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Autore: Melanto    13/01/2020    5 recensioni
[Midquel di 'Malerba']
Gli elementi principali dell'ikebana sono tre, chiamati in modi differenti e sintetizzabili in: Paradiso, Uomo e Terra.
Preso nel mezzo, tra ciò a cui appartiene e la fede da ritrovare, l'Uomo si curva e dibatte alla ricerca di un equilibrio ideale. Ma la ricerca può essere guerra, e se dopo tante sconfitte c'è chi riesce ad assaporare la pace delle prime vittorie, allo stesso modo c'è chi, dopo aver passato una vita intera a dominare, inizia a soccombere sotto il peso delle sconfitte nascoste.
Questa raccolta è fatta di vittorie e disfatte diluite nel Tempo, ma senza dimenticare...
...che non è il tempo a perdersi, siamo noi a perderci nel tempo.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Jikan - #8

Note Iniziali: avevamo lasciato la shot #7 che era Marzo e ora ci troviamo… ad OTTOBRE! :D

Shuzo è fuori di prigione esattamente da un anno e cinque mesi. :3

 

Buona lettura! :D

 

 

 

 

 

 

- #8: Il Paradiso (che ho donato a te) -

 

 

 

«Non è solo la posizione e l’estensione dell’appezzamento – che, come vi ho già detto, è una rarità in queste zone – ma anche la ricchezza del terreno e, be’, la vista.»

Ichinobu, l’agente immobiliare che li stava tenendo a parlare da almeno un’ora e mezza, illustrando fin nel più piccolo dettaglio ogni qualità di quei cinque ettari di terreno, allungò il braccio verso lo spettacolo del Monte Fuji che svettava davanti ai loro occhi, mentre alle loro spalle si apriva l’intera vallata che ospitava Obuchi e Fuji City. Se il tempo era limpido, aveva detto, si poteva intravvedere anche il luccichio del mare.

Shuzo se ne riempì gli occhi fin dove poteva arrivare, stretto nel chiodo di pelle e una pashmina che gli girava attorno alla bocca. Per un attimo si dimenticò anche dei primi, insinuanti freddi autunnali di ottobre tanto era meravigliosa la vista da lassù, ti faceva sentire padrone del mondo – se non pensavi che, rispetto alla dimensione reale del mondo, quello non fosse altro che un semplice fazzoletto per soffiarsi il naso.

«Potreste anche convertire una parte in terreno edificabile», continuò Ichinobu, disegnando volute con la mano. «Lo sviluppo turistico della zona è in aumento e molta gente si sta allontanando sempre di più dalla città e dai suoi rumori. Per non parlare del calore durante l’estate. Anche i turisti stranieri; pare stia incrementando l’interesse per l’offerta gastronomica. La Prefettura di Shizuoka ha una grande varietà di proposte e potrebbe divenire un interessante business. Penso, per esempio, alle coltivazioni dei Maronouchi, verso Fujinomiya.» Con la mano indicò ad ovest. «Le loro distese di tè sono liberamente accessibili ai turisti che possono fermarsi per delle degustazioni.»

Ma Shuzo non era molto interessato all’aspetto pratico della faccenda, quello relativo ai guadagni. Sapeva di essere un pessimo venditore di sé stesso, e su certe cose era fin troppo idealista; a lui era il posto che prima di ogni altra cosa doveva colpirlo, le sue potenzialità produttive e, solo dopo, quelle pecuniarie. Dell’aspetto finanziario, lasciava che fosse Mamoru a interessarsi, perché lui non era ancora entrato nell’ottica pratica dell’essere parte di una società.

Si volse a cercare un qualche segnale nel volto del suo compagno e lo vide con gli occhi pieni di verde selvaggio e potenzialità. Le vedeva tutte, lo elettrizzavano mantenendo disteso il sorriso, ma senza farlo sbocciare del tutto. Avrebbe voluto, ma si stava contenendo.

Se n’era già innamorato.

Shuzo sorrise, infossò le mani nelle tasche. Gli diede una leggera spallata affinché si riscuotesse e prendesse in considerazione il povero agente immobiliare che non sapeva più come decantare le meraviglie.

«È bellissimo e molto versatile.» Mamoru e il suo savoir-faire sempre pronto all’azione presero subito le redini che aveva lasciato andare per qualche minuto. «C’è un margine di trattativa?»

«I proprietari possono arrivare al massimo a quattro milioni di yen, ma non sono disposti a scendere più di così.»

Mamoru annuì severo, prendendo il labbro inferiore tra i denti. Tornò a guardarsi attorno e poi guardò lui, ma della meraviglia di poco prima sembrava aver perduto l’ottimismo.

«Rimane comunque una bella cifra», ammise con rammarico. «Che ne pensi?»

«Possiamo pensarci e fare due conti.»

Mamoru abbozzò e tornò a parlare al signor Ichinobu. «Come ha detto il mio socio, dovremmo fare alcune valutazioni.»

«Ma certo, certo. Prendetevi il tempo di cui avete bisogno, anche se devo comunque avvisarvi che abbiamo ricevuto numerose richieste per vedere il terreno. Però i proprietari hanno un occhio di riguardo per voi, conoscono il Mori no Kokoro di fama e sono rimasti davvero colpiti dal vostro Kuromori

Mamoru drizzò la schiena e il sorriso più dubbioso di qualche momento prima prese sicurezza, si fece affascinante, secondo Shuzo che continuava a ridacchiare della conversazione: Mamoru era entrato nel mood di chi tutto avrebbe potuto e voluto, e tutto si sarebbe preso.

«Ah, sì? Ne siamo lusingati.»

«Mi hanno detto di averlo provato in un ristorante locale; loro sono di Tokyo, ma hanno vari possedimenti nella prefettura. Si trovavano a Izu per vacanza, e così…»

«In quella zona ci sono un paio di locali che servono il nostro vino.»

Shuzo pensò fosse stata un’ottima coincidenza che poteva giocare in parte al loro favore, ma il problema principale rimaneva: il capitale.

«Dunque, se per voi va bene, potremmo aggiornarci verso la metà della prossima settimana. Immagino che per allora avrete una risposta definitiva.»

«Sì, l’avremo di certo.»

«Ottimo. Venite, vi accompagno alla macchina.»

E cominciarono a camminare verso l’uscita, ma a Shuzo non sfuggì come Mamoru si guardasse ancora una volta alle spalle, abbracciando la possibilità che aveva più volte accarezzato, ma mai provato ad afferrare per paura, e che rischiava di sfumare ancora una volta.

 

Durante il tragitto per tornare al Kokoro lasciarono che a parlare fosse la musica dell’autoradio.

Discuterne senza numeri concreti alla mano non aveva molto senso e poi Shuzo l’aveva capito che Mamoru voleva che la magia del frutteto – dannazione, già si era trovato un nome! Questo non andava bene – aleggiasse ancora un po’ nell’aria, assieme alla musica.

Perché c’era una magia anche lì, come alle grandi serre. L’avevano sentita entrambi tanto da dimenticarsi perché fossero lì; era come se l’incantesimo gli fosse entrato in circolo e facesse già parte di loro. Almeno concettualmente; materialmente era un altro paio di maniche, uno difficile da arrotolare.

Al locale, ancora chiuso per la pausa pranzo, Kumi li accolse con Baco in braccio e l’espressione trepidante di chi stava aspettando il responso di quel sopralluogo. Anche a lei il posto era piaciuto, già solo guardando le foto. Con tutta la sua stregonesca influenza aveva agitato il mestolo come fosse stato un bastone magico.

«È lui!» aveva esclamato con occhi sgranati: una benedizione che era stata certezza e che aveva chiuso la laboriosa ricerca portata avanti da qualche mese, ma senza grandi soddisfazioni; la scintilla non era scattata con nessuno.

«Allora?»

Mamoru si strinse nelle spalle. «Allora niente.»

«Ma che risposta è?! Shuzo?»

«Niente, Spydey. Il posto è bellissimo.»

«E spazioso.»

«Ci si potrebbe coltivare la qualunque.»

«E ha una vista incredibile.»

Kumi rimpallava lo sguardo dall’uno altro con un sorriso che si faceva più ampio per ogni buona qualità che sottolineava l’ovvio.

«E quindi?!»

«E quindi non cambia che costi troppo.» Mamoru non ci girò attorno. «Dobbiamo fare dei conti e capire quanto potremmo perderci e se ce lo possiamo permettere.»

Tutto l’entusiasmo di Kumi si afflosciò davanti al muro della realtà.

Shuzo la vide abbassare le spalle e spingere in fuori le labbra in una smorfia a culo di gallina per cui ridacchiò. Si accese una sigaretta e rimase a cavallo tra la cucina e il corridoio, tenendo la cicca fuori dalla stanza.

«Niente trattativa?»

«Scenderebbero massimo di duecentomila yen. Non cambia molto quando la cifra continua ad avere sei zeri.» Mamoru fece per versarsi un bicchiere di vino, ma alla fine si fermò, rimanendo a guardare la bottiglia di Kuromori che gli aveva dato una grande chance, ma che forse non sarebbe stata sufficiente.

«Abbiamo tempo fino alla fine della settimana per decidere,» disse lui, Kumi lo guardò ancora con il broncio.

«Odio quando le cose che mi piacciono costano. Dovrebbero smetterla. Sono troppo bella per pagare.»

Shuzo sbottò a ridere e anche Mamoru uscì dalla malinconia, decidendo di versarsi quel mezzo bicchiere di rosso su cui aveva tergiversato troppo.

«La bellezza dovrebbe essere ripagata, non viceversa!»

«Ma la pianti, Spydey

Shuzo le colpì la fronte con il palmo della mano; rise anche lei e alla fine sospirò. Tirò un po’ su Chikara affinché stesse comodo.

«Be’, ci abbiamo provato, ragazzi. E poi non è ancora tutto perduto.» Guardò Mamoru con quel sorrisetto furbo che a lui aveva sempre messo i brividi. «Parliamone prima col commercialista, magari potremo trovare una soluzione. Non si molla la partita prima del fischio finale. Tsubasa non ti ha insegnato nulla?»

 

Shuzo si rese conto solo dopo qualche giorno della reale importanza di quell’ultima provocazione di Kumi. Perché questa era stata: un invito a non arrendersi che, a quanto pareva, il buon Ozora aveva sciorinato in lungo e in largo per anni, tanto da fare a tutti il lavaggio del cervello; suo fratello compreso.

Seppur in passato l’avesse considerato ossessivo al limite del maniacale, ora che aveva la maturità necessaria seppe trovarne la reale utilità: Mamoru era rimasto attaccato al telefono per due giorni interi, tra commercialista, fornitori e il signor Hamoto. Usciva presto, rientrava tardi. Stava cercando di trovare una quadra e la voleva a ogni costo, perché il frutteto significava molto per lui: era l’atto pratico che mancava a sé stesso per dimostrare che aveva voltato pagina e che non aveva più paura di vedersi fallire né di perdere ancora Yuzo.

Shuzo l’aveva lasciato fare, consapevole che ne avesse bisogno, e si era offerto più volte di aiutarlo, facendo qualche chiamata, ma Mamoru si era fatto carico di tutto mentre lui si occupava del bar e frequentava la scuola di ikebana.

Fu proprio tornando il mercoledì sera dopo la lezione che trovò il tavolo del salotto-cucina pieno di fogli, ma senza nessuno che vi stesse dietro.

«Sono a casa,» aveva detto, aprendo la porta, e quando sulle prime non aveva ricevuto risposta, aveva creduto che Mamoru fosse ancora fuori, e invece la luce accesa della piantana e i fogli lasciati sul tavolo dicevano tutt’altro.

Shuzo li raggiunse, ne spostò un paio facendoli scivolare l’uno sull’altro.

Erano conti, preventivi di materiali e manodopera, di alberi, di viti. Conti che portavano a cifre da centinaia di migliaia di yen.

Accompagnò il disappunto con un lungo respiro e si guardò attorno. Individuò Mamoru fuori al terrazzo, dava le spalle al vetro.

«Non sei stato tu a darmi che non si beve da soli?» chiese, dopo averlo raggiunto ed essersi fermato sulla soglia della portafinestra.

Mamoru si volse, aveva un bicchiere vuoto tra le mani e una giacchetta leggera sulle spalle. Alla sera l’arietta non era dolce come quella della primavera, ma si riempiva di legno bruciato, castagne e incenso.

«Avevo voglia di un goccetto e tu non c’eri. Sono giustificato.»

«Si brinda a qualcosa, almeno?»

«Più che altro si cerca conforto.»

Shuzo abbandonò la soglia del balcone per raggiungerlo e fermarsi al suo fianco. Entrambi davano lo sguardo al paese assonnato e che aveva la pancia piena della cena.

Mamoru sospirò. «Facendo i calcoli, la spesa complessiva tra l’acquisto del terreno, la messa a nuovo, le piante, l’attrezzatura e la manodopera, verrebbe di circa cinque milioni yen ed è troppo fuori dal mio budget.»

«Nemmeno se io-»

«Tu lavori da troppo poco tempo e a Kumi non sognerei mai di chiedere chissà che cifra quando ha dei figli cui pensare.»

«Chiedere un prestito?» tentò ancora, un po’ troppo testardo forse e di sicuro senza una reale soluzione: Mamoru rispondeva con l’incisività di chi aveva vagliato qualsiasi possibilità e non ne aveva trovata nessuna abbastanza efficace.

«Mettersi in mano alle banche non è semplice, e non voglio trovarmi a pagare mutui trentennali che solo gli dèi sanno come andranno a finire. Né voglio che, se le cose non dovessero andare, ci ritroviamo a rischiare di perdere molto più di un terreno.»

«Tuo padre?»

«Mi ha già aiutato abbastanza. E chiedere al tuo è fuori discussione.» Mamoru gli rivolse un mezzo sorriso mentre appoggiava il bordo del bicchiere alle labbra. «Non ho ragione?»

Shuzo ingoiò una mezza imprecazione e non rispose. L’idea non gli piaceva per niente ed era lontanissima da ogni suo pensiero, però…

«Se non c’è altra soluzione, potrei anche… provare.»

Mamoru sgranò gli occhi per un lungo istante. Risultava incredibile anche a sé stesso di averlo proposto sul serio, ma per Mamoru sarebbe stato disposto a farlo. Piegarsi, scendere a patti con Akio che sembrava non veder l’ora di stringere i rapporti, anche se lui continuava a essere diffidente e guardingo.

«Davvero lo faresti?» Mamoru piegò appena il capo di lato, aggrottando le sopracciglia, mentre il vento smuoveva l’arrangiato man-bun con cui teneva legati i capelli.

Shuzo annuì e Mamoru alla fine sbuffò un sorriso, nel poggiargli la mano sulla guancia in una carezza lunga e affettuosa. Gli toccò la mascella, sfiorò il collo. La sua mano era calda e accogliente; Shuzo ci si appoggiò contro.

«Lo sai che non ti chiederei mai una cosa simile, inoltre non voglio debiti con tuo padre. Però grazie.»

Mamoru gli stampò un bacio leggero sulle labbra e Shuzo sentì di dover essere lui quello che avrebbe dovuto ringraziare: il solo pensiero che non avrebbe dovuto chiedere nulla ad Akio l’aveva fatto sentire subito sollevato.

Il problema però rimaneva: ogni possibile soluzione era stata cestinata; la strada appariva senza uscite.

«E quindi?»

«E quindi niente. Ci abbiamo provato. È andata male. Domattina chiamo l’agente Ichinobu e gli dico-»

«Ehi, ehi! Aspetta. Non andare così di fretta. Ci ha dato tempo fino alla prossima settimana, prendiamocelo.»

Mamoru inarcò un sopracciglio. «E per cosa? Anche avendo più tempo, le spese non si dimezzeranno.»

«Per lo stesso motivo non c’è bisogno di correre. Proviamo a contattare qualcun altro, sentiamo gente anche fuori della Prefettura. Prendiamoci fino all’ultimo secondo.»

«Credi servirebbe?»

«Non lo so, ma immagino che tu non abbia mai abbandonato il campo da calcio prima che l’arbitro fischiasse, no?»

Mamoru gli mollò un colpo alla spalla, mentre rientrava in casa. «Non incominciare a fare battute alla Kumi, ti prego! E vieni dentro, c’è da preparare la cena.»

«Solo se versi anche a me un bicchiere di vino!»

Per il resto della serata ne parlarono pochissimo, giusto una ventina di minuti dopo cena, mentre Mamoru gli mostrava i conti e i preventivi. Shuzo li comprese con maggiore attenzione dando qualche suggerimento su dove si sarebbe potuto provare a risparmiare di più o cosa procurare successivamente. Metteva idee sul piatto, perché era tutto quello che poteva fare, accompagnando di baci ogni proposta affinché Mamoru non ci si concentrasse troppo e non desse loro troppo peso, perché altrimenti si sarebbe accorto che erano solo palliativi per non fargli perdere le speranze.

E Shuzo non voleva che Mamoru le perdesse così in fretta. Qualcosa gli sarebbe venuto in mente.

Con quella strana leggerezza che voleva rimandare i problemi al giorno dopo, andarono a letto. L’unico posto in cui Malerba sapeva per certo cosa fare per rilassare e consolare il suo uomo, tanto da fargli dimenticare qualsiasi cosa. E Mamoru si sciolse tra le sue mani, inarcandosi di piacere mentre lui restava con la testa affondata tra le sue cosce.

«Sei fantastico…» ansimò, spingendo appena con i fianchi.

«Lo so, gioia.»

«…e un modesto del cazzo.»

«So anche quello.»

Shuzo lo coccolò per ore, dando al suo corpo tutto il conforto di cui aveva bisogno; un conforto non già fatto di preliminari e penetrazioni, ma di massaggi, baci, mani che correvano ovunque e non si stancavano di conoscerlo. Sotto le dita, Mamoru era divenuto mappa imparata a memoria ma da cui non era in grado di separarsi.

E dopo avergli donato ogni orgasmo, Shuzo lo osservò addormentarsi con un sorriso pacificatore sulle labbra; spuntava genuino da sotto i capelli spettinati. Lui glieli scansò appena dal viso, affinché potesse vederne i tratti con chiarezza, e poi si alzò, senza fare rumore. A piedi scalzi tornò in cucina e accese la luce della piantana. Fece brillare una sigaretta e sfogliò di nuovo i preventivi, ma quest’ultimi avevano già parlato chiaro: non c’era gran margine di risparmio, la rinuncia era imminente e a lui faceva incazzare non poter fare nulla di più. Anche se stava rigando dritto, se stava cercando di lavorare onestamente e fare tutto seguendo le regole sembrava non essere abbastanza. In un moto di fastidio maledisse i giudici che gli avevano sequestrato i conti: se glieli avessero lasciati, di sicuro comprare quel campo e rimetterlo a nuovo non sarebbe stato un problema.

Magari il prestito avrebbe potuto chiederlo a Tasho, certissimo che non gliel’avrebbe rifiutato, ma era la reazione di Mamoru da mettere in conto: conoscendolo, non gliel’avrebbe permesso in nessun modo.

Allora davvero non restava nulla da fare se non arrendersi?

Con il suo vecchio modo di pensare arrivò addirittura a domandarsi se non ci fosse una possibilità di fottere il sistema. Allora si lasciò sfuggire un sorriso storto, dando al cannibale dello stronzo perché tornava a farsi sentire, insinuandosi in maniera subdola tra i suoi meccanismi; soprattutto quando era alle strette. Ma l’attimo dopo quel pensiero, Shuzo balzò in piedi a occhi spalancati e bocca che veniva aperta lentamente su una certezza comparsa dal nulla: un modo per ottenere il frutteto c’era, ed era proprio nelle sue mani.

 

Gofuku-cho offriva un’ampia varietà di posti per incontrarsi, che fosse in maniera casuale o combinata, senza dare nell’occhio.

La via dello shopping di Shizuoka City era costellata di negozi e centri commerciali, e a poco serviva che, verso la fine, ci fosse anche la Centrale di Polizia della città, anzi: il bello era fargliela sotto al naso.

Per Shuzo, quella era stata una vecchia abitudine, quindi restava appoggiato con molta naturalezza contro una delle colonne dello Shizuoka Parco Shopping Mall che davano sulla via principale. Di tanto in tanto guardava l’orologio sul cellulare – sempre quello dallo schermo scheggiato, e a nulla erano valse le polemiche di Mamoru affinché almeno ne facesse sostituire il vetro – e tirava sul naso gli occhiali da sole circolari, dai vetri che restituivano uno specchiato blu elettrico.

Non aveva dovuto mentire troppo a Mamoru per trovare una scusa che lo portasse lì in pieno giorno, quando avrebbe dovuto essere al locale, però un po’ si sentiva in colpa di avergli taciuto la verità; insomma, non c’era quasi niente di male in quello che stava per fare. Certo, conoscendo Mamoru avrebbe avuto da ridire sulla compagnia di cui aveva bisogno per farlo, ma era un piccolo male necessario dato il fine. E poi non glielo aveva detto anche per non dargli troppe speranze. Lui non ne riponeva tantissime, preferiva volare basso e tenere sotto controllo le aspettative, in modo che il botto che avrebbe fatto una volta che fossero state disattese non facesse troppo rumore e dolore.

«Sfacciato da parte tua, ma con la testa di merda che ti ritrovi non me ne stupisco neppure più.»

Shuzo sollevò gli occhiali sulla fronte e sfoggiò uno dei suoi sorrisi storti peggiori: Tasho aveva le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e lo stava affettando con lo sguardo. Però sorrideva anche lui, quindi era tutto a posto.

«C’erano due sbirri a passeggio, davanti a me: ti hanno guardato male, ma poi hanno tirato dritto. Cazzo, si vede che i tempi stanno cambiando.»

«Sono solo un libero cittadino poggiato a una colonna.»

«Uno con la tua faccia io lo arresterei a prescindere.» Tasho gli si avvicinò e gli mollò una pacca sulla spalla. «Ci si ricorda degli amici sempre nel momento del bisogno, eh?»

«Cazzo volevi? La telefonata fuori dalla prigione?»

«Non mi sarebbe spiaciuta, no.»

«Ma non fare lo stronzo egoista. Quello dentro ero io, avresti dovuto chiamarmi tu! Frequento proprio della gente di merda, dovrei smetterla.»

«Ti piacerebbe.»

Non sentivano da quando Shuzo aveva sbattuto la porta andandosene via dal palazzone dei 3Kitsu e mandandolo a fare in culo, ma certi legami non si recidevano con una semplice porta chiusa o una parolaccia detta con rabbia. Erano talmente forti e radicati che erano associati a concetti altrettanto profondi e solidi come quello di ‘famiglia’. Tasho e i 3Kitsu continuavano a essere una parte di essa; come quei tatuaggi che non si potevano più cancellare, il suo restava sempre sul cuore.

«Allora, vogliamo andare?» Tasho guardò il pesante cronowatch da polso. «Abbiamo appuntamento tra una mezz’ora.»

«Ma se non ti sei nemmeno fatto spiegare cosa dobbiamo fare! E poi dove stiamo andando? Mi hai solo mandato un messaggio dicendo orario e luogo dove vederci!»

«Eccerto. Solo un deficiente parlerebbe di cose simili per telefono.» Tasho lo spinse in avanti con una manata di rimprovero.

«E come avrei fatto a spiegarti di cosa avevo bisogno, scusa?»

«Magari usando qualche parola in codice?! Merda, ma ti sei dimenticato tutto? Esistono le fottute intercettazioni! Secondo te perché cambio regolarmente numero di telefono? Per sport?!»

Shuzo agitò una mano con disinteresse. «Non stavamo mica parlando di droga o armi! Il solito paranoico.»

«Sei tu che sei rimasto tecnologicamente arretrato. Lo sei sempre stato.»

«Diosanto! Non parlare come se i servizi segreti mondiali stessero per venire a prenderti da un momento all’altro! Sai il cazzo che gliene frega di un maledetto conto off-!»

Shuzo si trovò la bocca coperta dalla mano del capo dei 3Kitsu, l’odore di sigaretta era inconfondibile. Tasho gli stava facendo segno di tacere con l’indice ben dritto davanti al naso. Aveva gli occhi così stretti che Shuzo pensò di uscirne a julienne da quella conversazione.

«Chiavati la lingua nel culo, Malerba! Non si parla di certe cose quando attorno a te ci sono cellulari, computer e fottute telecamere stradali che possono riprenderti e registrarti sempre. Chiaro?»

Shuzo inarcò un sopracciglio, si liberò della sua mano e strinse anch’egli lo sguardo. «Stai vedendo Person of Interest, di’ la verità.»

«Cammina.»

«Davvero, sta roba ti fa male. Ma male male! Ecco perché la tv non la guardo mai.»

Camminarono fianco a fianco per una decina di minuti, abbandonando il viavai del centro, per scegliere vie laterali più defilate e tranquille, ma ugualmente trafficate dalle auto. Parlarono del più e del meno; Shuzo gli raccontò del frutteto e della scuola di ikebana.

«Frocetto,» sentenziò Tasho con un’alzata di spalle.

«Però sono un frocetto bravo.»

«Stai a vedere se non ci fai pure i soldi con ‘sta roba.»

«Non lo faccio per quello.»

«Allora sei il solito frocetto scemo. Tutto regolare.»

«Penso esista qualcosa di più dei soldi.»

«Frocetto scemo e idealista. Che brutta accoppiata.» Tasho sospirò. «E dire che eri così bravo a vendere, ma è chiaro che non era la roba giusta per te.»

Shuzo abbozzò un sorriso, guardando a terra: strade pulite, tirate a lucido come se ogni giorno passasse una massaia con l’aspirapolvere e la ramazza. I netturbini erano casalinghe pagate.

«Non sono entrato nei 3Kitsu per i guadagni.»

«Ognuno ha i suoi motivi. Per me fare soldi è tutta una metafora: più ne faccio, più la metafora diventa grande, più glielo metto in culo.»

«Frocetto.»

Tasho rise e si fermò davanti a uno dei tanti palazzoni dalla forma squadrata e ordinata, grigio perla, di marmo lucido fino al primo piano e poi interamente a specchio. Sulla parte lucida c’era un grosso logo nero formato da tre chiavi che si incrociavano e una sigla di tre lettere in romaji che non riconobbe. Lui masticava l’inglese, il coreano e un pochino di cinese, ma quello non seppe associarlo a nulla di familiare. Ad aiutarlo, però, intervenne la piccola bandiera alla fine dell’acronimo: rossa, con una croce bianca nel mezzo.

Shuzo inarcò un sopracciglio, guardò Tasho e indicò l’edificio.

«Vuoi inculare la Svizzera?»

«La Svizzera è solo un tramite. Come il lubrificante, se capisci che intendo.» I tratti affilati di Sousuke fissavano con sorriso rapace quello che vedeva come un lasciapassare per i suoi obiettivi: la porta era lì per essere aperta da chiunque, anche da uno come lui. Soprattutto da uno come lui. «Quello che conta è entrare: una volta dentro, puoi fare quello che vuoi.»

 

«Ma se il conto è alle Cayman perché cazzo siamo nella filiale di una fottuta banca svizzera?!»

Tasho alzò gli occhi al cielo per la centesima volta da che erano entrati nell’edificio.

«Il tramite! Il concetto del ponte! Del lubrificante! Del mezzo! L’hai già dimenticato?! Ne abbiamo parlato cinque minuti fa!»

«Sì, ma le Cayman non sono provincia svizzera!»

«Ma non mi dire?!»

«E allora non sto capendo!»

«Volevi andare direttamente alle Cayman a controllare il tuo conto, genio?!»

«Non prendermi per idiota, lo so che esiste internet!»

«Sì. E magari volevi usare il tuo computer di casa.»

«Che ha che non va il computer che ho a casa?!»

Il direttore della filiale, che li stava scortando nel caveau sotterraneo, tossicchiò con forza sufficiente da farsi sentire e interrompere il ronzio delle loro voci, fastidiose come un moscone.

Shuzo e Tasho drizzarono le schiene e si allontanarono l’uno dall’altro, assumendo un atteggiamento di colpo più composto.

Malerba infossò di più le mani nelle tasche dei pantaloni e si rosicchiò l’interno della bocca con fastidio. Forse non era stata una grande idea, quella; forse avrebbe dovuto lasciare perdere. E poi odiava la spocchia di Tasho quando voleva fargli pesare la sua ottusità tecnologica: oh, lui a certe cose non ci arrivava e allora? Era sempre stato una capra informatica e, soprattutto, non era così tanto paranoide a livello governativo: i suoi problemi erano più spiccioli e vicini, come gli sbirri e le altre gang. Sbuffò e per un attimo ravanò nella tasca alla ricerca del cellulare per vedere se avesse ricevuto chiamate, ma si ricordò che il telefono era stato lasciato all’ingresso del caveau: questioni di sicurezza, aveva detto il direttore che li stava accompagnando. E quindi il paranoico non era solo Tasho.

«Non è sicuro controllare queste cose dal computer di casa», riprese il capo dei 3Kitsu in tono più calmo e sempre basso. «Hai bisogno di non lasciare tracce e di una linea di comodo, non di una che potrebbe portare a te in un attimo.»

«Sì, sì.»

«Non accondiscendere come un cretino, te lo sto spiegando.»

Shuzo sbuffò, tornando in silenzio stampa, e si era anche rotto il cazzo, ma Tasho riprese dopo qualche attimo di pace.

«Comunque, toglimi una curiosità: perché te lo sei ricordato solo ora?»

«Non me lo sono ricordato ora!»

«Ne sei sicuro? Perché ho fatto una scommessa con la mia fata: lei credeva che ci avessi rinunciato per chissà quale nobile e romantico motivo, io invece che ti fossi dimenticato perché sei scemo come la merda. Chi ha ragione tra noi due?»

Shuzo serrò le labbra. Si strinse nelle spalle e infossò il capo. Sempre a fargli domande retoriche del cazzo, quell’altro. «Be’, scusami tanto se ho avuto da fare con due anni in carcere e poi il lavoro e non c’ho avuto tempo per pensare anche a questo!»

«Lo sapevo. Sei proprio scemo di natura.»

«Fanculo.»

«Siamo arrivati.» Il direttore della filiale si fermò davanti a una porta di metallo.

«Era pure ora, cazzo! Che ci sta dall’altra parte? Il Minotauro?!»

Tasho ridacchiò, sollevò una mano verso il direttore che guardava Shuzo con rimprovero.

«Lo perdoni, è nervoso. Non è abituato alle cose da grandi.»

«Fottiti pure tu!» rincarò Shuzo con tanto di dito medio.

Il direttore tossicchiò per l’ennesima volta da che loro due gli si erano presentati davanti con la richiesta di vedere una particolare cassetta di sicurezza di cui custodivano la chiave.

Shuzo non aveva avuto modo di chiedere da dove diavolo Tasho l’avesse tirata fuori, ma immaginò gliel’avesse lasciata suo fratello: Yuzo aveva organizzato tutto fin nel dettaglio, mentre lui era troppo impegnato a fare il gradasso dalla voce grossa e il cervello piccolo.

Il direttore, un ometto non giapponese ma che parlava benissimo la loro lingua, fece scattare la serratura magnetica della stanza, dopo aver passato una chiave rettangolare – simile a quelle degli alberghi – su un dispositivo che da luce rossa, divenne verde. Invitò entrambi a entrare per primi e Tasho fece gli onori di casa, dando a intendere di conoscere già simili ambienti.

Shuzo lo seguì a un passo e si trovò a far girare la testa come quelle delle bambole a corda. Entrambe le pareti laterali erano piene di cassette di sicurezza. Arrivavano fino al soffitto dove un braccio meccanico che prelevava quelle troppo in alto. Loro non ne ebbero bisogno, perché la cassetta di loro interesse era ad altezza media, verso il margine di fondo della stanza.

Nel resto dell’ambiente non c’era altro se non un tavolo di metallo e due sedie pieghevoli di plastica. Tutto rigorosamente in scala di grigio.

L’ometto estrasse la cassetta lunghissima e larga una trentina di centimetri dalla sua allocazione, accompagnandone lo sfilare con una mano inguantata, sopra cui la poggiò per trasportarla fino da loro, fermi presso il tavolo. La depose piano sulla superficie e Shuzo non faceva che domandarsi che diavolo potesse esserci dentro quel salsicciotto metallico: troppo lungo per essere solo documenti, poco alto per contenere chissà che cifra. Il direttore si fece dare la chiave, aprì la cassetta davanti a loro, sollevandone la parte superiore. All’interno fece la sua comparsa un astuccio di quelli usati per portare in giro le console di piccole dimensioni.

Shuzo sollevò le sopracciglia e strinse la bocca a culo di gallina. «Una Switch o una Wii-U?» fu la domanda rivolta a Tasho, e si accorse dello sforzo che quest’ultimo fece per trattenere quella che avrebbe dovuto essere l’imprecazione definitiva.

«Ci lascia qualche minuto?» Il capo dei 3Kitsu rivolse un sorriso di plastica al direttore di banca.

«Tutto il tempo di cui avrete bisogno. Aspetterò qui fuori.»

L’ometto si congedò in fretta e solo quando si fu chiuso la porta alle spalle Tasho lo incenerì sul posto. «A volte penso che dirti che sei scemo come la merda sia farti un complimento, cazzo!»

Shuzo rise, col viso piegato sul tavolo e i pugni sulla superficie. Non evitò lo scappellotto che ricevette, ma rise ancora più forte.

«Ma perché quando sto con te il livello culturale della conversazione deve scendere sotto lo zero?!» Sousuke non faceva che borbottare mentre afferrava l’astuccio e lo apriva. Dall’interno srotolò una tastiera usb e la collegò a un accrocco pieno di microchip e dotato di un sei pollici a cristalli liquidi. Shuzo non ne aveva mai visti se non smontati o accatastati alla rinfusa sui tavoli di qualche ricettatore o meccanico. Riconobbe però la powerbank che Tasho estrasse dalla tasca interna della giacca e collegò all’apparecchietto, accendendolo. Un semplice sfarfallio luminoso e poi la schermata di un terminale, con il prompt grigio luminoso che attendeva la digitazione del comando. Tasho si mise comodo, sedendosi al tavolo e, dalla borsetta delle meraviglie, estrasse una chiavetta usb che gli agitò sotto al naso.

«Questa non la devi perdere, ma non sto qui a spiegarti i perché della vita, tanto non li capiresti: sappi solo che il sistema operativo montato su questa chiavetta ti permette di fare tutto il cazzo che vuoi su un computer, compreso quello di casa tua, e di non lasciare tracce una volta che la stacchi.»

«E se c’avevi la chiavetta magica, perché siamo dovuti venire fin qui?! Non potevano trovarci a casa tua?!»

«Perché una fottuta cassetta in una banca svizzera e ben più sicura del fottuto cassetto della mia scrivania!» Tasho buttò fuori aria e pazienza in un respiro pesante. «E ora guarda bene quello che faccio, perché poi dovrai saperlo fare tu. Mi auguro sia abbastanza semplice per il tuo cervello da gallina.»

Shuzo gli fece una smorfia e osservò Sousuke infilare la chiavetta nella porta usb, impartire un comando diretto per richiamare un determinato file presente sulla penna, ma subito dopo l’invio apparve un riquadro di richiesta password.

A quel punto, Tasho incrociò le mani davanti alla tastiera e sollevò il viso verso di lui, in attesa.

«Cosa?»

«Aspetto la password.»

«E la vuoi da me?!»

«Tuo fratello disse che l’avresti saputa.»

«Io?!» Shuzo sgranò gli occhi, mentre Tashonori si alzava per cedergli il posto.

«Proprio tu. A meno che tuo fratello non ti facesse più furbo del normale, il che sarebbe comprensibile, dato il suo carattere, ma oltremodo utopico. Ma nel frattempo che riflettiamo sulle eventualità della vita, poggia il tuo culo su questa sedia e pensa.»

Shuzo non seppe nemmeno che rispondergli. Una chiavetta criptata, una password che lui avrebbe saputo per certo secondo Yuzo. Magari, sì, lo aveva sopravvalutato come al solito. Malerba si grattò la fronte e guardò la tastiera e poi lo schermo, dove il prompt luminoso aspettava la terza chiave di quella strana guest da videogame. Dopo un istante, digitò la cosa più semplice che gli venne in mente, e la più immediata.

1203.

Invio.

Lo schermo cambiò schermata in favore di un’interfaccia molto più user friendly, con le classiche cartelle, icone e finestre.

«Allora la combinazione è 12345… ouhf!» Tasho si piegò in avanti, dopo che lui gli ebbe mollato un pugno nelle palle. Sghignazzava con il suo gorgoglio un po’ roco.

«Piantala, o te ne tiro anche uno sul naso.»

«Ah, fatti sfottere, grand’uomo.»

Dall’astuccio, Tasho estrasse anche un foglietto di carta con scritti, a penna, i codici di accesso alla banca. «Queste sono le tue credenziali, e l’indirizzo del sito internet della banca.»

«Sì, ma non ho l’accesso a internet.»

«Invece ce l’hai.» Usando la tastiera, Tasho richiamò le connessioni attive e Shuzo vide che, oltre a quelle della banca e dei negozi accanto ce n’era una con il bizzarro nome da fumetto porno: SweetBabyCandy. Nemmeno a dirlo, fu su quella che Tasho cliccò. «La password è ‘iamthefox’, ‘I’ e ‘F’ maiuscole, la ‘o’ è uno zero.»

Shuzo alzò lentamente il capo verso di lui, fissandolo da sopra lenti immaginarie con palese ironia. «Poi dici a me, uh?»

«Ah, è una roba usa e getta, non seccare. Quello che devi sapere è: usa la chiavetta su computer pubblici, sfrutta le connessioni degli altri, roba che non possano risalire a te, e sposta il denaro poco alla volta. Poco alla volta, Shuzo: non devono insospettirsi, e, credimi, quando si tratta di soldi tengono aperto anche il buco del culo per vederci meglio.»

Lui annuì, anche se di tutta quella manfrina sulle reti sicure e il grande fratello ci guarda ci stava capendo poco, ma il succo stava più o meno divenendo chiaro: non era uno scherzo né un gioco.

«Ora che siamo connessi e sicuri: andiamo a vedere questo famoso conto.»

Shuzo digitò in fretta l’indirizzo web sulla barra del browser e una pagina colorata con una bella immagine header di una spiaggia comparve sul piccolo schermo del computer.

«Questa è la tua banca. Penso che saprai fare da solo, ora. L’onore è tuo.»

Senza dargli modo di replicare, il capo dei Kitsu uscì, lasciandolo da solo con quel piccolo accrocco. Shuzo lo guardò come fosse alieno, indeciso su cosa fare e sul prendere davvero in mano quello che, da un lato, considerava come l’ultimo lascito di suo fratello, l’ultima cosa che aveva fatto per lui, per proteggerlo. Ogni volta pensava di non meritarselo e che non fosse giusto che lui ricorresse sempre alla soluzione veloce che gli altri gli avevano fornito. Però c’era anche che non lo stava facendo per sé stesso, quanto per Mamoru e che se era per lui, allora al diavolo qualsiasi principio. Anche Yuzo si sarebbe fatto in quattro per poterlo aiutare. Si poteva dire che entrambi lo stessero ripagando per non aver mai dimenticato, per aver salvato ciò che sembrava insalvabile.

Estrasse il pacchetto di sigarette dalla giacca, anche se sapeva che non poteva fumare, quindi ne tolse una con i denti, pensando che non c’era alcun motivo per essere nervosi. Si trattava solo di qualche milione di yen. Lui non ricordava neppure quanto avesse avuto sul suo vecchio conto bancario, figurarsi. Tenendo la sigaretta al lato della bocca e fermata con i denti, Shuzo inserì le credenziali e attese che la connessione – un po’ lenta, per la scarsità del segnale – facesse il resto.

Dieci secondi dopo, sputò via la sigaretta con così tanta forza da farla arrivare all’altro capo della stanza.

 

Quando uscì dalla camera, Tasho tirò uno sbuffo che avrebbe spento in un colpo cento candeline su una torta. A volte, avere a che fare con Shuzo era stancante. Ottuso, irragionevole, testardo e così dannatamente ingenuo che, davvero, non poteva credere fosse stato il suo braccio destro per anni nei 3Kitsu. E la cosa più assurda era che continuava a vederlo come il più adatto tra tutti a succedergli, una volta che avesse mollato la frasca. Che problema aveva, pure lui?!

Appoggiato alla parete con una spalla, Tasho si cacciò in bocca una gomma da masticare e poi fece cadere l’occhio sul direttore della banca che lo fissava con le sopracciglia aggrottate.

Starà pensando che siamo un duo di coglioni, si disse, e sfoggiò un mezzo sorriso di circostanza.

«È più normale di quello che sembra. Fa ikebana.» Ma si strozzò per non sbottare a ridere da solo e soffocarsi con il chewingum.

Pensare che quella capra facesse ikebana era un controsenso così comico che faceva il giro e diventava geniale.

Malerba un artista.

Malerba un artista delle piante.

Qualcosa da tenere in vita, curare e preservare. Dopotutto, non era quello che aveva fatto con sé stesso fino a quel momento? Shuzo era sopravvissuto anche quando la situazione era stata critica e ne era uscito più forte ogni volta, più determinato e più testardo.

Un guerriero.

Che sapeva passare a filo di spada giganti grossi il triplo di lui, e allo stesso modo trattenere senza spezzarlo un filo d’erba sottile un paio di millimetri. Le grandi cose, le piccole cose. Shuzo passava dalle une alle altre con una semplicità di cui, sicuramente, non riusciva a rendersi conto, ma lui sì. Lui lo vedeva e, di sicuro, l’aveva visto anche Izawa.

Poteva essere un 3Kitsu, ma non aveva dimenticato cosa significasse tenere agli altri prima che a sé stessi. Era per questo che, nonostante tutti i suoi difetti, continuava a vederlo come suo successore, e avrebbe tanto voluto vedere la faccia che avrebbe fatto nel momento in cui-…

«Porcadiquellasantammerda!»

Tasho rise, scrollando il capo. Sollevò una mano per fermare lo sconcerto del direttore che aveva fissato la porta chiusa con bocca spalancata.

«Lasci, lasci. È tutto a posto. Ha solo scoperto d’essere ricco.»

 

Mamoru parcheggiò nel solito vicolo, di fronte al cancello secondario del Kokoro, e solo una volta che ebbe spento il motore tirò un lungo e sconsolato sospiro.

La settimana che Ichinobu gli aveva concesso era ormai agli sgoccioli, ma uno o due giorni in più non avrebbero potuto fare alcuna differenza. Aveva voluto dare fiducia all’ottimismo di Shuzo, aveva provato a cercare altri fornitori, fatto altri preventivi, ma dopo aver battuto praticamente tutta la prefettura a tappeto il risultato non era cambiato, nella sostanza. Certo, magari era un po’ oscillato nei numeri, ma non in maniera così significativa da ribaltarlo.

Quella partita era persa e lui stava giocando gli ultimi minuti con sforzo, in attesa che l’arbitro fischiasse.

Era stata una grande possibilità, questo lo sapeva. Quel terreno, il frutteto, era perfetto. Era ciò che aveva sempre sperato di trovare, ma a cui aveva rinunciato in partenza per paura di fallire. Ora era pronto a rimettersi in gioco, ma forse non era ancora il tempo che osasse così tanto e magari il destino stava cercando un modo carino per dirglielo, mettendogli i bastoni tra le ruote. Poi però si ricordò che il destino non c’era, c’era solo il caso. Così aveva sempre detto Haruna.

Peccato che Haruna non avesse mai tenuto conto del fattore ‘Shuzo’ e del suo arrivo così preciso e sconvolgente, che tutto faceva pensare tranne che nell’ordine universale vigesse solo il caso.

Mamoru si passò più volte le mani nei capelli e sbadigliò. Quella sera avrebbe detto a Shuzo che gettava la spugna, tirarla per le lunghe sarebbe stato inutile e scorretto. Ma prima di parlare con il suo compagno, avrebbe telefonato a Ichinobu, perché lo sapeva che poi Shuzo avrebbe trovato un argomento qualsiasi per convincerlo a prendere ancora un po’ di inutile tempo all’inevitabile.

Tolse allora le chiavi dal quadro e scese dall’auto. L’antifurto scattò con un solo suono, accompagnato dal lampeggiare delle luci, e lui si incamminò lungo la via principale.

La strada era ormai deserta e non aveva avuto bisogno di affacciarsi nel cortile posteriore per sapere che Shuzo era già risalito: si erano scambiati dei brevi messaggi mentre era sulla via del rientro. Anche Kumi era tornata a casa, il locale era chiuso e Mamoru vi passò davanti, lanciando alla vetrina un’occhiata d’affetto e un sorriso.

Andava bene anche così, dopotutto. Aveva il locale per cui aveva tanto lavorato, aveva le grandi e le piccole serre, una clientela affezionata e buoni affari, non aveva bisogno di incastrarsi anche con un frutteto così grande, avrebbe portato altro lavoro e problemi cui pensare. Eppure, nella grande distesa che scendeva verso il paese, aveva già immaginato di suddividere gli spazi, di aumentare la produzione di vino e vedere distese di pruni fiorire d’inverno mentre attorno tutto il resto del mondo dormiva.

Loro sarebbero fioriti, forti come nessun altro.

Perseveranti come Yuzo.

Ce li aveva avuti in testa fin dall’inizio, ed erano stati bellissimi.

Scrollò il capo, scacciò la fantasia e tenne il capo dritto, sguardo sulla concretezza della realtà. Era a quella che doveva pensare, ora, come sempre aveva fatto. Con la stessa decisione, recuperò il cellulare e ne guardò il display, fermandosi due passi più avanti all’ingresso principale del Kokoro.

Una telefonata e ci avrebbe messo una pietra sopra.

Pareva così difficile, ma sapeva fosse solo dovuto al primo passo: compiuto quello, sarebbe riuscito ad andare fino in fondo. I primi passi rimanevano i peggiori.

Mamoru sospirò e richiamò il numero dell’agente immobiliare. Quando sentì squillare libero per due, tre volte, fu quasi tentato di chiudere e tornare a far sparire il telefono nella tasca o nella borsa, non guardarlo più fino al giorno dopo e magari ignorare ogni tentativo di richiamata da Ichinobu. Alla fine, però, la maturità e il buon senso prevalsero e lui attese.

Izawa-san, mi ha letto nel pensiero.

«Spero di non essere stato un’ossessione.»

Una battuta e una risatina politically correct furono quanto di meglio riuscì a servire al giovane agente immobiliare, ma poi scelse di andare subito al sodo.

– Procede bene la vostra decisione? C’è qualche novità per cui dovremmo festeggiare?

«Da parte nostra, la decisione è sempre stata chiara fin dall’inizio: la voglia di acquistare il terreno c’è tutta, ma è il resto che ci rema un po’ contro. E proprio perché sono sempre stato onesto con lei e ringrazio i signori Harikawa della considerazione che hanno avuto nei riguardi del Mori no Kokoro, purtroppo le ho telefonato per dirle che siamo costretti a rinunciare.»

Oh…

«È una spesa ancora molto lontana dalle nostre possibilità, al momento. E non immagina quanto ci dispiace.»

– Sì, capisco. Sono sicuro che anche gli Harikawa saranno dispiaciuti di saperlo.

Mamoru provò un leggero sollievo nel carpire reale dispiacere da parte del signor Ichinobu. «Sono desolato di averle fatto perdere tempo…»

No, no. Non lo dica neppure, Izawa-san. È stato un piacere potervi guidare nella conoscenza dell’appezzamento. Lei e Mori-san siete stati gli unici che hanno apprezzato le caratteristiche tecniche di quel terreno, a livello agricolo.

E, dopo il sollievo, ecco arrivare il tuffo al cuore. Per un attimo aveva davvero sperato di poter ritentare più avanti, ma un terreno simile era davvero ben piazzato per lasciarselo sfuggire così.

«Quindi ha già incontrato altri acquirenti?»

– Sì. Immagino che venderemo molto in fretta.

«Capisco. Be’, glielo auguro: chiunque lo comprerà, farà davvero un ottimo affare.»

La ringrazio, Izawa-san. Allora le auguro una buona serata, e magari ci risentiremo per un acquisto futuro.

«Lo spero. A risentirci, Ichinobu-san.»

Così com’era cominciata, la telefonata si concluse: con un sospiro.

Adesso non restava che affrontare le lamentele del suo uomo; quello che gli avrebbe detto di essere il solito frettoloso del cazzo. Il fatto era che aveva imparato sulla propria pelle quanto perdere tempo fosse controproducente.

Mamoru, però, cercò di non partire in anticipo e salì le scale di casa senza troppa fretta. Sciolse i capelli che aveva tenuto legati e vi passò dentro le mani in un gesto pieno d’abitudini che affondavano le radici nell’infanzia: li aveva sempre portati così, non aveva mai pensato di tagliarli più di una spuntatina ogni tanto.

Entrò in casa e il profumo degli yakisoba pronti che aspettavano solo di essere impiattati lo avvolse subito e lo rassicurò rendendosi conto solo in quel momento di averne bisogno: un po’ di conforto, qualcosa o qualcuno che gli dicesse che andava bene lo stesso e che sarebbe andata meglio la prossima volta. Che ci sarebbero state altre occasioni, magari più vantaggiose di quella. Che il desiderio era stato solo rimandato e non cancellato.

«Okaeri. Hai fatto tardi anche stasera. Dovrò dire ad Hamoto-san di rimandarti a casa quando fate una certa ora, peggio d’una moglie.»

Mamoru trovò Shuzo seduto al divano, con un libro tra le mani, la matita sull’orecchio e l’evidenziatore a penna tra le dita. Nel posacenere, sul tavolino davanti al butsudan, il nulla fumava l’ultimo tiro di sigaretta.

«Tadaima. E sfotti poco.»

Chiuse la porta e si liberò di ogni cosa aveva addosso: sciarpa e giacca appese all’attaccapanni, scarpe scalciate e borse sulla parte libera di divano.

«Pare che la macchina essiccatrice per il tè non vada bene, e dire che avevamo fatto manutenzione ordinaria come tutti gli anni e non avevano trovato problemi. Mah.» Si stropicciò la faccia con le mani in maniera un po’ infantile, fino a passarsi più volte il fondo dei palmi sulle palpebre chiuse. «Yakisoba stasera?»

Shuzo gli abbozzò un sorriso storto dei suoi e lui si sentì rinfrancato già così.

«Sissignore.» Il ragazzo richiuse il libro e abbandonò tutto sul tavolino. Spense anche il mozzicone.

Mamoru s’accorse che era già arrivato a metà, e quel volume era entrato in casa da meno di una settimana. Si stava impegnando così tanto per la scuola di ikebana, mentre contemporaneamente lavorava anche in negozio, che un po’ si sentì in colpa di aver pensato subito a doversi difendere nei suoi confronti. Non sapeva davvero cosa Malerba avrebbe risposto quando gli avrebbe detto della rinuncia al frutteto, preferendo partire prevenuto in una vecchia e fastidiosa abitudine.

Faticava ad ammettere che tutto ciò di cui aveva bisogno fosse solo un abbraccio. Scelse però di non cercarne nessuno e di non cedere alla tentazione di gettarsi a peso morto su di lui, schiacciandolo completamente contro il divano e restare così per un tempo variabile tra il minuto e la mezz’ora.

«Ho chiamato Ichinobu e ho rinunciato al frutteto», disse senza alcun preavviso né girandoci attorno. Appoggiato al bracciolo fece il passo diretto: via il dente, via il dolore.

«Non ce la facevi proprio ad aspettare un altro paio di giorni?» Shuzo sorrideva, per nulla sorpreso.

«E a che pro? Non sarebbe cambiato niente. Ho girato a vuoto una settimana intera, conosco i prezzi di ogni fornitore del cazzo della prefettura. Potrei stilare preventivi nemmeno le aziende fossero mie!» Mamoru diede una botta secca al bracciolo e si allontanò dal divano.

«Gli hai detto perché non lo compriamo?»

«Sì. Sono stato sincero e lui pareva dispiaciuto, ma tanto si tratterà di poco: credo lo venderanno entro la fine della prossima settimana.»

Shuzo annuì e si alzò, sgranchendo le gambe. Un gesto che gli disse che doveva essere in quella posizione da molto. E lui, per riflesso, si tirò indietro ancora, certo che se si fossero avvicinati troppo, poi avrebbe ceduto e sarebbe finito col piangersi addosso tra le sue braccia.

«Troverò di meglio e la prossima volta non me lo farò scappare.» Lo disse con così tanta convinzione da pensare di crederci. E mentre Shuzo si avvicinava, lui tornò verso la cucina, andando a spulciare la zona dei fuochi e le padelle.

«Vedrai, magari non era questa l’occasione che stavamo aspettando.»

Sollevò il coperchio del wok in cui gli yakisoba fumavano ancora e ne inspirò l’odore invitante.

«A Obuchi e dintorni ci sono ancora svariati campi non utilizzati che potrebbero finire in vendita, bisogna solo aspettare e tenere gli occhi aperti.»

Richiuse il wok, rivolse al suo compagno un sorriso smagliante e si appoggiò con una mano al bordo dei fuochi. Shuzo, invece, si era fermato presso il bracciolo del divano e vi restava appoggiato, con le braccia conserte e l’espressione di chi non credeva a una sola parola.

Mamoru ammise a sé stesso di stare facendo uno di quei discorsi a vuoto pieni solo di autoconvinzione, ma al momento non sapeva essere diverso da così.

«Mangiamo? Ho una fame!»

«Certo. Apparecchia pure.»

Mamoru batté le mani in uno schiocco sonoro e le sfregò. Si diresse al tavolo con passo deciso e afferrò un plico avvolto da un nastro rosso che restava abbandonato e solitario.

«Cos’è? Roba della scuola? Carini, ti infiocchettano addirittura le dispense.» Mamoru sorrise e agitò il plico. Shuzo si limitò a una stretta di spalle.

«Cosa c’è scritto sopra?»

Mamoru guardò meglio. A penna, in nero, riconobbe i kanji del suo nome. Il sopracciglio saettò subito verso l’alto.

«Per me?» fece eco; gli occhi che passavano in fretta dal pacco al compagno, un paio di volte. «Che cos’è?»

«Per saperlo dovresti aprirlo.»

«A-ah!» Mamoru puntò l’indice con espressione sorniona. «Sapevi che avrei rinunciato al frutteto e hai preparato qualcosa per consolarmi! Che so, un viaggetto! Oh, che romantico.» Lo prese in giro portandosi il plico al petto e sbattendo velocemente le ciglia. «Guarda che non ce n’era mica bisogno. Non sono un bambino.»

«E tu vuoi blaterare ancora o lo vuoi aprire?»

Mamoru gli fece una smorfia, ma era preso in uno strano imbarazzo: era commosso dal gesto di Shuzo, e temeva che l’ironia con cui stava rispondendo potesse essere fraintesa.

«Okay, lo apro! Però quanto è spesso? Oltre ai biglietti hai svaligiato il negozio di dépliant?»

Ma il sorriso si spense adagio quando dalla busta marrone tirò fuori due fascicoli di fogli, scritti fitto fitto.

Nomi, dati.

Il sottoscritto Mori Shuzo, nato il 12/03… a Nankatsu, Prefettura di Shizuoka… denominato da adesso in poi, per brevità, come Acquirente… in data… alla presenza del notaio… acquista il lotto terriero numero…

Date, cifre.

Firme.

Quella del signor Ichinobu, come agente immobiliare e mediatore della compravendita, quella dei signori Harikawa, quella di Shuzo e quella del notaio.

Mamoru alzò la testa e fece un sol boccone della figura di Malerba, ancora ferma presso il divano, con le sue braccia conserte come statua e l’espressione così tranquilla da sembrare fuori dal mondo, perché gli aveva appena messo tra le mani la realizzazione di un desiderio e non poteva – non era ammissibile! – che avesse tutta quella serenità nel darglielo. Non era legale! Non era umano!

«…è il frutteto? Hai comprato il frutteto?!»

Un’altra alzata di spalle. Semplice, lineare, aliena.

Lui sgranò gli occhi ancora di più, nemmeno avesse dovuto farseli cascare dalle orbite. Rilesse i fogli, le scritte scorrevano velocissime, tanto che sembravano avere vita propria e correre via prima che riuscisse a dare loro un senso compiuto nella testa. Ne afferrava parole e stralci, e nella mente aveva confusione e ansia, l’incredulità faceva da collante in quel pastone indigesto.

«Come diavolo… oddio… Oddio, ti sei messo nei casini?!»

I cattivi pensieri si attivarono in automatico, perché non era in grado di ragionare lucidamente, e non sapeva darsi una risposta alle domande che aveva nella testa. Pensare male gli venne facile, anche troppo, e non ebbe la prontezza di pentirsene, ma di arrabbiarsi, mollare le carte con un colpo secco sul tavolo e distruggere la distanza che lui per primo aveva messo tra loro.

«Che cazzo hai fatto, Shuzo?! Che cazzo hai fatto!»

«Niente di illegale», sorrise Malerba.

«Hai chiesto i soldi a tuo padre?! Dimmi di no!»

«No, infatti.»

«E dove li hai… Tasho!» Quel nome s’illuminò come un’insegna al neon nelle sue intuizioni. Tanto da farglielo sputare fuori con tutta l’acredine possibile.

Shuzo sollevò le spalle, strinse appena l’occhio destro.

Ancora. Così. Mortalmente. Serafico.

«Nì… lui c’entra.»

«Lo sapevo! Cazzo, lo sapevo! Sei impazzito?! Perché l’hai chiamato?!»

«Mamoru…»

«Come diavolo ti è venuto in mente di contattare i 3Kitsu?!»

«Mamoru…»

«Che ti dice il cervello?!»

«Mamoru!»

«Cosa?!»

Oh, e adesso pretendeva di essere lui quello che lo teneva saldo per le spalle per farsi ascoltare?

Mamoru avrebbe voluto liberarsi dalla presa con uno scrollone, ma la stretta di Shuzo era ferma e stava ancora sorridendo.

Shuzo sorrideva, e lui non stava capendo più niente.

«Non ho fatto niente di illegale, non ho chiesto soldi a nessuno.»

«E allora come?!»

«Mi sono solo ricordato che, be’… le Cayman sono un bel posticino.»

La quadra si ordinò nella testa di Mamoru proprio come se tutti i pensieri fossero stati figure geometriche mischiate che non facevano che girare velocemente, sovrapponendo gli spigoli l’uno all’altro. Poi, di colpo, l’ordine perfetto e quel ricordo della conversazione avuta con Tasho anni prima.

«…il conto offshore

«Me l’ero completamente dimenticato. Ma non dire a Tasho che l’ho ammesso, già mi ha preso per il culo. E ho dovuto contattarlo per forza, perché, be’, era lui ad avere tutti i miei dati, io non sapevo neppure che cazzo dovevo fare. Si è ammazzato dalle risate, se può consolarti.» Shuzo lo lasciò andare e la presa si fece carezza che gli scivolò lungo le braccia. Si appoggiò di nuovo al bracciolo del divano, spostando lo sguardo a terra di tanto in tanto. «Lo so, non è proprio denaro pulitissimo, ma… almeno posso usarlo per qualcosa di buono.»

Nell’ordine, nella quadra, Mamoru realizzò la verità più importante di tutte, quella concreta che poteva toccare con mano. Anzi, in cui le mani presto ce le avrebbe fatte sprofondare, dentro la terra.

«Hai comprato il frutteto?» chiese con un filo di voce.

«Sì. Ho comprato il frutteto.»

«Ma Ichinobu-san…»

«Gli ho detto io di fingere nel caso avessi telefonato. Sapevo l’avresti fatto.»

«Ma il tempo…»

«Mi sono fatto aiutare da zio Tomohisa: come ogni buon Morisaki, conosceva le persone giuste.»

Tutto in ordine, tutto legale, tutto a posto. Tutto vero.

«Abbiamo il frutteto.»

«Leggi bene. Il secondo blocco di fogli.»

Shuzo indicò il plico abbandonato sul tavolo e Mamoru lo raggiunse, sempre confuso. Spostò l’atto di acquisto, guardò il resto e la sorpresa divenne voragine all’interno del petto.

«Una donazione?»

«Hai il frutteto.»

«Perché?»

Non riusciva a capirlo, e a far risalire la felicità che avrebbe dovuto travolgerlo. Shuzo aveva comprato il frutteto, era loro adesso, ma Malerba subito dopo l’aveva donato a lui, come unico beneficiario. Tutto firmato, tutto registrato.

Shuzo sorrise e le spalle vennero sollevate per l’ennesima volta.

«Perché te ne sei innamorato a prima vista e perché… hai dedicato così tanto tempo, passione e denaro a questo posto, al Mori no Kokoro… Volevo che il frutteto fosse tuo, comunque vadano le cose.»

«Stai dicendo che potrebbe finire male tra noi?»

«No no, non dico questo. È che… non saprei come spiegartelo. Io volevo…» Shuzo distolse lo sguardo per qualche istante, forse per cercare le parole. Ora sì che la felicità era risalita, ma non come esplosione che lanciava tutto in aria. Era arrivata fino all’orlo, gli aveva riempito il cuore piano piano e poi era tracimata. Quando il giovane lo guardò di nuovo, lui gli concesse il primo sorriso da che aveva letto l’atto di acquisto.

«Volevo donarti un pezzo di Paradiso, come tu lo hai donato a me.»

Mamoru lasciò i fogli sul tavolo e con calma tornò verso il compagno. Fece scivolare le mani sui fianchi e poi dietro la schiena, dove intrecciò le dita. Poggiò la fronte contro la sua.

«Il Paradiso ce l’ho ogni giorno, al tuo fianco», disse e ne cercò le labbra in baci brevi e continui, un sorso dietro l’altro, prima di appoggiare il mento sulla sua spalla e stringerlo. Stringerlo forte. Il Paradiso era tutto racchiuso tra le sue braccia.

«A volte raggiungiamo picchi di romanticismo che temo ne uscirò diabetico», sospirò Shuzo.

«Oh, ma so io come farti bruciare gli zuccheri.» Da dietro la schiena, le mani arpionarono le chiappe in una strizzata. «Sei un folle bastardo.»

Mamoru rise, lo abbracciò più stretto che poté e dentro si sentiva elettrico, perché adesso la carica si era attivata, dopo essere pacificamente tracimata. Era come certe eruzioni: prima effusive e poi esplosive. Sempre allo stesso modo spettacolari.

«Grazie.»

Shuzo gli baciò la punta del naso. «Rendilo speciale.»

«Lo renderemo speciale. Cosa credi? Ti ci dovrai fare il culo anche tu!»

«Ehi, io ho fatto la mia parte!»

«Non ci provare, Mori! Già penso che ad Hamoto-san verrà un colpo quando glielo dirò, mi servi per attutire la botta!» Mamoru si allontanò con una spinta brusca, dandogli anche un buffetto al braccio.

«E quindi son incastrato lo stesso?» Sbuffò Malerba, mentre lui recuperava un paio di bicchieri e ci versava dentro del Kuromori.

«Certo, che domande! E guai a te se ti lamenti! Credevi che il frutteto si sistemasse da solo?!» Gli offrì un bicchiere. «Un brindisi alle future migliaia di bottiglie in più che produrremo.»

«E fu così che diventammo degli ubriaconi.»

I vetri tintinnarono, il vino oscillò e nei loro occhi c’era tutta la felicità del mondo.

«Ehi, ma senti: quanto diavolo ci tieni sul famoso conto?» chiese Mamoru dopo aver bevuto un sorso di vino. Adesso sì che era curioso; questo conto era diventato una figura mitologica.

Shuzo si grattò la nuca e storse una smorfia. «Facciamo che te lo dico all’orecchio, Tasho mi ha fatto diventare paranoico: lui e i complotti, le intercettazioni.»

«Addirittura? E che siamo in Mr. Robot

Malerba fece spallucce, l’aria di chi non ci capiva niente e Mamoru non se ne stupì, si avvicinò e un mormorio lo raggiunse nel momento in cui aveva messo in bocca un nuovo sorso di vino… che risputò l’attimo dopo con un meraviglioso spruzzo rosso.

«Cosa?!»

Shuzo sorrise, si guardò alle spalle. «E mi sa che dobbiamo rifare il divano.»

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …gnì. <3

XD un po’ di lollosità Tashika (per una volta non fanno cose pessime, lui e Malerba!) e un po’ di dolcezza. Il tutto condito dalla stupidità cronica di Shuzo verso la tecnologia XDDDD Evvabè, non tutte le ciambelle riescono col buco! XDDD

Penultima shot di questa raccolta. I ragazzi hanno finalmente il frutteto *-* Mamoru lo aveva desiderato per tanto tempo, e ora può dimostrare a sé stesso di non avere più paura di fallire. :3

Dall’epilogo di ‘Malerba’ sappiamo che il frutteto dà tante gioie a tutti loro, con la sua bellissima distesa di pruni che fiorisce in inverno. :3

Cose belle per questi figlioli, ancora cose belle. Quelle che hanno meritato, dopo tante fatiche! :D

 

Prossima settimana arriverà l’ultimo capitolo della raccolta.

Stay tuned!!! :D

 

 

   
 
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