Film > Il gobbo di Notre Dame
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Autore: Angelica Cicatrice    26/01/2020    1 recensioni
E se i personaggi del gobbo di Notre Dame si trovassero in un'altra storia del tutto diversa, e con ruoli che non avete mai preso in considerazione? Se Quasimodo fosse il principe scomparso di un lontano paese, come la Russia? Ed Esmeralda è una ragazza truffaldina che spera di trovare un sosia del principe per una bella ricompensa? Sì, è la trama di Anastasia, ma pensateci bene, potrebbe sorprendervi se amate entrambi i mondi e i generi. Perciò se siete curiosi addentratevi in questo racconto crossover.
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Claude Frollo, Clopin, Esmeralda, Febo, Quasimodo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                           Il misterioso principe perduto

 
Dieci anni dopo. Russia 1926. Molte cose erano cambiate da quella terribile notte. Dalla caduta del potere zarista, ci fu una vera e propria vittoria bolscevica, fino alla nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Nell'aria fredda di Gennaio, i popolani avvertivano ancora l'eccitazione della vittoria della guerra civile, finita giusto qualche anno fa. Gli orgogliosi rivoluzionari, nonostante le incertezze e la situazione poco fiorente, si sentivano come i nuovi padroni di tutto il paese. Forse era dovuto al nuovo governo comunista ideato da Lenin (ripreso poi dal suo successore Stalin), che con le sue idee anarchiche e liberiane, aveva conquistato la fiducia dei poveri contadini, ormai ridotti alla fame. La Russia era proprio in un periodo di trasformazione politica e sociale. Ma come si dice spesso, non tutto è oro ciò che luccica. O forse sì. Quando si tratta di denaro come non si può non apprezzarlo? Lo pensava quel gruppo di persone, giù in piazza, a San Pietroburgo, mentre con un passaparola si diffondeva la notizia più succulenta del secolo.
- Hai sentito l'ultima? - fece un operaio pieno di euforia, avvicinandosi a un gruppetto di colleghi.
- Altre notizie dai piani alti? -.
- Stalin si è deciso a risolvere la nostra situazione? -.
- Di questo passo avremo sempre meno grano, e più morti -.
In pochi istanti, quel gruppetto si accumulò e circondò il nuovo arrivato, dove ognuno disse la sua. Quei bisbiglii avevano attirato anche l'attenzione di un uomo alto, dal viso spigoloso, e dagli occhi color pece che mostravano curiosità. Senza farsi notare, il tizio allungò la testa e il suo orecchio riuscì a captare queste parole sconnesse:
- L'ex zar...il figlio scomparso...una grande ricompensa...-.
Anche se sembravano parole senza senso, gli occhi dell'uomo che stava origliando brillarono dall'emozione, comprendendo all'istante quella misteriosa notizia. In realtà, era una voce che si era fatta strada già da qualche tempo. Il sovrano Henri, ormai in esilio da tanti anni a Parigi, era alla disperata ricerca del suo figlioletto, il principe Kvazimodo. Per alcuni, come i nuovi rivoluzionari, quella era una notizia scomoda, specialmente se si trattava dell'erede legittimo al trono di Russia. Ma per altri significava solo una grande occasione per arricchirsi. Infatti, come aveva decretato lo stesso Henri, chi fosse riuscito a trovare il principe e portato al suo cospetto, avrebbe ricevuto come ricompensa una grande fortuna in denaro. Buono a sapersi! Bisognava solo trovare vivo e vegeto il principe Kvazimodo. Più facile a dirsi che a farsi. Ma che fosse vivo o morto questo non importava. O almeno era ciò che pensava lo stesso Clopin Trouillefou, l'uomo dagli occhi color pece e dalla pelle insolitamente ambrata. Forse un po’ troppo per un abitante della fredda Russia, dove il sole rimaneva tiepido anche nelle giornate in piena estate. Clopin, coperto dal suo cappotto di cotone pesante, cercava di farsi largo tra la folla. Le vie si erano inaspettatamente riempite, con gente che andava e veniva. Sapeva benissimo cosa stava accadendo, e doveva muoversi. Dopo aver superato alcuni vicoli, l'uomo arrivò nei pressi di un piccolo quartiere, dove in uno spazio era stato messo su un mercatino di roba antica.
- Clopin! Eccoti! - disse una voce femminile, con tono basso ma chiaro. L'uomo si voltò e vide una giovane donna che doveva avere più o meno vent’anni. I suoi capelli e la sua pelle avevano lo stesso colore di quelli di Clopin, con l'unica differenza degli occhi. Erano infatti di un meraviglioso verde smeraldo, cosi lucenti che sembravano due gemme incastonate sul viso ovale e levigato come fosse ceramica. Clopin la riconobbe all'istante e volgendole un sorriso si avvicinò.
- Finalmente ti ho trovata! - disse lui, tutto euforico. Ma prima che l'uomo potesse aggiungere altro, la ragazza gli fece segno di tacere, e con gli occhi che le brillavano, come se celassero un grande segreto, disse:
- Andiamo...abbiamo molte cose da fare...-.
Detto ciò, i due si avviarono insieme verso il centro del quartiere, ignorando le bancarelle e tutta la merce esposta. Da quando la rivoluzione di ottobre aveva fatto il suo dovere, molti furboni avevano approfittato della situazione per intrufolarsi nei magazzini dove erano stati ammucchiati tutti gli oggetti personali della famiglia Belstov. C'era un po’ di tutto, dalle vestaglie da notte, ai servizi da tavola. Molti dei venditori erano zingari, alcuni di origine spagnola e francese. Quel commercio clandestino doveva rimanere lontano dagli occhi dei più potenti, e per tale motivo tutto avveniva in gran segreto. Ma dal punto di vista di quelle persone, gli zingari emarginati, era solo un modo comodo per poter andare avanti e non morire di fame, specialmente in quel periodo così difficile. Anche se la tirannia monarchica era stata debellata, nonostante le grandi promesse dai nuovi signori del "governo rosso", sembrava proprio che le cose non stessero cambiando in meglio. Ma tornando ai nostri due protagonisti, eccoli arrivati alla loro destinazione. Entrarono in una tenda color porpora, e al suo interno c'era il minimo indispensabile per poter sopravvivere. Avendo la certezza di poter parlare tranquilli, Clopin si rivolse alla ragazza:
- Dunque sai già tutto? -.
La ragazza si tolse per un attimo il cappello di lana e una cascata di capelli mossi le caddero sulle spalle.
- Ovvio, mio caro! - rispose vivace, per poi cominciare a guardarsi in giro per la stanza, in cerca di qualcosa.
- Ha! Si vede che sei mia sorella! Hai preso tutto da me! - esclamò Clopin, mostrando il suo sorriso dai denti scheggiati.
- Era ciò che stavamo aspettando con ansia! - incominciò sua sorella, mentre tirava fuori da un angolo una valigia vecchia e logora - Ora, per prima cosa, ci serve un buon posto per i nostri piani. Un teatro sarebbe l'ideale -.
- Tranquilla, so già dove trovarlo! - disse subito l'altro, mentre frugava in un mucchio di cianfrusaglie con una certa fretta.
A dire il vero, tutte e due sembravano così agitati, come se stessero preparando i bagagli per scappare chissà dove. La ragazza aveva riempito la valigia di ogni necessità, come documenti, fogli di carta, mappe, e vari libri e dizionari linguistici. Invece, suo fratello, aveva accumulato un po’ di biancheria (come i suoi calzini spagliati e rigorosamente bucati) e aveva messo tutto dentro una borsa di seconda mano. Da ciò che si poteva intuire, questi due fratelli non navigavano certo nell'oro. Per niente. Eppure, sui loro volti c'era un velo di speranza che quella condizione sarebbe cambiata in un battito d'ali.
- Pensaci, Clopin! - fece all'improvviso la ragazza, dopo aver chiuso la valigia ormai pronta - Addio documenti falsi! Addio merce rubata! Addio tenda ammuffita e polverosa! -.
In quel momento, mentre la fanciulla sprizzava gioia da tutti i pori, suo fratello si fece pensieroso.
- Speriamo solo di essere fortunati...la notizia si è già diffusa in tutta la piazza. E ben presto tutta la Russia lo saprà, e allora non saremo gli unici a tentare la fortuna...-.
La ragazza dagli occhi verdi placò il suo buon umore, ma dopo un attimo di silenzio, con determinazione si avvicinò al fratello e abbracciandolo disse:
- Non preoccuparti, cherie. Inoltre, ricorda che noi abbiamo un asso nella manica! -.
E con queste parole, affondò la mano in una tasca all'interno del suo cappotto, e tirò fuori un carillon dall'aria molto costosa. Clopin appena vide quell'oggetto sorrise e allora i dubbi scivolarono via come l'acqua di un torrente.
- Hai ragione, Esmeralda! -.

Pv Esmeralda.

- Grazie a questo carillon la nostra vita cambierà, per sempre e in meglio - dissi a mio fratello, cercando di riportare a galla la sua speranza. Non potevamo gettare la spugna proprio quando la sorte stava girando a nostro favore. Da quando era esplosa quella sanguinosa rivolta, dieci anni fa, troppe cose erano cambiate, sia in bene che in male. Avevamo riacquistato la libertà, smesso di lavorare al palazzo reale e tornati a vivere nei quartieri isolati di San Pietroburgo. Ma nonostante il nostro stile di vita, tipico degli zingari, lontani da ogni catena, avevamo perso molto e guadagnato brutti ricordi di un passato difficile, fatto di soprusi e ingiustizie. Finalmente avevamo l'occasione di riscattarci, trasformare completamente la nostra vita e assicurarci un futuro degno di essere vissuto. Non importava come lo avremo ottenuto, ci saremo riusciti con ogni mezzo a disposizione.
- Ricordi quando lavoravamo a palazzo? - chiesi a un certo punto, appoggiando la testa sulla spalla di mio fratello. Lui annuì, e fece un sospiro.
- I nostri genitori...ancora oggi non riesco a perdonarli per quello che ci hanno fatto - disse lui, con una nota di rimprovero. Solo io potevo comprendere quelle parole, e i sentimenti di Clopin, il fratello maggiore che mi era sempre stato accanto durante la mia crescita. Molto probabilmente se non ci fosse stato lui, non so cosa ne sarebbe stato di me. Eravamo solo due ragazzini zingari, venduti dai propri genitori, e costretti a lavorare per i rampolli reali. A parte la paga, misera a dire il vero, e un tetto sulla testa, ci era mancato proprio ciò di cui avevamo bisogno; il calore di una famiglia.
- Non servare ancora rancore per loro - dissi, mettendo da parte il carillon, nella tasca del cappotto - almeno non abbiamo fatto la loro fine, e possiamo ritenerci già fortunati se siamo ancora qui -.
Il mio caro fratello mi prese una mano e la strinse a se. Attraverso la sottile stoffa dei guanti, riuscivo a percepire il calore della sua pelle.
- Sorellina, sono io ad essere fortunato ad avere ancora te al mio fianco - aggiunse infine Clopin, con un'espressione piena di affetto.
- Beh, allora aiutami a trovare dei biglietti per andarcene. Uno per me, uno per te e uno per Kyazimodo. Vedrai che con la ricompensa dello zar diventeremo così ricchi da permetterci un'intera reggia -.
- Macché! - disse lui, afferrandomi per una mano in una posa di danza - meglio tornarcene in Spagna così ce la compriamo! -.
Clopin mi fece volteggiare intorno alla stanza, canticchiando tra le labbra un motivetto. La sua allegria contagiosa era tornata e mi lasciai trasportare dai sogni a occhi aperti:
- Tanti soldi e una vita da re! - pensai ad alta voce, con tono felice.
- E tanto vino e tante donne! - disse Clopin, in uno stato sognante. Mi resi conto che anche lui aveva pensato ad alta voce. Lo guardai con un'occhiata furbetta, come a volergli dire " sei sempre il solito, malandrino! ".
- Va bene, poche donne...ma più vino. Dai, concedimi almeno questo, cherie! - mi pregò lui, con aria ironica e smielata. Il mio fratellone era un tipo davvero particolare. Per molti versi sembrava allegro e genuino, sempre pronto a farsi in quattro per le persone a cui teneva. Peccato che aveva pure dei difetti, o meglio un vizietto, si chiamava "gomito alto". E dove c'era del buon vino, puntualmente c'era anche una bella donna. All'improvviso udimmo il suono di una campana in lontananza. Erano le 16 del pomeriggio. Già così tardi! Non potevamo temporeggiare ancora, e quindi dopo aver afferrato le valige, recuperato il resto dei nostri risparmi, eravamo pronti per lasciare la nostra "casa".
- Una volta arrivati a teatro metterò in bella mostra l'avviso - mi avvisò Clopin, mentre si sistemava il cappello, che non riusciva mai a tenere al suo posto.
- Benissimo! Sono certa che entro stasera avremo molti candidati, me lo sento - gli spiegai, e dopo aver nascosto i capelli sotto al berretto, mi fiondai fuori dalla tenda. In giro sembrava tutto come al solito. I nostri vicini, tutti di origine gitana, continuavano con la vendita della merce rubata. Ma nonostante quella calma ordinaria, avevo la certezza che i bisbiglii e i sussurri si stavano muovendo da bocca a bocca, da un passante all'altro. Aveva ragione Clopin: la notizia più sensazionale del momento si stava diffondendo peggio della peste medievale. Un piccolo carretto, accanto a un panificio, era stato appena caricato ed era pronto a partire. Io e Clopin ci guardammo e in pochi secondi avevamo avuto la stessa idea.
- Un passaggio al volo? - gli chiesi, facendogli l'occhiolino. Intanto il padrone del carro aveva già incitato i cavalli a partire, e così mio fratello mi afferrò per un braccio e insieme salimmo a bordo, senza farci notare. Mentre ci muovevamo, Clopin prese con noncuranza una pagnotta da un cesto, ne spezzò a metà e me la offrì.
- Questo si chiama rubare, lo sai? - lo canzonai, con tono ironico.
- Tanto è pane secco. Se non noi, andrà a finire in pasto ai maiali - mi fece notare mio fratello, donandomi un sorriso smagliante, con tanto di denti scheggiati.
Quando era ancora un fanciullo, aveva fatto a botte con un ragazzo più grande e grosso di lui. Nonostante fosse riuscito a metterlo al tappeto, se l'era vista brutta: erano bastati due sonori pugni su entrambe le guance, e da allora i premolari presentavano delle vistose fessure. Con tutti i soldi della ricompensa avremo potuto mettergli apposto la dentatura, addirittura impiantargli due denti d'oro.
- Guardali! - esclamò poi mio fratello, indicandomi due tizi che leggevano il giornale e si scambiavano occhiate eccitate - non sarò un veggente, ma sono certo che anche loro stanno pianificando di trovare il principino per accaparrarsi la fortuna reale -.
Clopin sogghignò non smettendo di osservare quei poveri illusi, che andavano in tutta fretta avanti e indietro come piccioni voraci. Che branco di poveracci! Come pensavano di poter trovare così facilmente una persona, svanita nel nulla, di cui mai nessuno ne aveva visto il volto? Tranne i parenti, ormai quasi tutti deceduti, alcuni nobili ma ormai lontani dalle terre russe, e infine la sottoscritta. Ecco perché ero così ottimista. E non era così essenziale trovare il vero principe...ci bastava semplicemente qualcuno che gli assomigliasse abbastanza. Mentre la luce del sole si stava pian piano sfumando verso l'orizzonte, dei leggeri fiocchi di neve cominciarono a cadere dal cielo. Mi abbottonai meglio il cappotto di panno scuro. Era decisamente troppo grande per me, almeno di due taglie, ma era sempre meglio di niente. L'aria si stava facendo sempre più fredda e sentivo i piedi congelarsi dentro le scarpe logore. Chissà se anche in Andalusia, gli inverni fossero così rigidi.
- Stai tremando. Su vieni qui - disse Clopin, facendo segno di avvicinarmi. Mi accoccolai al suo petto e lasciai che il calore del nostro abbraccio mi cullasse.
- Svegliami quando arriveremo - gli dissi, facendo poi uno sbadiglio. Lo sentì ridere leggermente, poi avvertì il suo alito caldo sulla fronte.
- Furbetta! Sei capace di farla franca anche col tuo stesso sangue -.  

Kazy

Era accaduto di nuovo. Per l'ennesima volta avevo fallito. Beh, ma perché dovevo sorprendermi? Erano anni e anni che andava avanti quella situazione. Le visite erano finite ormai da un'ora, e dovevano essere le 17 del pomeriggio. I miei occhi si posarono verso l'unica finestra della stanza, e potei vedere che il sole era scomparso dietro le alte montagne innevate. Nonostante l'ora, sembrava già sera inoltrata. Stavo passando lo spazzolone sul pavimento in legno, ma la mia mente era rivolta ancora agli eventi di quella giornata. Alcune persone erano arrivate all'orfanotrofio, e tutti si erano agitati, come al solito. Era una scena che avevo visto mille volte. Quando la porta della stanza delle visite si apriva voleva dire una sola cosa: famiglie che cercavano un bambino da adottare. Tutti gli orfani, chi più chi meno, cercava di fare del suo meglio per attirare l'attenzione, poiché quella era la grande occasione che aspettavano. Anche io, specialmente nei primi periodi, ogni volta che il direttore ci riuniva, avevo il cuore che mi batteva forte. Ma a differenza degli altri bambini, la mia speranza e le mie aspettative erano di altra natura. Infatti, non speravo di essere adottato da dei perfetti sconosciuti, ma di essere accolto a braccia aperte da quelli che dovevano essere i miei veri genitori, la mia famiglia. Non so come spiegarlo, ma sentivo che non ero un semplice orfanello come tanti, abbandonato o dimenticato da chi avrebbe dovuto proteggerlo. Una voce nel profondo del mio cuore mi diceva che c'era qualcuno lì fuori, anche una sola persona, che mi aveva amato e per qualche motivo era scomparsa chissà dove.
- Ehi, Kazy! Il direttore vuole vederti - fece la voce di un ragazzino, facendo capolino sulla soglia. Klaus era uno dei pochi dell'orfanotrofio che mi aveva sempre trattato con amicizia. Il resto degli orfani si prendevano gioco di me o mi evitava. Klaus era un ragazzo di 15 anni, magro come un chiodo, (ma in fondo, un po’ tutti erano magri, per via delle porzioni ristrette di minestra) aveva i capelli crespi e biondi, sempre un po’ scompigliati, la pelle chiara come il latte e una marea di lentiggini sul viso. Ciò che spiccavano di più del suo aspetto erano i grandi occhi azzurri. Mi ero sempre chiesto, da quando ero lì, come mai nessun adulto lo avesse adottato all'istante. Era un ragazzo così bello, anche se dal carattere un po’ ribelle e indisciplinato.
- Grazie, Klaus, ci vado subito - dissi al mio compagno. Klaus entrò nella stanza e cominciò a studiarmi per bene.
- Kazy, è successo qualcosa? - mi chiese infine, rompendo il silenzio tra noi. Quel ragazzino era così perspicace che non smetteva mai di sorprendermi. Anche se era più piccolo di me, dimostrava una maturità e sensibilità che andavano oltre la sua età. O forse, semplicemente ci conoscevamo da dieci anni, da quando ero arrivato all'orfanotrofio. A quel tempo lui era solo un pargolo di 5 anni e subito si era affezionato a me, trattandomi come un fratello maggiore.
- Niente, Klaus, non preoccuparti. Solo un po’ di malinconia - gli risposi, cercando di sorridere e feci finta di essere troppo impegnato a finire le faccende.
Il ragazzo dagli occhi color cielo scosse il capo, e incrociando le braccia al petto disse:
- Ti conosco troppo bene, amico mio. Non devi fingere con me. Dimmi la verità, è per via della visita di oggi? -.
Solo in quel momento, sentendomi con le spalle al muro, mi arresi e decisi di confessare tutto al mio migliore amico, anzi, il mio unico amico.
- Non posso negarlo. Lo so, dopo tutto questo tempo non dovrei badarci, ma non posso fare a meno di pensarci - cominciai a sfogarmi, con lo sguardo perso mentre rigiravo tra le mani il palo dello spazzolone.
- Cosa? La tua famiglia? - chiese Klaus, continuando a scavare nel mio animo. Senza aprire bocca, annuì leggermente, per poi tornare a strofinare il pavimento.
Quante volte, in mancanza di letti in quel posto, mi ero ritrovato a dormire su quella superficie fredda e umida. La prima esperienza fu quando arrivarono cinque nuovi orfanelli, e dato che nessuno si era fatto avanti, mi offrì per cedere il mio materasso. Erano così piccoli, e io avevo da poco compiuto 16 anni. Mentre ripensavo al passato, posai una mano sulla testa, e un altro pensiero mi percorse la mente. Se solo riuscissi a ricordare. In quel momento però mi accorsi che stavo temporeggiando, e il direttore mi stava aspettando nel suo studio. Conoscendolo, se avessi tardato ancora, mi avrebbe fatto una bella lavata di testa, e a lui piaceva sgridare gli orfani anche per la più semplice piccolezza. Allora mi girai, chiesi a Klaus di darmi il cambio almeno per qualche minuto, almeno fino a quando non sarei tornato.
- Vai tranquillo, anzi meglio che ti sbrighi, sennò quel corvaccio te la farà pagare - mi incitò lui, facendo una leggera risatina. Senza farmelo ripetere due volte, mi affrettai a uscire dalla stanza, zoppicando un po’. La gobba sulla schiena non mi dava tanto fastidio, ma era comunque un impiccio ogni volta che provavo a correre o andandi a passo svelto. Ma in verità, non era per me il problema più grande. Mentre percorrevo il corridoio, passai vicino a uno specchio ovale posto sul muro, ma evitai di girare il viso per guardare il mio riflesso. Appena arrivai davanti allo studio, feci un profondo respiro e bussai alla porta.
- Avanti - sentì la voce rauca del direttore rispondere e allora girai il pomello. Quando entrai nella stanza: piccola ma arredata per bene, di certo molto meglio delle topaie che usavamo come camere da letto. Mentre mi avvicinavo alla scrivania, il direttore non alzò nemmeno per un istante la faccia dal registro dei conti. Ma sapevo benissimo che non erano le sue scartoffie a tenerlo così occupato da non riuscire nemmeno a guardami in faccia. Lui mi odiava. Nella stanza c'era un silenzio imbarazzante, e dopo essermi schiarito la voce decisi di prendere l'iniziativa.
- Mi avete fatto chiamare, signore? - dissi con tono timoroso. La questione era che quell'uomo, dai lineamenti freddi e spigolosi, aveva sempre avuto un atteggiamento severo nei miei confronti, un trattamento che ripiegava solo su di me.
- Sì, sfortunello - rispose l'uomo, ma senza alzare la testa, e continuando a leggere sui registri. Era un uomo grassoccio, la cui pancia era nascosta da un panciotto, con i bottoni che rischiavano ogni giorno di esplodere e saltare in aria. I capelli erano di un bel castano caldo, ma tutti noi del posto sospettavamo che il direttore era solito ripassarli nella tintura, almeno ogni due mesi. Gli occhi, stretti e allungati come due fessure, si nascondevano dietro a un paio di occhialini dalle lenti rotonde. Infine, il naso era adunco e ricordava il becco di un uccello. Solitamente trovavo le creature alate meravigliose, ma se il bisbetico direttore dell'orfanotrofio fosse stato uno di esse, mi avrebbe suscitato solo ribrezzo e inquietudine. Non si trattava semplicemente del suo aspetto, ma la sua stessa natura era così gelida che traspariva al di fuori rendendolo orrendo anche nell'apparenza.
- Volevate parlarmi? - chiesi ancora, ansioso di sapere cosa volesse da me.
- In effetti sì, sfortunello - rispose, usando ancora quella parola. Mai una volta, da quando ero giunto in quel posto, quell'uomo aveva pronunciato il mio nome.
Per lui ero e sarei sempre stato lo sfortunello dell'orfanotrofio, nulla di più.
- Ho una bella notizia per te - aggiunse poi, mentre chiudeva i vari registri - Prepara i bagagli. Entro stasera lascerai questo posto -.
Appena il direttore pronunciò quelle parole, ebbi l'impressione di essermi sognato tutto. Non riuscivo più a usare la voce e avevo il cuore che mi batteva forte nel petto. Non potevo crederci! Il giorno che avevo tanto atteso era finalmente arrivato, proprio nel momento in cui stavo per rinunciare.
- Davvero?! State dicendo sul serio? - dissi con la voce che mi tremava leggermente. L'uomo, che ancora non si degnava di porgermi lo sguardo, fece di sì col capo, e allora la mia gioia esplose, anche se dovetti trattenere l'entusiasmo.
- Finalmente! Lo sapevo che qualcuno prima o poi sarebbe venuto a cercarmi! - dissi con la felicità che traboccava dalle mie parole. Ma tutta quella euforia fu strappata con violenza appena udì la voce rauca del direttore darmi quella che in realtà, era una brutta notizia.
- Hai frainteso tutto, sfortunello - cominciò, e solo in quel momento alzò la testa per guardarmi - Partirai sì, ma da solo. Ti ho trovato un lavoro in una pescheria -.
Mentre mi parlava, i suoi occhi si fecero sempre più sottili, mentre le labbra si allungarono in un sorriso crudele e agghiacciante. Ora ricordavo perché, nelle notti oscure durante le riunioni clandestine sotto le lenzuola, i bambini più piccoli si raccontavano storie di paura, con il direttore come mostro principale. Quell'uomo che non aveva niente di umano, non sorrideva mai, ma quando capitava era un incubo ad occhi aperti.
- Pensavi davvero che la tua presunta famiglia fosse venuta a cercarti per portarti via? - disse poi lui, ferendomi senza pietà. Ma visto che era ormai un'abitudine, cercai di non badarci e rimasi immobile aspettando che la tortura psicologica terminasse in fretta.
- Beh, dopo quello che è successo oggi avresti dovuto capirlo una volta per tutte. Nessuno verrà mai a cercare uno sfortunello come te, brutto e deforme per giunta. Lo vuoi capire che ti hanno abbandonato proprio per questo motivo? -.
Mentre ascoltavo, o meglio facevo finta di ascoltare quella sentenza, i miei occhi si posarono sul metallo di un vassoio, posto sulla scrivania. Vedevo il mio riflesso, distorto e deformato, ma non era per colpa del metallo difettoso. Quello ero io...Klaus mi diceva sempre che non dovevo dare retta alle parole del direttore, ma dovevo ammettere che su una cosa aveva ragione: ero brutto e deforme.
- Ma non dovrai più pensarci. Sei un ragazzo adulto ormai, hai 22 anni, e sei abbastanza grande per essere indipendente - continuò l'uomo, sempre con tono serio. In quel momento, dopo aver ricevuto una feroce delusione, capì cosa il direttore aveva in serbo per me.
- Mi state cacciando via? - chiesi, ma tanto sapevo già la risposta, e anche se il direttore avrebbe negato, tutto era così evidente.
- Smettila di fare quella faccia da poverello bastonato! - rispose quasi sul punto di arrabbiarsi - Saresti un vero ingrato se oserai affermare che ti sto facendo una cattiveria. In fondo, chi ti ha dato del cibo? Dei vestiti? Un tetto sopra...-.
- La testa...- terminai la frase al posto del direttore. Avevo perso il conto di quante volte me l'aveva ripetuto. L'uomo rimase interdetto per un attimo, non aspettandosi un mio intervento, mettendolo quasi in ridicolo. Non mi importava niente se si fosse alterato, poiché tra qualche ora avrei lasciato per sempre quel dannato posto, lontano da lui.
- Curioso - fece il direttore, stranamente calmo - Come mai non ricordi un fico secco di quello che eri, prima di venire qui, e invece queste cose te le ricordi? -.
Già, me lo domando anche io! In quei maledetti dieci anni, passati tra bullismo e soprusi, non ero mai riuscito a rievocare i ricordi del mio passato. La mia infanzia, i miei genitori, i miei primi dodici anni di vita. Non ricordavo assolutamente nulla di tutto ciò. Perfino il nome, Kazy, avevo spesso i dubbi che non fosse davvero il mio. Ma c'era sempre quel briciolo di certezza, soprattutto quando veniva pronunciato, che qualcuno in passato mi chiamasse in quel modo così unico e insolito. Senza badare alle parole del direttore, i miei profondi pensieri mi portarono a far scivolare le mani all'interno della mia casacca di lana verde muschio, come se stessi cercando qualcosa.
- Ah, capisco - disse poi lui, osservandomi - "Insieme a Parigi"...Oh, cielo! Non dirmi ora che una volta fuori di qui, avrai la folle idea di andare in Francia a cercare la tua "famiglia"? -. 
Non avevo alcuna voglia di rispondere a quell'essere, anche perché ormai non era più affar suo quello che avrei fatto. Lui stesso aveva detto che ero un adulto, potevo essere indipendente, allora così sarebbe stato. Avrei deciso io il mio cammino. Anche se non ero ancora così sicuro.
Dopo aver preparato i bagagli, la notizia della mia partenza si diffuse e tutti seppero che me ne sarei andato prima che si facesse troppo tardi. Ovviamente in pochi vennero a darmi il loro addio. Ripensandoci, avevo sognato da tanto quel momento, in cui avrei lasciato l'orfanotrofio per una nuova vita. Ma mentre abbracciavo i miei cari amici, cominciai a sentire un groppo alla gola. Fu decisamente un colpo al cuore quando Klaus, il mio migliore amico, mi accolse nel suo abbraccio più fraterno possibile. Stava cercando di trattenere le lacrime e anche io, devo ammetterlo, mi stavo sforzando di non crollare.
- Sono così felice per te, Kazy - mi disse, allargando un sorriso - Anche se non è la partenza che ti eri immaginato, è pur sempre un nuovo inizio -.
Klaus aveva ragione. La delusione di poco fa, nello studio del direttore, mi aveva devastato non poco. Ma vedendo la situazione in positivo, almeno ero libero. L'unica cosa che però mi spaventava...era il mio aspetto. Come mi sarei dovuto comportare una volta fuori da lì? La gente come mi avrebbe trattato? Come se quelle domande avessero avuto una voce, Klaus mi aiutò a mettere il mantello col cappuccio, e con un gesto amichevole mi disse:
- Non preoccuparti. Avrai un po’ paura all'inizio, ma vedrai che se troverai le persone giuste, non sarai solo e sarai felice anche tu -.
Abbracciai quel ragazzetto per l'ultima volta, e prima di varcare i cancelli arrugginiti, lo ringraziai calorosamente, e gli augurai buona fortuna. Così, sorreggendo una borsa semivuota (avevo il minimo indispensabile), mi trascinai lungo lo strato di neve, diretto al bivio che mi aveva indicato il direttore. Sfortunatamente mi tornarono in mente le ultime parole di quel corvaccio. " Ringraziami, sfortunello ". Quando arrivai alla mia destinazione, stavo ancora rimuginando su quelle parole. Per sdrammatizzare, o semplicemente cercavo di esorcizzare la mia rabbia, feci una piccola imitazione del direttore, marcando la voce in maniera rauca. Se ci teneva così tanto a cacciarmi via, tanto valeva farlo anche prima. Ringraziarlo? Ma certo! Infatti ringrazio per essermene andato!
Nel bel mezzo del niente, andando avanti e indietro, stavo valutando con calma quale direzione prendere. La pescheria era a ovest quindi dovevo andare a sinistra. Quella doveva essere la mia strada. La via che mi avrebbe reso Kazy, lo sfortunello per tutta la vita.
- E se invece andassi dall'altra parte? Magari potrei trovare...- cominciai a pensare ad alta voce, poi mi soffermai a guardare il piccolo ciondolo che portavo al collo. Lo avevo con me da sempre, Ma non riuscivo a ricordare da dove provenisse e che cosa significasse.
- Chiunque mi abbia dato questo ciondolo doveva volermi bene...- aggiunsi, e rilessi nella mente quella frase, incisa a caratteri d'oro sul piccolo ninnolo. " Insieme a Parigi ". E se fosse un segno? Forse la mia famiglia si trovava proprio lì! Ma era un viaggio così lungo, la Francia era così lontana. Era un'avventura più grande di me! Cosa dovevo fare?
- Pazzesco! Io, andare a Parigi!? - dissi, con una nota sconsolata, indeciso sul da farsi. Poi, guardai verso il cielo scuro pieno di piccole luci brillanti. Se fosse passata una stella cadente avrei espresso un preciso desiderio.
- Oh, signore, ti prego mandami un segno! - cominciai a pregare, come facevo fin da piccolo nei momenti difficili - Qualsiasi cosa, ma ti prego -.
Detto fatto! In quel preciso istante, come se fosse spuntata fuori dalla neve, o creata dalla neve stessa, uscì allo scoperto una piccola capretta bianca. La bestiola mi fissò per qualche secondo, poi saltellò e mi raggiunse. Rimasi quasi incredulo nel constatare che non avesse paura di me. La capretta afferrò tra i denti un lembo della mia sciarpa consunta e cominciò a tirarla. Che bestiola vivace, pensai!
- Ehi, piccola, che c'è! Vuoi giocare? - feci con gentilezza, mentre lei continuava a tirare - Mi dispiace, ma non posso giocare ora. Sto aspettando un segno -.
Ma nonostante le miei suppliche, sembrava proprio che quella nuova amichetta non volesse lasciarmi in pace. Cominciammo così a dare inizio a una specie di tiro alla corda, ma lei ebbe la meglio, facendomi inciampare e cadere. Poi la fissai con attenzione: stava tirando la sciarpa verso est, direzione San Pietroburgo.
- Ah, magnifico! Una capretta vuole che vada a San Pietroburgo! - dissi ad alta voce, mentre mi rimettevo in piedi. La capretta, come se mi avesse capito, belò ripetutamente, e solo allora mi fu chiaro. Quella dolce e vivace bestiola dalle piccole corna ricurve, mi stava suggerendo la strada. Era il segno che stavo aspettando. Con un sorriso mi avvicinai alla capretta e le accarezzai il mento, solleticandole il ciuffetto.
- Affare fatto, piccola amica. Anzi, da oggi in poi ti chiamerò Djali, e mi accompagnerai nel mio grande viaggio...verso la Francia. Verso Parigi -.
E così dicendo, mi avviai lungo il sentiero, con Djali che mi seguiva, trotterellando al mio fianco. Sentivo che quello sarebbe stato un viaggio pieno di scoperte. Era la strada che avevo scelto, per scoprire chi ero, ritrovare il mio passato e magari la mia famiglia.  
   
 
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