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Autore: Red_Coat    19/01/2020    1 recensioni
Questa è la storia di un soldato, un rinnegato da due mondi. È la storia del viaggio ultimo del pianeta verso la sua terra promessa.
Questa è la storia di quando Cloud Strife fu sconfitto, e vennero le tenebre. E il silenzio.
Genere: Angst, Guerra, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cloud Strife, Kadaj, Nuovo personaggio, Sephiroth
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'allievo di Sephiroth'
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Ben venga il caos, perché l’ordine non ha funzionato.
 

- Charles Bukowski -
 
Tra i ricordi più vividi della sua infanzia, ce n'erano alcuni che continuavano a restarlo anche e soprattutto ora che la sua mente fuori binario alternava sprazzi di lucidità a lunghissimi intervalli di lucida follia.
Quando era piccolo amava travestirsi, soprattutto in occasione della festa dedicata al ricordo dei defunti, in cui si compivano anche diversi riti per scacciare gli spiriti maligni e rendersi irriconoscibili ai loro occhi.
Ogni cultura aveva i propri. Midgar, che era una città in fondo multietnica e fondamentalmente consumista, assecondava tutti quelli che potevano portare vantaggio alle casse del suo comune.
Il piccolo Victor Osaka diventava elettrico e impaziente quando vedeva le foglie degli alberi iniziare ad imbrunire, le giornate farsi più corte e il freddo avanzare, in città e sul calendario, perché sapeva che quel periodo era vicino.
Il periodo delle lanterne alle porte e nelle case delle persone, delle storie dell'orrore e soprattutto dei travestimenti macabri in vendita nei supermercati e perfino nelle piccole botteghe più fornite.
Li adorava!
Adorava spaventare le persone, soprattutto i suoi amici, e gli riusciva anche bene farlo.
Vampiro, folletto, zombie, mostro, assassino, e perfino stregone, con tanto di cappello a punta.
A dodici anni non c'era travestimento che non avesse provato, e non fu l'inizio del turbolento periodo dell'adolescenza a cambiare le cose.
Nelle sere antecedenti al periodo delle lanterne, il quindicenne rampollo scapestrato di casa Osaka se ne andava in giro per locali a bere coi suoi amici indossando il suo travestimento più macabro, metteva su qualche rissa e poi se ne tornava a casa all'alba, pesto e più sbronzo del solito.
Erano i giorni in cui le sfuriate di suo padre diventavano vere e proprie risse.
Nell'ultima sera, quella in cui si diceva i morti tornassero davvero, da piccolo celebrava coi suoi genitori e con suo nonno l'evento, pregando e ricordando la nonna e i nonni paterni, usanza che poi aveva ripreso divenuto adulto, nel periodo in cui aveva vissuto assieme a sua moglie e suo figlio.
Da adolescente invece, a seguito della dolorosa perdita del caro nonno Mikio, in un primo momento aveva cercato di andare avanti come se nulla fosse, travestendosi e bevendo.
Poi aveva ceduto, e ci aveva rinunciato, restando a casa a piangere, osservando la lanterna sul comodino.
La passione per il travestimento macabro però non gli era mai passata, l'aveva solo messa da parte, in occasione di tempi più ... favorevoli.
E quale occasione migliore per esorcizzare la morte se non un post apocalisse, con l'aggravante emotiva dell'aver perso per sempre la guerra, il suo dio e le uniche persone ancora in grado di dare un cazzo di senso alla sua vita di merda?!
 
***
 
La stiva in cui erano state ammassate le armi e gli armamenti a disposizione della cittadella era chiusa ermeticamente per mezzo di una serratura elettronica, sbloccabile solo dal tesserino di uno degli addetti o da una password segreta. Nulla che un proiettile ben assestato non potesse risolvere, insomma.
Non dovendo nemmeno preoccuparsi di non fare rumore, tanto gli abitanti del borgo erano tutti morti, a Victor quindi non restò che godersi il momento.
Prese un respiro, avvicinò la canna alla tastiera e premette il grilletto.
Sogghignò quando la porta si aprì di colpo, emettendo un rumore che sembrò quasi un gemito.
 
«Apriti sesamo.» mormorò, assaporando quella sensazione di vittoria e alzandosi sulle punte dei suoi stivali come un bambino che ha appena vinto a nascondino.
 
Poi entrò di corsa ad esaminare i tesori.
Oltre a divise da fante e scrigni pieni di medicinali, c'erano anche diversi scaffali pieni di pistole, granate e pugnali; fucili di diverso calibro erano appesi al muro e c'erano anche maschere antigas, spade e perfino un paio di mazze chiodate.
Non appena le vide rimase incantato a guardarle, senza riuscire a staccare da loro gli occhi. Non aveva mai usato una mazza chiodata in vita sua, ma ricordò di aver visto un film in cui un demone cornuto ne utilizzava una simile ad una clava.
Era facile, e vista la sua forza pensò che lo sarebbe stato anche per lui.
La staccò dal chiodo e la prese in mano, saggiandone il peso. In effetti era notevole, ma i suoi muscoli erano sufficienti da permettergli di maneggiarla senza problemi, anche se dovette farlo con la sinistra, stando attendo a non sovraccaricare il polso destro per non riaprire la ferita.
Era debole e pallido, ma riusciva ancora a cavarsela.
Si divertì con occhi sognanti a farle fare qualche giravolta, ridacchiando mentre immaginava i danni che quelle punte acuminate di lega Mithril avrebbero potuto infliggere ad un cranio umano così come ad un arto o al basso ventre.
La morte era gratis, del resto. Se proprio doveva farlo, perché non divertirsi un po’ prima.
Oltretutto ... Quegli esseri umani erano responsabili della morte di Sephiroth, e quella sembrava proprio l'arma perfetta per ricordare loro quanto meschini fossero. Soprattutto per averlo lasciato in vita dopo un’azione simile … Degni di essere schiacciati come mosche! Doveva solo ricordarsi di non esagerare con le armi pesanti, per dosare bene le energie che gli erano rimaste. Accidenti a lui quando aveva pensato di tagliarsi!
Certo che sarebbe morto, ma prima ... Il mondo avrebbe rimpianto amaramente il non averlo fatto quando ne aveva avuto la possibilità.
Dopo Sephiroth, niente. Era così che doveva finire, per tutti.
 
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Dato che il tempo non mancava e la strada era libera, prima di partire per la sua prossima meta decise che un ulteriore regalino forse quelli di AVALANCHE lo avrebbero gradito.
Riempì di dinamite diversi zaini e ne posizionò uno o più di uno, in base alla grandezza della pianta, in ciascuna casa del villaggio, tranne che nella casa in cui aveva sorpreso nel sonno il capo villaggio.
Lì aveva allestito la scena del delitto più fantasiosa e terrificante che gli fosse mai venuta in mente.
Il cane aveva dovuto ucciderlo per evitare che col suo continuo abbaiare svegliasse il padrone di casa, visto che a quanto sembrava non aveva abbastanza energia per utilizzare incantesimi di qualsiasi tipo; evidentemente il sangue perso a seguito dell'emorragia era stato davvero troppo.
Le micce accese esplosero una due o tre minuti dopo l'altra, le sentì mentre si trovava ancora a casa del capo villaggio.
La morte è gratis.
Gli era piaciuta come frase, così immerse la mano nella gola recisa del cadavere e usò il sangue che ne trasse come vernice per scriverla sul muro accanto al quale era posizionato l'altare per la commemorazione dei defunti.
Lo incendiò usando un po’ di liquido infiammabile trovato nel ripostiglio di una delle capanne vicine e un semplice accendino, e mentre quello ardeva si divertì a giocare al pittore, sporcando con le mani ancora piene di sangue le pareti e calpestando la pozza vicino al cadavere del povero animale domestico per poi prendere a camminare su e giù per la casa, lasciando impronte insanguinate dappertutto.
Rise, mentre lo faceva.
Sadicamente divertito.
"Provate ad analizzare questo, turks di merda. Fatelo e ditemi che significa, se vi riesce."
 
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A opera conclusa tornò alla barca sulla quale aveva già caricato i tre borsoni contenenti il bottino ricavato da quel saccheggio.
In uno c'erano sigarette, birre, alcool e cibarie di vario genere, negli altri due invece medicine, elisir e pozioni, materie e ovviamente tutte le armi che era riuscito a farci stare. Qualche fucile se lo era messo a tracolla assieme al nastro delle munizioni, alcune bombolette di spray e gas lacrimogeno erano finite nella bisaccia, e oltre alla mazza chiodata aveva trovato anche un'altra cosa interessante che aveva provveduto subito a indossare.
Era un guanto di Mithril molto simile a quello portato da Vincent Valentine, fatta eccezione che per il piccolo foro per l'inserimento di una materia al centro del dorso, e per il colore. Quello di Valentine era dorato, questo invece era nero cangiante come il mithril più puro, e le dita oltre ad essere arcuate erano affilate come coltelli.
Erano vagamente argentate, sembravano gli artigli di un felino e soltanto ad indossarlo un brivido di soddisfatta impazienza lo aveva fatto sentire nuovamente in pista. In più aveva una fascia di metallo che avvolgeva bene il gomito, così da poterlo proteggere in caso a qualcuno fosse venuta la malsana idea di tagliargli la mano. Ne aveva trovata una anche per il destro: Una semplice banda d’argento che provvide ad indossare sopra ad un polsino medico trovato in infermeria.
Adesso era tutto pronto per la sua ultima missione, ma prima di iniziare sentiva di dover fare ancora un passo indispensabile.
Quegli esseri umani infedeli!
Mutilarli, squartarli, ucciderli nelle maniere più atroci a lui conosciute era il minimo che potessero subire per aver ucciso suo fratello.
No, non poteva dare una simile vendetta a Sephiroth. Ci voleva di più, molto di più; il mondo aveva bisogno di implorare perdono e perdere il sonno meditando sui propri peccati, e sebbene in passato tra di loro non fosse corso buon sangue, ora sapeva perfettamente a chi chiedere un consiglio di quel tipo.
 
***
 
L’autolesionismo è comunemente concepito nel pensiero altrui e anche in psicologia il danneggiamento del proprio corpo attraverso lesioni autoinflitte dirette e intenzionali, ma non riguarda soltanto il ferirsi fisicamente.
Autolesionismo è qualsiasi cosa provochi al corpo e soprattutto alla mente un dolore tale da far dimenticare qualsiasi cosa, perfino il male che ha provocato il bisogno impellente di farsi altro male, certamente di minore entità ma non meno atroce.
Perché in fondo è questo il movente di ogni autolesionista: Dimenticare e trovare sollievo.
L' autolesionista affoga in un taglio o in un comportamento palesemente nocivo per sé stesso e il proprio essere tutto il dolore che non riesce a sopportare, trovando conforto in quella punizione, avendo l'impressione di riuscire per qualche attimo a concedersi tregua solo compiendo lo scellerato gesto.
L' autolesionista non vuole necessariamente uccidersi, il suicidio è uno dei rischi che egli è disposto a correre pur di smettere di soffrire, anche solo per un singolo istante.
È un sollievo quel tormento, il doversi occupare di sopportarlo, perché per un po’ ci si dovrà occupare solo del dolore fisico, quello specifico dolore, distogliendosi temporaneamente da quello interiore, intollerabile.
Per questo diventa difficile smettere di esserlo, senza essersi preoccupati prima del grido sofferente della propria anima inascoltata.
 
***

Due giorni dopo …
 
La barca navigava leggera sulle acque calme dell'Oceano, la notte era tranquilla, e la luna brillava nuovamente in cielo dopo giorni in cui se n'era stata nascosta dietro a nuvole nere o al suo lato oscuro.
Era solo uno spicchio, ma bastava a dissipare quel fitto muro di tenebra che era la notte.
C'era un silenzio tranquillo, rotto soltanto dal leggero fruscio delle onde e dal ronzio appena percepibile del motore dell'imbarcazione.
Victor era rimasto al timone fino al tramonto, fissando senza espressione un punto imprecisato dell'orizzonte, poi aveva impostato il pilota automatico e si era ritirato sotto coperta.
Aveva bevuto fino a non sentirsi più in grado di pensare, si era addormentato con una bottiglia di birra ancora mezza piena tra le mani ed era rimasto in balia degli incubi fino a che un forte conato di vomito non lo aveva svegliato, spingendolo a precipitarsi in bagno.
Aveva raggiunto il water appena in tempo.
Gli attacchi furono talmente forti da fargli dolere il petto, lo sforzo lo fece lacrimare e singhiozzare, e l’odore ed il sapore di alcool e bile unito alla visione del liquido giallastro in fondo alla tazza completarono il quadro del completo ribrezzo che provò nei propri confronti.
Esausto si accasciò a terra, vicino al lavandino, e si prese la testa tra le mani. Il suo corpo era talmente fiacco ed indolenzito che non ce la fece neppure a piangere, lo fece soffocando nei singhiozzi come un uomo che stava per annegare.
Trascorse un incalcolabile lasso di tempo prima che fosse in grado anche solo di aggrapparsi al lavabo per tirarsi su e levarsi quell’odore disgustoso di dosso. Stancamente sciacquò la bocca con un po’ d’acqua e del collutorio che era già presente dentro l’armadietto della specchiera, non lo sputò fino a che non sentì la bocca completamente anestetizzata. Quindi tirò lo scarico e se ne andò a prendere una boccata d’aria fresca sul ponte, sfilando una sigaretta dal pacchetto nella tasca destra del soprabito.
Il ponte puzzava di pesce, ma era un odore molto più piacevole rispetto a quello che aveva sentito fino a poco prima. Si sedette con la schiena a ridosso della balaustra e si limitò ad osservare il fumo della sigaretta che si espandeva verso il cielo scuro sopra di lui, accarezzando l’idea di tornare in camera e riprovare a spararsi un colpo in testa con la sua pistola.
Lo aveva fatto poco dopo esser partito, al calar delle tenebre.
Aveva guardato le armi sparse sul letto e aveva iniziato a pensare. “Forse adesso ce la faccio.”
Illuso … non ci era riuscito neppure allora.
Aveva preso la pistola, quella con la sicura difettosa, l’aveva caricata di proiettili, si era steso sul letto e guardandola come avrebbe fatto con la sua sposa se l’era puntata alla tempia, premendo il grilletto senza esitare.
Proprio allora la sicura era scattata. Quella maledetta sicura! Non aveva mai funzionato quando era stato il tempo di puntarla contro Cloud. Mai … ora invece …
Aveva riso, e subito dopo era sprofondato nella disperazione e nella rabbia più totale e dopo essersi commiserato per un po’ aveva iniziato a bere fino a cadere addormentato come una pera cotta.
Non aveva idea di quanto tempo avesse passato a dormire, il suo orologio era ancora rotto e non c’erano sveglie elettroniche a bordo.
Gli venne l’idea di provare a sbirciare sul proprio telefono, ma quando lo fece se ne pentì immediatamente.
Un giorno.
Aveva passato un giorno di viaggio a dormire, e l’altro mezzo a tentare il suicidio e ubriacarsi.
Gli occhi arrossati iniziarono a dolere, all’improvviso lo fece anche il suo stomaco, mandando fitte lancinanti che lo costrinsero a piegarsi in due dal dolore, portandosi la mano destra a coprirsi il fianco.
Strinse i denti, sbattendo il pugno contro il pavimento in legno.
Il polso gli dolse, ma a quel punto poco importava. Non era ancora passato quel momento, quando all’improvviso un’altra roca risata partì dalla sua gola fino a diventare quasi un urlo alla luna.
Chinò la testa verso l’altro, perdendosi a fissarla e ricominciando a singhiozzare.
Perché adesso il mare era così tranquillo? Come mai il Pianeta non cercava più di ucciderlo?
“Per favore … vi supplico, fatelo adesso. Potrei anche rimangiarmi tutto quello che ho giurato di fare al Pianeta se lo faceste. Abbiate pietà di me …”
Ma quella preghiera non ebbe né ascolto né risposta, erano troppo poco interessati a lui adesso che pensavano di aver vinto.
Per questo decise di smettere di lottare contro la negatività, e pochi attimi dopo sulla pelle del suo braccio destro apparve il primo di innumerevoli segni di bruciatura da sigaretta, piccolo e scuro come la puntura di un insetto. Faceva molto più male, però … nulla in confronto a quello che aveva dentro, il vuoto incolmabile e incommensurabile ch’era più simile a una voragine profonda e sanguinolenta dal quale era impossibile uscire senza un vero e proprio miracolo.
 
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Con un fragore assordante la catena dell’ancora si staccò dal gancio automatico e si tuffò in mare, fermando la nave appena in tempo per evitarle di andare a sbattere contro gli scogli nascosti a pelo d’acqua.
Osaka riaprì di colpo gli occhi, il cuore in gola per lo spavento, guardandosi intorno.
Il sole era appena sorto dietro l’orizzonte, la sua luce lo accecò per qualche istante costringendolo a chiudere gli occhi e nasconderseli dietro ad una mano. Sentì il calore dell’alba sciogliere il freddo gelido della sua pelle, e quella sensazione simile ad una carezza materna lo fece rabbrividire.
Quindi riaprì lentamente le palpebre per potersi abituare alla luce e quando finalmente ci riuscì lasciò correre il suo sguardo verso l’orizzonte calmo, voltandosi poi ad osservare con meraviglia la terra ferma alle sue spalle.
Il continente ovest. Sorrise, sospirando sollevato. Finalmente era arrivato.
Poi però il sorriso si spense lasciando posto ad un’espressione preoccupata. Ora avrebbe dovuto nuotare per toccare terra, ma non sarebbe stato facile nelle sue condizioni e con l’acqua gelida.
Strinse i pugni convulsamente. “Maledizione! Perché non ho mangiato a sufficienza nel frattempo invece di ingozzarmi di alcool? Imbecille che non sono altro!”
 
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La sabbia sotto di lui era morbida e avvolgente, le onde salmastre lo accarezzavano con le loro mani gelide come a volerlo trarle di nuovo a sé, ma ormai era fatta. Era arrivato, e il calore del sole glielo confermava.
Ma respirava annaspando, non sentiva più le gambe e le braccia e il petto gli faceva mare da morire.
“Dai Victor, alzati e cammina!” gli diceva la mente.
“Aspetta … ancora un altro po’ … restiamo distesi ancora un altro po’.” Gli imponeva invece il corpo, e questa era la forza maggiore alla quale non poteva opporsi.
Riuscì a malapena a trascinarsi fuori dal bagnasciuga, dove l’acqua non arrivava e la sabbia era più tiepida. Poi chiuse gli occhi e si addormentò quasi all’istante, stavolta senza che gli incubi giungessero a tormentarlo.
 
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Era sera, quando si risvegliò.
Il sole era appena calato e faceva freddo, troppo per i suoi gusti.
Un venticello tiepido si era levato a scuotere appena le chiome degli alberi della foresta retrostante la spiaggia, i vestiti si erano già asciugati ma avvertiva lo stesso una spiacevole sensazione di umido soprattutto sulle braccia e sulla fronte.
Capì solo quando tentò di rialzarsi e messosi a sedere un forte giramento di testa lo fece desistere dal riprovare a fare movimenti così bruschi.
Il freddo aumentò, riprese a tremare e sentì gli occhi bruciare come se qualcuno avesse appiccato loro fuoco.
Si alzò in piedi, ricadendo subito dopo in ginocchio, toccandosi la fronte quasi per istinto.
Febbre. Aveva la febbre, un febbrone da cavallo.
Sospirò spazientito, chiudendo gli occhi, emettendo un ruggito irritato e prendendosi a schiaffi da solo.
Per fortuna aveva portato con sé la bisaccia. Prese uno stimolante, ritrovando almeno la forza per alzarsi. Dio! Faceva schifo quella roba e in dieci anni di militanza non aveva mai sentito il bisogno di prenderla fino ad oggi. Non gli avrebbe permesso di diventarne dipendente, tra tutti i vizi quello era il più disgustoso secondo il suo personale punto di vista.
“Solo in caso di estrema necessità”, si ripromise, gettando in acqua la boccetta vuota.
Sospirò nuovamente, quindi riprese con sé la bisaccia e si addentrò nel folto della foresta fino a trovare un posto abbastanza riparato dal vento e da altri animali. L’ultima cosa che gli sarebbe servita ora era uno di quei maledetti grilli vampiri.
Trovò rifugio in una piccola rientranza rocciosa dentro una parete calcarea, distante appena cinque minuti di cammino dalla spiaggia. Accese un fuoco radunando qualche legno trovato in giro e usando l’accendino che aveva nascosto dentro ad un sacchetto impermeabile, quindi cenò con qualche scatoletta di carne, evitando l’alcool di qualsiasi tipo.
L’ultima sbornia doveva esser stata più forte del previsto, pensò, visto che non riusciva nemmeno a sentirne l’odore senza vomitare.
Verso il finire della serata, poco prima di addormentarsi, guardando le fiamme del falò si ritrovò di nuovo a ripensare a Sephiroth, a come gli facesse così schifo vederlo ubriaco ogni volta e a cosa avrebbe potuto dire adesso se …
Lo pianse di nuovo, precipitando ancora una volta in un sonno agitato da cui si svegliò nuovamente di soprassalto dopo aver sognato sé stesso appeso al collo da una corda, la bocca piena di sangue e vomito e il viso tumefatto fino ad essere quasi irriconoscibile. Mentre qualcuno nell’ombra rideva, forse lui stesso.
L’oscurità a quel punto divenne una nemica, pronta a ripresentargli quella terrificante immagine all’infinito mentre il gelo della notte gli rendeva impossibile anche solo provare ad urlare.
Chi sarebbe riuscito a sentirlo, a quel punto?
Il fuoco era spento ma la febbre era scesa, si sentiva più in forze, perciò decise di rimettersi in marcia affrontando i rischi della notte e affidando tutta la sua tensione all’effetto analgesico della nicotina di una sigaretta.
Dopo Sephiroth, l’unica cosa che poteva davvero tentare di riuscire almeno a calmarlo un poco.
 
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Non ci mise molto a trovarla, visto che la prima volta che lo aveva fatto era stato proprio a quell’ora della notte.
L’ingresso era come sempre coperto da uno spesso strato di edera rampicante il cui fogliame era scosso da un venticello stuzzicante che sembrava provenire dal suo interno.
Più si avvicinava, più sentiva l’odore del sale e dell’acqua stantia farsi sempre più pressanti, assieme ad un impercettibile sussurro inquietante che continuava a recitare sempre la stessa oscura nenia, a tratti simile ad un lamento.
Quando cautamente ma con decisione scostò i rami verdi e se li fece scivolare alle spalle, iniziando ad addentrarsi nel freddo e nero cunicolo, anche i grilli smisero di cantare e il silenzio si fece assordante, rotto solo dal battito accelerato del suo cuore e dal veloce sgocciolare dell’acqua dalle pareti ricoperte di melma.
Era anche più stretto di quanto ricordasse, e l’odore di pesce marcio era sempre più asfissiante mano a mano che si avvicinava alla sala principale dell’antro, dove trovò ad attenderlo un globo di luce pallida sospeso a mezz’aria sul pavimento sommerso dall’acqua fetida e dalla melma.
Storse il naso per colpa del fetore, sembrava quasi aumentato dall’ultima volta.
Si guardò intorno ma Kendra non c’era. “Tsh! Ti pareva.”
Fece per chiamarlo, ma non appena aprì bocca il globo si accese di un verde scuro inquietante, esplose di luce oscura liberando una risata malvagia e, quando potè tornare a guardare, vide lo spettro ergersi con una smorfia compiaciuta e impaziente al centro della stanza, le mani sempre giunte all’altezza del ventre e la postura composta ed altera.
 
«Bentornato, Victor Osaka … ce ne hai messo di tempo, stavolta.» lo accolse «Qual buon vento ti porta fin qui?» gli chiese quindi, facendo roteare i polsi e ondeggiando le dita da lui verso di sé, come invitandolo ad avvicinarsi.
 
Sul volto pallido di Osaka apparve una smorfia truce. Accolse controvoglia quell’invito, l’idea di sporcarsi gli stivali in quella melma abietta non gli piaceva affatto e quel posto ora sembrava davvero provenire dal peggiore dei suoi incubi.
Ma il livore che lo aveva condotto fino a lì gli suggerì che era quella, l’unica scelta giusta da fare. Kendra Ashurson era l’unico in grado di accontentare la sua sete di vendetta appieno.
Un venticello malizioso prese a scuotere le pieghe sbrindellate del suo soprabito, ormai ridotto ad una giacca sgualcita.
Attese di poter essere faccia a faccia con lui per tornare a parlare.
 
«In cosa posso esserti utile?» lo incoraggiò lo spettro, accennando a un inchino plateale.
 
Gli occhi di Osaka rimasero fissi su di lui, mentre una nuova greve cupezza s’impadroniva del suo essere. Strinse i pugni, ascoltando la sua rabbia.
 
«Voglio vendetta.» disse, la voce roca, le pupille feline dilatate e vivide, lo sguardo improvvisamente attivo «Ma non una vendetta qualsiasi. Voglio che il mondo rimpianga di non esser finito quando ne aveva la possibilità.» l’ultima frase fu quasi un ringhio, che il Cetra ascoltò con un sorriso inquietante sulle labbra sottili.
 
Musica per le sue orecchie.
Tornò a guardarlo, fingendo per un attimo stupore per poi levarsi a guardarlo nuovamente, ghignando compiaciuto.
 
«Puoi aiutarmi, spettro?» gli chiese ancora il soldato, quasi minacciando.
 
Il Principe alzò gli occhi al cielo e si sfiorò con un dito il mento e le labbra, fingendo di pensarci. Gli voltò le spalle, avanzando verso il piedistallo di roccia salina che si ergeva solitario verso la parete est della stanza. Un movimento della mano destra e questi si accese, scintillando di luce rosso scarlatto. Victor lo guardò col cuore che batteva forte in petto, sentendo una sorta di brivido freddo percorrergli l’anima.
Chiuse per un istante gli occhi, e si accorse che senza guardare era tutto più facile. Qualsiasi cosa fosse quella luce, era il motivo della sua paura. Forse era un altro spettro, o un incantesimo di morte, non seppe dirlo.
 
«Fammi pensare …» lo sentì dire nel frattempo.
 
Poi ad un tratto parve trovare la soluzione.
 
«Ah, ma certo …» disse «Sai, credo sia il tuo giorno fortunato. Ho proprio quello che fa al caso tuo.»
 
E a voce bassa iniziò a recitare una cantilena simile al sussurro di un serpente. Victor non ne conosceva neanche una singola parola, il linguaggio sembrava arcaico e incomprensibile, ma l’animo ne fu talmente scosso da esser colto da un folle terrore che lo indusse a tapparsi anche le orecchie.
Durò appena qualche secondo. Quando potè tornare a udire e guardare lo fece quasi fosse stato guidato da una forza maggiore, e guardando verso Kendra vide che ora nel palmo della sua mano destra scintillava un gioiello dall’aspetto semplice e regale ma avvolto da un’aura ostile e inquietante.
Era un ciondolo, un semplice cerchio d’oro nero al centro del quale pendeva una catena d’argento decorata da quindici piccole gemme di forma circolare. Sembravano chicchi di grandine trasparenti, ma il loro luccichio appariva quasi disturbante, per quanti sforzi facesse non riusciva a tenere gli occhi puntati su di essi.
Kendra ghignò nel vedere la sua espressione stupita e sconcertata. Si avvicinò e glielo mise al collo senza che cercasse in qualche modo di opporsi. Lo stupore era ancora troppo perché semplicemente se ne rendesse conto.
Non appena lo ebbe sul petto, Osaka sentì come se un peso enorme gli fosse stato depositato addosso, e dovette appoggiarsi alla parete limacciosa per evitare di crollare sulle ginocchia.
Lo prese allora tra le mani e se lo tolse, sentendo quel peso spostarsi sul singolo palmo. Lanciò un’occhiata al mago, che nel frattempo si era allontanato ed era rimasto ad osservarlo con un ghigno strano e impercettibile sulle labbra.
Quasi anche lui stesso fosse rimasto stregato da quel potere.
 
«Sai cos’è questo, Osaka?» domandò, spiegando poi senza attendere una risposta «Il suo nome completo è ‘anello del necromante’, ed è uno tra i più potenti manufatti alchemici mai creati da un mago oscuro.»
 
L’attenzione di Victor Osaka fu immediatamente catturata da quell’introduzione. Consapevole di questo, Kendra andò avanti senza neanche guardarlo, accendendo un globo di luce sul piedistallo e mostrandogli le immagini riguardanti il suo racconto.
 
«Si chiamava Romerus, ed era uno studioso del lifestream e del ciclo delle anime. Purtroppo, data la natura frivola e incostante del flusso vitale, le sue ricerche non riuscivano a proseguire, così un giorno ebbe un’idea: Se fosse riuscito a trovare un modo per sezionare il lifestream, forse avrebbe fatto qualche passo in avanti. Fu così che dopo svariati tentativi riuscì a realizzare quello …» indicò con la mano l’oggetto «Non starò qui a spiegarti di cosa è composto, non è necessario ai tuoi scopi.» banalizzò, scacciando l’aria davanti a sé con un leggiadro schiaffo, poi tornò a guardarlo rivolgendogli uno dei suoi soliti sorrisi famelici «Ti dirò solo quello che successe dopo: La sua ricerca venne considerata blasfema e lui venne bandito e maledetto. Questo perché … come dire? Bhe, un manufatto di quel genere aveva molte controindicazioni in sé, come ad esempio quella di poter usare le anime in esse intrappolate per … scopi poco ortodossi. Capisci quello che intendo.»
 
Se avesse ascoltato solo quelle parole così vaghe non lo avrebbe fatto, ma guardando le immagini che Kendra aveva fatto apparire nel globo di luce tutto gli divenne più chiaro, e un ghigno malvagio iniziò lentamente a dipingersi sul suo volto.
Zombies.
Quel congegno era in grado di catturare un’anima di un vivente e incatenarla a sé, permettendo a chiunque di plasmarla e usarla a proprio piacimento. Era … un modo eccellente per fare delle proprie vittime, chiunque esse fossero, burattini ai propri ordini. Sia nel caso che il loro corpo originario fosse ancora presente oppure no.
Oh …
Oh, che meraviglia!
Che fantastica, terrificante idea!
Ora sì che quel banale ciondolo acquistava un significato nelle sue mani. Glielo fece notare anche Kendra, dopo aver visto quella smorfia sadica apparire sul suo volto.
 
«Capisci anche però che, data la sua potenza, un comune mortale non potrebbe mai usarlo.» gli fece notare «Solo uno stregone abbastanza forte o un Cetra che abbia già provato l’esperienza della riesumazione senza subire alcun tipo di danno potrebbe tentare … tu ci hai già provato, no?» domandò a quel punto, e nella mente del SOLDIER così come nel globo di luce tornò a ripetersi il ricordo di quel povero coniglio vittima del suo primo esperimento di quel genere.
 
In tempi non sospetti, quando ancora credeva Zack stesse dalla sua parte ed era partito per cercarlo, un pensiero latente lo aveva portato a compiere quel piccolo esperimento che lo aveva fatto riflettere.
Poteva muovere un corpo, ma non avrebbe mai potuto riportare alla vita un morto. La sua anima apparteneva al Pianeta.
Allora aveva pensato fosse un’ingiustizia, ma …
 
«Era solo un roditore.» proseguì lusinghiero Kendra «Pensa cosa potresti fare, ad esempio, con una persona … prendere la sua anima, assoggettarla al tuo volere, assegnarle un corpo degno di combattere per te …»
 
Un fuoco divampò improvviso nell’animo del first class. Cupo, ruggente. Le sue pupille si dilatarono ancor di più mentre osservava altre immagini apparire nel globo. C’erano Cloud, Tifa, i membri di AVALANCHE, e anche quegli schifosi cani della Shinra assieme al loro “padroncino”.
La luce si spense all’improvviso, lasciandolo quasi senza fiato ad osservare lo spettro. Si sentiva come … come si fosse risvegliato da un sogno stupendo proprio sul più bello. Di più, voleva sapere di più. Voleva continuare a sognare ancora di più!
 
«Forgiare la vita a tuo piacimento, come se fossi tu il dio Creatore.»
 
Era pericoloso.
Qualcosa dentro di lui, forse quel poco di buon senso rimasto, gli diceva che sarebbe stato meglio non accettare di aprire quel vaso di pandora. Mettersi al posto di dio non era mai una buona idea.
Ma … cos’altro sarebbe potuto accadergli, del resto? Sephiroth ormai era morto, l’unico che poteva sistemare le cose era lui. E quel potere era proprio ciò che gli serviva. Anche se dopo fosse morto, se lo avesse fatto nel tentativo di provarci, se la magia di quel manufatto gli avesse prosciugato le energie vitali fino a ucciderlo o a renderlo pazzo … mph, non lo era già? Il suo Niisan non c’era più, non aveva più alcun interesse alla vita adesso. Ma non se ne sarebbe andato da solo.
Ghignò, stringendo il manufatto nel pugno.
Quindi se lo rimise al collo continuando a guardare negli occhi lo spettro, che gli lanciò un ghigno terrificante e soddisfatto.
 
«Per la prima volta, mago …» gli disse «Pare che tu abbia avuto una buona idea…»
 
Sogghignarono entrambi. Lo spirito alzò gli occhi altero, quindi riaccese il globo mostrandogli delle immagini mute che sulle prime lui non seppe riconoscere.
Nella prima vi era una donna piuttosto anziana dagli occhi blu, i capelli castani raccolti in uno chignon sulla nuca e addosso un semplice vestito verde coperto da un lungo scialle a fiori. Si trovava a Kalm, a quanto pareva. Nella seconda vi era un fabbro, intento a battere il proprio martello su qualcosa che sembrava un fioretto.
 
«Oggi mi sento buono.» riprese Kendra «Pare che Cloud Strife abbia incontrato Elmyra, la madre adottiva di quella streghetta, Aerith. E pare che sia l’unica persona con cui sia rimasto in contatto dopo la guerra …»
 
Victor Osaka si fece serio, fissando le immagini nel globo. Cloud.
Questo voleva dire che …
 
«L’unica?» mormorò, riflettendoci «Ciò significa che …»
 
Tornò a posare il suo sguardo sul mago, che aveva ripreso a ghignare.
 
«Pare che lei sia l’unica a sapere dove sia, in questo momento.» gli rivelò, mostrandogli poi altre immagini del biondo.
 
Era andato prima alla città degli antichi, a portare un mazzo di fiori sulla tomba d’acqua di Aerith. Poi era rimasto a gironzolare senza una meta per il pianeta, tornando prima a Nibelheim, poi sul luogo della morte di Zack e infine di nuovo lontano.
 
«E sembra che non abbia ancora finito di cercare sé stesso.»
 
Victor sogghignò. Quindi le menzogne di Sephiroth avevano sortito il loro effetto. Bene … ma era troppo poco per essere considerata una giusta punizione.
E ragionandoci su all’improvviso capì il perché delle informazioni su Elmyra.
 
«Di solito non alzo la lama contro una donna …» mormorò, tornando a guardare il suo interlocutore negli occhi e poi spostando lo sguardo sulle immagini nel globo «Ma questa è vedova e ha perso anche una figlia …»
 
Ora, come se gli avesse letto nel pensiero, mostrava tutte quelle riguardanti il biondo ex fante e l’anziana.
Ghignò.
 
«Quindi vedrò di oliare bene il grilletto della mia pistola e caricarla a dovere per non sbagliare il colpo.»
 
Kendra sghignazzò divertito.
 
«Oohh! Mi sembra un’ottima idea …» annuì, assumendo un’aria falsamente seria «Eccellente direi. E dopo potresti passare a ritirare qualcosa per lui, al negozio dove lasciasti la black materia. Ricordi?»
 
Osaka annuì. Certo che lo ricordava: era un’armeria, e … oh, adesso rammentava dove aveva già visto quel fabbro! Strinse i pugni, sentendo l’adrenalina correre dentro le proprie vene fino a schiarire i pensieri. Non aveva forze, ma l’idea di una nuova battaglia imminente radunava tutte quelle che gli erano rimaste sull’attenti. Adesso era pronto per l’azione, sapeva che doveva fare.
 
«Perfetto.» concluse, e fece per andarsene.
 
Ma proprio allora Kendra lo richiamò con un ultimo avvertimento, forse il più importante di tutti.
 
«Ah, quasi dimenticavo. Ho un messaggio da parte di tuo fratello.»
 
Rabbrividì, bloccandosi all’istante e voltandosi a guardarlo sgranando gli occhi.
“C-Cosa? Quale … quale messaggio? Sephiroth … p-perché mai Sephiroth avrebbe dovuto lasciartene uno!?”
Kendra sogghignò.
 
«Me lo ha dato prima di sparire.» spiegò, come leggendogli nel pensiero «Sapeva che saresti venuto da me.»
 
Un altro brivido freddo percorse la sua schiena, per un attimo la sua mente sembrò inseguire qualcosa, un sospetto, un’immagine, che però sfuggì troppo presto, rendendogli impossibile riconoscerne i contorni.
Rimase solo quella frase, quasi inverosimile. “Sapeva che saresti venuto da me.”
Sephiroth … lui sapeva? Cosa? Perché? Come faceva lui a sapere che …?
Kendra attese che la sua attenzione tornasse prima di concludere, lentamente e guardandolo negli occhi.
 
«Cratere Nord.»
 
Fece una lunga pausa, consapevole dello stato d’animo del suo interlocutore. “Quindi? Solo questo? Che significa cratere nord?”.
Non diede alcuna risposta. Si limitò a sogghignare e a concludere, per poi svanire nel nulla in un turbine d’aria salmastra in cui la sua risata svanì in fretta, gettando nuovamente la grotta nell’oscurità.
 
«Solo questo. A quanto pare c’è ancora qualcos’altro da cercare, là sotto.»
   
 
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