampanato Jack Skellington fuori stagione. 

Sospira tra i denti ed esce dalla stanza innervosito, con una viva tensione allo stomaco e la tentazione perenne di scolarsi un goccio che si acuisce. Spera che non ci sia alcol, là. Spera davvero che non ci sia, o potrebbe mandare a puttane quasi dieci giorni di sobrietà più o meno totale in un batter d’occhi. È un qualcosa che gli riesce molto bene: rovinare tutto nel minor tempo possibile. Si getta addosso il cappotto pesante e in quel mentre coglie il rombo di un motore all’esterno; si affretta a uscire con gli alamari ancora mezzo slacciati, senza guanti e rischiando di rompersi l’osso del collo sulla patina di ghiaccio infido che lo accoglie appena oltre la porta.

I fari della vecchia Ford di Rogers lo accecano, e vede che sta solo scaldando il motore mentre Natasha e Rhodey sbrinano il parabrezza. Tony finisce di allacciarsi il cappotto e solleva il bavero contro l’aria pungente e tempestata di fiocchi di neve, prima di accostarsi a loro fingendo disinvoltura, come se la sua presenza fosse scontata. I due si girano nel sentire i suoi passi, e Rogers lo scruta perplesso da oltre il vetro, gli occhi chiari adombrati dalla piega delle sopracciglia.

«Tony,» lo saluta titubante Rhodey, con un moto che non nasconde la sua sorpresa. «Vieni anche tu?» chiede, e gli sembra di cogliere un invito implicito a rimanere lì, in quella domanda.

Schiocca la lingua senza nascondere la sua contrarietà, scoccandogli un’occhiata risentita.

«L’avevo detto, no?» pronuncia solo, con le parole mozzate dal freddo che gli ha già congelato le guance.

Natasha non commenta e finisce di sbrinare rapidamente la propria metà di parabrezza, rivolgendogli a malapena un’occhiata sbieca. Se è sorpresa, è brava a nasconderlo, ma lui sa benissimo che non si aspettava di vederlo qui. La situazione sembra cadere in stallo, tra Rhodey che lo fissa incerto, Natasha che lo ignora mentre ripone il raschietto nel portaoggetti, e Steve che sembra non averlo mai visto in vita sua, con quegli occhi sbarrati da cervo in autostrada. Tony rilascia un sospiro spazientito.

«Se siete al completo prendo la mia,» conclude, facendo già per avviarsi verso l’Audi bianca, nonostante sia chiaro che ci sia almeno un sedile ancora libero nella loro. «Ci metterò comunque meno di questo catorcio,» aggiunge, assestando un calcetto alla ruota anteriore della Ford Focus e parlando a voce più alta così che anche Rogers lo senta.

«C’è posto,» lo ferma Rhodey, in fretta, quasi a tappare la falla all’ultimo momento.

«Ma non mi dire,» replica lui, sardonico, ma inverte comunque la rotta e s’infila sul sedile posteriore sbattendo la portiera. «Tienila su di giri e vediamo di non arrivare tardi, nonnetto,» apostrofa Rogers a mo’ di saluto, incrociando strettamente le braccia al petto e imbozzolandosi nel cappotto cercando di recuperare sensibilità nelle dita già intirizzite.

L'altro fa un sospiro silenzioso e si limita a lanciargli un’occhiata accigliata dallo specchietto retrovisore, mentre Rhodey si siede sul sedile del passeggero e Natasha si lascia scivolare accanto a lui. C’è un coro di cinture di sicurezza che scattano, e Rogers lo guarda fisso dallo specchietto finché anche lui non se la allaccia, non mancando di alzare eloquentemente gli occhi al cielo. Partono slittando appena, e poi il buio puntinato di bianco e fari sporadici oscura i finestrini.

Rogers accende la radio a smorzare il silenzio, Rhodey finge di non stare cercando di guardarlo di sfuggita dallo specchietto esterno e Natasha si chiude nel suo angolo di sedile, ancora muta. Tony li ignora. Si sta decisamente pentendo di essersi messo in trappola da solo e, Cristo, vuole un sorso di whisky, di rum, di gin, di una qualunque bevanda che gli scaldi le viscere e gli ottenebri il cervello. Coraggio liquido, un cordiale d’emergenza prima di gettarsi sul campo di battaglia, perché ci sono ottime probabilità di non tornare tutto intero.

May lo farà a pezzi. Lui si farà a pezzi. Potendo, il mondo intero lo farebbe a pezzi.

Risucchia un respiro, cercando di ricordarsi che lui è – o almeno era – Iron Man e che quella è solo una festa di beneficenza. Una festa funebre, in pratica, visto che la totalità dei partecipanti è in lutto per colpa sua. Fissa i fiocchi bianchi che turbinano oltre il vetro. Cenere, cenere, cenere.

Si stringe le tempie in una morsa e smette di pensare, come se potesse davvero farlo a comando, strizzarsi i pensieri fino ad annullarli. Passano venti minuti, e gli sembrano sette ore. Quando finalmente entrano nell’area urbana di New York, Natasha inclina di lato il busto, sporgendosi dalla propria metà di sedile per accostarsi a lui.

«Ne hai fatta una questione di principio,» commenta a mezza voce, mentre gli altri due parlano tra loro del più e del meno, col chiacchiericcio monotono della radio in sottofondo.

«Sì, ma non per il motivo che pensi tu,» ammette Tony, inclinando appena la testa di lato per non dover parlare troppo forte, sempre senza guardarla. «A voi non devo dimostrare nulla,» aggiunge, aggrottando appena le sopracciglia e tirando un angolo della bocca.

È una questione con se stesso, in un certo senso, ma pensa che lei possa intuirlo da sé. Si sistema intentamente il bavero del cappotto, cercando di tenere occupate le mani e di scrutare al contempo di sottecchi Natasha, che ancora non si è ritirata. Lei non commenta, ma gli stringe senza preavviso il polso, quello marchiato, in un gesto che non sa bene come interpretare. Incoraggiamento, forse, oppure approvazione; magari anche una sorta di monito a non strafare con le decisioni coraggiose. O il suo nuovo standard di coraggioso, che si è drasticamente ridimensionato dai tempi in cui si tuffava in portali alieni a testa bassa. Immette un respiro stentato nei polmoni e serra rapido la mano libera sopra la sua, attirando il suo sguardo interrogativo.

«Sarà un casino,» le mormora tra i denti, e potendo salterebbe giù dall’auto in corsa.

«Molto probabile,» conferma tranquilla Natasha, affatto rassicurante. «Soprattutto se parti così,» aggiunge, cercando il suo sguardo, e lui le concede un fugace contatto visivo.

«Così come? Realista?»

«Nevrotico.»

«Dammi un goccetto e mi converto al buddhismo,» la provoca, detestando lasciar trasparire il proprio disagio fisico anche solo sotto forma di battuta.

La presa di Natasha sul suo polso si fa più salda, e di riflesso anche la propria. Non saprebbe dire chi si sta àncorando all’altro.

«Dopo,» risponde poi, appena udibile, e deve praticamente leggerle il labiale per capirla.

«Dopo,» ripete Tony, umettandosi le labbra e prendendo un altro respiro tentando di essere il più silenzioso possibile, anche se Rogers e Rhodey non prestano loro attenzione. «No, meglio di no,» si costringe a correggersi poi, stringendo gli occhi come se quel rifiuto gli infliggesse un tangibile pugno nello stomaco. «Ma se alla fine di questo cazzo di evento sono ancora vivo, mi devi almeno un'ora sul ring per compensare,» aggiunge, cercando di tornare a battere una strada scherzosa che contrasti il suo bruciante bisogno d’alcol.

Non ci arriverà, a fine serata. Si sente già consumare, scaldare dall’interno in un’emulazione illusoria del calore liquido che cerca. Gli tremano le dita, e sa che Natasha lo percepisce. La sente sospirare appena, mentre scioglie la stretta attorno al suo polso passandogli poi un pollice sulle nocche escoriate in modo esplicativo, suscitandogli un lieve pizzicore a fior di pelle.

«Di questo passo, dovrai inventare delle mani di riserva,» commenta, con una punta di severità ben marcata.

«O magari dovrei darmi al balletto,» ribatte lui, voltandosi infine a fissarla con l’espressione più seria che gli riesce, un sopracciglio lievemente inarcato.

Natasha lo fissa per un istante, ed è chiaro che un’istantanea della scena gli attraversi la testa, perché trattiene a forza un verso divertito; Tony sbuffa sonoramente cercando di contenersi a sua volta, il dorso della mano a celare la bocca. Steve e Rhodey interrompono i loro discorsi, attratti dai loro versi inconsulti, e lanciano loro uno sguardo comprensibilmente perplesso.

«Se vuoi ti rimedio un tutù,» lo punzecchia sottovoce lei, e sta sorridendo sotto i baffi.

«Scordatelo, Romanov,» ribatte lui, soffocando a sua volta un risolino.
 
§

 
Febbraio 2019, New York City

New York è spenta, una lampadina bruciata in uno sgabuzzino buio.

Tony la osserva scorrere oltre il finestrino e si sente fuori posto, sente un benvenuto mancato che lo sfiora. Cerca un abbraccio festoso di luci, di torri che sfidano la legge di gravità, di frenetico via vai e vociare concitato sulle note di clacson e stridii di freni, ma trova solo penombra e silenzio, i grattacieli solo dita rigide e immote di giganti caduti.

Ha odiato New York più di quanto l’abbia mai amata: il suo sguardo veniva sempre catturato con troppa insistenza dal cielo, aspettandosi di vedere occhi interstellari a fissarlo maligni. Ma è stata casa, in un certo senso, in un tempo in cui vedeva ancora il mondo come una distesa di possibilità per decollare. Una casa un po’ disordinata, con qualche difetto strutturale e qualche mobile brutto e troppo vecchio, ma comunque casa, un luogo vissuto che reca un sentore stinto di focolare domestico. Ora si sente un estraneo in casa propria.

Vede Times Square vuota e con gli schermi oscurati, qualche neon che lampeggia fievole e senza vigore. Vede l’ex-Avengers Tower che svetta solitaria, buia e abbandonata, con la gigantesca A simile a una pallina di Natale rotta e fuori stagione. Central Park è una selva oscura che costeggiano come fosse il limitare di una foresta proibita, densa di spettri; la vegetazione incolta si fa strada oltre i propri confini, rivendicando il cemento un centimetro alla volta. Le poche macchine viaggiano senza fretta come a preservare un’illusione di traffico perenne; i passanti sembrano seguire l’uno i passi dell’altro su percorsi rigidi e prefissati, quasi temendo di perdersi per quelle strade troppo regolari.

Tony affonda il mento nella giacca e riporta lo sguardo davanti a sé, usando il bavero rialzato come paraocchi di fortuna. Si sente il petto indolenzito come dopo un incidente stradale, e incassa la testa tra le spalle cercando di sciogliere le contratture. La mano di Natasha non ha mai lasciato il suo polso, la sua stretta si è fatta solo un po’ più salda da quando sono entrati in città. Il silenzio impregna l’abitacolo in un cordoglio comune. Scruta Steve dallo specchietto e vede le sue sopracciglia arricciate, gli occhi duri come schegge di ghiaccio conficcate nel suo volto teso; stringe il volante con le nocche sbiancate e forse rischia di deformarlo. È anche la sua città, è anche la sua casa, l’unica che abbia mai avuto. Vede il simbolo d’America sgretolarsi con ogni giro di ruota dell’auto.

Tony stringe la stoffa del cappotto e la mano di Natasha; socchiude gli occhi trattenendo un respiro troppo profondo. Ogni singola parte di lui lo sta facendo pentire di essere venuto qui.

 
§

 
 
Febbraio 2019, Chelsea Terminal Warehouse, Manhattan [1]

A dispetto di tutto, si concede una stilla d’orgoglio per se stesso quando riesce a calmare l’iperventilazione, uscire dalla toilette e reinserirsi senza trambusto nel cuore dell’evento, sempre con la segreta quanto vana speranza di non essere riconosciuto.

Ha seminato Rhodey e gli altri senza troppe difficoltà, ed è abbastanza convinto che siano stati loro la causa del suo quasi-attacco di panico. È in grado di gestirsi, maledizione: l’ha fatto per anni, dopo i mesi durante i quali ogni passo pareva condurlo nelle fauci di un portale alieno. È sopravvissuto – e sempre siano lodate le lezioni di meditazione di Bruce. Può resistere qualche ora incastrato a un evento di beneficenza senza una schiera di baby-sitter alle costole che lo rendono solo più nervoso di quanto già non sia.

Si guarda attorno, esaminando in poche occhiate l’ambiente in cui si svolge l’evento, di cui aveva colto solo un’istantanea sfocata durante la sua ritirata strategica in bagno. Sono in una delle tante, ampie sale un tempo destinate allo stoccaggio delle merci, poi a raffinate esposizioni d’arte, ora usata come rifugio per coloro che vi si sono riuniti in massa quando le loro case sono diventate troppo vuote. Adesso lo spazio dagli alti soffitti e dai parquet lucidi, illuminato un po’ malamente, è occupato da una moltitudine di bancarelle, banchetti e stand variopinti dedicati alle varie associazioni di beneficenza, alcune storiche, innumerevoli altre nate dalle ceneri della Decimazione. Quella del FEAST è una delle più affollate, ma se ne tiene a debita distanza.

Coglie qualche sguardo incuriosito o sorpreso che lo pungola con malcelata insistenza, e imposta subito la sua facciata un po’ sbiadita da miliardario filantropo, con un misurato sfoggio di spigliatezza che gli tende gli angoli delle labbra. Si sente un serpente dopo una muta che cerca di rientrare nella propria vecchia pelle, e vista la scomodità dei suoi vestiti non è nemmeno un’immagine troppo lontana dalla realtà.

Dopo aver passato venti minuti agonizzanti a tentare di riempire le spalle ampie che spiovono in modo fin troppo vistoso, si toglie la giacca con un moto frustrato abbandonandola al guardaroba, per poi rimanere in maniche di camicia mandando al diavolo il dress code, con tanto di cravatta mal annodata. Era comunque troppo elegante, per una festa di beneficenza in un mondo post-apocalittico. Torna ad aggirarsi tra i partecipanti all’evento sentendosi un fantasma visibile in pieno giorno che la gente scruta con un misto di diffidenza, perplessità e meraviglia. Non sa esattamente cosa debba fare, né se qualcuno si aspetta che faccia qualcosa. Non c’è più niente da salvare, ormai, e forse sono tutti soltanto fantasmi che si trovano ad infestare luoghi un tempo vissuti.

Si ferma meditabondo di fronte a una bancarella di un’associazione che si occupa di collocamento lavorativo, per quelle aziende e le industrie fallite per mancanza di personale o la scomparsa dei dirigenti. Deglutisce a disagio. Non ha idea dello stato in cui versino le Industries: non è andato in bancarotta, dal poco che gli ha comunicato Rhodey, ma non sa se può ancora permettersi di elargire donazioni a destra e a manca. Forse sarebbe meglio astenersi, almeno per il momento. Sondare le acque, muoversi sul fondale basso per capire se il decaduto Tony Stark può ancora effettivamente fare qualcosa per questo mondo dopo averlo lasciato sfumare.

È inevitabile che alla fine si ritrovi a gravitare attorno allo stand del FEAST. Scorge Rhodey e Rogers intenti a parlare con un paio di uomini ben vestiti, che crede di riconoscere da qualche summit aziendale di un decennio fa. Natasha è invece occupata... con May, realizza, col cuore che cade a picco nello stomaco e quest’ultimo che gli si chiude attorno a riccio con tanto di aculei pungenti. Sta per girare i tacchi, quando May alza lo sguardo distrattamente e lo vede, senz’ombra di dubbio. Lui si sente pietrificare sul posto come se avesse guardato negli occhi una Gorgone, e sa di aver sbarrato i propri e di avere un aspetto tutt’altro che presentabile.

May si congeda da Natasha, la quale gli scocca un’occhiata che sembra quasi apprensiva, poi si dirige inequivocabilmente verso di lui, a passi decisi ma con sguardo incerto, forse impensierito. Tony ordina ai propri piedi di muoversi, così da non rimanere lì impalato, e accorcia la distanza di un paio di passi prima che lo raggiunga, svicolando però dal suo sguardo. Le rughe sul suo volto sono aumentate e c’è una nuova ciocca grigia tra i suoi capelli, più corti di quanto ricordasse. Gli occhi dietro la montatura metallica sono ancora gli stessi, anche se piagati da una sofferenza che conosce bene e al contempo non conosce affatto; ma conservano una traccia di calore ambrato, un’onda tiepida che non si aspettava di trovare nel guardare lui.

«May,» riesce a cavarsi fuori a mo’ di saluto, con un filo di voce sfibrato.

«Ciao, Tony,» replica lei quasi in un sospiro, e la sua espressione sembra oscillare incerta tra mille sfaccettature. «Non mi aspettavo di vederti qui,» si ricompone poi, e incrocia le braccia sotto al seno, le labbra tirate in quello che sembra un tenue sorriso o forse solo una smorfia melanconica.

Tony storce appena la bocca e si passa una mano nervosa sul pizzetto, con lo sguardo che sfarfalla tra i suoi occhi, la gente attorno a loro e i propri piedi. Nota che May indossa jeans, maglietta e giacca neri e si chiede se sia una scelta studiata. O se ormai faccia semplicemente parte della sua routine quotidiana. Tentenna, scrutando la sua reazione, che finora non è affatto quella che si era aspettato. Niente freddi benvenuti, niente accuse taglienti, niente sguardi di rancoroso rimprovero. Solo un quieto dolore e una perplessità latente, oltre che una punta di durezza nel modo in cui lo scruta da capo a piedi, così conciato. May non ha perso la caratteristica di farlo sentire un bambinetto discolo colto in flagrante sul luogo di una marachella, e gli viene spontaneo raddrizzare un poco le spalle quasi potesse arrivargli un rimprovero per la sua postura insolitamente cadente.

«È stata una decisione dell’ultimo minuto,» replica infine, con un’occhiata laterale agli altri, conscio che li stanno osservando; incrocia gli occhi acuti di Rhodey e si acciglia, intimandogli in silenzio di non interferire. «Mi piace ancora improvvisare, anche se non sono sicuro di essere una... sorpresa gradita,» si lascia sfuggire, trattenendosi la punta della lingua tra i denti l’istante dopo.

«Mi chiedevo che fine avessi fatto, invece,» ribatte lei, senza dare adito a quell’occasione per attaccarlo servita su un piatto d’argento. «Happy non è molto loquace, e mantiene uno stretto segreto professionale su tutto ciò che ti riguarda,» continua, con una traccia di leggerezza inaspettata.

«Uh... abbiamo allentato i contatti, diciamo,» si schiarisce la voce lui, stringendosi le maniche arrotolate della camicia, ed è titubante a rivelare quanto sia stato davvero vicino a toccare il fondo. «Ho un talento naturale per farmi terra bruciata attorno,» conclude, precipitoso e un po’ spavaldo, quasi fosse una cosa di cui vantarsi.

May lo fissa per un secondo interminabile e sembra incline a chiedergli altro, per poi alzare appena le spalle e fare un cenno del capo verso uno dei corridoi che sbucano nella sala principale.

«Vieni, parliamo in un posto più tranquillo; ti offro qualcosa da bere al...»

«No, no, grazie,» la frena preventivamente Tony, sentendo una trazione prepotente allo stomaco al solo pensiero. «Sto... sto smettendo,» aggiunge poi, evitando i suoi occhi perplessi, a conferma che i propri compagni non sono stati così bastardi da sbandierare le proprie condizioni ai quattro venti. «O almeno ci provo. E ci sto provando piuttosto bene, finora,» continua, scegliendo di ignorare il fuoco bruciante che lo scotta al centro del ventre.

May ha un moto di evidente sorpresa, tira le labbra, poi il suo volto si addolcisce di nuovo con altrettanta rapidità.

«Posso offrirti uno spritz analcolico o è off-limits anche quello?» si corregge quindi, sospingendolo con gentilezza attraverso la sala senza aspettare risposta.

Tony trattiene un sorriso nervoso, affatto sintomo di allegria, e accetta con un cenno del capo impuntandosi però per offrire lui – ci mancherebbe. Si dirigono verso la zona ristoro, dove troneggia il bancone lucido di un bar; lui tiene lo sguardo basso per escludere dalla visuale la successione multicolore di liquori davanti a sé, e May ordina i due spritz, entrambi analcolici. Tony apprezza silenziosamente quella forma di tatto non dovuta e prende un sorso del suo, a tenere impegnata la bocca. È May a parlare per prima, e lo fa nel modo più semplice che esista:

«Come stai?»

Tony quasi strabuzza gli occhi all’assurdità di quella domanda.

«Dovrei chiedertelo io, piuttosto,» ribatte, con gli occhi affondati tra i cubetti di ghiaccio.

May scuote il capo e la sua espressione si tende un poco, facendosi più severa, ma ancora in qualche modo materna.

«Sto come sta il resto del mondo. E tu sembri stare peggio,» conclude arguta. «Sei dimagrito molto,» dice poi, sempre col tono di una madre contrariata, e quasi si aspetta che gli pizzichi le guance emaciate per constatarlo con mano.

Non la contraddice e prende un altro sorso del suo drink troppo dolce, praticamente un succo di frutta. Si strappa gli occhi dalla parete di alcolici dietro il bancone e si sente davanti all’albero di mele dell’Eden nei panni di Eva. Sospira a sguardo basso.

«Quasi quindici chili,» risponde infine, mezzo poggiato contro il bancone. «Colpa della dieta spaziale. E poi sono un disastro a cucinare: credo che lasciarmi da solo ai fornelli leda qualche diritto umano fondamentale, compresi i miei,» tenta di scherzare, con un sorrisetto spento. «Non è un bell’incentivo a mangiare normalmente,» conclude schiarendosi la voce e dicendo tutto e niente.

May scuote appena la testa affatto convinta, e gli passa una mano sulla schiena soffermandosi sulle sue scapole ben distinguibili sotto la stoffa della camicia.

«Riguardati, Tony,» gli dice, con una premura inaspettata e che di sicuro non si merita, soprattutto non da parte sua. «Non ha senso lasciarsi andare adesso.»

Tony si irrigidisce e si sente più confuso che mai; vorrebbe quasi che se la prendesse di nuovo con lui, che gli urlasse contro, che lo tempestasse di colpi e insulti come quando l’ha incontrata di ritorno da Titano. La ferita tira gelida sul fianco, e sente ancora le sue braccia esili che lo stritolano mentre gli scoppia in lacrime addosso, singhiozzando così forte da fargli credere di sentirla andare in pezzi. Sente ancora i lividi sulle spalle, nello stesso punto in cui l’aveva stretto anche Peter.

«Credevo che mi odiassi,» esterna infine, con la mascella contratta quasi si preparasse ad attutire un colpo in pieno viso, o ad accoglierlo. «Non ti darei torto: faresti parte della ragionevole maggioranza della popolazione mondiale... o di ciò che ne è rimasto grazie a noi,» sputa fuori d’un fiato, sentendosi inacidire la lingua solo a parlarne.

May sospira profondamente, e rimescola la propria bevanda interponendo tra loro un silenzio che sembra inesauribile.

«Ti ho odiato,» conferma infine, la voce quasi irriconoscibile e scevra di qualunque morbidezza. «Più di quanto volessi, in realtà. Poi ho capito che se avessi odiato te avrei dovuto odiare anche Peter,» sussurra, con quel nome che le scivola tra le labbra quasi lo stesse accarezzando col pensiero. «Hai provato a salvare il mondo, e ci ha provato anche lui. Non posso odiarvi perché avete fallito e non posso odiare chi è sopravvissuto,» conclude, con una fermezza artefatta che non nasconde le lacrime che le sono salite agli occhi. «Soprattutto, non te. Hai fatto tanto per lui. E so che gli volevi bene.»

A Tony si incastrano troppe parole in gola: di accusa verso se stesso, d’elogio per Peter, di scuse vacue per lei e per mezzo universo, di rifiuto per quella sorta di perdono immeritato e di conferma per quell’ultima affermazione che manda una lingua di fuoco a ustionargli il cuore. Non le pronuncia, gli si conficcano spigolose nel palato e sente un sapore ferrigno in bocca, di ferite infette e mai guarite. May non sembra comunque aspettarsi risposta e sorseggia in silenzio il proprio drink, lasciandolo con frasi inespresse che gli si contorcono tra le labbra.

«È bello che stiate partecipando all’evento,» riprende poi con un sorriso un po’ debole, offrendogli una scappatoia. «Alla gente serve vedervi, e siete uno sprone per i finanziatori.»

Tony sbuffa scettico, sganciando seccamente il fardello di pensieri e ricordi che gli appesantisce la mente, sapendo che tornerà inesorabilmente a galla. Probabilmente quella notte.

«Io mi stupisco che nessuno ci abbia ancora aggredito. Dubito che tutti la pensino come te,» ribatte, guardandosi nervoso intorno, e ogni sguardo che incrocia sembra scavargli un solco d’accusa addosso.

Lei si limita a scuotere la testa, come dichiarandolo un caso perso – e lo è, perché negarlo – poi la intravede mentre si passa rapida la punta dell’indice sotto gli occhi improvvisamente umidi.

«Al momento ci sono questioni più urgenti di cui preoccuparsi. Hai sentito della proposta dell’ONU per… per i memoriali collettivi?» sciorina poi d’un fiato, e l’ossigeno attorno a lui si tramuta in acido.

«Uh, no,» replica in fretta, ora a corto d’aria. «No, sono rimasto un po’... isolato,» ammette, con un formicolio sgradevole che gli invade lo stomaco mentre l’immagine di troppi obelischi o qualsivoglia monumento abbiano ideato pianta le fondamenta nel proprio cervello. «Quando l’hanno proposto?»

«Un paio di settimane fa. A quanto pare ci sarà una sorta di referendum globale e ogni Stato deciderà se aderire,» spiega lei concisa, scrollando le spalle. «Dicono che servirà a lenire il dolore di tutti e a offrire un’opportunità di aggregazione a chi è rimasto,» dice poi, quasi recitando una parte scritta, e la sua contrarietà è evidente. «Ma...»

«... ma la verità è che delle tombe singole sarebbero semplicemente troppe da gestire,» deduce Tony, alzando mestamente le sopracciglia e stringendo il bicchiere con più forza.

Se le immagina, tre miliardi e mezzo di tombe, di urne, di lapidi che costellano il mondo, e la sua parte cinica e pragmatica trova un senso a quella risoluzione. L’altra, quella rimasta da mesi su Titano con la fronte sanguinante premuta tra ceneri e sabbia, lancia un singhiozzo straziato che si sforza di non tramutare in realtà.

«Dovrebbe riposare accanto a Ben e ai suoi genitori, non in mezzo a degli sconosciuti,» afferma d’impeto May, spezzando i suoi pensieri, e la sua voce si fa tremula.

Tony china il capo e si sente la gola costretta. Ha una breve istantanea di un piccolo, ipotetico memoriale bianco per Pepper sulla scogliera di Malibu e batte le palpebre, deglutendo a vuoto. Nella sua mente rimane spoglio, privo di bouquet o ghirlande, perché non ricorda quale fosse il suo fiore preferito. Forse non l’ha mai saputo. Non sa se lei gliel’abbia detto, e magari è lui a non ricordarlo perché troppo distratto. Portava spesso un profumo al giglio... o era ibisco? Non vuol comunque dire che le piacesse il fiore in sé, no? I suoi pensieri si avvitano su quel concetto futile che adesso sembra assumere proporzioni mastodontiche, sopprimendo qualunque razionalità finché non si lascia strappar via da quegli arzigogoli mentali dalla voce di May:

«Non abbiamo nemmeno dei corpi, e vogliono privarci anche di questo?» continua con più foga, e tira su col naso con rabbia, frugando poi nella borsa alla ricerca di un fazzoletto.

Tony ritorna ancora a Titano e alla cenere frammista alla sabbia rosso sangue. A come il pensiero di raccoglierla, di grattarla via dalle rocce con le unghie rotte e riportarla sulla Terra l’abbia sfiorato, per poi rendersi conto che tutto ciò che rimaneva di Peter era già incollato ai suoi palmi. Serra i pugni e la sente ancora.

«Si merita di più,» concorda, appena udibile, mentre fiori, cenere e sabbia rossa gli vorticano in trasparenza davanti agli occhi, trasportati da un liquido ambrato di cui sente il retrogusto falsamente salvifico in bocca.

Lei annuisce appena, continuando a fissarlo. Sa che vorrebbe chiedergli di più. Non le ha mai raccontato come è successo e dubita che riuscirà mai a farlo, o che lei voglia davvero saperlo. Gliel’ha chiesto tra i singhiozzi, mesi e mesi fa, ma lui è rimasto muto, afono, proprio come con Peter.

“Mi dispiace.

Gli è sparito tra le braccia. Dovrebbe dirglielo. Dovrebbe dirglielo adesso.

«E lo avrà, te lo prometto. Almeno questo posso farlo,» conclude invece, guardandola con occhi tremolanti che si impegna a non far traboccare.

«Glielo devi,» dichiara lei, semplicemente.

Tony accetta quelle parole, prive d’accusa e terrificanti nella loro veridicità. Chiude brevemente gli occhi desiderando con tutto se stesso di scomparire lì, in mezzo a tutta quella gente che finge di andare avanti, finendo solo per danzare a tentoni nel vuoto mentre il mondo si è fermato.




 


Note:

[1] Terminal Warehouse: Ex-magazzino e centro di smistamento merci situato sulle rive dell’Hudson. In tempi moderni è stato davvero adibito a sala mostre, sede di uffici aziendali, centro congressi e quant’altro.

NB. L’ultima frase del testo è ispirata alla canzone dell’intro. They Dance Alone/Ellas danzan solas si riferisce a tutt’altro contesto, ovvero alla tragedia dei desaparecidos in Sud America durante la Guerra Sporca. Lungi da me sminuire o dissacrare questo dramma storico associandolo a contesti immaginari quali quello di Endgame: ho semplicemente trovato un parallelismo calzante tra il testo del brano di Sting e la Decimazione, trattandosi in entrambi i casi di persone scomparse e mai dichiarate ufficialmente morte.


Note dell’Autrice:

Buonsalve!
Inauguriamo questo 2020 con una bella martellata d’angst, come da catalogo <3 Scherzi a parte, questo credo sia uno dei capitoli più ardui da digerire, di qui la scelta di dividerlo in due parti (ed evitarvi un Mammozzone di 27 pagine, che mi sembrava un atto d’umanità dovuto).

Come già accennato, l’intento della storia è anche quello di ampliare e coprire i purtroppo numerosi buchi di trama e imprecisioni che si è lasciato dietro Endgame; tra questi, appunto la rappresentazione di un mondo post-apocalittico, che dall’essere molto credibile nella prima parte di film è finito per risultarlo molto meno successivamente (per non parlare di Far From Home, che sembra ignorare totalmente i trascorsi della Decimazione). Qui ho semplicemente voluto sottolineare quanto una grande metropoli come New York abbia accusato il colpo, e ragionare su come si sia arrivati all’idea di quei memoriali collettivi che vediamo a San Francisco con gli occhi di Scott.

Detto questo, ringrazio tutti coloro che continuano a seguire, leggere, commentare e aggiungere la storia alle loro liste <3 E se volete lasciare un commentino per farmi sapere cosa ne pensate e per uno scambio d’opinioni, sarei più che felice :)
Un grazie speciale alle mie solite quattro Cavaliere (?) dell’Apocalisse (di cui una è Er Cavajjere Nero infiltrato <3): mi avete regalato un anno fantastico e siete praticamente il motivo per cui continuo a scrivere <3
Buon 2020 a tutti voi!

-Light-
   
 
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