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Autore: Saelde_und_Ehre    03/02/2020    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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XVII.
... so bleiben wir doch treu

 
 

La colonna di granatieri corazzati era in marcia dalle prime ore dell’alba, attraverso paeselli di campagna e stradine sterrate, segnate dal recente passaggio di veicoli e grossi contingenti armati. Un Panzer III guidava la schiera, seguito una teoria di carri coi fanti appollaiati sui cingoli. Dalla terra si sollevavano sottili ed evanescenti fantasmi di nebbia che ondeggiavano intorno agli alberi.
Nello spazio angusto della torretta, Keller e il soldato scelto Lange, il servente del cannone, condividevano una barretta di cioccolato tra chiacchiere frivole, aneddoti e battute che facevano ridere solo loro. Mentre il capitano Greifenberg scrutava il paesaggio dalla cupola di comando, le loro risate gli giungevano attutite dal costante rombo del motore e dallo sferragliare dei cingoli. L’aria frizzante, a tratti quasi pungente, del primo mattino, gli accarezzava il viso e i capelli biondi, arrecandogli un tiepido sollievo dopo la lunga notte insonne.
Le casette sembravano deserte, alcuni degli steccati che delimitavano le proprietà private erano stati divelti con violenza e gli alberi spogli depredati dei loro frutti. Il villaggio recava i segni di una recente schermaglia; dentro un fosso, il capitano notò il relitto di un piccolo corazzato con l’aquila polacca dipinta sul fianco. Intorno a esso, al posto dell’erba, c’era una macchia nera che emanava puzzo di carburante bruciato. La calma che regnava ovunque, unita al venticello che scuoteva dolcemente le fronde in tiepidi sussurri, sembrava un invito a guardarsi le spalle più che una rassicurazione: la fanteria polacca non era così sprovveduta da rivelare la propria posizione a un battaglione corazzato che dilagava per i campi. Esortato da quelle riflessioni a una maggiore prudenza, Reinhardt diede il segnale dell’alt: la colonna si fermò sfruttando la relativa copertura offerta dalle case, i motori al minimo che emettevano un ronzio simile al russare di grossi felini.
Si sporse oltre la cupola della torretta e col binocolo fece un’attenta ispezione dell’ambiente circostante: chilometri di campi smossi dal passaggio di carri armati, agglomerati di case disabitate; in lontananza una foresta che copriva un ampio margine della visuale, celando l’orizzonte come un compatto muro verde.
“Tracce di nemici, Herr Hauptsturmführer?” gli chiese Keller dall’interno.
“Nessun movimento. Campi, case, una foresta a un paio di chilometri da qui,” riferì l’ufficiale. “Ci sono alte probabilità che il nemico si nasconda lì per tenderci un’imboscata.” Abbassò il binocolo e prese il microfono per trasmettere via radio gli ordini a tutta la compagnia: “Procedere con cautela nella direzione convenuta, mantenendo la copertura delle case. Seguitemi!”
Sollevò il braccio e la colonna si rimise in marcia, discendendo la stradina irregolare che digradava verso il campo. Mano a mano che la visuale offerta dal binocolo si ampliava, i segni della battaglia emergevano con più chiarezza: tra l’erba calpestata, alta almeno fino alla cintola di un uomo e falciata dai solchi di molti cingoli, s’intravedevano labirinti di trincee; contorti serpentelli di filo spinato riaffioravano qua e là come trappole.
“Nemico avvistato!” giunse tempestiva la segnalazione.
“Tutti ai posti assegnati, formazione di combattimento!”
“Signorsì, signor capitano!”
“Attendete il mio segnale e non sprecate munizioni né carburante.”
“Sissignore!”
Mentre gli altri Panzer si disponevano intorno a loro nella tipica formazione a cuneo, Reinhardt scorse un folto gruppo di TKS che caracollava attraverso la boscaglia distante: erano piccoli carri delle dimensioni di un’automobile, agili e leggeri, armati di una sola mitragliatrice e di un piccolo cannone, che nei giorni precedenti avevano teso imboscate letali anche a veicoli corazzati. Era ancora difficile riuscire a capire quanti fossero, ma stabilì che fosse fondamentale assicurarsi il vantaggio e mantenerlo per tutta la durata dello scontro.
“Caricare!” ordinò.
Vide con la coda dell’occhio Lange che inseriva il proiettile e Keller che si chinava sul mirino del cannone, poi, come un lupo in attesa della preda designata, seguì ogni movimento del più avanzato dei carri fino a quando non giudicò che si trovasse finalmente a una distanza ottimale.
“Mirare… Fuoco!”
L’eco della detonazione squassò l’aria assorta del primo mattino, l’ordigno fendette la nebbia con un fischio e da uno squarcio nell’esile involucro del TKS si sollevò una cresta di fiamme.
In perfetta sincronia, anche gli altri Panzer iniziarono a sparare, mentre i nemici sciamavano per le propaggini del bosco nascondendosi tra gli alberi col favore dell’ombra e delle dimensioni ridotte.

Passò un tempo inquantificabile prima che nell’aria iniziassero a fischiare le prime pallottole nemiche. La maggior parte andò a vuoto, ma una smitragliata volò pericolosamente vicina alla torretta del comandante di compagnia, che fu costretto a ritirare la testa all’interno della cupola protettiva.
“Ricaricare… Fuoco!” gridò fulmineo.
Il Panzer sparò di nuovo; altri proiettili s’infransero tintinnando contro la sua corazzatura frontale.
“Tutto bene, signore?”
“Affermativo, Lange,” rispose Reinhardt in tono sbrigativo. Richiuse lo sportello, afferrò l’interfono e si mise in contatto col pilota, ordinandogli di manovrare per spostarsi in una posizione più riparata. Quei giorni di esperienza sul campo gli avevano insegnato che un Panzer III era senz’altro un mezzo solido e resistente, ma era svantaggiato dall’agilità del nemico e dalle dimensioni che lo rendevano un bersaglio facile: bisognava essere rapidi a sparare e cercare copertura senza esporsi mai troppo. Porgere il fianco, poi, poteva rivelarsi fatale.
Si chinò su una delle feritoie laterali che fungevano da visori: i nemici sembravano aver acquisito baldanza e stavano tentando una manovra di accerchiamento. La pioggia di piombo era così fitta da far pensare che ci fosse anche della fanteria nascosta tra le frasche, con adeguato supporto di artiglieria anticarro.
Ormai non potevano più sottrarsi allo scontro, e Reinhardt pensò subito ai suoi uomini, al pericolo che correvano: si trovavano in netta minoranza, intrappolati nel grembo di una bestia di ferro che avrebbe potuto proteggerli oppure morire insieme a loro, seppellendoli vivi.
“Maledizione,” sibilò tra i denti. “Fuoco di sbarramento!” disse poi in frequenza radio. “Concentrare il tiro sulle prime linee: non devono avvicinarsi.”
“Come, signore?” chiese allarmato il servente del cannone.
“Lange, tu e Keller penserete ad eliminare i blindati e le bocche da fuoco.” Senza attendere replica, prese l’interfono. “Richter!”
“Signor capitano?”
“Le tue mitragliatrici serviranno ad arrestare l’avanzata della fanteria.”
“Signore…” provò a obiettare il marconista.
“Fidatevi di me, ragazzi,” assicurò il capitano, con una vibrazione di calore nella voce. “Abbiamo combattuto in condizioni peggiori e ce la siamo sempre cavata. Se resteremo uniti, se non ci lasceremo abbattere dall’incertezza, anche stasera ce ne torneremo indietro vittoriosi.”

L’avanzata non era stata né rapida né indolore: molti carri erano stati colpiti, riportando danni più o meno evidenti, e diversi soldati della fanteria erano rimasti feriti nello scontro.
Tuttavia, da un capo all’altro della schiera, attraverso le stradine dei villaggi polacchi, i canti riecheggiavano ancora, più bassi di tono e vibranti di una sottile commozione, ma sempre con gli occhi rivolti alla meta.
Anche gli uomini degli equipaggi, anziché stare chiusi all’interno della corazza metallica, sedevano intorno alla torretta come merli su un ramo per godersi lo spettacolo offerto dal tramonto.
“E se la Fortuna volubile dovesse voltarci le spalle,” cantavano, “il Panzer sarà la nostra tomba di ferro.”
Reinhardt li ascoltava con un leggero sorriso sulle labbra; poi si unì a loro, grato per la fiducia che gli avevano concesso. Varsavia era ormai vicina: gli ultimi barbagli di sole giocavano con le acque trasparenti della Vistola, infiammando l’orizzonte lontano. Nella distanza, evanescenti come un miraggio, si scorgevano le guglie della cattedrale.

Quando giunsero all’accampamento, l’accoglienza fu tiepida ma sollevata. Da qualche parte doveva esserci anche la compagnia di fanteria del capitano Bentheim, che Reinhardt si ripromise di andare a salutare non appena gli fosse stato possibile. I blindati che si trovavano in condizioni peggiori – uno seminava scie d’olio, un altro aveva la mitragliatrice inceppata – furono presi in consegna dai meccanici e i medici del campo si adoperarono subito per prestare soccorso ai feriti.
Dall’alto della sua torretta, l’ufficiale controllò che tutto si svolgesse secondo le sue disposizioni e ascoltò i rapporti dei suoi sottoposti, infine scese mentre gli uomini dell’equipaggio gli si radunavano intorno.
“E anche oggi ne abbiamo distrutto uno.” L’Uscha Keller assunse un’espressione baldanzosa. “Senza contare le bocche da fuoco.”
Come in un rituale consolidato, in qualità di comandante, a Reinhardt spettò il compito di segnare sul tubo del cannone una tacca per ogni obiettivo distrutto – carri armati medi e leggeri, camion di rifornimenti, artiglierie pesanti, obici da campo; subito dopo, con altrettanta disinvoltura, il sottufficiale prese una bottiglia di birra dalla loro scorta personale e la stappò, porgendogliela. “Viva il capitano Greifenberg!” esclamò. “Il miglior asso di tutto il fronte polacco!”
“Esagerato,” lo prese in giro lui, mandando giù un copioso sorso.
“Per fortuna che anche stavolta nessuno di noi si è fatto male”, dichiarò Hirschel, il pilota, accendendosi una sigaretta: era la prima volta che lo sentivano proferire parola da quando erano partiti per tornare indietro. Forte della sua formazione di meccanico, si abbassò ad esaminare i cingoli sporchi di fango e scosse la testa. “Però mi sa che le ruote hanno preso un brutto colpo quando siamo finiti nel pantano.”
“Allora le manderemo ad aggiustare,” disse Reinhardt, tornando serio. Sul fianco del Panzer, la Balkenkreuz era ormai sbiadita e in diversi punti della corazzatura c’erano graffi e ammaccature che sfoggiava come ferite di guerra. Sulla torretta figurava un grosso “222” in rosso, segno distintivo della bestia di ferro soprannominata Barbarossa. “Domani dobbiamo tornare operativi e non vorrei essere costretto a richiedere una sostituzione.”
“Signor capitano!” Uno Sturmmann con la striscia argentata sul colletto si fermò ai regolamentari tre passi da lui, scattò sull’attenti e salutò. “Lo Sturmbannführer Wittmann la desidera nel suo ufficio.”
“Gli dica che arrivo subito,” rispose il capitano. Aspettò che il graduato si fosse allontanato, poi si girò di nuovo verso gli uomini dell’equipaggio. “E tu, Keller, non bere troppo mentre non ci sono. Ci vediamo più tardi.”

Una massa confusa di fanti e granatieri corazzati era assiepata davanti al tendone della mensa, sotto gli aloni giallastri dei lampioni o intorno ai fuochi.
Il capitano Bentheim si allontanò dal gruppo e gettò un’occhiata verso gli alloggi della Leibstandarte, i pensieri ancora rivolti alla giornata appena trascorsa. Mentre si chiedeva dove fosse Reinhardt, riconobbe un giovane alto e biondo, in divisa nera da carrista, che usciva fuori da una delle tende. Prima ancora che egli potesse rivolgergli un cenno, l’altro lo notò e gli andò incontro. “Konrad, ti stavo giusto venendo a cercare.”
“Anche io. Sapevo che oggi avremmo dovuto aspettare un po’ prima di goderci la pausa, quindi mi sono portato avanti col lavoro.”
Proprio in quel momento, al di sopra del brusio generale, un sottufficiale delle Waffen-SS iniziò a intonare uno Jodler, lanciandosi in gorgheggi sempre più arditi che attirarono un folto gruppo di curiosi. Konrad si voltò verso il suo compagno e sollevò un sopracciglio.
“È Keller, il mio cannoniere”, spiegò Reinhardt. Mentre gli spettatori facevano scrosciare gli applausi, scosse la testa con un sorriso indulgente. “Deve sempre fare sfoggio delle sue doti canore.”
Rimasero ancora per qualche minuto ad assistere a quell’esibizione improvvisata, poi si avvicinarono alle barricate. Si trovavano su una spianata leggermente rialzata, che offriva un’ampia visuale sul paesaggio immerso nell’oscurità. Le scie dorate dei lampioni si riflettevano sulle acque del fiume, ma i bagliori più luminosi erano quelli delle esplosioni che riempivano il cielo notturno di boati. Più in alto, tra le nuvole velate d’argento, si intravedevano le sagome nere degli aerei da ricognizione e dei bombardieri notturni.
“Quella è Varsavia.” Konrad indicò un agglomerato di luci palpitanti di fronte a loro. “Saranno una decina di chilometri in linea d’aria, eppure sembra un’avanzata interminabile.”
“Sai, una volta ho sentito dire che la cosa veramente importante non è la meta, bensì il viaggio che si intraprende mentre si cerca di raggiungerla,” disse Reinhardt. “Ti ricordi quella volta che eravamo accampati nella giungla?”
“Me lo ricordo come se fosse ieri. Ogni tanto mi ritorna in mente quella tigre bianca, talmente vicina che abbiamo dovuto trattenere il fiato per cinque minuti buoni per non farci notare, e poi quei tempietti con le statue d’oro… e quando siamo stati costretti a guadare quel torrente limaccioso a cavallo senza riuscire a vederne il fondo, te lo ricordi?”
Reinhardt fece un mezzo sorriso. “Oh, sì. Tuttora non so spiegarmi come abbiamo fatto a raggiungere indenni l’altra sponda! E i serpenti nascosti nei cespugli? Anche lì c’erano pericoli in agguato dietro ogni angolo.”
“Si può dire che abbiamo sviluppato una certa resistenza agli ambienti estremi.”
“È stata una bella avventura. Decisamente da ripetere,” asserì l’altro con convinzione. “Anche questa, in un certo senso, è un’avventura, anche se non sappiamo ancora dove ci porterà… sono convinto però di una cosa, che ripeto sempre ai miei uomini: se ciascuno di noi, strada facendo, si impegnerà per dare il meglio di sé, presto i risultati si vedranno.”
Konrad si volse verso di lui: aveva i capelli arruffati e l’aria stanca, ma stava sorridendo, e gli occhi azzurri ardevano nel volto sporco di polvere.
Annuì, senza aggiungere altro, mentre il vento della sera spirava portando un leggero refrigerio dopo la lunga giornata campale.

Difendere quel buco, senza sapere a che ora né con quanti uomini il nemico avrebbe attaccato, era come un’eterna partita a scacchi che richiedeva una concentrazione che Hans non sapeva per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a mantenere.
La radio da campo taceva; dai ricognitori giungevano solo rapporti vaghi, di un numero indistinto di forze stanziate a sbarrar loro il passo, tenendoli schiacciati tra incudine e martello. Gli altri reparti erano sparpagliati per la campagna, il reggimento frammentato in tante piccole unità autonome: i polacchi stavano impegnando tutto ciò che restava del loro esercito per difendere la capitale, minacciata su due fronti da tedeschi e sovietici, con una determinazione che aveva meravigliato perfino l’Alto Comando della Wehrmacht. Per quanto sconfitti, per quanto logorati, per quanto disperati, continuavano a resistere; preferivano morire con le armi strette al petto che gettarle ai piedi del nemico.
Hans sospirò e, come ogni volta in cui era nervoso, con una mano tastò la tasca dei pantaloni alla ricerca della scatoletta di metallo nella quale teneva le sigarette, ricordandosi poi che gliene restava solo una. La mano ricadde lungo il fianco ed egli rimase immobile a fissare fuori dall’orbita vuota della finestra, come aspettandosi che le ombre calanti del vespro portassero con sé il preludio di un nuovo attacco.
Qualcuno, al piano di sotto, continuava a suonare un repertorio che alternava musica popolare e marce militari prussiane.
“Signor maggiore.”
Quella voce familiare lo fece sussultare, assorto com’era nelle sue meditazioni. Si voltò e si trovò di fronte Friedrich, che in tono incolore annunciò: “Il capitano Bentheim riferisce che la sua compagnia, insieme alle truppe corazzate dello Hauptsturmführer Greifenberg, ha respinto un assalto polacco nei pressi della foresta di Młocinski. Domani si muoveranno verso sud per aiutarci a liberare il villaggio.”
“Molto bene, capitano”, rispose il maggiore, accogliendo suo malgrado un fugace fremito di sollievo. “Fino a domani possiamo resistere.”
Nessuno dei due accennò a muoversi. Friedrich era rimasto fermo sulla soglia; Hans, pur ripercorrendo mentalmente le ultime notizie, non smetteva di fissarlo di sottecchi.
“Von Kleist,” disse infine, dandosi un contegno imparziale, “come vanno le cose al piano di sotto?”
“I soldati aspettano,” rispose il capitano, “alcuni sono stanchi e dormono per terra, altri ascoltano mio fratello che suona il piano o giocano a carte col sottotenente Kühn.”
“Anche tu sei stanco,” osservò Hans, abbassando la voce.
L’altro si strinse nelle spalle. “Mi basterà un caffè.”
“Vai a riposare. Da quanto tempo è che non dormi?”
“Chi se lo ricorda più.”
Hans rimase in silenzio: dal modo in cui quelle parole erano state pronunciate trapelava un distacco quasi incorporeo, un totale disinteresse nei confronti delle cose terrene. Nella sua mente continuavano a riecheggiare le note del Viaggio sul Reno udite poche ore prima, come l’accettazione di una sorte ineluttabile che il capitano sembrava essersi voluto tacitamente caricare sulle spalle. Non come una vittima che a essa si sottometteva, ma come un guerriero che si preparava ad affrontarla col solo ausilio delle proprie forze. Dovette lottare aspramente contro se stesso per evitare di chiamarlo a sé ed esternare i dubbi inespressi che da troppi giorni si agitavano dentro di lui come un terremoto sotterraneo.
“Vai a riposare,” ripeté, in tono pacato ma fermo.
Friedrich alzò il viso su di lui e il suo sguardo si fece glaciale. “Mi basterà un caffè”, ribatté con durezza. “Starò di guardia anche stanotte, tutta la notte, se necessario.” Detto ciò, girò i tacchi con rigidità marziale e scomparve di nuovo giù per le scale.

In piedi contro la finestra, la schiena rivolta al paesaggio e la brezza serotina che gli solleticava la nuca, Friedrich von Kleist continuava a rigirarsi tra le mani l’ultima lettera del fratello maggiore, capitano di corvetta in servizio su una torpediniera nel Mar Baltico.
Provava a immaginare il lento rumore della risacca che faceva da sottofondo ai canti dei marinai, l’odore di salsedine portato dal vento, i gabbiani che volavano a pelo d’acqua, ghermivano la preda e si dileguavano riempiendo il cielo azzurro delle loro strida. E poi provava a immaginare suo fratello Jürgen, alto e biondo, nella sua elegante uniforme blu scura a doppiopetto e il berretto con la visiera bordata d’oro, che passeggiava avanti e indietro sul ponte della nave mentre il suo agile scafo solcava le onde spumeggianti.
Forse non lo avrebbe più rivisto, così come non avrebbe rivisto il giovane Siegfried, il fanciullo dagli occhi di cielo che inseguiva le nuvole a bordo di un aliante. Nessuno di loro sapeva quanto greve fosse il macigno che gli pesava sul petto, e forse era meglio così: si sarebbero ricordati di lui per quello che era e non per gli errori a cui avrebbe cercato di rimediare.
Ripiegò la lettera e la fece di nuovo scomparire nella tasca interna della divisa, chiedendosi se fosse il caso di fare buon viso a cattivo gioco o se esprimergli le sue preoccupazioni come aveva fatto con Manfred, pur omettendo la scomoda faccenda della corte marziale.
Jürgen aveva trentadue anni, contro i ventiquattro suoi e di Manfred, e più di dieci anni di esperienza in marina. Forse, se gliene avesse parlato, suo fratello avrebbe saputo consigliarlo al meglio, ma il suo orgoglio gli imponeva di non chiedere l’aiuto di nessuno.
Nemmeno quello di Hans, si ripeté mentalmente, come un imperativo categorico. Lui non deve pagare per le mie colpe.
Finì di trangugiare il caffè ormai freddo, si sedette al pianoforte e si rimise a suonare.

Nella notte di settembre, che portava con sé i primi sentori dell’autunno, un’umidità persistente risaliva dalle trincee lavate dalla pioggia, in furtive stilettate che sembravano penetrare fin nelle ossa. Le sentinelle di guardia fischiettavano lontano, perlustrando il perimetro dell’accampamento; tutto il resto era silenzio.
Hans diresse i propri solitari passi verso la sommità dello spiazzo occupato dai camion e volse lo sguardo oltre le rovine, verso il campo che si estendeva di fronte a lui come un nero lago. Anche la luna, velata da un evanescente strato di nuvole, emanava un lume smorto che rendeva i contorni del paesaggio appena distinguibili.
Tutto aveva un’aria elettrica, incerta, come sull’orlo di un abisso che celava mostri. Occorreva rimanere sempre all’erta, pronti a imbracciare le armi al primo segno sospetto, ma Hans, che ormai si era abituato a quello stato di precarietà sul piano bellico, non sapeva più se a preoccuparlo maggiormente fossero i mostri dell’incertezza o quelli della ragione: poteva qualcosa essere così logico e al tempo stesso ambiguo? Con un sospiro, frugò nella tasca dell’uniforme e si accese l’ultima sigaretta rimasta, cercando di espellere col fumo almeno una parte del nervosismo che aveva accumulato.
Aveva da poco iniziato quando un rumore di stivali militari lo indusse a voltarsi.
“È quasi ora di rientrare,” gli disse Friedrich, in tono impersonale, comparendo nel cono di luce di uno dei lampioni: la visiera del berretto occultava il suo sguardo, ma Hans sentiva i suoi occhi fissi su di sé come dardi di ghiaccio ardente.
“Non sono il soldato di Lili Marleen”, ribatté caustico.
“Dovresti smetterla di fare lo spiritoso.”
L’espressione del maggiore si indurì. “E tu dovresti smetterla di fare cazzate,” ringhiò, buttando fuori tutta la collera che per giorni aveva cercato di tacitare.
Di fronte a quell’impeto inaspettato, Friedrich sembrò irrigidirsi, ma non si mosse di un millimetro. “Non è una cosa che ti riguarda.”
“Non mi riguarda?” lo apostrofò Hans. “Forse non ti è chiaro quello che ti ho detto l’altra volta. Nessun ufficiale è responsabile solo di se stesso, e più alto è il grado maggiori sono le responsabilità.” Scrollò la testa con rabbia, stringendo i denti. “Hai trasgredito gli ordini: nella fattispecie, i miei ordini. Se fossi rimasto al tuo posto non ti sarebbe successo niente.”
“Se fossi rimasto al mio posto,” ribatté il capitano sprezzante, “il nostro battaglione avrebbe perso la città e tu adesso saresti in un campo prigionieri.”
Per una manciata di secondi, si guardarono come due fiere pronte a fronteggiarsi in uno scontro senza vinti né vincitori. “No, tu hai commesso una grave infrazione che ha avuto conseguenze catastrofiche”, disse infine Bühler, deciso a mettere fine una volta per tutte a quella discussione. “In termini strettamente militari, non c’è altro modo per definire quello che hai fatto.”
“Ho solo fatto il mio dovere, e se necessario lo rifarei.”
Hans emise un sospiro rabbioso, esalando con esso anche l’ultima boccata di fumo. Senza dire altro, gli diede le spalle e tornò a osservare la campagna immersa in una silente oscurità. Si sarebbe aspettato che Friedrich si incaponisse sulle sue posizioni o se ne andasse indignato, invece continuava a percepire la sua presenza alle proprie spalle, immobile.
“Mi dispiace, Hans,” lo sentì dire infine. “Questa è una cosa che riguarda solo me.”
Il maggiore rimase in silenzio per un istante inquantificabile, prestando ascolto ai sussurri della notte; su di loro, la mole incombente di una piccola cappella gettava una coltre d’ombra che pareva isolarli dal resto del mondo. Per quanto il suo compagno, per orgoglio o testardaggine, si ostinasse a negarlo, a lui era ormai chiaro il suo grado di coinvolgimento all’interno di quella vicenda. Si voltò lentamente, scandendo le parole con gravità. “Friedrich… qualunque cosa succeda, io voglio solo che tu sappia una cosa.”
“Cosa?” chiese l’altro.
Leggendo nel suo sguardo un guizzo di stupore, Hans fece un passo verso di lui e lo guardò dritto negli occhi. “Che anche se tutti gli altri dovessero abbandonarti, io rimarrò con te.”
Friedrich arretrò nel buio fino ad avere la schiena contro il muro della cappella.
Hans incombeva su di lui, una mano appoggiata alla parete e l’altra, chiusa a pugno, che gli ricadeva lungo il fianco. Uno dei lampioni sfarfallò nella quiete carica di tensione dell’accampamento e poi si spense. “Solo una cosa: promettimi che non farai colpi di testa,” lo ammonì.
“So badare a me stesso, Schwabe”, sussurrò il capitano, come per rassicurarlo. “Ti preoccupi così tanto per me?”
“Ricordi quello che dicesti quella sera? Siamo camerati,” replicò Hans, imprimendo alla parola quel significato esclusivo che conoscevano solo loro. I suoi occhi seri erano velati da una luminescenza fosca, ma nella voce, al di sotto del tono duro, si coglieva un’insolita vibrazione. “Penso che sia sufficiente come risposta.”
“Io non voglio che tu…”
L’altro si fece di nuovo serio. “Vorresti avere l’ultima parola anche stavolta, Preuße?”
“No, io…” Friedrich avrebbe voluto dirgli qualcosa, parlargli dei sentimenti che gli ruggivano nel profondo, ma la voce gli si bloccò in gola come un groppo insidioso: in guerra, anche quelle semplici parole assumevano un significato completamente diverso. Si sentiva come un profano, un sacrilego, quasi indegno di proferire simili parole, soprattutto dopo aver ascoltato quelle del compagno.
Hans lo afferrò per le spalle e lo spinse lontano dalla luce dei lampioni. Le loro labbra si cercarono e si incontrarono a metà strada, dapprima sfiorandosi esitanti, poi unendosi in un lungo bacio che suggellò tutto ciò che non era stato espresso a voce. Friedrich fece scivolare la mano dietro la nuca di Hans e gli affondò il viso tra la spalla e il collo, mentre le dita dell’uomo s’intrecciavano tra i suoi capelli.
Rimasero avvinti tra le ombre silenziose, così vicini da sentire i battiti dei rispettivi cuori attraverso la stoffa ruvida delle uniformi.

Mentre sorseggiava il suo caffè, Reinhardt prestava un orecchio distratto alle chiacchiere dei suoi camerati: nei loro discorsi coglieva ancora la speranza che li aveva condotti fin lì, a sopportare le marce estenuanti, le grandinate di piombo e la paura della morte, ma l’entusiasmo iniziale pareva essersi affievolito. C’era più consapevolezza, più gravità, c’era il vuoto lasciato dai compagni caduti in battaglia e l’essere coscienti del fatto che, in quel momento fatale, chiunque altro si sarebbe potuto trovare al posto loro. Vivevano ogni giorno come se le loro vite fossero simili alle foglie che cadevano in autunno, sapendo che nessun proiettile designava le proprie vittime prima che il colpo andasse a segno. Ciò che li spingeva a combattere non era tanto il pensiero della guerra in sé – tutti sapevano quanto fosse terribile crepare intrappolati in una scatola di ferro e lamiere, prigionieri delle fiamme, o col viso affondato nel fango di una trincea – quanto il desiderio di poter contribuire un domani a qualcosa di nuovo, a un futuro ancora da scrivere. Guardavano con fiducia alla fine imminente di quella guerra, per tornare dalle famiglie e ricongiungersi ai loro amici.
Mentre lui era ancora immerso in quelle riflessioni, Konrad alzò testa dal quotidiano che stava leggendo e disse qualcosa che lui non riuscì a cogliere.
“Come?”
“Stavo dicendo che anche i civili hanno preso le armi, a Varsavia,” ripeté l’altro.
“Era prevedibile,” rispose Reinhardt. “Anche noi, al loro posto, lo avremmo fatto.”
“Chiunque lo avrebbe fatto,” disse Konrad. “Come si suol dire, chi ama la sua Patria la difende anche nell’ora più buia.” Richiuse il giornale e lo ripiegò facendone frusciare le pagine sottili, quindi si alzò e indicò con un cenno del capo l’uscita del refettorio. “Andiamo fuori a fare due passi, ti va?”
Reinhardt annuì e lo seguì all’esterno: il cielo era ancora tinto di un’intensa sfumatura cobalto, ma nel piazzale gli uomini della logistica stavano già caricando le salmerie e i furieri andavano avanti e indietro per scambiarsi le consegne. Inspirò l’aria carica di umidità e disse, cambiando completamente discorso: “Sai, stanotte ho sognato i tempi in cui andavamo ancora alla scuola militare.”
Konrad inarcò un sopracciglio, piegando le labbra in un sorriso divertito. “Ripensavi a quando hai preso a pugni Reiting davanti a tutti?”
Reinhardt rise. “Se lo meritava eccome, quel pallone gonfiato!”
“Però alla fine lui non è rimasto a guardare mentre gliele suonavi, ha reagito e siete finiti in infermeria entrambi… per non parlare dei provvedimenti disciplinari.”
“Se l’è cercata,” asserì il giovane con convinzione, scrollando le spalle. “Non potevo più sopportare le sue angherie e le sue insinuazioni. E infatti, da quel momento in poi non ci ha più dato fastidio.” Fece una breve pausa, perdendosi nei ricordi. “Si può dire che l’ho fatto per una giusta causa.”
A quelle parole rise anche Konrad. Anche se non disse nulla, a lui parve quasi di sentirlo mormorare un affettuoso: “Non cambierai mai.”
“A dire il vero, comunque, il pensiero di Reiting non mi ha neanche sfiorato la mente. Voleva arruolarsi nella fanteria, ma in che punto del fronte sarà, adesso? In che reggimento? Nello Heer, nelle Waffen-SS?” Divagò un po’, poi scosse la testa manifestando il suo disinteresse. “Quello che pensavo, in realtà, è che io e te ne abbiamo passate tante insieme. Quanti anni saranno che ci conosciamo? Quindici?”
All’epoca, Reinhardt non avrebbe mai pensato che quel ragazzino dall’aspetto aristocratico, sempre serio e sulle sue, che tutti gli altri, con un misto di curiosità e sufficienza, chiamavano Principe, sarebbe poi diventato per lui molto più che un semplice amico.
“Una quindicina, sì. E come potrei dimenticare tutte le bravate in cui mi hai trascinato?”
“Tu però non ti sei mai rifiutato di seguirmi. Come quella volta che ci siamo persi nel bosco…”
“Ci voleva pur sempre qualcuno che ti coprisse le spalle”, replicò Konrad ironico, “altrimenti chissà in che guai ti saresti andato a infilare.”
Risero insieme, e continuarono a rievocare aneddoti passati sotto il cielo che gradualmente schiariva. Mentre Reinhardt era quello delle mille trovate strampalate, Konrad era sempre stato un ragazzo coscienzioso e con la testa sulle spalle, pronto a riportarlo sul sentiero battuto cercando di mitigare i suoi slanci. Aveva capito fin da subito di potersi fidare di lui. “Erano i tempi migliori, ogni tanto fa bene ripensarci,” osservò, volgendo lo sguardo al disco pallido del sole che risaliva l’orizzonte.

Sorse un’alba livida, gravata da nuvoloni carichi di pioggia, che li colse ancora insonni nei loro giacigli improvvisati. Coi primi raggi di sole giunse anche l’allarme di un nuovo imminente attacco, e i soldati si riversarono ai posti di combattimento come un’ondata di piena.
Una selva di elmetti verde oliva emergeva dall’erba, ai margini della terra di nessuno; le canne delle mitragliatrici spuntavano dalle barriere di sacchi imbottiti, pronte a far fuoco. I tedeschi attendevano con agitazione febbrile – qualcuno ancora intontito dal sonno mentre si faceva scivolare in gola delle pastiglie o del caffè freddo dal pessimo sapore, qualcuno reso vigile e insensibile dalla prolungata astinenza da sonno.
Nessuno osava più avvicinarsi al comandante, il maggiore Bühler, o al suo secondo, il capitano von Kleist, che con aria grave e distaccata passavano da un capo all’altro dello schieramento per disporre gli uomini alla difesa. Poche parole, nessuna promessa di riuscita: entrambi speravano di resistere almeno fino all’arrivo dei rinforzi, che con una manovra a tenaglia li avrebbero aiutati ad accerchiare il nemico.
Friedrich strinse le dita intorno alla cinghia dell’MP38 che gli pendeva dalla spalla e levò lo sguardo verso il cielo grigio: come ogni mattina, vide uno stormo di Stuka sorvolare il cielo a squadriglie compatte, rovesciare d’ala e lanciarsi in picchiata con una sincronia quasi coreografica. Uno dei velivoli fu colpito dalla contraerea e precipitò in vite tracciando una scia di fumo nero.
Si diceva che l’aeronautica polacca avesse ricevuto l’ordine di evacuare la capitale, cedendo così ai tedeschi la piena supremazia aerea; eppure la vittoria non gli era mai sembrata così lontana, più come concetto che come realizzazione materiale: forse la Germania avrebbe finalmente trionfato, ma lui che ruolo avrebbe avuto in tutto ciò?
Rivolse un’occhiata fugace al suo compagno, e si accorse che anche lui lo stava guardando. Strinse le labbra, sentendosi a disagio sotto quello sguardo, e s’impose di concentrare i propri pensieri sulla situazione contingente.
Un istante dopo, il comandante nemico diede l’ordine di attaccare e la pioggia di piombo riprese con rinnovato vigore.

  
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