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Autore: _Cthylla_    26/01/2020    1 recensioni
La Decepticon Justice Division, recatasi per vari motivi nella città-Stato più folle del cosmo, ha deciso di trascorrere lì qualche ora di vacanza.
Quale piega prenderà, tra notizie e incontri più o meno inaspettati?
Genere: Avventura, Commedia, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, DJD/Decepticon Justice Division, Nuovo personaggio, Tarn
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Generation I, Transformers: Prime
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Specter Bros'- la serie'
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The Last Day To Repent (es wurde auch zeit!)










Increduli, barcollanti, sollevati, i quattro poveri disgraziati che tanto avevano patito si alzarono e raggiunsero il loro compagno di squadra quasi di corsa -eccetto Tess, che per forza di cose non poteva che andare piano.
Non riuscivano a credere alle loro ottiche, com’era possibile che fosse lì? C’era davvero o era uno scherzo crudele delle sorelle di Stiria?

«Tu… sei vivo per davvero?» chiese Nickel a Kaon, tastando e pizzicando ogni punto cui riuscisse ad arrivare «O siamo morti tutti invece?»

«Nah! Siamo tutti vivi e- aspetta che ti è successo al braccio?!» si stupì il transformer «E, Tess… la gamba…»

Tarn si fece avanti, allargando le braccia. «Vieni qui, Kaon».

Altrove, in un’altra realtà, quel gesto poi divenuto un abbraccio avrebbe preceduto un brutale omicidio. Kaon, reo di aver mostrato compassione -leggasi, reo di aver avuto una reazione un po’troppo “umana” davanti a un Tarn completamente impazzito- si sarebbe trovato senza testa, e Nickel sarebbe stata la sola ad avere il coraggio di dire a Tarn “Cos’hai fatto?!”.

Ma quello era “altrove”, appunto: nella realtà presente ci fu solo una “riunione di famiglia” e, in fin dei conti, era giusto così.

«M-ma voi avevate pensato davvero che fossi morto?» domandò loro Kaon, con l’espressione di chi si sentiva in colpa, una volta che il breve abbraccio ebbe termine.

«Ovvio, sei caduto giù dal ponte e sei finito in mezzo a scale che si muovevano!» rispose Helex «Cos’avremmo dovuto pensare?!»

«Sì, beh, in effetti avete ragione. In verità però non sono morto, sono stato tolto di torno perché mi intendo un po’troppo di questi giochi qui. Credo. Penso» aggiunse velocemente il tecnico «È solo un’ipotesi, non è che abbia avuto modo di chiederlo a Eribe e Vliegen».

«Eribe e Vliegen» ripeté Tarn.

«Le sorelle di Stiria, si chiamano così! Eribe è la strega».

«E tu questo, di preciso, come sei venuto a saperlo?»

Dopo una minuscola esitazione Kaon aprì la bocca per rispondere, ma…

«KAON! I muffin di alluminio non si guarniscono di energon da soli!»

La voce di una femme avanti con l’età, ma alta ed energica come quella di un caporale maggiore, indusse Kaon a rientrare rapidamente in casa dopo un altrettanto rapido “arrivo subito”.

Tarn e gli altri si scambiarono un’occhiata, poi decisero di entrare in casa a loro volta.

Lo stile degli interni rispecchiava quello dell’esterno, una dimora di campagna semplice, un po’rustica ma perfettamente pulita, senza particolari fronzoli e con un delizioso odore di cibo proveniente dalla cucina.

Nel processore di Nickel tornarono a galla alcuni ricordi d’infanzia, memorie di quando era ancora una protoforma e i suoi genitori la portavano a far visita alle sue nonne.
Ricordò i momenti in cui lei e il suo stuolo di cugini avevano giocato ad acchiapparella o a carte; ricordò le volte in cui si erano arrampicati su alberi tecnorganici non troppo dissimili da quello singolo al centro del campo di grano blu; ricordò i pasti in famiglia, con lunghe tavolate piene di cibo e di gente allegra, tutte cose che erano proseguite anche quando era diventata adulta.
Ricordò la festa che le avevano fatto una volta terminati gli studi da medico e il raduno che c'era stato in un'altra occasione, ossia quando aveva presentato alla propria famiglia il suo fidanzato. Si chiamava Bustin ed era stato un colpo di fulmine reciproco. Ne era stata innamorata al punto che, fosse stato per lei e fosse stata meno razionale, l’avrebbe preso come compagno di vita e avrebbe generato dei figli con lui già dopo due mesi di conoscenza.

Il ritorno alla realtà fu brutale: nulla di tutto quel che aveva ricordato c’era più, Prion era stata distrutta e lei, Tarn, Kaon e gli altri erano ancora in balia di una strega.

«Tu per sveltirti avresti dovuto lavorare al Poggio come ho fatto io da giovane! Lì non c’era tempo nemmeno per dire “a”, dovevi essere rapido, rapido!»

In un altro momento Tarn, Nickel, Helex e Tesarus si sarebbero fatti parecchie domande sul perché stessero guardando un Kaon intento a guarnire i muffin di alluminio. Ormai però avevano capito che non valeva la pena farsene e limitarsi a pensare che forse Kaon si meritava proprio di essere “schiavizzato” da quell’attempata femme -l’alt mode sembrava essere un’automobile- color rame e verde militare scuro.

“Mi sembra un po’troppo vecchia per essere una delle sorelle di Stiria. Sarà un’abitante del paesino, una di quelli messi meglio” pensò Nickel.

«Ma io non ho mai cucinato in vita mia, gliel’ho già detto! Noi della DJD siamo esecutori, mica cuochi» sbuffò Kaon, aggiungendo col movimento delle labbra un “È un NPC, lascia fare!” appena la femme si fu voltata.

“Peccato che io non sappia cosa sia un ‘NPC’. Probabilmente è un altro elemento del gioco” pensò Tarn, cui il concetto di personaggio non giocabile era estraneo “Immagino di dover stare a vedere cosa succede”.

«Oh. Vedo che avete ritrovato la campana» disse la femme.

Quelle parole fecero sì che ottenesse tutta l’attenzione del gruppo.

«Dopo aver mangiato i muffin dovete andare là» indicò l’edificio non troppo distante dal punto in cui si trovavano al momento, quello col campanile «Davanti al campanile c’è un percorso fatto da tredici sassi. Tredici sassi, tredici passi, poi potrete mettere a posto la campana».

«Tarn, questa cosa dei tredici passi non mi piace» disse Helex.

“Nemmeno a me, però non abbiamo scelta… e comunque manca poco. Tredici passi sono una bazzecola, di qualunque cosa si tratti” concluse Tarn.

«Cosa vogliono fare ancora quelle due stronze? Non gli è bastato il resto?!» sbottò Nickel.

«Dopo aver mangiato i muffin dovete andare là» ripeté la femme attempata «Davanti al campanile c’è un percorso fatto da tredici sassi. Tredici sassi, tredici passi, poi potrete mettere a posto la campana».

«Lo hai già detto prima» borbottò Tesarus, mangiando cinque muffin che Kaon gli aveva porto.

Con suo sommo stupore, quando li ebbe inghiottiti la ferita alla gamba scomparve.

«Oggetti guaritori. Nei giochi online prima o poi spuntano sempre» spiegò Kaon.

Il colosso si affrettò a svuotare il vassoio con una manata, poi aprì la bocca di Helex e lanciò dentro quattro muffin. Tentò di fare la stessa cosa con Nickel -per la quale ne aveva conservati dieci- ma la minicon lo bloccò sibilando un “Provaci e ti stacco le dita a morsi, sono in grado di mangiare da sola!”.

«Davanti al campanile c’è un percorso fatto da tredici sassi. Tredici sassi, tredici passi, poi potrete mettere a posto la campana» ripeté per la terza volta la femme attempata.

«Sì, abbiamo capito, ce l’hai già detto!» esclamò Helex, un po’esasperato.

Più si andava avanti, più Tarn sentiva la voglia di uscire al più presto da quella casa. Per un attimo gli era perfino sembrato di veder glitchare, nel senso grafico del termine, il volto della femme.

Lui come Nickel aveva creduto che fosse una abitante di quel bizzarro mondo, ma iniziava a pensare che invece fosse qualcosa di diverso. L’atteggiamento, la voce, i dettagli di quella femme e di quella casa erano troppo curati per non essere ispirati a qualcosa di reale, ma forse non erano reali. Forse erano solo l’eco di ricordi passati.

La sua attenzione venne attirata da una mensola ricolma di piccoli datapad che mostravano fotografie statiche in bianco e nero. Alcune raffiguravano un luogo somigliante -somigliante. Non uguale- a Berg Des Sees visto da fuori, ma più… vivo.
Tutto il resto delle fotografie invece raffiguravano delle persone.

“Senza le facce” notò Tarn “Tutte le persone in queste fotografie hanno uno spazio bianco al posto del volto, eccetto…”

Solo una fotografia faceva eccezione: quella di tre femmes, due delle quali erano giovani e una era bambina. Le due più grandi non erano minimamente familiari al Decepticon ma, avendola vista più d’una volta, riuscì a riconoscere la più piccola.

“Stiria. È lei” allungò una mano a sfiorare la fotografia “E allora le altre due-”

Appena le dita sfiorarono la fotografia le sue ottiche furono invase dall’immagine di un’esplosione terribile di fuoco verde e di transformers disciolti e carbonizzati in pochi attimi, i suoi recettori audio vennero invasi dalle grida, il suo processore da una paura e un dolore profondo che non gli appartenevano.


Per primo venne il fuoco. Il sangue per secondo”.


Ritrasse le dita.
Era ancora nella casa della femme attempata, il resto del gruppo era con lui ed era tutto normale.
Per quanto “normali” potessero essere le cose lì dentro, s’intende.

«Abbiamo una campana da rimettere a posto, signori, quindi se siete pronti direi di andare e… mi fa piacere vedere che lesioni e braccia ora sono a posto» disse Tarn, vedendo guarite ferite e mutilazioni altrui.

«È l’unica cosa buona che abbia fatto la magia in tutto questo» replicò Nickel, muovendo le dita del nuovo braccio ricresciuto grazie ai muffin «Andiamo».

Senza perdere altro tempo, la DJD quasi al completo uscì dalla casa della femme attempata e corse in direzione del campanile.
Avere gli occhi puntati sull’obiettivo non impedì loro di scorgere all’arrivo i tredici sassi di cui avevano sentito parlare, l’ultimo ostacolo prima della loro teorica liberazione.

«Ed eccoci qua» disse Helex.

«Sì. Ci siamo» annuì Tarn «Qualunque cosa ci attenda, non sarà peggio di quel che c’è già stato».

Kaon indicò un tempietto posto appena prima del percorso di sassi. «Qui intanto c’è un indizio».

Non era nascosto e l’avrebbero notato anche senza l’aiuto di Kaon, però tutti quanti furono più che felici di riaverlo lì a cogliere gli indizi per primo… o di riaverlo lì e basta.

All’interno dell’edicola non c’erano oggetti, c’era solo una filastrocca incisa nella pietra. Tarn pensò che, a livello di struttura, sembrasse quasi una cantilena per bambini vagamente inquietante.
Peccato che i primi due versi ricalcassero perfettamente quel che si era trovato nel processore toccando la foto di Stiria con le sue sorelle.


“Per primo venne il fuoco,
Il sangue per secondo,
Terza la tempesta
Che al quattro annegò il mondo.
Il cinque è per la rabbia,
Al sei l’odio abissale,
Settima la paura,
Ottavo il più gran male.
Al nove la tristezza,
Al dieci il dolore.
All’undici la morte,
Poi il dodici, l’amore.
Tredici passi per la libertà,
Chi è entrato qui, come ne uscirà?”


«Come ho detto, non è peggio di quel che abbiamo già visto» tornò a ripetere Tarn «Tredici passi. E poi basta».

I sassi infilati nell’erba bluastra erano abbastanza larghi da permettere ai membri del gruppo di stare uno di fianco all’altro e fare il primo passo tutti insieme. Scelsero proprio quell’opzione, accordando tacitamente di affrontare uniti quell’ultimo ostacolo.

«E poi basta» ripeté Nickel facendo eco a Tarn mentre, contemporaneamente agli altri, muoveva il primo passo.

E venne l’inferno.

Improvvisamente i suoi compagni di squadra non c’erano più, era sola.
Sola in un luogo completamente in fiamme, un luogo che era familiare, un luogo che era…

«Prion» mormorò.

Le ottiche azzurre sgranate di Nickel riflettevano le fiamme intente a divorare ogni edificio, ogni strada, ogni dettaglio della sua piccola colonia, del suo mondo, della sua vita.

Avevano iniziato a divorare anche lei, sentiva l’odore della gomma bruciata e il dolore causato dalle gocce del suo stesso metallo fuso che le cadevano addosso ma in quel momento non le importava. Aveva perso il contatto con la realtà, le sembrava di essere veramente tornata a quel giorno, il giorno maledetto in cui aveva perso tutto. I suoi sensi le urlavano questo e riviverlo era più doloroso delle fiamme che la stavano consumando.

«Per primo venne il fuoco…»

Ricordò.
Era ancora intrappolata nel gioco della strega, aveva iniziato i suoi tredici passi e quello era solo il primo: non era a Prion, niente di tutto quel che vedeva era reale… in teoria. Chi le garantiva che il potere di Eribe, fino a quel momento mostratosi sconfinato, non l’avesse riportata indietro nel tempo e nello spazio? Nessuno. Forse era tutta un’illusione ma forse non lo era affatto e, se anche lo fosse stata, poteva farle del male. Gliene stava già facendo e di sicuro lo stava facendo anche a Tarn, a Kaon e agli altri, ognuno intrappolato nei propri momenti peggiori.

Fece un altro passo.


“Per primo venne il fuoco, il sangue per secondo.”


Il suo corpo, se mai era stato ferito e semi disciolto dalle fiamme, era tornato sano.
Quel che non era sano per nulla invece erano tutti i minicon davanti a lei, riversi nelle strade devastate ad agonizzare nelle pozze del loro stesso energon.

«N-no…»

Li conosceva. Era in grado di attribuire il nome giusto a ognuno di quei volti contorti dal dolore, le cui bocche spalancate tentavano di produrre grida d’aiuto risultanti mute, i cui occhi fissavano solo e soltanto lei supplicandola di aiutarli, di curarli. Non era forse un medico?

«Non posso, lo vorrei tanto» strinse la testa tra le piccole mani, tanto forte da conficcare le dita nel metallo, e si morse il labbro inferiore fino a far fuoriuscire dell’energon «Non sapete quanto avrei voluto… quanto vorrei, ma… non posso. Non posso».

Un altro passo.


“Terza la tempesta…”


Alzò le ottiche e le vide. Le immense astronavi della Black Block Consortia volavano pigramente sul cielo di Prion, lasciando cadere una pioggia di nuove bombe incendiarie per spazzare via i resti di quella che era stata una colonia pacifica.


“…Che al quattro annegò il mondo”.


La pioggia di bombe divenne tanto fitta che Nickel venne accecata dal bagliore prodotto, sentendosi annegare nel calore, nel fumo, nell’urlo collettivo che non c’era mai stato nella realtà ma risuonava crudele e prepotente nel suo processore.

Tremando, fece un altro passo.


“Il cinque è per la rabbia”.


Il bagliore sparì, Nickel trovò davanti ai sensori ottici nient’altro che detriti di quella che era stata la sua casa, e fu allora che giunse la rabbia. Le era familiare, era la stessa che provava ogni volta che pensava all’accaduto, a quanto fosse stato ingiusto.
I minicon di Prion non avevano mai fatto del male a nessuno, erano del tutto autosufficienti e avevano sempre vissuto per conto proprio senza prendere mai parte alla guerra civile. Nickel provava rabbia per l’ingiustizia, rabbia per tutte quelle morti, rabbia verso i Decepticon per aver dato inizio la rivolta che aveva portato alla guerra, rabbia verso gli Autobots che si erano opposti, rabbia perché il tutto era durato tanto a lungo da attirare l’attenzione di alcune tra le più alte autorità galattiche organiche, cosa che poi aveva generato il sentimento anti-mecha e tutto quel che ne era conseguito.
E provava rabbia verso se stessa, soprattutto, per essere sopravvissuta e poterlo raccontare.
C’erano stati minicon meritevoli di vivere quanto e più di lei: loro erano morti tutti, lei no.

«Non merito il diritto e la possibilità di arrabbiarmi» disse Nickel, amara, mentre faceva il sesto passo.


“Al sei l’odio abissale”.


Non meritava il diritto e la possibilità di arrabbiarsi, diceva, ma quello di odiare sì, e fu proprio l’odio a invaderla.
Anche quello era già successo, ed era stata la molla che l’aveva spinta a unirsi alla Decepticon Justice Division. L’avevano trovata illesa, sepolta in una profonda cantina che per chissà quale miracolo era scampata alle bombe, le avevano detto chi erano e cosa facevano e le avevano chiesto cosa sapesse fare. Tarn le aveva offerto una causa in cui credere e una casa in cui vivere, e lei aveva accettato. Odiava gli organici quanto e più di tutto il resto della DJD: le loro motivazioni erano “di dottrina”, la sua era personale… e, come loro, odiava anche i traditori.

«I traditori… come me!» sputò fuori, col volto bagnato di lacrime.

Essere sopravissuta al resto della sua razza era stato un tradimento. Si sentiva una traditrice pensando a cos’era successo, per quanto irrazionale potesse essere.

Odiandosi quanto odiava la Black Block Consortia se non di più, mosse il suo settimo passo.


“Settima è la paura”.


Si ritrovò in una cantina, anzi, “la” cantina, quella che aveva trovato per pura fortuna in un edificio abbandonato poco all’esterno della frazione dove viveva e nella quale si era rifugiata appena aveva visto le navi della Black Block Consortia far cadere le prime bombe.
Nickel nel presente era una persona tra le più coraggiose che potessero esistere, ma non era sempre stata così. C’era stato un tempo in cui era stata più giovane e più codarda, in cui aveva visto la sua colonia essere attaccata e tutto quello che aveva fatto era stato cercare un riparo, preda del panico più assoluto, senza pensare a nessun altro. Non agli amici, non ai parenti che aveva creduto di amare tanto, neppure al fidanzato con cui avrebbe voluto generare dei figli. Era uscita dalla colonia proprio per cercarlo, era scomparso qualche ora prima del disastro e lei si era preoccupata… prima delle bombe. Dopo quelle, si era solo nascosta da buona vigliacca sperando che non la colpissero e senza rendersi conto che invece sarebbe stato meno doloroso morire in quel momento.

“E ho paura anche adesso, pensando a cosa potrei incontrare dopo” pensò.

Poi si disse che non poteva permetterselo: doveva muoversi, per il bene della squadra, per il proprio, per dimostrare a se stessa di essere cambiata davvero da allora.


“Ottavo il più gran male”.


Prima di potersi chiedere quale potesse essere il più gran male, lo vide materializzato davanti ai propri occhi nella forma di molti dei minicon che aveva conosciuto. La guardavano con aria accusatoria e le urlavano contro quel che già sapeva: avrebbe dovuto togliersi la vita a sua volta, se fosse stata una persona più “degna” avrebbe già provveduto da tempo, era la giusta punizione per essersi nascosta e basta. Iniziò a sentire dolore alla Scintilla e si chiese se quella fosse la sensazione provata da coloro che venivano uccisi dalla voce di Tarn. Anche a lei sembrava di starsi spegnendo poco a poco.

«Tarn…»

Tarn. Vos. Helex. Tesarus. Kaon.
Loro sapevano com’era andata ma non l’avevano mai accusata di alcunché. Cos’avrebbe potuto fare contro delle astronavi munite di bombe, oltre a nascondersi e sperare di restare in vita? Se anche fosse corsa dai suoi amici e familiari non li avrebbe salvati, così le aveva detto Tarn. Lei sarebbe morta e loro non avrebbero incontrato un componente tanto valido per la squadra. Era sicura che non l’avesse detto solo per rincuorarla, Tarn chiamava “valido” solo chi e cosa riteneva davvero tale, e i suoi standard erano molto alti.

Pensando a lui e al resto della DJD fece un altro passo, sotto gli sguardi accusatori dei fantasmi del suo passato.


“Al nove la tristezza”.


I suoi sensori ottici si riempirono di lacrime più di quanto avessero fatto fino a quel momento. Stava piangendo tanto da non riuscire a vedere nulla, tanto che iniziò perfino a farle male. Avrebbe voluto solo strapparsi via le ottiche, sarebbe stato più sopportabile. Riteneva di aver già pianto abbastanza per una vita intera, lo aveva fatto tutto il tempo che era stata in quella cantina e particolarmente nel momento in cui aveva iniziato a pensare che, se anche avesse voluto raggiungere gli altri, sarebbe stato troppo tardi.
Andò avanti, come cercava di fare metaforicamente già da tempo.


“Al dieci il dolore”.


Il dolore che aveva avvertito alla Scintilla tornò, stavolta più forte di prima. Per un attimo la fece perfino crollare sulle ginocchia, convinta che fosse arrivato il suo momento, poi però ricordò una cosa: lei viveva già nel dolore. Il dolore fisico non era nulla rispetto a quello che aveva provato, che provava tuttora pensando a Prion.
Fare l’undicesimo passo fu quasi facile.


“All’undici la morte…”


Nella casa di quella femme attempata, aveva pensato alla propria famiglia e al suo fidanzato Bustin, mentre poco prima aveva pensato al fatto che sarebbe stato meno doloroso morire quel giorno di quanto lo fosse stato continuare a vivere oltre: davanti a sé aveva il perfetto connubio di quelle due cose.

I suoi familiari e Bustin erano involucri senza vita, ma con le ottiche chiuse sembrava quasi che stessero dormendo serenamente, che stessero vivendo in un delicato ed eterno sogno nell’Afterspark, lontani da ingiustizia, violenza, brutture. C’era un posto vuoto tra sua madre e Bustin, perfetto per essere occupato da lei. Sembrava quasi un invito a stendersi lì e addormentarsi, lasciare che la propria Scintilla si spegnesse e raggiungerli.
C’erano stati dei momenti in cui aveva effettivamente pensato di porre rimedio all’errore compiuto dalla sorte il giorno del genocidio e terminarsi con le proprie mani, salvo evitare di farlo ogni volta, consapevole di non meritare tutta quella pace.

«Non la merito nemmeno adesso. Non posso raggiungervi, come non vi ho raggiunti allora» disse, facendo un passo in avanti.

Sentì un movimento dietro di sé.

«Nicky. Sei ancora bellissima, lo sai?»

Nickel si irrigidì, il volto nuovamente rigato di lacrime.
Non era possibile.

«Non mi guardi nemmeno? Non mi vuoi vedere, Nickel?»

La minicon si voltò di scatto, le sue gambe si mossero da sole, ed ecco che si ritrovò stretta in un abbraccio dolorosamente familiare.

«Bustin!...» esclamò, affondando il volto piangente nel petto bianco del suo fidanzato.

«Irruenta come tuo solito. Mi hai fatto cadere in più occasioni nel saltarmi addosso così tutte le volte in cui stavamo lontani per più di mezza giornata, te lo ricordi?»

Ricordava eccome, ricordava tutto, e proprio per quella ragione non riusciva a pensare lucidamente. Non le importava più della strega, del gioco, non le importava di nulla: i passi precedenti erano stati uno più duro dell’altro, la gioia di rivedere Bustin era troppo grande… e l’influenza del potere della strega sul suo processore, soprattutto quella, lo era altrettanto.
Si beò del calore del suo abbraccio, si inebriò dell’odore del lucidante che Bustin aveva sempre usato per la sua armatura, si lasciò cullare da quelle braccia nere che l’avevano stretta tante volte.

«Ti sono mancat- ahio! Sì, sei proprio la solita» rise Bustin, ricevuto un pugno contro la spalla turchese.

«Ero uscita dalla colonia per cercarti, dov’eri finito?!»

Lui fece spallucce. «Ormai quello non conta più granché. Conta più dove mi trovo ora, direi!»

Giusta osservazione. «Dove ci troviamo precisamente? Per quanto ne so io siamo nella trappola di una strega… già: come posso sapere che sei reale?!»

«Mi era sembrato che fossi molto convinta del mio essere reale quando mi hai abbracciato, Nicky. Mi sento abbastanza solido, non so tu!»

«Bustin, sei reale o non lo sei?! Come… come stanno le cose? Sei veramente vivo? È davvero possibile che tu lo sia?!»

Il minicon sorrise. «Il confine tra quello che reale e quello che non lo è, qui, è molto sottile. Inesistente direi. Non valgono le regole che conosci tu, dovresti averlo visto bene».

Nickel riconobbe che non aveva torto. «Dunque quali regole valgono?»

«Valgono la volontà della strega, quella di sua sorella e anche la tua».

«La mia?»

Bustin annuì. «Io sono morto, la tua famiglia anche e se tu andassi avanti non ci sarebbe possibilità di rimediare, ma non dev’essere così per forza» tese una mano verso di lei «Prendi la mia mano e scegli: puoi restare a Berg Des Sees insieme a me e alla tua famiglia, se vuoi, o puoi tornare indietro nel tempo e cercare di far evacuare Prion prima del disastro. Per Eribe e Vliegen una cosa vale l’altra».

«Loro… lei… potrebbe davvero?!...»

Per un attimo Nickel osò perfino sognarlo, immaginare come sarebbe stata la sua vita se avesse preso la mano di Bustin e avesse scelto una delle alternative che le aveva proposto. Il dolore e i sensi di colpa che aveva provato, l’odio e la rabbia verso se stessa, tutto cancellato con un colpo di spugna. Avrebbe potuto riavere tutto quel che aveva perso, le sarebbe bastato dire di sì.

«Bustin, io…»

Un momento.
Il resto della DJD, i suoi compagni, la sua famiglia, erano anch’essi tutti in gioco. Se lei avesse accettato, che fine avrebbero fatto?

«La DJD…»

«Prego?»

«Loro che fine faranno? Mi hanno accolta, mi hanno aiutata a risollevarmi, sono diventati la mia famiglia, se ora dicessi di sì cosa ne sarebbe di loro?»

«Parli delle stesse persone che tornano da ogni missione con pezzi di cadaveri addosso e fluido craniale in bocca, citando il libro di Megatron come se fosse un testo sacro? Non è il gruppo più savio del cosmo» Bustin rise «Non so, immagino che anche loro al momento stiano facendo le proprie scelte. Non sei la sola con un passato e/o che ha perso di vista delle persone importanti, in un tempo remoto o abbastanza recente che sia. Non pensare a loro, Nicky, pensa a te. Pensa a noi, a come potrebbe essere se ora prendessi la mia mano. Non lasciarmi qui, Nickel» la pregò «Non lasciarci qui, non sei costretta a farlo».

Silenzio.
Dopo aver abbassato brevemente lo sguardo, Nickel tornò a sollevarlo, puntandolo dritto in quello di Bustin.

«No. Io non posso» disse, con voce spezzata dalla disperazione e dal rimorso «Vorrei quel che mi hai offerto più di ogni altra cosa, però se c’è una cosa che so è che certi miracoli hanno sempre un prezzo. Non posso cambiare quello che è successo e rischiare di mettere in mezzo chi non c’entra nulla e mi ha aiutata» alias la DJD «Non sono ancora una persona orribile fino a questo punto. Mi dispiace, non hai idea di quanto, ma la mia risposta è no. Cercherò di andare avanti, Bustin, come ho sempre fatto da dopo il disastro fino a qui. Addio».

E finalmente fece l’ultimo passo.

«Ah!...» esclamò, evitando miracolosamente di perdere l’equilibrio.

Era arrivata al campanile, ce l’aveva fatta.

«Nickel!»

Sollevò lo sguardo e vide che Helex e Tesarus erano già lì.

«Ragazzi…»

Vide anche che sembravano piuttosto scossi.
Helex e Tesarus. Scossi!
Non che la stupisse: se avevano passato qualcosa di analogo a quel che aveva passato lei, era più che normale. Probabilmente lei aveva l’aria più sconvolta della loro, avendo il processore che ancora si ostinava a pensare a “come sarebbe potuto essere se…”.
Contava sul fatto che le passasse ma probabilmente ne avrebbe avuto per qualche giorno, e anche quello era più che normale.

Pochi secondi dopo anche Kaon li raggiunse. Nessuno di loro l’aveva mai visto tanto cupo, nemmeno in situazioni in cui aveva rischiato la morte.

«Non una parola» disse, in un mormorio assente.

Comprendendo fin troppo bene il suo stato d’animo, loro lo accontentarono.

Passò del tempo. Tarn mancava all’appello e Nickel, come tutti gli altri, iniziava a preoccuparsi.

«Spunterà tra poco» disse Kaon «Non è tipo da farsi piegare da alcunché, se ne siamo venuti fuori noi…»

«Di questo non dubito» concordò Helex «Ma non vorrei che quelle due maledette abbiano studiato qualcosa di particolarmente duro o abbiano deciso di ucciderlo e basta. Anche perché ad avere la campana è lui, senza quella siamo fregati».

La tensione salì ancora ma, prima che qualcun altro esponesse la sua preoccupazione in merito, anche Tarn completò il suo percorso.

La maschera che indossava era efficace nel nascondere quel che provava, ma secondo Nickel non erano incoraggianti né il suo totale silenzio, né il fatto che anche gli occhi fossero coperti. Era una copertura di vetro rosso traslucido che a una breve occhiata dava l’idea di star vedendo i suoi sensori ottici senza filtri, e infatti era molto probabile che al resto del gruppo fosse sfuggito, ma non a lei.

Senza dire loro alcunché e senza rivolgere loro neanche un’occhiata, tanto da far venire il dubbio che non li stesse vedendo affatto, Tarn aprì la porta del campanile, trovandosi davanti un gancio al quale infilò la campana senza pensarci due volte.

Il gancio salì verso l’alto e, poco dopo, il suono cristallino della campana nera riempì l’aria per tre volte.

Il paesaggio attorno a loro cambiò e, trovandosi di fronte l’arco diroccato e il paesino disabitato, capirono di essere finalmente, veramente fuori da Berg Des Sees. Anche i loro corpi erano tornati normali, privi di piume, squame e code.
Era finita.

Rimasero immobili per qualche attimo, come temendo che un singolo movimento avrebbe potuto spezzare quella loro libertà ritrovata e far scoprire loro che era tutta un’illusione, l’ennesimo tranello. Come dar loro torto, dopo quello che avevano passato?

A rompere la tensione assoluta di quell’atmosfera fu Vos, tra imprecazioni in vernacolare e rumori di catene dovuti al fatto che stesse cercando di divincolarsi e liberarsi da solo, ovviamente senza successo.

«Cos- sì, sì, ora ti liberiamo, hai ragione» esclamò Kaon, avvinandosi rapidamente a lui per sciogliere i molteplici nodi di quelle catene color ruggine «Ecco. Ehm, perché mi guardi così? Ossia, male?» bisbigliò ai suoi recettori audio.

Il biasimo nelle ottiche rosse di Vos era enorme, tuttavia non disse una parola al compagno di squadra limitandosi, una volta liberato, a sgranchirsi le giunture e massaggiare gli arti rimasti immobili per… già, per quanto?

«Purtroppo siamo stati costretti a legarti, Vos» disse Tarn, la cui pochissima voglia di parlare era percepibile, ma era conscio di avere doveri di leader da compiere «Il tuo processore non ha retto alla vista di quel che c’era oltre l’arco» fece una pausa «Sei stato fortunato».

Il solo fatto di aver detto una cosa del genere lasciava intendere molto bene come lui, ma anche gli altri, fossero usciti da quell’esperienza.

Vos, resosi conto di ciò, disse che non avrebbe mai pensato di doversi ritenere fortunato ad aver passato quindici giorni incatenato -dunque impossibilitato a muoversi- e a essere nutrito da henn mandate lì apposta. Aveva creduto davvero che loro quattro se la stessero passando meglio di lui oltre quell’arco, per folle che fosse.

«Intendi dire noi cinque» lo corresse Helex, un po’perplesso «Eravamo in cinque di là».

«Quindici giorni» ripeté lentamente Nickel, portandosi una mano al volto «Abbiamo perso quindici giorni…»

Era un’infinità di tempo durante la quale poteva essere successo di tutto e di più su quel pianeta abitato da organici chiamato “Terra”, quella che sarebbe dovuta essere ed era tuttora la loro destinazione finale, e in tutto ciò non avevano neppure ottenuto il componente per cui avevano avuto la pessima idea di dare retta a Stiria e atterrare su quel pianeta.
Era stata una decisione avventata ma non avrebbero mai creduto che quella mezza costellazione vuota e quel pianetucolo sperduto potessero essere dimora di qualcuno con un tale livello di potere. Prima di allora non avrebbero mai creduto che una cosa del genere potesse anche solo esistere.

«Come ci muoviamo ora?» domandò Tesarus «Tarn?»

Tarn, con lo sguardo rivolto in direzione del palazzo delle sorelle di Stiria -non visibile da lì- e tanto immobile da far sorgere il dubbio che si stesse forzando a rimanere fermo, parve non averlo sentito affatto.

Nessuno di loro insistette, decidendo di concedergli qualche attimo. Immaginavano cosa gli stesse passando per il processore il quel momento, quanto dovesse essere grande la voglia di marciare verso il palazzo di Eribe e Vliegen e distruggerlo, catturare le proprietarie e ucciderle dopo lunghe, orrende torture. Peccato che non potessero fare nulla del genere, non quella volta, per ragioni ovvie.

«Torniamo alla Peaceful Tiranny. Abbiamo perso tempo a sufficienza».

Se non altro dicendo così diede dimostrazione di aver sentito la domanda.

Niente e nessuno diede loro problemi di sorta nel tornare fino all’astronave, anche le henn che li avevano attaccati poco dopo il loro arrivo si comportarono come se non li vedessero affatto. Probabilmente ormai li consideravano di casa, il che non era consolante.

«Riusciremo davvero ad andarcene? La nave si era danneggiata in poco tempo per il solo fatto di aver viaggiato in questa parte dello Scorpionokor» ricordò a tutti Helex «E ora sono quindici giorni che è ferm…»

La Peaceful Tiranny non era mai stata né così sana né così splendente. Sembrava nuova, fresca di fabbrica in ogni sua minima parte, lucida come uno specchio.

«Avevano detto che se avessimo vinto saremmo stati liberi di andarcene dove volevamo. Ci hanno dato modo di farlo» commentò Kaon.

«Non le ringrazierò per questo» replicò, duro, Tesarus.

Aprirono il portello e, appena lo fecero, il cane uscì fuori correndo per raggiungere Kaon. Il mech sorrise, un sorriso molto più mesto dei soliti, chinandosi per salutarlo.

«Ciao, bello».

«Sembra in forma» osservò Helex «Considerando che è stato chiuso qui per quindici giorni senza nessuno a nutrirlo».

Kaon fece spallucce. «Beh… se è stato nutrito Vos!...»

L’ex scienziato lo fissò nuovamente con biasimo, però nessuno parve farci caso.

Una volta entrati nell’astronave e chiuso il portello non ci fu neanche bisogno che Tarn desse ordini precisi, tutti quanti corsero ai propri posti per dare inizio alla manovra di decollo, che avvenne in fretta e senza alcun problema, segno che le riparazioni non erano state solo cosmetiche: la Peaceful Tiranny era tornata a posto anche nel componente che si era rotto.

«Considerando la posizione in cui siamo, facciamo prima a proseguire lungo la rotta stabilita che a cambiarla» disse Kaon «Non servirà molto per uscire fuori da questa parte della costellazione. Tarn?»

«Mi basta raggiungere il pianeta Terra senza altri problemi».

Non ci fu bisogno di dire altro e, vedendo che il gruppo era tornato alle proprie mansioni e nessuno sembrava avere la minima voglia di discutere, Tarn si ritirò nei propri quartieri. Nickel però non aveva la minima intenzione di lasciarlo andare via in quel modo: secondo la sua modesta opinione non era un buon segno, nulla di ciò che aveva visto da dopo i tredici passi lo era stato.

Passato un breve momento di esitazione decise di raggiungerlo, stupendosi nel trovare la porta principale socchiusa, come se fosse stata un invito a entrare.
Capì che era proprio così nel momento in cui vide Tarn seduto a un lato del tavolo, con un cubo di energon di buona qualità davanti sé -non extra forte, per fortuna- e un cubo posto all’altro lato del tavolo, con tanto di cannuccia, ad aspettarla.

«Mi aspettavi».

«Ho visto come mi guardavi, Nickel».

La minicon si avvicinò al tavolo, si sedette, prese il cubo di energon e bevve. Per un po’nessuno dei due proferì parola.

«Io mi chiedo quanto fossero reali le cose che ho visto» disse piano lei «E le persone».

Tarn rimase in silenzio, fissando il proprio cubo di energon con aria all’apparenza assente.

«Non voglio chiederti cos’hai visto, solo… ho visto persone morte da molto tempo. Ho preso la decisione di lasciarle indietro» proseguì Nickel «Ma non posso fare a meno di chiedermi se le ho lasciate lì veramente o se nulla di quel che ho visto era reale e, di conseguenza, non ho lasciato lì nessuno a… non so, presumo a morire di nuovo».

«Ho dei motivi per credere che la strega non possa riportare in vita i morti, non sul serio» rispose Tarn, pensando alle vecchie fotografie di persone prive di volto «Forse quel che hai visto tu non era reale. Invece portare lì dentro una persona viva prelevandola da un qualunque altro punto dell’Universo dev’essere una bazzecola per lei».

«Se quel che ho visto io non era reale, non lo era neppure quel che hai visto tu» “Forse. Mi auguro” aggiunse mentalmente Nickel «Neanche tu hai lasciato indietro qualcuno. Nel tuo caso potremmo anche avere modo di verificare presto, immagino?...»

Se anche Tarn avesse voluto risponderle, non ne avrebbe avuto il tempo: Kaon lo contattò tramite comm-link per una chiamata in arrivo da Pettinathia.

«Fammi capire, dopo quel che ha fatto si azzarda anche a chiamare?!» sbottò Nickel, ora preda di un’incazzatura da manuale, mentre lei e Tarn si dirigevano verso la sala comandi «Quella piccola stronza! Se la rivedo le salto addosso, le cavo i sensori ottici e glieli ficco su per il canale di espulsione, poi prendo quelle stramaledette lucine rosa che ha attorno alle ali e gliele faccio mangiare! Dopo averle buttato giù i denti!»

Sentimenti condivisi da tutti, però la chiamata venne accettata ugualmente.

L’avete poi trovato quel componente?

«STRONZA!» gridò Nickel.

Oh. Questo sì che ferisce i miei sentimenti.

«Spero che tu sia consapevole di meritare un posto nella Lista. Anzi, in altre circostanze saresti già un lontano ricordo» disse Tarn freddamente.

Hai preso tu la decisione di atterrare lì, non è un mio problema, e comunque avete avuto quel che volevate – replicò Stiria.

«Non che avessimo alternative rispetto a quello o tornare in quella tua fogna di città» ribatté Nickel.

Sareste potuti tornare un po’più a nord, fuori dall’influenza della magia, e ordinare il componente che vi serviva tramite il sito internet di Pettinathia – ribatté la giovanissima seeker – Pagando qualche shanix in più avreste anche avuto la consegna in un giorno, avreste installato il componente, avreste cambiato rotta e a quest’ora sareste arrivati ovunque volevate andare, senza andare dalle mie sorelle e senza perdere quindici giorni di tempo. Non era difficile. In futuro magari tenetelo a mente, sì?

I membri della DJD si guardarono.
La quantità di bestemmie e insulti rivolti a se stessi, alla vita, a Stiria, all’Universo e tutto quanto furono tanti e tali da rischiare di far collassare la Peaceful Tiranny su se stessa creando un buoco nero -metaforicamente.

«E, di grazia» le luci dell’astronave, alle parole di Tarn, iniziarono a tremolare «Perché non hai proposto questo quindici giorni fa?»

Il più giovane di voi ha come minimo il doppio della mia età. Se avevate bisogno di me per pensare a una soluzione così ovvia, finire da Bibi e Vlì era quello che meritavate! Ciao cia-

«“Ciao ciao” un cazzo!» la interruppe bruscamente Tarn, chiudendo la chiamata.

Dopo pochi secondi di silenzio, il resto dei presenti iniziò ad applaudire vigorosamente.

«Ammonimento! Ammonimento a me stesso!» sentenziò Tarn «Apprezzo il vostro sostegno ma non c’è di che applaudire. Lo faremo una volta giunti a destinazione. Rotta verso il pianeta Terra… e cerchiamo di non finire in casa di altri parenti di Stiria, questa volta!»












È finita,  per davvero.
Ringrazio tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggere fino a qui e ringrazio l’ autore di “Tredici passi alla porta del diavolo” per aver scritto il libro in questione, dal quale deriva la filastrocca che avete trovato :D
Oltre a questo, per chi se lo fosse chiesto, il (sotto)titolo di questo capitolo proviene dall'ultimo film di Sharknado. Quella strana frase in tedesco, in lingua italiana si traduce con qualcosa tipo "Era ora" (appropriato direi).




Una menzione speciale stavolta va a MilesRedwing, che ringrazio per il suo costante sostegno :)

Arrivederci,

_Cthylla_
   
 
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