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Autore: Adeia Di Elferas    25/01/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non penso sia la scelta giusta.” disse Troilo, guardando con gravità Gian Giacomo.

Il Trivulzio strinse i denti e poi, inclinando appena la testa di lato, ribatté: “Non sei più un ragazzino, ma a volte ragioni come se lo fossi.”

“Conosco questa gente...” provò ancora a dire il de Rossi: “Si oppongono perché vogliono un trattamento più equo, non perché vogliono rovesciare il tuo comando.”

Il Governatore di Milano si prese il suo tempo per rispondere. Erano arrivati a Piacenza da pochissimo, eppure la situazione sembrava già essergli sfuggita di mano. Si era aspettato che, anche grazie ai quattromila cavalieri e a tutti i fanti che si era portato appresso, i piacentini non osassero minimamente opporsi ai dazi che il re di Francia aveva deciso di imporre loro.

Troilo aveva espresso fin da subito le sue perplessità, riguardo alla presenza dell'esercito. Aveva provato a consigliarli di lasciare i soldati a distanza dalla città, per non mettere troppa pressione a Piacenza, ma il Trivulzio era stato irremovibile. Gli era bastato vedere che fatica stava facendo a Milano per capire che senza armi non avrebbe ottenuto nulla.

“Capisco che tu voglia mantenere pulito il tuo nome.” concesse alla fine Gian Giacomo, con uno sbuffo: “Perché vuoi che i Rossi siano di nuovo ben accetti nel parmense... Ma non saranno le parole a piegare questa gentaglia.”

Avevano trovato riparo in uno dei palazzi del Governo di Piacenza, ma, anche se c'erano guardie a ogni porta, nessuno dei due si sentiva sicuro a restare lì. Perfino Troilo, che pur ostentava una certa determinazione nel voler seguire una linea morbida, non poteva ignorare le grida della folla proprio sotto alla loro finestra.

Il de Rossi si passò una mano tra i capelli che tendevano al fulvo e poi, sollevando un sopracciglio, commentò: “Conquistare Milano non è bastato per allargare la nostra influenza anche all'Emilia, avremmo dovuto saperlo.”

“E allora avremmo dovuto marciare in armi anche qui?” lo provocò Gian Giacomo: “Trovo sia più saggio usare solo qualche migliaio di uomini come deterrente, come voglio fare io.”

Sollevando le braccia, a mo' di resa, Troilo cedette: “Sei tu che comandi, tra noi. E, in più, ti sono debitore per quello che stai facendo per farmi recuperare le mie terre. So bene che se mio padre sta per riprendere San Secondo il merito è solo tuo.”

Il Trivulzio fece una specie di smorfia, che deformò le sue labbra sottili in una specie di sorriso, e poi sospirò: “Avanti, diamo l'ordine ai soldati di entrare in città. Non faremo caricare la folla, ma se qualcuno dovesse ribellarsi, si arriverà alla violenza.”

“Sperando che non peggiori solo la situazione, come l'ultima volta.” si sentì in dovere di aggiungere, proprio sul finale, il de Rossi.

L'allusione a quello che era successo di recente a Milano non cadde nel vuoto. La smorfia simile a un sorriso che aveva contratto i lineamenti di Gian Giacomo si trasformò in un'espressione cupa.

In modo sbrigativo, volendo cancellare in fretta il ricordo della confusione che era seguita all'esecuzione sommaria che aveva egli stesso portato a termine al macello milanese, il Trivulzio andò verso la porta e decretò: “Tu resterai qui. Sarà meglio che non ti vedano alla guida dei soldati, così non ti odieranno. Lascia a me questo privilegio.”

 

Bernardi fece scivolare con attenzione la lama del rasoio sulla guancia del suo cliente, e poi, appena sollevò il filo dalla sua pelle, chiese: “Ma dite davvero?”

Il forlivese che si stava facendo sbarbare annuì appena con un cenno del capo e poi, controllando con la punta delle dita se fosse stato rasato a dovere, precisò: “Tutte le sere, hanno deciso. Certo, adesso non c'è più la folla della prima volta... Ma ai soldati fa piacere sentir dire Messa alla rocca.”

Andrea si fece pensieroso. Anche gli altri due, che attendevano il loro turno, sembravano d'accordo con le parole di quel cliente. La prima volta, al Novacula era parsa una cosa strana, ma compatibile con il desiderio di creare spirito di aggregazione tra gli armigeri. Adesso, però, che sembrava essere diventata una consuetudine, si chiedeva se dietro non vi fosse più che altro un'aperta sfida a Roma...

“Per me – si intromise uno dei clienti in attesa – la Tigre ha deciso di farlo solo perché gliel'ha chiesto quel frate.”

“Che frate?” Bernardi si voltò quasi di scatto, come sempre innervosito nel non sapere qualcosa che invece altri parevano dar per scontata.

L'uomo che aveva parlato poco prima sollevò le sopracciglia, quasi divertito dalla smania del barbiere di sapere l'identità del religioso e così, volutamente, cercò di restare sul vago: “Pare sia il suo nuovo padre confessore... Sapete, un francescano...”

“Ne aveva ben bisogno, dato che, da quando il piovano Fortunati se n'è andato, sembra che non si sia mai scaricata la coscienza con qualcuno... E ne ha ben motivo, direi.” fece l'altro cliente in attesa.

“Confessarla...” borbottò, alzandosi, quello che era appena stato rasato: “Secondo me fa anche altro, oltre a confessarla...”

“Che intendete?” chiese Bernardi, che, in realtà, si era già fatto un'idea, ma non voleva credere che la Sforza fosse arrivata a tanto.

“Nulla, nulla...” ridacchiò il cliente: “Solo che quel frate ha libero accesso ai suoi appartamenti, e pare ci vada quasi solo di notte.”

“Ma si può sapere chi è questo frate?!” Bernardi non avrebbe voluto, ma stava perdendo davvero la pazienza.

Con il passare del tempo, più il suo legame con la Contessa si era fatto esile, più si era trovato lontano dalle notizie fresche della rocca e, al contempo, si era sentito inutile e vecchio. Gli mancavano i momenti in cui la Sforza lo vedeva non solo come un aiuto, ma come un amico. Non sapeva dire nemmeno lui quando e perché tutto fosse finito, trasformandosi in freddezza e, a tratti, in aperta ostilità.

“Non so se vi ricordate di...” cominciò a dire uno dei tre clienti, stanco di quel teatrino, ma la voce gli morì subito in gola, nel vedere proprio la Leonessa varcare la soglia della barberia: “Mia signora...” si affrettò a dire, chinando il capo.

Anche gli altri due forlivesi si premurarono di porgerle i loro omaggi, mentre il Novacula restava impassibile al suo posto, il rasoio ancora tra le mani, e lo sguardo che passava silenzioso sulla figura della sua signora senza lasciarsi sfuggire il più piccolo dettaglio: né gli abiti maschili, né i capelli sciolti e, tanto meno, il suo volto un po' tirato e gli occhi stanchi di chi, probabilmente, non riusciva a dormire in modo soddisfacente da giorni.

“Ditemi se è un brutto momento... Altrimenti passo più tardi.” disse la donna, senza guardare il barbiere.

L'uomo sollevò appena una spalla, vedendo che, tanto, i suoi tre clienti se ne stavano andando di loro iniziativa – quello già sbarbato addirittura senza pagare – e sbuffò: “Ditemi tutto.”

La Sforza ci aveva messo un po', per decidersi ad andare dal Novacula. Aveva provato a interpellare l'Oliva, a parlare con qualche soldato, ma sapeva che il vero polso di Forlì poteva tastarlo solo quel barbiere. La questione era molto seria e quindi non poteva dar troppo peso al proprio disagio per essere di fronte a un uomo che, ormai, le sembrava solo uno sconosciuto.

Sapeva che la rocca di Imola poteva cadere a giorni e, anzi, si stava già vociferando che il tentennamento del Borja fosse dovuto a una precisa strategia, e non alla sua incapacità, quindi era verosimile che Naldi sarebbe stato presto costretto alla resa. Confrontandosi con i suoi Capitani e anche con i suoi fratelli, Caterina aveva deciso che, al momento giusto, possibilmente prima della caduta definitiva di Imola, sarebbe stato opportuno chiamare a raccolta la cittadinanza e chiedere apertamente cosa volessero fare: arrendersi o combattere.

Nel primo caso, i soldati sarebbero rimasti con lei, lasciando i forlivesi rimasti al loro destino, esattamente come avevano fatto quelli guidati da Naldi. In caso contrario, avrebbe ridistribuito gli uomini, andando a difendere l'intera cinta muraria e non solo le fortificazioni. Sarebbe stato più dispendioso e complicato, ma di certo la risonanza della loro resistenza sarebbe stata maggiore e, con un po' di fortuna, avrebbe risvegliato l'orgoglio di qualche vicino che sarebbe accorso a soccorrerli.

Fermo restando che sicuramente avrebbe convocato un Consiglio Cittadino proprio per discutere quei fatti, nell'attesa la Contessa voleva farsi un'idea di come i forlivesi avrebbero risposto. Ecco, dunque, che quel giorno si era decisa a lasciare Ravaldino, uscire nella nebbia pesante che avvolgeva la città, e recarsi alla barberia.

Non volendo arrivare subito al dunque, la Sforza esclamò: “Trovo davvero sorprendente che, anche in momenti come questo, la gente trovi il tempo di venire a farsi sbarbare...”

“Vi sembrerà strano, ma vi assicuro che le barbe crescono sia che si sia in tempo di pace, sia che ci sia la guerra.” ribatté, aspro, Bernardi.

Caterina, deglutendo, annuì con un cenno del capo e poi, cauta, decise di lasciar perdere i panegirici: “A breve chiederò al Consiglio Cittadino di decidere se combattere con me o arrendersi ai francesi.” disse, vedendo come, malgrado il suo apparente disinteresse, Andrea tendeva l'orecchio per cercare di capire appieno le sue parole: “Vorrei sapere, secondo voi, cosa decideranno i miei sudditi.”

“Tra il combattere per voi fino alla morte e la speranza di ottenere clemenza dagli invasori?” chiese l'uomo, fingendosi mano sveglio di quanto non fosse: “La scelta mi sembra abbastanza semplice, mia signora.”

La Tigre sfuggiva lo sguardo severo del barbiere, facendo passare gli occhi su tutta la bottega, ricordando, involontariamente, di tutte le volte in cui quel piccolo ambiente era stato per lei un angolo di pace e un'ancora di salvezza. Anche ripercorrendo il tutto, non avrebbe saputo dire quando, di preciso, aveva smesso di esserla.

“Non combatterebbero per me, ma con me.” precisò.

“Non credo che ci sarebbe molta differenza, per loro.” obiettò il Novacula.

“E poi se credono di trovare pietà nei francesi, significa che vedere Mordano distrutta la prima volta è servito a poco, e vederla rasa al suolo una seconda volta, non è servito proprio a nulla.” fu il commento rabbioso della Leonessa: “Come possono non capire che sarebbero più al sicuro se...”

“Se vi fosse stata a cuore la sicurezza del vostro popolo – la interruppe Andrea, sistemandosi alla cintola il rasoio – allora non avreste mai iniziato questa guerra.”

La Contessa rimase attonita, le iridi verdi, che, finalmente, cercavano quelle del barbiere: “Ma non l'ho iniziata io, questa guerra.”

“La gente crede di sì, e quando la gente si mette in testa qualcosa, è difficile togliergliela.” le ricordò lui.

“Come possono pensare che io abbia scatenato una guerra contro un re d'Oltralpe?!” sbottò Caterina, sconcertata.

“Credono che abbiate scatenato l'ira del papa in molti modi.” la corresse Andrea, squadrandola da capo a piedi e indicando i suoi abiti maschili: “E direi che non smettete un solo giorno di trovare altre maniere per farlo di nuovo.”

“Il papa vuole conquistarci solo perché per Forlì passa la via Emilia.” si schermì lei: “Non certo per colpire la mia persona.”

“Credeteci, se vi piace crederlo.” alzò le mani Bernardi: “Ma non aspettatevi che ci creda anche qualcun altro.”

La Sforza rimase in silenzio. Tra tutti le motivazioni che si aspettava di sentire in favore di un'eventuale resa del suo popolo, quella non c'era stata. Le sembrava, anzi, così strana, che giunse perfino a credere che fosse una valutazione personale e infondata del barbiere e, per questo, poco attendibile.

Stava quasi per esporre il proprio dubbio ad alta voce, quando l'uomo, forse desideroso di indurla ad andarsene, disse, con fare casuale: “È da qualche giorno che non vedo girare per la città i vostri figli, eccetto Ottaviano... Strano, visto che vostra figlia Bianca passa di solito le sue giornate al mercato, come una comune paesana, e il piccolo Feo, invece, di norma, sta sempre nei bassifondi, con quei piccoli delinquenti dei suoi amici...”

“Li ho convinti a restare alla rocca, in questi giorni – rispose la Leonessa, evitando di riprendere Andrea per il modo infelice in cui si era espresso – per la loro sicurezza.”

“Oh, certo...” sbuffò il barbiere, incrociando le braccia sul petto, con fare polemico: “La sicurezza dei vostri figli... L'unica che vi importi davvero. Siete pronta a mandare un intero Stato al macello, pur di salvare il sangue del vostro sangue.”

La Sforza, con grande fatica, riuscì a non ribattere con durezza. Non cercava lo scontro, ma, casomai, una pacificazione. Non era il momento di coltivare dei nemici aggiuntivi e, se non poteva tornare a essere amica del Novacula, voleva almeno provare a spegnere l'astio cieco che sembrava provare per lei.

Siccome la Contessa taceva, impedendogli di continuare ad attaccarla, Andrea la pungolò: “E dove li manderete, alla fine? A Venezia?”

La Tigre ebbe appena il tempo di felicitarsi del fatto che le chiacchiere messe in giro dagli uomini dell'Oliva sembravano aver messo radici. Facendo credere a tutti che fosse in trattativa con il Doge, era probabile che anche il papa finisse per dar per buone quelle voci, finendo fuori pista.

La donna, però, taceva ancora, guardando altrove, e così a Bernardi non restò che scoprire tutte le sue carte e dimostrarle che, malgrado tutto, era ancora uno degli uomini che la conoscesse meglio al mondo: “Io non ho creduto nemmeno per un istante che li avreste spediti a Venezia. Io sono convinto che li manderete tutti quanti a Firenze. Là scommetto che il nome del Medici conti ancora qualcosa...”

Caterina deglutì, colpita, più che altro, dall'espressione disgustata che aveva fatto il Novacula citando Giovanni. Era proprio come se il ricordarlo gli desse il voltastomaco e, come in un lampo, alla fine la Contessa capì. Era iniziato tutto lì. Quando al suo fianco c'era il Medici, Andrea era stato messo da parte, non le era più servito. Era stata una sciocca, l'aveva trascurato, non l'aveva mai ricompensato per tutto quello che aveva fatto per lei e lui, vedendosi soppiantare dal fiorentino, aveva finito per odiare entrambi.

“Non preoccupatevi...” sussurrò il Novacula, facendosi di colpo triste: “Non dirò a nessuno quello che penso su tutta questa faccenda. Consideratelo pure un regalo di addio. L'ultimo favore che vi faccio.”

La Tigre aveva schiuso le labbra per dire qualcosa, ma l'indice ammonitore del barbiere la zittì subito.

“Perché sia chiaro – specificò lui – che non ve ne farò mai più.”

“Grazie.” fu l'unica parola che riuscì a risalire la gola della Leonessa.

Come colta dal bisogno impellente di sdebitarsi in qualche modo, la donna cominciò a frugare nella scarsella che portava in vita, finendo per trovarvi qualche moneta.

“Tenete, lasciate almeno che vi paghi per quei tre che se ne sono andati quando sono entrata e...” si mise a dire.

“Non mi serve la vostra carità.” la liquidò il Novacula, dandole le spalle e mettendosi a controllare gli stracci che usava per pulire le gole dei suoi clienti: “Non mi è mai servita. Mai.”

Dato che la sua signora non accennava ad andarsene, il barbiere fece uno sbuffo e si decise a rendersi così sgradevole da convincerla a levare il disturbo.

“Come si chiama il frate che vi portate a letto?” le chiese, senza girarsi.

Il mutismo che seguì lo indusse a guardarsi alle spalle e così la vide impallidire, immobile e con gli occhi sgranati.

“Allora è vero...” fece lui, sinceramente spaesato da quella tacita conferma.

Voleva solo farla arrabbiare, si era atteso qualche battuta caustica in risposta alla sua domanda, non certo tutto quello smarrimento.

Senza dire nulla, la Sforza andò svelta alla porta e uscì in strada quasi di corsa. Stava scappando.

Mentre attraversava a passo rapido le vie di Forlì, senza una vera meta, la Contessa si vergognò di se stessa. Non tanto per l'accusa lanciatale dal Bernardi, quanto per non essere rimasta a difendersi.

Non era mai scappata in vita sua. Farlo in una situazione simile era da veri codardi.

Senza accorgersene, si ritrovò proprio davanti alla chiesa di San Girolamo. Guardò la sua facciata familiare e poi, mentre il suo pensiero correva a Giacomo, ammise con se stessa che era già scappata una volta come una vile, anni prima. Quando il suo amatissimo secondo marito era caduto di sella, infilzato dalle lame dei congiurati, lei non aveva avuto il più piccolo moto di indecisione: era fuggita e basta.

Trattenendo a stento qualche lacrima di rabbia, Caterina tentò di dominare la collera che in quel momento era tutta rivolta a se stessa e, nella speranza di ritrovare la calma, decise di entrare in chiesa un momento.

Forse, pensò anche, mentre varcava la soglia, sentendosi puntati addosso gli occhi dei curiosi che affollavano la via, vedendola recarsi in un luogo di preghiera, la gente avrebbe creduto più facilmente all'alibi che Monsignani aveva già fornito tre volte per andare da lei in piena notte.

 

Ercole Este era seduto sotto la luce fredda che filtrava dalla finestra. Teneva una mano tra i capelli grigi e l'altra stesa sopra la lettera arrivatagli giusto quella mattina da Forlì. Ci aveva messo parecchio tempo a giungere a destinazione e, pensava tra sé l'uomo, era stata una fortuna che non fosse andata persa o intercettata.

Di per sé non diceva nulla che lo interessasse e portava un ordine molto esplicito che la Leonessa di Romagna gli rivolgeva come se lui fosse solo uno dei suoi tanti servi. Da un lato lo blandiva, riconoscendolo come un'autorità abbastanza importante da poter costringere i Valentini di Modena a restituirle un vaso prezioso che tenevano indebitamente presso di loro. Dall'altro, però, ogni riga vergata dalla mano pesante e prepotente della Tigre, faceva trasparire la sua incontenibile arroganza.

L'Este fece un lungo sospiro e poi staccò finalmente lo sguardo dalle parole nervose della Sforza, mettendosi a guardare fuori dalla finestra. Ferrara sembrava addormentata, sotto una coltre di acquerugiola che pareva quasi uno spesso strato di nebbia.

Avrebbe voluto che ci fosse stato anche suo figlio Alfonso, per decidere cosa fare. Magari gli avrebbe dato qualche buon consiglio, o gli avrebbe offerto una visione nuova della situazione, permettendogli di fare quello che era meglio. Lui, lasciato solo in quelle valutazioni, non intendeva fare proprio nulla. La Leonessa era ormai senza potere e presto sarebbe stata anche senza Stato. A cosa gli sarebbe servito farle quel piacere?

Tuttavia, pensava, Alfonso avrebbe potuto dargli la sua opinione a riguardo, dimostrargli che, un giorno, sarebbe stato in grado di caricarsi il Ducato sulle proprie spalle. Non aveva alcuna intenzione di pregarlo di mettersi a dialogare con lui, tanto meno voleva trattarlo ancora come un bambino, imponendogli di fare il suo dovere. Quello che avrebbe voluto, sarebbe stato vedere suo figlio volenteroso e ben disposto a fare la sua parte volontariamente.

E invece Alfonso era di certo a perdere tempo in qualche bordello, con qualche donna grassa e vecchia, come se le sceglieva sempre, incurante del mal francese che già gli stava corrodendo il corpo e, soprattutto, lo spirito.

Ercole, deglutendo, si mise una mano sullo sterno, come se quel gesto bastasse a placare il bruciore di stomaco che lo prendeva ogni volta in cui pensava a come suo figlio, il suo primogenito, il suo erede, stesse sprecando il suo tempo e le sue potenzialità comportandosi come un qualsiasi popolano dedito ai piaceri e al lavoro manuale.

Stava quasi per lasciare il salone e cercare riparo in un punto più raccolto del castello, quando uno dei suoi servi arrivò con una lettera per lui.

“E che altro c'è adesso...” borbottò, Tramontana, stringendo appena le palpebre pesanti e afferrando la missiva.

Gli ci volle appena un secondo per capire che il mittente era niente meno che Cesare Borja e, non appena lesse qualche riga, capì anche che non gli sarebbe stato facile dire di no alle sue pretese.

“E questo Francesco de Guelva...” disse, guardando con fermezza il servo: “Si trova già qui?”

Quel messaggio, che faceva capire in modo molto chiaro al Duca di Ferrara che il Valentino si riteneva più potente di lui, abbastanza da dargli ordini, era, di fatti, una sorta di lettera d'accompagnamento per il portavoce di cui Ercole aveva chiesto notizie.

“Vi aspetta appena fuori...” spiegò il servo, senza aver tempo di concludere la frase.

L'Este, che tutto voleva fuorché far adirare un emissario del figlio del papa con un'attesa inutile, lasciò la lettera della Sforza nelle mani del servo, borbottandogli di andare a metterla sulla sua scrivania, e poi camminò veloce verso la porta, dirigendosi immediatamente al piano di sotto, verso il portone.

Di certo non avrebbe potuto accontentare in tutto e per tutto le richieste che gli sarebbero state fatte, ma poteva dimostrarsi amichevole e stemperare l'impossibilità di fornire ai francesi quanto chiedevano con una grande disponibilità d'animo.

“Messer de Guelva!” esclamò, quando scorse l'uomo che doveva essere il messo del Duca di Valentinois: “Prego! Entrate! Non restate al freddo, venite con me!”

I modi straordinariamente affabili di Ercole lasciarono basito Francesco, che si era atteso un uomo altero e di poche parole, ma accettò di buon grado quell'invito, dato che Ferrara, quel giorno, era pressoché invivibile.

Mentre scortava nella zona più calda del castello il suo ospite, l'Este si trovò a pensare che, forse, era un bene che Alfonso non fosse lì. Con i suoi modi scostanti e a tratti incomprensibili, sarebbe stato capace di rovinare tutto quanto.

Sarebbe stato in grado, addirittura, di ricacciare Francesco de Guelva da dove veniva, mettendosi a dire che la Sforza era una persona migliore del Borja e che, quindi, Ferrara avrebbe appoggiato lei e non il Valentino.

Tramontana, invece, non si faceva problemi di natura morale. La guerra era la guerra e si doveva parteggiare per il più forte, non per chi era nel giusto. In quel momento, era Cesare Borja a spingere la ruota, e dunque era lui che andava seguito, e non la donna che, da quella stessa ruota, sarebbe stata presto schiacciata.

“Per prima cosa, lasciatemi dire che stimo molto il Duca di Valentinois – mentì Ercole, facendo accomodare l'emissario francese – e trovo che la sua campagna non sia solo giusta, ma addirittura santa, e che sia indispensabile riconsegnare la Romagna al papa, che è il suo legittimo proprietario.”

“Parlate bene, Duca.” rispose Francesco de Guelva, sollevando le labbra fino a scoprire i denti irregolari: “Ma sono qui per chiedervi uomini, cibo e armi, non parole.”

Il mezzo sorriso che campeggiava sul volto dell'Este sembrava essersi congelato, ma Ercole ebbe comunque lo spirito di dire: “Quel che si può, daremo.”

 

Luffo Numai guardò di sottinsu la sua signora. Quello che gli stava dicendo non era nulla che non si aspettasse, ma, comunque, sapere che ormai mancava veramente poco alla messa in atto del oro piano, lo metteva in difficoltà.

“Dunque anche i vostri figli sono d'accordo?” chiese Caterina, tenendo gli occhi bassi, fissi sul pesante tappeto che occupava buona parte del pavimento di quel salone.

Era stata indecisa se recarsi o meno a casa del suo Consigliere, quella sera, ma alla fine aveva deciso che sarebbe stato meglio così. Nessuno si sarebbe insospettito, a vederla girare per la città con il buio, dato che lo faceva spesso, e probabilmente quasi nessuno l'avrebbe notata mentre si infilava nel portone di palazzo Numai. Se avessero fatto quel discorso alla rocca, sarebbe stato molto più difficile riuscire a non farsi sentire da nessuno.

E così, quando era uscita da Ravaldino con il pretesto di incontrarsi con Giovanni da Casale alla solita locanda, aveva preso una via un po' più lunga, facendo quella doverosa deviazione.

“Sì, loro sono d'accordo.” annuì Luffo, accompagnando le parole con un cenno del capo.

“Possiamo fidarci?” la domanda della Tigre non voleva offendere Numai, che, tuttavia, non trattenne una smorfia di delusione, al pensiero che la sua signora non ritenesse i suoi figli affidabili.

“Darebbero anche loro la vita, pur di servirvi.” assicurò lui.

“Bene.” il soffio della Leonessa fu quasi udibile e, le parole che seguirono, sembravano quasi parte di un monologo con se stessa: “Se la rocca di Imola sta davvero per cadere per tradimento, è tempo che i miei figli vengano messi al sicuro...”

Mentre ancora Luffo se ne stava in piedi, un po' curvo per colpa del mal di schiena che lo prendeva spesso dopo una giornata di lavoro, al suo posto, e la Sforza camminava irrequieta davanti al camino, la moglie del Consigliere, Caterina Paolucci, si mise sulla porta e guardò prima l'uno e poi l'altra.

“Avete sistemato tutto?” chiese, con una certa urgenza.

Il marito le rivolse uno strano sguardo, senza capire il motivo di quella fretta, mentre la Tigre subodorò qualcosa. Probabilmente, pensò, era arrivato qualche ospite inatteso che rischiava di diventare uno scomodo testimone.

Infatti, la Paolucci si schiarì la voce e chiese, alzando un po' il tono: “Non indovinerai mai chi è passato per porgere il suo saluto...”

Numai rispose a tono, reggendole il gioco e quando la donna fece il nome di un altro membro del Consiglio cittadino di cui né la Contessa, né Luffo avevano particolarmente stima, l'uomo si scusò e chiese alla moglie di far uscire la Sforza dall'uscita secondaria. Anche se in altri momenti non sarebbe stato pericoloso, farsi vedere assieme in un frangente simile, entrambi sapevano che era necessario non sottolineare la loro amicizia davanti a occhi estranei, in modo che a nessuno venisse in mente che il Consigliere potesse essere coinvolto nella fuga dei ragazzi.

Caterina Paolucci accompagnò senza problemi la Leonessa verso l'uscita di servizio, evitando che l'ospite si accorgesse di qualcosa, e poi, una volta alla porticina che dava sulla strada, si sentì in dovere di dirle: “Li proteggeremo come fossero figli nostri. Finché saranno sotto la nostra tutela, saranno al sicuro.”

La Sforza la ringraziò, e poi, cercando di non pensare troppo alle scadenze che lei e Numai si erano dati, iniziò a camminare a passo celere verso la locanda in cui Pirovano la stava aspettando, confidando che la sua compagnia potesse permetterle di non pensare a nulla almeno per qualche ora.

 

 
   
 
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