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Autore: Naco    24/01/2020    1 recensioni
Quando la sua professoressa di tesi propone a Lucia - seria e coscienziosa laureanda in Lettere - di dare ripetizioni di francese al proprio figlio, la ragazza capisce subito che, accettando, rischia di cacciarsi in un mare di guai: Giulio Molinari è il classico figlio di papà che pensa solo alle ragazze e assolutamente disinteressato a costruirsi un futuro Insomma, il tipo di persona che lei detesta.
Ma è davvero così impossibile che due persone così diverse possano avvicinarsi? In una girandola di battibecchi, scontri e incomprensioni, tra parenti ficcanaso e fedeli amici, tesi da preparare e lezioni di francese da seguire, Lucia e Giulio si renderanno presto conto che non sempre l’altro è poi così diverso da noi e che, forse, la nostra anima nasconde un ritratto molto più bello di quello che noi preferiamo mostrare agli altri.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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XIII


Entrai in biblioteca in uno strano stato di euforia difficile da spiegare. Mi sentivo leggera e, se non fossi stata molto attenta, avrei iniziato a canticchiare o a saltellare. Malgrado tutti i miei sforzi, però, non ero riuscita a nascondere molto bene i miei sentimenti perché, appena mi vide, Andrea si bloccò e mi studiò a lungo.
«Sei andata a letto con Molinari!» urlò infine.
Metà degli studenti presenti si voltò nella nostra direzione, mentre la signora Enza ci lanciò un’occhiataccia molto eloquente, perciò lo trascinai fuori verso il pianerottolo, il viso in fiamme. «Che cavolo gridi? Siamo in biblioteca, te ne sei scordato?»
Ma Andrea non mi stava neanche ascoltando. «Lo sapevo, lo sapevo che prima o poi sarebbe successo! La tensione sessuale...»
L’avrei scaraventato giù dalle scale se non l’avesse piantata. «Finiscila! Noi… non è successo niente del genere!»
Per tutta risposta, mi guardò malissimo: «Oh, andiamo, Lu’! Ti mancavano solo le ali, e avresti iniziato a volteggiare per la felicità. Dovresti vedresti: sei radiosa
Se possibile, il mio imbarazzo aumentò ancora di più. «Posso dire la mia o deciderai persino il giorno delle mie nozze?»
Quella mattina io e Giulio ci eravamo svegliati stretti stretti sul divano. In un primo momento, ero rimasta immobile, crogiolandomi in quella strana sensazione di completezza, così poco familiare, che avvertivo irradiarsi dal mio cuore; tuttavia, la consapevolezza che il sole era troppo in alto per poter essere il solito orario in cui mi svegliavo ben presto si era impadronita di me e avevo lanciato un’occhiata all’orologio a muro che segnava le dieci.
Ero balzata in piedi e avevo iniziato a scuotere Giulio; per tutta risposta lui mi aveva attirata a sé e aveva mugugnato: «No, dài. Restiamo ancora così, ti prego.»
Gli avevo tirato un pizzicotto: «Alle undici e mezzo ho un appuntamento con Antonio, perciò alzati» e, seppure a malincuore, mi ero divincolata per andare a preparare il caffè.
Andrea non voleva crederci. «Cioè, spiegati meglio: siete rimasti tutta la notte avvinghiati come polpi sul divano e non avete fatto nient’altro?»
Annuii senza aggiungere ulteriori dettagli. A un certo punto, Giulio mi aveva sollevata senza difficoltà e mi aveva adagiata sul divano continuando a baciarmi; dopo qualche minuto, però, si era staccato da me e mi aveva fissata con quei suoi meravigliosi celesti pieni di desiderio; per un attimo la paura si era impossessata di nuovo di me, ma l'avevo ricacciata indietro, decisa. Ero certa che sarebbe andato tutto bene.
«Per oggi direi che possiamo fermarci qui» mi aveva sussurrato baciandomi la fronte e stringendomi a sé.
Non mi ero resa conto di quanto fossi tesa, finché non avevo udito quella frase e il mio corpo aveva reagito rilassandosi completamente. Mi piaceva, davvero. Ma non ero ancora pronta ad andare oltre, e Giulio se ne era accorto ancor prima di me.
Avevo annuito e mi ero rannicchiata sul suo petto lasciandomi cullare dal suo calore..
«Non riesco a crederci! Povero Molinari, ha tutta la mia stima!»
Anche se scherzava, sbuffai. «Invece di pensare alla mia presunta vita sessuale, hai scoperto qualcosa su Claudia? Non mi pare di averla vista in giro.»
A quelle parole, l’espressione allegra di Andrea scomparve per lasciar spazio al nervosismo ed ebbi la certezza che in quei giorni fosse accaduto qualcosa di grave.
«Massimo gliel’ha detto sabato sera» mi mise subito al corrente.
Oh. Era una cosa positiva, no? E allora perché quella faccia?
«Immagino non l’abbia presa bene,» dedussi.
«Direi di no. Ieri pomeriggio mi ha chiamata in lacrime: sabato sera lui l’ha invitata a cena in un ristorantino sul lungomare; mi ha detto che è stata una bella serata, ma poi le ha proposto una passeggiata e si sono fermati vicino alla basilica di San Nicola. E qui, gliel’ha confessato. Era così sconvolta che non ha voluto neanche che la riaccompagnasse a casa.»
Il cuore mi si strinse: Claudia, no, nessuno!, meritava una cosa del genere. Pensai a Massimo che mi era parso sempre molto innamorato della mia amica. Perché aveva aspettato così tanto per dirle la verità?
«Gli uomini sono proprio tutti uguali!» commentò la solita vocina malefica e colsi al volo la sua allusione, ma ricacciai indietro quel pensiero con forza.
«Almeno non gliel’ha detto il giorno prima di partire,» cercai di consolare entrambi, ma a quelle parole il volto di Andrea si rabbuiò ancora di più.
«È appunto questo il problema, Lu’. Quel che l’ha fatta star male non è stata la notizia in sé – conosci Claudia, è stata contenta per lui – quanto il fatto che lui gliel'abbia rivelato adesso solo perché aveva visto Molinari con noi, l’altro giorno.»
Ero sicura di essere impallidita. «Come scusa?»
Durante la loro cena, Massimo, diversamente dal suo solito, le aveva fatto un sacco di domande sui suoi amici, soprattutto su come avesse conosciuto Giulio. Claudia non aveva sospettato nessun secondo fine e aveva risposto con sincerità: sapeva che i due avevano frequentato la stessa facoltà, quindi aveva immaginato che si conoscessero, almeno di vista; anzi, Claudia aveva pensato di sfruttare l’occasione per interrogarlo su Giulio, dato che anche lei era sulle spine per la nostra trasferta. Così, si era ritrovata a raccontargli tutta la storia.
«Forse ha pensato che Molinari potesse lasciarselo sfuggire, come infatti è successo, e che sarebbe stato meglio se gliel’avesse raccontato lui» ipotizzò e io ero d’accordo con lui.
Mi appoggiai alla parete, incapace di reagire. Neanche l’incontro con Antonio riuscì a scuotermi da quel torpore, nonostante ci avesse comunicato, anche se solo in via ufficiosa, che le sedute di laurea sarebbero iniziate il 17 luglio e che, se non ci fossero stati cambiamenti, noi saremmo stati inseriti nelle prime giornate.
La verità era che quella notizia mi aveva sconvolta. Io ero una filologa e sapevo benissimo come il cosiddetto “caso” fosse determinante nella formazione di un nuovo testimone nella tradizione filologica: bastava, per esempio, che un copista stanco dimenticasse una “m” per trasformare un accusativo in un nominativo o in un ablativo, stravolgendo il significato di un’intera frase. C’erano tantissimi motivi per cui un copista poteva aver commesso un errore, ma ognuno di quelli poteva essere stato fondamentale per riscrivere in modo radicale una pagina di storia della letteratura, non solo latina.
In quel momento mi sentivo come il copista che aveva dimenticato quella famigerata “m”: io e Giulio, quel giorno, eravamo finiti in biblioteca per puro, purissimo caso: Giulio mi aveva proibito di mettere piede in casa sua perché avevo sbirciato tra i suoi disegni, e adesso mi era ben chiaro cosa significassero per lui; quel giorno, però, non avevamo potuto utilizzare la nostra solita aula, perché c’erano esami in corso; in più – e questo mi provocò un lungo brivido lungo la schiena malgrado le giornate fossero ormai afose – Giulio non avrebbe dovuto comunque trovarsi lì, quando era arrivato Massimo: in teoria, la nostra ora di lezione sarebbe dovuta terminare una decina di minuti prima e si era protratta solo a causa della telefonata di mia nonna e di quel che era accaduto dopo.
«Lucia!»
Senza tutte queste coincidenze, Massimo avrebbe parlato a Claudia o avrebbe sul serio aspettato l’ultimo giorno per raccontarle che sarebbe stato fuori come minimo sei mesi? O aveva sperato che le cose tra loro finissero da sole, così non avrebbe avuto bisogno di rivelarle nulla?
«Lucia!»
Eppure, Massimo non mi era parso quel tipo di persona. Ma possiamo dire sul serio di conoscere veramente qualcuno? Anche Stefano all’inizio mi era parso un ragazzo fantastico. E invece…
«Lucia!»
Cosa potevo fare per la mia amica? Le avevo telefonato, con la scusa di comunicarle le notizie ricevute da Antonio, e mi era parsa serena. Tuttavia, conoscendola, non ero tranquilla e avevo proposto ad Andrea di passare a trovarla; il mio amico, invece, non era stato d’accordo: «Per adesso lasciamola da sola. Vedrai che è più forte di quel che pensiamo» e io mi ero lasciata convincere. Nonostante tutto, mi sentivo in parte responsabile per quella situazione, anche se non aveva senso.
«Lucia!»
All’improvviso una figura mi fece ombra e vidi il viso di Giulio avvicinarsi pericolosamente al mio.
«Che diavolo fai?» balzai in piedi e mi allontanai in fretta da lui.
Per tutta risposta, lui sogghignò. «Oh, allora ci sei! È da dieci minuti che ti chiamo. Se avevi altro per la testa, avremmo potuto vederci un altro giorno.»
Arrossii. «Scusa. Sono una pessima insegnante.»
Io e Giulio eravamo nella solita auletta per la nostra abituale lezione di francese: avevamo concordato che, almeno fino alla mia seduta di laurea, avremmo continuato a fare lezione all’università, come avevamo pattuito, e che mi sarei tenuta lontana da casa sua ancora per un po’: secondo Giulio, Margherita si sarebbe subito accorta che c’era qualcosa tra noi, anche soltanto guardandoci insieme, e non gli andava di mettermi nei guai. Avevo accettato all'istante: dopotutto, avevo preso un impegno con i suoi genitori ed ero intenzionata a mantenerlo fino in fondo.
Tuttavia, quel giorno non riuscivo proprio a concentrarmi.
«È da un po’ di tempo che sei tra le nuvole. È successo qualcosa?»
Non avevo raccontato nulla a Giulio di quello che era accaduto tra Claudia e Massimo perché non mi sembrava giusto rivelare ad altri i problemi della vita privata della mia amica. Tuttavia, Giulio non era più uno sconosciuto e, in fondo, anche se senza volerlo, era stato la causa di quella situazione; inoltre, i giorni passavano e non avevo notizie di Claudia, e questo pensiero mi assillava sempre di più. Così, in breve, gli rivelai tutto.
Giulio restò in silenzio per qualche minuto. «Avevo immaginato che non le avesse detto niente.»
«Davvero?»
«Beh, non mi è mai parso il tipo che parla molto di sé. A dire il vero, non l’ho mai visto circondato da molti amici.»
«Ma Claudia non è un’amica come tanti altri!» ribattei convinta. Anche se non avevano mai superato sul serio il confine che separa una semplice amicizia da qualcosa di diverso.
«No, certo. Ma magari è questo il motivo per cui non ci è riuscito.»
«Non ti seguo,» ammisi.
«Immagina la scena: hai conosciuto una ragazza che ti piace tantissimo, con cui magari vorresti passare la tua vita… e le dici che tra quattro, cinque mesi, partirai per un tirocinio all’estero e, che se tutto va secondo i tuoi piani, troverai lavoro fuori e non tornerai mai più in Italia? Come minimo aspetteresti di vedere come prosegue la relazione con questa ragazza; d’altronde non sai neanche se passerai la selezione, quindi che senso ha rovinare tutto prima del tempo?»
Non ero per niente d’accordo e glielo dissi: «Mi stai dicendo che avrebbe dovuto aspettare di passare la selezione per metterla davanti al fatto compiuto?» Questa volta ero arrabbiata.
«Non dico che ha fatto bene, ma non critico la sua scelta. Oltretutto, da quel che mi hai detto, non stanno insieme nel senso stretto della parola, quindi non si può neanche dire che l’abbia illusa.»
«No, questo no,» fui costretta ad ammettere, ma lo stesso non ne ero convinta. «Tu l’avresti fatto?» gli domandai a bruciapelo.
Giulio si mosse sulla sedia, visibilmente a disagio. «Non stiamo parlando di me.»
«Perché no? In fondo anche tu tenterai quella selezione, no? Se ci fossimo conosciuti in tutt’altre circostanze, se io non avessi saputo nulla di questo tirocinio, tu avresti aspettato l’ultimo giorno per dirmelo?»
Giulio ci pensò su. «Non lo so» capitolò. «Ascolta, non conosco così bene Massimo da poter parlare per lui, ma mi è parso molto innamorato della tua amica. Se una persona non ti piace sul serio, non le fai una sorpresa all’università davanti a tutti i suoi amici, credimi. Quindi non penso che volesse tenerglielo nascosto fino alla partenza. Può essere che aspettasse solo il momento migliore per dirglielo e il nostro incontro l’abbia solo spinto a farlo.»
Probabilmente aveva ragione: dopotutto mi aveva raccontato che la sua situazione familiare non era delle migliori, quindi non era da escludere che anche per questo motivo avesse esitato a parlarne con Claudia, soprattutto se la scelta di andare all’estero era la conseguenza della scarsa reputazione del padre, come Giulio sosteneva. Ero certa che a Claudia non sarebbe importato nulla, ma come viveva Massimo quella situazione? Del resto, anche io ad Andrea non avevo mai raccontato nei dettagli la morte di Giovanna e non solo perché non volevo rivivere quel momento; la verità era che non avrei mai sopportato di vedere la pietà sul volto del mio migliore amico. E se per Massimo fosse stato lo stesso?
«Forse hai ragione tu.»
«Dài, vedrai che si sistemerà tutto» posò una mano sulla mia e mi sorrise.
«Già.» Non avevo la sua stessa fiducia, ma mi ripromisi di provarci; dopotutto, Giulio era comunque un ragazzo che stava vivendo una situazione non molto diversa da quella di Massimo e chi meglio di lui poteva mettersi nei suoi panni?
All’improvvisò un’idea mi balenò in mente. «E se gliene parlassi tu?» gli proposi.
«Cosa? A chi? A Massimo?»
«No, a Claudia.»
Giulio allontanò la sua mano dalla mia. «Non credo che sia una buona idea.»
«Ma perché, scusa? Devi solo ripeterle quello che hai detto a me!»
«Non credi che si sentirebbe in imbarazzo a sentirsi dire certe cose da un perfetto sconosciuto?»
«Non sei un perfetto sconosciuto!»
Giulio scosse la testa: «Ti preoccupi troppo, Lu’. E se le cose non dovessero sistemarsi, vuol dire che non era destino. Ci sono tante coppie che si lasciano e...»
«Lo so» lo interruppi. Ci sono tante coppie che si lasciano e non succede niente. Non è un dramma. Lo sapevo. Eppure... Per un attimo l’immagine di mia sorella si sovrappose a quella di Claudia e rabbrividii.
Giulio sospirò e stavolta mi prese entrambe le mani. «Capisco come ti senti, ma non puoi salvare tutte le coppie del mondo. Secondo me, tu e Andrea dovreste più che altro cercare di tirarla su. Magari potresti organizzare quella famosa cena di cui mi hai parlato.»
Come avevo fatto a non pensarci? Mi ero così intestardita nel cercare di aiutare la mia amica che non avevo pensato a una soluzione così semplice. Certo, non avrei potuto fare nulla di concreto per lei, ma almeno avrei potuto cercare di risollevarle il morale, anche se solo per una sera. Contro tutti i miei più saldi principi, secondo i quali le smancerie in pubblico erano vietate, mi avvicinai a Giulio e gli schioccai un bacio a fior di labbra. La sua espressione sorpresa mi fece scoppiare a ridere.
«A cosa devo tanto onore?»
«Al fatto che hai avuto un’ottima idea!»
Qualunque cosa Giulio stesse per replicare, si bloccò, perché qualcuno aveva aperto la porta e si era affacciato nell’aula.
Ambedue fissammo il nuovo arrivato: aveva i capelli neri che gli ricadevano sulla fronte, tanto che non riuscivo a vedere nemmeno i suoi occhi, ed era alto e dinoccolato. Non avevo idea di chi fosse, ma dovevo averlo visto gironzolare in ateneo, perché aveva un’aria familiare.
«Hai bisogno di qualcosa?» chiese infine Giulio.
Il ragazzo avanzò non molto sicuro verso di noi estraendo un volantino da una cartelletta che portava sotto il braccio.
«Mi spiace disturbarvi, ma… io e il mio gruppo domani sera suoniamo in questo locale. Se vi va di fare un salto… È tutta roba nostra, niente cover. Se volete portare anche degli amici…»
Giulio prese il volantino ringraziandolo e io mi sporsi per poter vedere meglio di cosa si trattasse: a quanto pare, il ragazzo faceva parte di un gruppo chiamato Lonely Souls e, come ci aveva appena accennato, il giorno successivo avrebbe suonato in un locale del centro storico che Giulio conosceva, ma che io non avevo mai sentito nominare.
«Non è un posto molto grande, ma non è malaccio,» spiegò quando il ragazzo uscì «Che ne dici, ti va?»
Per qualche minuto fissai la locandina senza profferire parola.
«Che c’è? Non mi sembri convinta.»
Scossi la testa. Non era l'evento in sé a lasciarmi perplessa: per quanto non potessi definirmi un'amante della musica, e ancor meno di quella italiana, non mi dispiaceva nemmeno. Il problema vero era ciò che quell'uscita comportava.
«Che c'è, non vuoi uscire con me?» se ne uscì all'improvviso Giulio.
Accidenti a lui, come faceva ad essere così perspicace?
Non è che non volessi uscire con lui, ovvio. Solo che io, a venticinque anni, non avevo mai avuto un vero appuntamento con un ragazzo e quello sarebbe stato il primo. Oddio, non è che non fossi mai uscita con un rappresentante dell’altro sesso: quando andavo ancora a scuola qualche ragazzino aveva provato a corteggiarmi, anche se con esiti disastrosi, per lo più per colpa mia. Quindi non è che potessi definirmi del tutto a digiuno di incontri anche solo vagamente romantici, ma l’uscita di una sedicenne che provava a vivere un’adolescenza normale con scarsissimi risultati non era come avere un appuntamento con il ragazzo con cui stai a venticinque anni. Soprattutto se quel ragazzo è Giulio Molinari, uno che di appuntamenti con l’altro sesso ne aveva avuti a bizzeffe.
Perciò, sì, in un certo senso potevo dire che quello sarebbe stato il mio primo appuntamento romantico. Il pensiero mi deprimeva e mi atterriva al contempo: come dovevo comportarmi?
«No!» saltai su. «Cioè, sì, certo che voglio uscire con te. È solo che...»
Oddio, stavo balbettando. Mi diedi della stupida: cosa diavolo mi era preso? Ci eravamo baciati, mia nonna pensava che già stessimo insieme, Margherita sperava che succedesse al più presto e avevamo già vissuto quell’imbarazzante momento in cui il partner conosce la famiglia dell’altro – anche se in questo caso le cose si erano svolte in modo molto differente da come avviene di solito. Insomma, il nostro rapporto era nato e si era sviluppato in un modo un po' diverso da come succedeva nella maggior parte dei casi e sarebbe stato anche logico che tornasse su binari un po' più normali: con un classico appuntamento, per esempio.
«Solo che...?» Giulio aveva intuito benissimo cosa mi passasse per la testa, ma pareva divertirsi un mondo per il mio imbarazzo, perché mise il gomito sul banco e appoggiò la testa sul palmo della mano inclinandola appena appena di lato, quasi volesse godersi la scena. Dio, avrei voluto strozzarlo.
«Solo che... ne sei sicuro? E se dovessimo incontrare qualcuno che conosciamo?» buttai lì pur di non dargliela vinta, ma in effetti sarebbe stato un guaio se qualcuno avesse riferito qualcosa ai suoi.
Giulio, però, non si scompose, ma alzò le spalle. «Potremo dire di esserci incontrati lì per caso. Oppure possiamo proporlo anche ai tuoi amici, se questo ti fa sentire più tranquilla. Anche se devo ammettere che l'idea di un appuntamento vero con te, che non implichi genitori soffocanti e regole di grammatica francese, non mi dispiacerebbe per niente.» mi sorrise gentile, abbandonando quell'espressione sorniona di poco prima.
Ricambiai il sorriso. «Ok, dài.» acconsentii infine.
«Visto? Non era così difficile!» Giulio non poté fare a meno di commentare divertito; per tutta risposta gli lanciai un'occhiataccia che lo fece scoppiare a ridere.
«Bene,» mi schiarii la voce, cercando di assumere un tono più professionale «direi che possiamo tornare alla nostra lezione.»
«Ancora?» stavolta Giulio sbadigliò.
Lo fissai non capendo: come “ancora”?
«Non te ne sei accorta? Abbiamo continuato a parlare in francese per tutto il tempo. Per un po’ possiamo lasciar perdere la conversation, che dici?»


Pur avendo tentato in tutti i modi di convincermi che andava tutto bene, che non aveva alcun senso essere nervosi, che i primi appuntamenti con il ragazzo con cui stavi non fossero niente di diverso da una classica uscita tra amici, che Giulio era sempre Giulio Molinari, quindi non è che all'improvviso mi sarei trovata davanti uno sconosciuto sbucato da chissà dove, non ero riuscita per nulla a calmare la mia ansia.
«Non è che temi il confronto con le altre donne che ha avuto?» sogghignò la solita vocina malefica, mentre mi controllavo allo specchio per l'ennesima volta, ma io la ignorai come al solito.
«Sii te stessa e non preoccuparti di nulla!» mi avrebbe detto mia sorella. Mi pareva quasi di vederla, mentre rideva delle mie paure e mi rassicurava che sarebbe andato tutto bene.
Perché era non era lì con me? Avevo così tanto bisogno di lei e dei suoi consigli.
A quel pensiero l'agitazione iniziò a trasformarsi in qualcosa molto simile alla malinconia e chissà dove mi avrebbe portata se Giulio non avesse suonato il citofono proprio in quel momento.
Gli avevo più volte detto che non era necessario che passasse a prendermi e che avremmo potuto incontrarci al locale, bastava solo che mi spiegasse dove fosse, ma lui aveva ribattuto che era complicato e voleva fare le cose per bene per il nostro primo appuntamento, perciò alla fine avevo acconsentito anche se di malavoglia. Eppure, in quel momento, ero davvero grata per il suo arrivo tempestivo e mi precipitai giù dalle scale quasi di corsa, incurante del fatto che avevo scelto un semplice paio di jeans e una maglietta, ma desiderosa più che mai di scappare da quei pensieri deprimenti che avevano iniziato a vorticarmi nella testa. Quando aprii il portone, Giulio mi accolse con un sorriso e un abbigliamento non molto diverso dal mio che mi fece tirare un sospiro di sollievo.
Il locale, che si trovava in una stradina del centro storico di cui ignoravo l’esistenza, era come l’aveva descritto Giulio: piccolo, tanto che a stento ci sarebbero potuto entrare una decina di tavolini, ma carino. Anche rimanendo all’esterno, sulle pareti si intravedevano poster di gruppi e cantanti a me per lo più sconosciuti.
L’evento si sarebbe svolta all’aperto in un rettangolo racchiuso da piante che ci nascondevano alla vista dei passanti: la band aveva già posizionato gli strumenti e probabilmente stava aspettando che i tavolini si riempissero prima di cominciare a suonare. Il ragazzo che ci aveva consegnato il volantino era il chitarrista e, quando ci vide, ci riconobbe e ci fece un cenno di saluto da lontano; ricambiammo mentre una cameriera ci indicava un tavolino a una certa distanza dalle casse.
Fu solo verso le dieci, quando ormai io e Giulio avevamo finito di mangiare da un pezzo e avevamo appena ordinato una seconda pinta di birra, che partì un assolo di chitarra e la serata ebbe inizio.
«Speriamo che non siano i classici alternativi che scrivono canzoni perché dicono che vogliono cambiare il mondo e poi finiscono per diventare identici a quelli che criticavano tanto,» aveva commentato Giulio lungo la strada e io mi ero detta d’accordo; d’altronde, con un nome come quello, i Lonely Souls, non mi aspettavo molto di più.
E invece, a dispetto di quello che avevamo ipotizzato, la loro musica riuscì davvero a catturarci. Non trattavano di ingiustizie sociali, né di razzismo, né di come avrebbero cambiato il mondo, ma cantavano pure e semplici canzoni d’amore. Non nel senso di storie d’amore che finiscono male, di coppie che si lasciano o roba del genere; intendo proprio Amore con la lettera maiuscola, il sentimento universale che guida il mondo: amore verso la vita, verso la natura, verso il prossimo. Erano canzoni lente, ma non melense, che permettevano di scorgere l’anima di colui che le interpretava e che le aveva anche composte.
L’ultimo pezzo che intonarono si intitolava Pluto: la voce del cantante, accompagnata solo dalla chitarra, attraverso una metafora ardita ma molto efficace, paragonava se stesso al corpo celeste: come Plutone riceve a stento la luce del sole a causa della sua distanza dalla nostra stella, così il protagonista sentiva lontano da sé il mondo brillante e luminoso che lo circondava ma che non riusciva a raggiungere a causa della sua timidezza: nonostante avrebbe tanto voluto essere come tutti gli altri, era troppo atterrito per provarci. Gli unici che potevano capirlo erano le sue lune, gli amici immaginari che popolavano il suo mondo e di cui amava narrare scrivendo racconti che conservava gelosamente nel proprio computer.

E come Plutone
vorrei raggiungere il Sole,
quel mondo così colorato
a me sconosciuto.
Ma il Sole è lontano
e io sono solo,
con la mia immaginazione
come unica compagna.


Era la richiesta di aiuto di una persona che vorrebbe cambiare, ma che da sola non ci riesce, perciò prova a farlo attraverso le parole, sperando che qualcuno, un giorno, riesca a raggiungerla. In quelle note, avevo avvertito un dolore profondo, che arrivava fin nelle ossa e che mi strinse il cuore.
«Ti è piaciuto?»
Guardai Giulio come se non lo riconoscessi: ero rimasta così incantata da quella canzone che avevo dimenticato dove fossi e con chi.
«Moltissimo, soprattutto quest’ultimo brano.» ammisi.
«Me ne sono accorto.» mi sorrise.
Per tutta risposta, bevvi un altro sorso di birra, ormai calda: non ero ancora pronta a condividere i sentimenti che quel brano aveva suscitato in me, ma Giulio non mi chiese cosa ne pensassi.
«Anche se nella canzone c’è un piccolo errore: Plutone non è più considerato il nono pianeta del sistema solare dal 2006, ma solo un pianeta nano.» spiegai, più per cambiare discorso che perché ci tenessi a quella puntualizzazione.
Giulio mi fissò perplesso. «Un pianeta nano?»
«Sì. Diciamo che ha molte caratteristiche di un pianeta, ma non ha “ripulito le vicinanze della propria orbita”, nel senso che non ha una gravità abbastanza forte da modificare l’orbita dei corpi più piccoli. Non è una definizione molto felice, lo so, ma è l’unica che gli scienziati per ora hanno trovato.»
Giulio mi fissò colpito. «Non immaginavo conoscessi così tante cose di astronomia. Pensavo che ti interessassero solo le materie letterarie.»
Gli lanciai un'occhiata divertita. «In realtà queste cose sono scritte sui libri di geografia astronomica. Dovresti averle studiate anche tu a scuola.»
Rise. «Non sono mai stato molto appassionato della materia, lo ammetto.»
«Noto. Comunque, sì, mi piace. Anzi,» giocherellai un po’ con il boccale di birra, facendolo ruotare a destra e a sinistra «in realtà è una passione di famiglia. Mio padre aveva persino un telescopio e, quando eravamo piccole, lo posizionava sul terrazzo per mostrarci le costellazioni e spiegarci i miti legati alle stelle. Sono convinta che il mio interesse per il mondo classico sia scaturito da lì.»
«Aveva? Non ce l'ha più?»
Scossi la testa: «L'ha venduto assieme alla casa quando... quando ci siamo trasferiti,» spiegai per sommi capi, ma Giulio capì e annuì senza aggiungere altro.
“Volevo una casa da cui si potessero vedere le stelle” ci diceva sempre nostro padre quando, accucciato accanto a me e a Giovanna, ci insegnava a riconoscere una costellazione. È per questo che aveva preferito comprarla in una zona più periferica, anziché in centro. Avevamo passato tante notti, su quel terrazzo, imparando a distinguere il Grande Carro dal Piccolo, a riconoscere al volo la Stella Polare e ad ascoltare le storie di Castore e Polluce e delle altre costellazioni dello zodiaco. Era un momento solo nostro, che mia madre non comprendeva né condivideva con noi, ma che ci lasciava vivere in tranquillità, perché non facevamo nulla di male.
Mi mancavano. Quei momenti così intimi mi mancavano tantissimo.
Scossi la testa decisa a dimenticare quei pensieri così tristi e tornai a concentrarmi sul presente. Dopo aver finito quello che restava delle nostre birre, lasciammo il locale e proposi a Giulio una passeggiata sul lungomare. Sapevamo che era rischioso, ma non avevo ancora voglia di rimanere da sola con i miei pensieri.
Ci appoggiammo a uno dei muretti che davano sul porto e per un po' rimanemmo a fissare la distesa salata davanti a noi che, ormai, si confondeva con il cielo notturno; l'aria calda e afosa del mattino aveva lasciato spazio a temperature un po’ più fresche.
«Allora, mi insegni a riconoscere qualche stella?» se ne uscì all'improvviso Giulio, indicando un punto qualsiasi del cielo.
Seguii la direzione del suo dito che non puntava a nessun corpo celeste visibile e scoppiai a ridere. «Mi dispiace, ma qui è impossibile mostrarti qualcosa: c'è troppo inquinamento luminoso e non si vede quasi nulla; bisogna andare in zone buie e abituare gli occhi all'oscurità; per questo motivo bisogna cercare di evitare le notti di luna piena, dato che la luce della luna disturba la visione delle stelle. L'ideale sarebbe una notte di luna nuova che, se non sbaglio, è passata da qualche giorno.» gli spiegai.
«Oh,» sembrava un bambino a cui avevano detto che quel giorno non avrebbe potuto andare a giocare con gli amici. «quindi dobbiamo per forza aspettare il mese prossimo?»
«No, non è detto: si può anche scoprire a che ora sorge la luna e regolarsi di conseguenza. Però eviterei i giorni di luna piena.»
Per un po’ Giulio non aprì bocca e mi domandai se avessi detto qualcosa di sbagliato senza che me ne rendessi conto.
«Tutto ok?» non riuscii a fare a meno di preoccuparmi.
«Cosa?» si riscosse all’improvviso con un sussulto. «Sì, sì. Stavo solo pensando…»
«Sì?» lo spronai turbata.
Lui si voltò nella mia direzione, un sorrisetto che non prometteva niente di buono dipinto sul volto. «Siamo usciti insieme, siamo andati a cena, abbiamo ascoltato buona musica, anche se non l’avremmo mai immaginato, abbiamo fatto una passeggiata romantica sul lungomare e mi hai insegnato tante cose sulle stelle. E nessun meteorite è caduto dal cielo, la terra non ha inghiottito nessuno dei due, non c’è stata l’eruzione di nessun vulcano e siamo sopravvissuti al nostro primo appuntamento. Come vedi, non c’era motivo per agitarsi tanto. No?»
«Tu…!»
Quell’idiota. Come diavolo faceva a conoscermi così bene? Eppure, aveva ragione: tutte le mie stupide paure erano scomparse nel momento in cui avevo aperto il portone e avevo visto le sue labbra sorridermi. Era bastato quel gesto a farmi razionalizzare davvero quello che la mia testa aveva cercato di spiegarmi per tutto il pomeriggio: sarei uscita con Giulio e sarebbe andato tutto per il meglio perché, beh, ero con lui, no?
Solo che non gli avrei mai dato la soddisfazione di dirgli che aveva ragione, non se continuava a guardarmi con quel sorrisetto così snervante.
«Già, come no. Rientriamo, su, ché se qualcuno ci vede, non credo che sopravvivrai ancora per molto.» ribattei e iniziai ad avviarmi senza di lui.
Giulio scoppiò a ridere. «Ogni suo desiderio è un ordine, mademoiselle!» commentò e mi raggiunse divertito.
   
 
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