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Autore: Adeia Di Elferas    15/01/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Cesare aveva chiesto a Michelotto di raggiungerlo il prima possibile nel suo padiglione. Non aveva davvero bisogno della sua presenza, ma stava aspettando un uomo che non conosceva e, non sapendo fino a che punto si sarebbe spinta l'inventiva dei suoi nemici, il timore di trovarsi davanti un sicario non lo faceva stare tranquillo.

Avere il suo amico a coprirgli le spalle, gli sembrava il minimo. Non poteva nemmeno fidarsi delle guardie che stavano vicino all'ingresso del tendone. Quel giorno – ma non era stata la prima avvisaglia – aveva capito che l'esercito a cui pensava di essere a capo non gli voleva obbedire. I soldati non lo riconoscevano come capo, malgrado avesse fatto quel che gli era stato consigliato, ovvero vivere in mezzo a loro, mangiare il loro medesimo rancio e, perfino, patire il freddo come loro in mezzo al campo, invece di requisire un bel palazzo signorile.

E loro come lo avevano ripagato? Lasciando inascoltati i suoi ordini, sbeffeggiandolo abbastanza apertamente quando lo incontravano, e perfino ridendo di lui dopo avergli indirizzato delle battutacce nelle loro lingue.

Il Borja sapeva bene che una truppa così indisciplinata poteva essere rimessa in riga solo in due modi: o con la paura o con il denaro. Per la prima non si sentiva ancora pronto, mentre per la seconda stava aspettando notizie da un suo cugino Cardinale, che avrebbe dovuto portargli a breve una grossa somma da distribuire agli uomini per recuperare il loro favore, ma che per il momento era arrivato appena a Cesena.

Il Valentino batté per qualche minuto la punta delle dita contro il tavolino da campo dietro cui si era seduto. Ormai era sera, stava venendo tardi, e non capiva cosa stesse trattenendo Miguel. Anzi, cominciava a credere che il suo ritardo fosse un segnale da non sottovalutare.

Si alzò, grattandosi una delle croste che gli coprivano la guancia e andò verso l'uscita del padiglione. Forse si trattava di una grande trappola e non voleva farsi trovare lì. Però, appena aprì la tenda che lo separava dal gelo di quella notte, proprio Michelotto si profilò a qualche passo dalla tenda.

“Che fine avevi fatto?” gli chiese Cesare, facendogli segno di entrare.

L'altro, non ribattendo al tono perentorio dell'amico, si strinse un po' nelle larghe spalle coperte da un mantello umido di pioggerella e poi disse: “Ho preso informazioni sul falegname che sta venendo qui.” spiegò: “Dicono sia un uomo semplice, ma affidabile. Ha bisogno di soldi.”

Il Duca di Valentinois annuì. Un uomo che necessitava denaro era sempre un ottimo affare, quando si cercava un delatore.

I due stavano per approfondire il discorso, quando una delle guardie mise dentro la testa per annunciare che la persona che stavano aspettando era arrivata.

“Mettiti in quell'angolo.” disse il Borja a Miguel de Corella, indicando il punto più buio del padiglione: “Non fiatare e non intervenire a meno che non sia strettamente necessario.”

Mentre Michelotto raggiungeva la sua postazione in penombra, Cesare raddrizzò la schiena e accolse il falegname a braccia spalancate.

L'imolese, visibilmente intimidito dall'essere al cospetto di quello che tutti conoscevano come 'il figlio del papa', chinò il capo, togliendosi la berretta e, indeciso se buttarsi a terra in ginocchio o no, chinò vistosamente il capo e dichiarò: “Servo vostro, mio signore.”

Il Borja fece un cenno veloce con la mano, permettendogli di rimettersi dritto e poi gli chiese, senza preamboli: “Che cosa avete da dirmi?”

L'uomo tentennò per qualche istante, apparendo quasi pentito di essere lì. Guardava di sottecchi il generale dei francesi e poi, intimorito, riabbassava lo sguardo e passava il peso da un piede all'altro.

Il Valentino non aveva alcuna voglia di perdere altro tempo con lui, perciò, tralasciando i modi concilianti, gli disse, aggressivo: “Se non avete nulla di interessante da dirmi, vi farò prendere dalle mie guardie e...”

“So come potete fare per prendere la rocca di Imola.” sputò il falegname, sgranando poi gli occhi, spaventato dalle sue stesse parole.

 

Caterina si stava muovendo agitata per la stanza. Le sembrava che il francescano stesse ritardando troppo. Più il tempo passava, più l'istinto che l'aveva portata a desiderare di scaricarsi la coscienza confessandosi con lui scemava.

Quando, nel suo nervoso misurare la camera avanti e indietro si vedeva riflessa nel piccolo specchio sulla scrivania, i suoi occhi verdi incontravano quelli della sua immagine e, nel vedersi, ogni volta stentava a riconoscersi. Nella donna coi capelli bianchi, il viso teso e gli abiti da uomini che intravedeva nello specchio, c'era poco di quello che era stata fino a qualche anno prima. Era invecchiata, su quello non c'erano dubbi, e, anche se a detta di tutti restava una bellissima donna, aveva perso una volta per tutte la luminosità dei vent'anni.

Si era soffermata un momento di più a osservare il suo riflesso, quando sentì finalmente bussare alla porta.

“C'è aperto.” disse, senza voltarsi.

“Perdonatemi...” la voce di Vangelista Monsignani, al suo orecchio già familiare, le arrivò alle spalle assieme a un tenue odore di incenso: “Ero andato un momento in chiesa e...”

“I religiosi che hanno accettato di venire a Ravaldino come volontari non dovrebbero allontanarsi dalla rocca senza il mio preciso permesso.” fece notare lei, che aveva diramato quella disposizione fin da subito.

Il ragazzo fece un sorriso un po' imbarazzato e poi, schiarendosi la voce, come se fosse certo che tutto quanto gli fosse già stato perdonato, prese da una bisaccia che portava con sé una stola da prete e spiegò: “Ho portato i paramenti. Quando siete pronta, posso confessarvi.”

La Sforza fissò per un lungo momento il frate che stava indossando la stola e poi, sporgendo un po' in fuori le labbra, mise in chiaro: “Non ho intenzione di confessarmi in modo formale. Voglio solo scambiare due parole con qualcuno che... Che sia tenuto al segreto.”

“Il segreto a cui sono legato è quello della confessione, però.” precisò l'uomo, facendosi per la prima volta titubante: “Quindi, nel caso in cui vogliate solo parlare, dovrete fidarvi di me.”

“A me sta bene.” annuì lei: “Mi sono fidata anche di gente peggiore...”

A quel punto il religioso chinò appena il capo e poi la incoraggiò: “Di cosa volete parlare?”

“Mi è difficile trovare qualcuno che sia colto e paziente.” disse la Tigre, cercando di scegliere bene le parole: “Ho un uomo che mi ama, ma con cui è impossibile fare discorsi che vadano oltre il numero di bocche da fuoco di cui dispone Forlì o la quantità di corazzine che ancora vanno forgiate... E di contro ho un amico molto istruito, ma con il quale non posso parlare d'altro se non di politica e di letteratura.”

Vangelista ascoltava in silenzio, la stola confessionale ancora sulle spalle, come un comodo abito che gli calzava a pennello. I suoi occhi chiari indagavano la Leonessa in un modo di cui la donna non si avvide, ma dalle sue labbra uscivano solo brevi suoni di comprensione che la inducevano a proseguire, dandole l'impressione di essere sostenuta e ascoltata.

Mettendo da parte le due figure che aveva appena evocato – ovvero Pirovano da un lato e Marulli dall'altro – la Contessa riprese: “Io vorrei solo qualcuno con cui parlare a ruota libera, qualcuno che mi aiuti a prendere delle decisioni, ma non solo in campo diplomatico o riguardanti la guerra...”

“Per quello che posso – le assicurò Monsignani, muovendo un passo verso di lei – vi ascolterò e cercherò di darvi un consiglio...”

“Non voglio altri consigli.” si irrigidì la milanese, temendo di aver avuto troppa fiducia nel profilo armonioso e nello sguardo sveglio del suo interlocutore: “Di consigli ne ricevo già abbastanza ogni giorno da chiunque. Voglio qualcuno che discuta con me alla pari, senza aver paura di dire troppo, ma anche senza la presunzione di sapere cosa devo fare.”

Vangelista strinse le labbra, ragionando su quanto gli era stato detto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di restare in quella stanza con lei ancora un po', perciò annuì e disse di aver capito e di essere disposto a ragionare assieme a lei, se era quello di cui aveva bisogno.

“Allora sedetevi.” fece lei, restando in piedi, ma indicandogli il letto, il posto più comodo della stanza: “Perché sarà una questione lunga.”

Cesare Borja aveva lasciato andare il falegname, ringraziandolo e dandogli qualche moneta.

Il delatore era parso un po' deluso dalla cifra che gli era stata concessa, ma quando aveva schiuso le labbra per dar voce alla propria insoddisfazione, Michelotto si era tolto dal cono d'ombra che lo nascondeva, mettendosi in mostra. Quell'apparizione era stata più che sufficiente per convincere l'imolese a ringraziare di nuovo e rimangiarsi ogni tipo di recriminazione.

Appena la spia aveva lasciato il padiglione, il Valentino aveva fatto avvicinare Miguel e gli aveva detto: “Fai in modo che quel falegname venga tenuto d'occhio e non corra subito alla rocca da Naldi a fare il doppio gioco. Se fosse necessario, prendilo anche in custodia. E poi mandami qui Tiberti.”

E così, mentre l'amico, senza fare una piega, partiva per portare a termine l'ordine ricevuto, il Duca di Valentinois si era messo in attesa.

Ciò che gli era stato riferito, se fosse risultato vero, sarebbe stato la chiave per conquistare molto in fretta la rocca. Una volta preso il rivellino, di certo Naldi si sarebbe arreso e non avrebbe provato più a contrastarli. Entrare nel cortile con i fanti e l'artiglieria avrebbe reso impossibile agli imolesi tentare di respingerli.

“Siete arrivato, finalmente.” la voce del Borja a Tiberti suonava sepolcrale, come se uscisse da una grotta.

“Come mai mi avete voluto vedere a quest'ora?” chiese il condottiero: “Ormai è notte fonda e...”

“Dovete andare subito a Cesena.” tagliò corto Cesare.

“A Cesena?!” sbottò Achille: “Ma siete impazzito?! Con tutto quello che abbiamo ancora da fare qui non...”

“State zitto, una volta tanto!” sbraitò il Valentino, irritato oltre ogni dire: “Ora capisco perché la Sforza di Forlì non vi sopportava più!”

Il cesenate chiuse la bocca e, con visibile risentimento, fissò il figlio del papa e, non rinunciando a parlare, dopo un secondo disse: “Ero io a non sopportare più la Sforza e non il contrario.”

Mentre l'altro sollevava una mano, agitandola come per allontanare una mosca, Tiberti allacciò le mani dietro la schiena e assunse un'aria orgogliosa, ma al contempo molto indispettita, in modo da rendere palese la sua insofferenza verso il Borja.

“A differenza vostra – disse il Duca di Valentinois, sorvolando sull'atteggiamento del comandante solo per non perdere altro tempo – io so come prendere la rocca di Imola.”

Per la prima volta da che era entrato nel padiglione, Tiberti parve davvero senza parole.

Mentre il cesenate lo fissava attonito, Cesare riprese: “Ho avuto informazioni solidissime su come espugnarla, facendo fuoco in modo sistematico solo un determinato punto delle mura, vicino al rivellino. È il punto più debole di tutta la costruzione. Si aprirà una breccia e potremo entrare nel cortile. Da lì costringere il Naldi alla resa sarà una cosa da niente.”

Achille avrebbe tanto voluto poter dileggiare il Borja e trovare un modo per smontare la sua teoria, tuttavia sapeva che poteva essere corretta. Lui stesso, quando ancora era al servizio della Tigre, l'aveva sentita lamentarsi a volte di come la struttura della rocca di Imola non fosse perfettamente inespugnabile. Non aveva mai saputo in che modo, ma quella poteva essere una spiegazione più che valida.

“E allora – disse, allargando le braccia – attacchiamo subito, già stanotte. Entro mattina avremo...”

“Quanto siete stupido!” la voce del Valentino si stava alzando in modo incontrollato.

Cesare stava riconoscendo uno degli attacchi di collera che lo prendevano di quando in quando. Si trattava di esplosioni non sempre dalla solida motivazione, ma spesso collegate a una forte emicrania, presente anche in quel momento, e a una generale incapacità di sopportare anche il più piccolo fastidio.

“Gli uomini devono ubbidirmi. E per farlo, devono capire che la loro fortuna dipende da me e da nessun altro.” spiegò il figlio del papa, premendosi la punta delle dita contro le tempie, nella vana speranza di alleviare il pulsare della sua testa: “Ecco perché andrete subito a Cesena, dove troverete il Cardinale Borja, mio cugino, che stava venendo qui coi soldi. Ve li farete consegnare e voi, con la scorta a cavallo che vi darò, tornerete qui molto prima e in modo molto più sicuro di lui.”

Achille sapeva che l'idea era buona e lo faceva arrabbiare pensare che fosse arrivata dalla testa dell'uomo che aveva davanti. Il Borja, per lui, era un ventiquattrenne capriccioso che credeva che il mondo fosse stato creato a suo uso e consumo. Se non fossero stati sulla medesima barca, avrebbe voluto vederlo cadere nel fango e sporcarsi, una volta tanto, quei guanti bianchi che spesso indossava per andare a cavallo...

“Ovviamente non passerete da Forlì.” riprese il Valentino, andando alla scrivania e vergando in fretta una lettera d'accompagnamento che avrebbe persuaso il Cardinale a lasciare il denaro a Tiberti: “Farete la via più lunga, ma dovrete fare in fretta. Non dobbiamo perdere quest'occasione.”

Achille annuì, prese la missiva e poi chiese: “Sceglierete voi gli uomini che verranno con me a Cesena?”

Cesare avrebbe tanto voluto dire di no e mettersi finalmente a letto, dopo un paio di bicchieri di vino. Tuttavia sapeva che quello era il momento per far capire una volta per tutte a Tiberti chi comandava tra loro due.

Il problema, però, si rese conto subito, era che lui non conosceva affatto i soldati del suo esercito. A sceglierli a caso, avrebbe rischiato di fare una pessima figura con il cesenate che, invece, aveva avuto modo di farsi un'idea di ciascuno, in quelle settimane.

“Sarà Zitolo da Perugia a scegliere la vostra scorta.” decise alla fine, scegliendo il condottiero meno borioso e quello tutto sommato più affidabile: “Fatelo venire qui, gli spiegherò che fare.”

 

Da quando la Sforza aveva cominciato a parlare, dapprima con parsimonia, come se ogni parola le costasse un grosso sacrificio, e poi invece come un fiume in piena, erano passate almeno tre ore. Il frate stava dando prova di un'attenzione e di una prontezza che la Tigre di rado aveva trovato in uomini tanto giovani e sentire il modo in cui ribatteva alle sue esternazioni le permetteva di ragionare e togliere le briglie alla sua mente.

Anche Vangelista stava trovando quell'incontro molto costruttivo e interessante. Da un lato stava capendo molto più in fretta del previsto il modo in cui la mente della Contessa si muoveva e, dall'altro, stava apprezzando la sua presenza fisica, così vicina a lui, così presente e viva che, in certi momenti, quasi lo distoglieva dal filo dei pensieri che inseguivano assieme.

Dopo un po' anche la Tigre si era seduta sul letto e così, spalla contro spalla, si erano messi a parlamentare di tutto, spaziando dalla cura dei figli – argomento che con Pirovano non era mai riuscita a sfiorare in modo sereno – fino ad arrivare all'alchimia, passando per l'opportunità o meno di uccidere i prigionieri che ancora affollavano le segrete di Ravaldino e che, ormai, nell'ottica della Leonessa, costituivano solo delle bocche in più da sfamare.

“Non è una questione che si possa decidere in fretta – stava dicendo in quel momento Caterina, dopo essere arrivata a parlare di Imola – ma la fretta mi è imposta da quello che sta succedendo.”

Vangelista, che tra tutte le cose, quella che capiva meno era proprio la guerra, non sapeva cosa dirle. Era proteso verso di lei, il suono della sua voce che ormai gli toccava le corde del cuore come le dita di un musico pizzicavano quelle di uno strumento, e tutto quello a cui riusciva ormai a pensare era al sentore e al calore della sua pelle.

“Da un lato vorrei ordinare già stanotte a Naldi di arrendersi e di mettersi in salvo, ma, dall'altro, vanificherei la sua azione diversiva e... Non mi state più seguendo, vero?” chiese la donna, scorgendo nello sguardo del frate una strana confusione che imputò solo alla difficoltà di parlare di guerra.

Il giovane scosse piano il capo e poi le chiese, senza un vero senso logico: “Ma davvero Giovanni da Casale, per voi, conta così tanto come mi avete detto?”

Caterina rimase per qualche istante senza parole. Non sapeva cosa rispondere a una domanda tanto diretta. Era vero, lei stessa aveva ammesso che se non avesse avuto Pirovano al suo fianco, sicuramente si sarebbe sentita ancora più sola e indubbiamente più indifesa, però...

“Avete avuto molti uomini, in quest'ultimo periodo, pur avendo lui accanto.” continuò Monsignani, spostando lo sguardo dagli occhi alle labbra di lei: “Mi sembra un comportamento abbastanza egoista.”

“Non ho mai detto di non essere egoista.” si schermì lei, riconoscendo finalmente la luce che aveva intravisto nelle iridi chiare del frate.

In tutta sera, non l'aveva mai guardato bene, o, comunque, non come avrebbe guardato qualsiasi altro uomo. Il saio che portava, la tonsura, e perfino la stola che ancora campeggiava sulle sue spalle, le davano l'impressione di aver davanti a sé una sorta di entità intoccabile, non un ragazzo.

Però, ora che si permetteva di vedere altro oltre all'abito da religioso, doveva ammettere che aveva una figura slanciata, un bel viso e delle mani morbide e dalle dita affusolate, molto curate, per essere un francescano.

Cercando di togliersi dalla mente un pensiero che si stava facendo suo malgrado preminente, la donna riprese: “E comunque...”

Prima che potesse concludere la frase, Vangelista si avvicinò ancora un po' e la baciò.

“Siete un frate.” soffiò la Tigre, quando Monsignani si ritrasse dopo qualche secondo.

“Sono un frate – confermò lui – ma sono pur sempre un uomo.”

“Avete fatto voto di castità.” gli ricordò la Leonessa.

“Sono un peccatore come tutti.” ribatté pronto lui, un sorriso sghembo che gli sollevava l'angolo della bocca.

A quel punto la Sforza valutò meglio la situazione. Le sembrava assurda, ma allo stesso tempo le pareva un'occasione interessante. Se solo fino a dieci minuti prima non aveva minimamente preso in considerazione l'ipotesi che tra lei e il francescano potesse esserci qualcosa che andasse oltre un dialogo, ora le si aprivano nuove prospettive.

“Quanti anni hai?” gli chiese, abbandonando ogni tipo di formalità e cercando di intercettare il suo sguardo, che ora la passava in rassegna senza più alcun pudore, acceso da un desiderio tutt'altro che pio.

“Venticinque.” fece lui, per la prima volta un po' guardingo.

“Pensavo meno.” ammise la Contessa.

Il modo in cui lui ricambiò la sua occhiata confermò ancora di più la prima impressione della Leonessa. Malgrado fosse chiaro che quel frate fosse molto colto, il suo sguardo era a tratti così ingenuo, da far credere che fosse appena un ragazzo. Aveva la stessa luce fresca che aveva avuto Giacomo quando l'aveva conosciuto. Non aveva la stessa bellezza, né l'attraeva con la medesima forza, però in un certo senso glielo ricordava...

Temendo di vedersi opporre un rifiuto per la differenza d'età che correva tra loro, Monsignani disse, quasi mangiandosi le parole: “Ma anche voi sembrate una ragazza, anche se...”

“Anche se sono vecchia.” concluse la donna al suo posto.

“Non mi permetterei mai di dirlo.” il modo quasi offeso in cui il giovane aveva parlato, fece sorridere la Sforza, che, ormai, aveva deciso cosa fare di lui.

Provando a baciarlo a sua volta, si prese qualche secondo per sentire quanto fosse strana la stoffa del saio sotto le dita e quanto lo fosse il sentore dell'incenso nelle narici. La sua pelle sembrava essersi impregnata di quell'aroma forte e speziato e, per la prima volta, Caterina non lo trovava un odore sgradevole.

“Se qualcuno te lo chiede, però – mise in chiaro la Tigre, avvertendo le mani di Vangelista che iniziavano a muoversi su di lei con molta più sicurezza di quanto si sarebbe aspettata – sei stato qui solo per confessarmi.”

Monsignani annuì con decisione e, senza la minima vergogna per il modo in cui era vestito, fece stendere lentamente la Sforza sul letto. Seguendo le sue tacite indicazioni, cominciò a spogliarla, fremente, ma senza indugio, con una sicurezza che tolse ogni dubbio alla Contessa su quanto quel frate fosse stato sincero, nel dire che era un peccatore esattamente come tutti gli altri.

 

Le parole di Castagnino entravano e uscivano dalle orecchie di Astorre come refoli d'aria.

Anche se era piena notte, il quattordicenne non aveva sonno – come, in effetti, sembrava non averne mai – eppure la paternale del suo tutore era riuscita a farlo sbadigliare già tre volte.

“Mi credete uno stupido?” chiese alla fine il giovane signore di Faenza, quando Castagnino si mise a dire per la decima volta che mettersi contro il figlio del papa sarebbe stato un suicidio: “Non c'è bisogno che lo ribadiate ancora.”

Niccolò, che da tempo dormiva poco, ma non per costituzione, come il suo protetto, ma per la paura, sgranò gli occhi ed esclamò: “E allora perché insistete con i vostri insani propositi! Io sono il responsabile del vostro esercito e vi assicuro che non resisteremmo un mese, se i francesi ci attaccassero!”

“Io sono il signore di Faenza. Sono il successore di mio padre Galeotto.” disse, con calma, il Manfredi, il viso ancora infantile che si pietrificava in un'espressione che Castagnino aveva sempre trovato molto inquietante: “E sono il marito di Bianca Riario. Il suo Stato è stato attaccato. È mio preciso dovere intervenire.”

Lo studiolo in cui il tutore e il suo pupillo si erano incontrati era poco illuminata e, con il vento che soffiava appena fuori dalla finestra e le fiamme nel camino che stavano per spegnersi, a Niccolò dava l'impressione di un sepolcro.

Voleva tornarsene nella sua stanza, ma prima voleva essere sicuro che Astorre non avrebbe mai più accennato all'idea di mettersi in armi contro i francesi. Aveva lavorato troppo e per troppo tempo a quell'alleanza con il Valentino, per permettere a un ragazzino di rovinarla.

Così, pungendo il Manfredi proprio nell'unico punto veramente vulnerabile della sua anima, Castagnino si strinse un po' nelle spalle e gli fece notare: “Certo, certo... Per convenienza politica siete stato legato a lei in matrimonio, ma si tratta di un matrimonio che non è mai stato consumato, per di più voluto da una donna come la Tigre di Forlì...”

Gli occhi chiari di Astorre saettarono verso quelli del suo tutore. Niccolò evitò di sorridere, ma sapeva che stava per portarlo esattamente dove voleva. In fondo, malgrado si atteggiasse a grande sovrano e volesse presenziare personalmente a ogni incombenza che il suo ruolo imponeva, il signore di Faenza era ancora solo un bambino.

“Una donna che non è stata capace di restare fedele a un uomo... Che ha tradito più e più volte il padre dei suoi figli... Che, forse, addirittura è stata la cagione della morte di suo marito...” continuò Castagnino, sollevando un sopracciglio, fingendosi scandalizzato da quella situazione.

Lo sguardo di Astorre si stava offuscando. La sua mente lo stava riportando indietro di anni, a quando sua madre Francesca aveva ucciso suo padre Galeotto, andando poi da lui, imbrattata da capo a piedi di sangue. Poteva ancora ricordare l'odore ferroso che gli aveva riempito le narici, scendendogli fino al cuore, quando lei l'aveva preso in braccio, stringendoselo al seno.

E ricordava anche molto bene chi fosse stata la prima persona a cui sua madre avesse scritto, subito dopo essersi macchiata di quell'imperdonabile colpa: Caterina Sforza.

“Non ci si può illudere che la figlia sia cresciuta diversa dalla madre.” proseguì Niccolò, guardando soddisfatto il volto del suo pupillo che si faceva terreo, mentre i muscoli del suo collo si contraevano per contenere la rabbia che cresceva assieme all'intensità dei ricordi: “Dicono che abbia già l'abitudine di passar la notte con un soldato diverso ogni volta, esattamente come sua madre... E, in effetti, come potrebbe essere il contrario, vista la donna che ha come esempio... Farla vivere in una rocca piena di uomini...”

“Basta così.” il tono di Astorre era perentorio, ma anche pieno di dolore.

Era chiaro ed evidente che la sua attenzione non era tanto rivolta a che tipo di donna fosse diventata Bianca Riario, quanto a che tipo di donna era stata e continuava a essere sua madre Francesca Bentivoglio.

Passandosi una mano tra i capelli biondi, il ragazzino si schiarì la voce e poi, alzandosi di scatto, decretò: “Va bene. Faremo come dite voi. Domani in Consiglio spiegherò che è necessario mostrarci buoni alleati dei francesi e che potranno passare di qui, a patto che non ci arrechino troppo danno, e andare a Forlì. Il legame che abbiamo stretto con Venezia in questi anni non andrà tradito.”

Castagnino, felice di aver finalmente persuaso Astorre, chinò il capo, come se stesse ubbidendo a un ordine calato dall'alto e non pilotato da lui stesso.

“E se...” il Mafredi ebbe un attimo di esitazione, ma poi, tenendo le braccia lungo il corpo, assumendo una postura che lui stesso riteneva molto autoritaria, concluse: “E se avessimo notizia che i francesi prendessero come ostaggi la Contessa Riario o sua figlia, è mio preciso volere che da Faenza non esca nemmeno una picca a difenderle.”

“Siete una guida molto saggia, per il vostro Stato, mio signore.” lo incoraggiò Niccolò e poi, mentre il ragazzino finalmente se ne andava, soggiunse a voce bassa, sicuro di non poter essere ascoltato: “E io sono un tutore molto paziente.”

 

Caterina non riusciva a dormire. Era da quasi un'ora che teneva gli occhi aperti, fissando il soffitto, incapace di trovare il modo di tranquillizzarsi.

Vangelista, steso accanto a lei, non sembrava avere i suoi stessi problemi, anzi, si era addormentato subito e con una facilità che la donna gli invidiava profondamente.

Dal canto suo, invece, la Contessa era tormentata dai dubbi. Di per sé, prendersi un amante all'improvviso, seguendo i propri istinti e spegnendo la coscienza non era per lei una situazione estranea. Però in quel frate c'era qualcosa che la metteva in guardia, era come la sensazione di sapere che si sarebbe fatta male, a tenerselo vicino.

Nemmeno quella era una sensazione a lei nuova. La provava anche ogni volta in cui incrociava per caso Baccino da Cremona. Solo che, nel suo caso, era sempre riuscita a trattenersi.

Monsignani era un ragazzo colto, intelligente, con cui era piacevole anche discutere e non solo sfogare le proprie voglie. E proprio per quello per lei poteva dimostrarsi un pericolo. Non voleva legarsi più a nessuno. Perfino il laccio molto lasso che la teneva ancorata a Giovanni da Casale a volte le pareva troppo stretto.

La stanza era avvolta in una luce spettrale. Fuori non pioveva più e la luna aveva fatto capilino tra le nuvole, rischiarando tutto con i suoi riflessi argentati. Le ombre sulle pareti e sul soffitto erano lunghe e il vento che spirava con forza oltre il vetro della finestra sibilava come una voce viva.

Rinunciando a provare a dormire, la donna si mise a sedere, facendo in modo di non disturbare il frate. Si lasciò scivolare di dosso le coperte e, con un movimento fluido e silenzioso, lasciò il letto, cercandosi una vestaglia da notte. La indossò, per proteggersi dal freddo, e poi si andò a sistemare alla scrivania.

Appollaiata sulla sua sedia, si mise a fissare Vangelista. Mentre osservava il suo corpo nascosto dalle lenzuola e il suo volto in parte premuto contro il cuscino, si trovò a ricordare a sprazzi quello che era successo tra loro. Le tornò alla mente la sensazione stranissima che aveva provato, quando, afferrandogli i capelli, aveva trovato il cerchiolino calvo della tonsura. Avvertiva ancora la facilità con cui gli aveva sfilato il saio, senza trovare altri vestiti sotto, malgrado la stagione rigida, e il modo in cui prima gli aveva strappato dalle spalle la stola confessionale, quasi con rabbia. Risentiva il suo fisico asciutto, ma ben diverso da quelli allenati e muscolosi degli uomini che si sceglieva di solito, contro il proprio.

In un'inattesa puntata di ironia, si trovò a immaginarselo intento a fare a pugni con Pirovano, e a soccombere dopo un solo colpo.

Tornò subito seria, però, rammentando come si fosse dimostrato un amante capace, tutt'altro che alle prime armi. Dopo quella notte, non lo vedeva più solo come un privilegiato che aveva scelto l'ordine francescano per capriccio, ma come un gaudente, che aveva indossato il saio per sottrarsi al controllo del padre, ma che alla fine usava ancora il suo cognome – e probabilmente anche i suoi soldi – per togliersi tutti gli sfizi che gli saltavano in mente.

Con un sospiro, le braccia incrociate sul petto, la Sforza si chiese comunque come avesse fatto a essere così debole davanti a un frate di venticinque anni. Era capitolata dopo un bacio. Era bastato tanto poco, che pensare alla propria incapacità di resistere le faceva paura.

Forse, continuava a dirsi, era stata solo la solitudine, unita alla pressione che la schiacciava ogni giorno, a farla scivolare a quel modo.

Se al posto di Monsignani nella sua stanza ci fosse stato qualcuno come Fortunati, un uomo maturo, più o meno suo coetaneo, con cui confrontarsi, non sarebbe finita a quel modo.

Il ricordo di Fortunati le fece storcere la bocca. Sapeva che stava facendo tutto il possibile per preparare la strada ai suoi figli, una volta che fossero arrivati a Firenze. E sapeva anche che lui si sentiva ancora in colpa per la morte tragica di Manfredi, benché non ne avesse colpa. Avrebbe voluto poterlo rivedere, anche solo per pochi minuti, per dirgli che non era adirata con lui, ma che, anzi, gli era gratissima, più di quanto si potesse esprimere a parole.

Però la verità era che lei e Fortunati erano destinati a non vedersi mai più. Il Borja era ormai alle porte, e lei sarebbe rimasta a Forlì fino all'ultimo, mentre il piovano era in Toscana, al sicuro, pronto a fare il possibile per aiutare i figli di quella che forse riteneva davvero un'amica.

Quasi a risvegliare a forza dai suoi pensieri la Tigre, le campane della città batterono le quattro di notte. La Sforza si morse il labbro e si chiese se fosse il caso di svegliare Monsignani e mandarlo via. Forse, senza di lui nel letto, sarebbe riuscita a prendere sonno.

Tuttavia, il giovane dormiva tanto beatamente che la Sforza non se la sentì di disturbarlo. Tanto, pensava, non sarebbe riuscita a riposare comunque.

Ragionando su quello che lei e il frate si erano detti la sera prima, però, capì come poteva usare quella parentesi di insonnia. Accese con discrezione una candela e poi, dopo aver giocherellato per un po' con il proprio nodo nuziale, prese il necessario per scrivere.

Quando avevano discusso sulla necessità di avere soldi a disposizione, dato che probabilmente presto sarebbe arrivata la richiesta del pagamento della seconda rata della cauzione per la custodia di Giovannino, l'uomo l'aveva incitata a ricordare se avesse dei creditori, in Italia. Gli unici che le erano venuti in mente erano stati i Valentini di Modena. Aveva dato loro, parecchio tempo prima, un vaso d'argento di valore abbastanza alto, come garanzia per certi affari.

Non poteva certo scrivere a loro direttamente, però, perché già altre volte aveva cercato di riavere il vaso, ma senza successo. Era stato proprio Monsignani a consigliarle di appellarsi al Duca di Ferrara, che era signore dei Valentini, per vedere come Ercole Este avrebbe reagito a quella sua richiesta.

Malgrado tutto, il ferrarese ancora non aveva apertamente espresso la sua posizione nei confronti della Tigre e tentare di smuoverlo non le avrebbe certo nuociuto.

Così, anche se con scarsa fiducia, la donna impugnò la penna e, dopo averla intinta nell'inchiostro scrisse l'intestazione della missiva, indirizzandola proprio al Duca. Dopo aver cercato le parole, decise di chiedergli di obbligare i Valentini a restituirle il vaso, sfruttando il suo potere e la sua supremazia su Modena.

Immaginava che non sarebbe servito a nulla, ma voleva provarci. I soldi le sarebbero serviti veramente e vendere i gioielli in quel momento era una mossa che non poteva permettersi. La sua speranza più concreta, paradossalmente, restava nell'essere messa sotto assedio dal Valentino prima che Lorenzo mandasse un emissario per riscuotere la rata. Avrebbe preso solo tempo, non avrebbe risolto il problema, ma era meglio di niente.

Ultimata la missiva, la donna aspettò che asciugasse l'inchiostro, e poi la chiuse. Lasciatala sulla scrivania, si alzò e provò a tornare a letto. Nel rimettersi sotto le coperte, però, fu meno agile del previsto e così Vangelista aprì un occhio.

“Va tutto bene?” le chiese, trattenendo uno sbadiglio.

“Mi farai da segretario.” decise lei, rigirandosi tra le lenzuola fino a dargli le spalle: “E sarai il mio confessore ufficiale. In questo modo, avrai una scusa credibile per essere nelle mie stanze a qualsiasi ora.”

“Non credevo ti servissero delle scuse...” commentò piano lui, stringendole appena il fianco con una mano.

“Sei un frate.” gli ricordò lei: “Anche se vado in giro vestita da uomo e sono in guerra contro il figlio del papa, questa sarebbe davvero troppo anche per me, se si sapesse...”

Monsignani non ebbe nulla da ridire e, dopo qualche secondo, si riaddormentò come nulla fosse.

Caterina, invece, ricominciò a pensare, e quando arrivò l'alba, il sole stentato di quel 29 novembre la trovò ancora sveglia, con gli occhi spalancati e la mente impantanata in una serie di ragionamenti che a tratti le toglievano il fiato.

 
   
 
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