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Autore: Roscoe24    07/02/2020    4 recensioni
“Non mettere alla prova la mia pazienza, Maryse. Ne ho poca. Molto poca.”
Maryse sospirò.
Era il suo ultimo tentativo, quello. Aveva provato di tutto, negli anni. Magie di ogni tipo, ma nemmeno l’Angelo aveva potuto aiutarla. La sua condizione era irreversibile. Tutti gliel’avevano detto, tranne il libro bianco.
Il Grimorio Proibito aveva detto che dove non arriva la magia angelica, arriva quella demoniaca.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Maryse Lightwood
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                                                         “Everything comes with a price. Everything. (…)
                                                                                                                                           
                                                                          (Gerald Brom)

                                                                                             


                                                                                            ∞




“La magia ha un prezzo, Maryse.”
La donna serrò la mascella. I suoi occhi scuri come il più profondo dei pozzi scrutarono impavidi e impassibili quelli dell’uomo di fronte a sé.
“Dimmi il tuo prezzo, Stregone.”
L’uomo alzò un indice e lo oscillò da destra verso sinistra: era un no.
“Vedi, Maryse, sono un uomo d’affari molto richiesto. Ho capacità che altri si sognano, e il mio potere è immenso…” L’uomo si sporse verso la donna. Maryse non si ritrasse. Non gli avrebbe dato anche quella soddisfazione. Avrebbe mantenuto la schiena dritta e lo sguardo fiero, sebbene stesse quasi per supplicare un demone superiore.
“La conoscenza è un privilegio che quelli della tua razza hanno perso da tempo.” Gli occhi felini nell’uomo percorsero i lineamenti della donna e si fermarono con disgusto e disprezzo all’altezza della clavicola, dove una runa faceva bella mostra di sé. “Siete voi i mostri,” sibilò, “Avete ucciso Nascosti senza motivo. Mi ripugnate.”
“Eppure fai affari con noi da secoli, Magnus.”
L’uomo liquidò quell’affermazione con un gesto della mano. Poi si voltò, dando le spalle alla donna. Fece un giro completo del pentagramma in cui era prigioniero. 
“Non mettere alla prova la mia pazienza, Maryse. Ne ho poca. Molto poca.”
Maryse sospirò.
Era il suo ultimo tentativo, quello. Aveva provato di tutto, negli anni. Magie di ogni tipo, ma nemmeno l’Angelo aveva potuto aiutarla. La sua condizione era irreversibile. Tutti gliel’avevano detto, tranne il libro bianco.
Il Grimorio Proibito aveva detto che dove non arriva la magia angelica, arriva quella demoniaca.
E Maryse era davvero disposta a tutto, pur di riuscire a soddisfare il suo più profondo desiderio. Anche evocare Magnus Bane.  
“Non merito la conoscenza, quindi non posso sapere quale sarà il prezzo?”
“Esatto.” Magnus la osservò con un sorriso arrogante, e intrecciò le mani dietro la schiena. “Dipende tutto da quanto profondamente desideri che io soddisfi la tua richiesta, Nephilim.” Sputò quel nome fuori dalle labbra come se fosse un velenoso insulto.
Maryse sapeva di non avere davvero una scelta. Fissò i propri occhi antracite dentro quelli gialli e felini dell’altro. Occhi da gatto, con pupille sottili e verticali. Il Marchio del Demone.
Occhi che Maryse non avrebbe mai dimenticato, se non altro perché l’avrebbero perseguitata in sogno.
“D’accordo, Stregone. Ci sto.”





*



Erano passati vent’anni.
Vent’anni in cui Maryse aveva vissuto sempre in allerta, con la costante ansia che qualcosa sarebbe successo da un momento all’altro.
Ogni notte aveva sempre visto quegli occhi che la tormentavano in sogno. E, con il tempo, e la saggezza che l’età porta con sé, si era chiesta se il vero prezzo di Magnus non fosse stato proprio quello di farla vivere in un costante stato di allerta e paura.
Quell’ipotesi l’aveva cambiata.
Nel giro di vent’anni Maryse si era trasformata nella copia fredda e ansiosa di ciò che era stata un tempo.
Non riusciva più ad esprimere affetto come quando era più giovane e non riusciva nemmeno più a lasciarsi andare. Era diventata rigida, incapace di provare qualsiasi altra emozione che non fosse un completo e totale stato d’allerta.  
Il suo cuore era come se fosse stato trasformato in pietra, e forse era stata quella la sua punizione, il suo pagamento.
Aveva ottenuto quello che aveva chiesto, ma in cuor suo sapeva che essere sempre così distante aveva fatto di lei una pessima madre.
Magnus aveva curato la sua sterilità, ma si era preso la sua capacità di dimostrare affetto.
Amava i suoi figli, con tutta se stessa, ma non era in grado di esternarlo.
Un lieve bussare la distrasse dai suoi pensieri.
Si trovava nel suo ufficio, nell’Istituto di New York di cui era a capo da dieci anni, ormai.
“Avanti,” Disse, con voce ferma.
La porta si aprì e dalla soglia comparve Isabelle, la sua copia sputata, anche se Maryse era fermamente convinta che sua figlia fosse nettamente più bella e coraggiosa di quanto lei non lo fosse mai stata.
“Io e Jace abbiamo finito di sistemare la grande sala, mamma. Alec non sospetta niente.”
Maryse era davvero felice, ma come sempre non lo diede a vedere. Si limitò ad un cenno controllato del capo. “Perfetto. La festa comincerà tra due ore, come da programma. Ora va, Isabelle.”
Isabelle non aggiunse altro e uscì silenziosa dalla stanza.
Maryse rimase a fissare la porta. La superficie di legno intagliata da rune antiche. Erano lì da più tempo di lei.
Erano lì da prima che lei evocasse Magnus Bane per esprimere il suo desiderio.
Maryse era stata una guerriera fiera, piena di disciplina e rispetto per le regole, ma aveva sempre avuto un desiderio più forte di qualsiasi altra cosa: diventare madre.
La natura, però, l’aveva creata sterile e lei questo non poteva davvero sopportarlo. Dopo anni di ricerche aveva trovato la sua risposta ad Edom, arrivando a fare un patto con il Sovrano, Magnus Bane. Figlio di Asmodeus, Magnus era un Principe dell’Inferno, divenuto Re, quando suo padre aveva ceduto il suo posto, notando nel figlio un potenziale e un potere che nemmeno lui aveva mai avuto. La magia di Magnus era speciale, forte e imbattibile.
Asmodeus aveva cresciuto il figlio in modo che fosse fiero e spietato, una macchina priva di sentimenti.
Non era stato cresciuto diversamente da come i Nephilim crescono i propri figli, ora che ci pensava.
Le emozioni sono distrazioni. E quindi venivano eliminate.
Maryse lo sapeva bene, aveva cercato di crescere tutti i suoi figli in quel modo.
Dopo il patto, Maryse aveva avuto la prima gravidanza: un maschio, Alexander, che tutti ormai chiamavano Alec. Due anni dopo era arrivata Isabelle. E poi, quando Alec aveva compiuto nove anni, era arrivato Jace. Non era biologicamente suo figlio, ma l’aveva adottato, dopo la battaglia contro Valentine Morgenstern. Il Circolo, a cui anche Maryse aveva aderito da giovane, aveva cominciato ad esagerare. La sua veduta era diventata troppo estremista e aveva portato con sé solo morte e violenze ingiustificate verso i Nascosti. Valentine era arrivato persino ad uccidere dei bambini, perché aveva riconosciuto il Marchio da Stregone. Quello aveva fatto sì che le sue schiere si dividessero. Maryse aveva fatto parte di coloro che erano poi stati ribattezzati i Ribelli e con lei anche Stephen Herondale, il padre di Jace, che fu ucciso in battaglia proprio da Valentine, insieme alla madre del bambino.
Avevano subito moltissime perdite, ma erano riusciti a vincere, eliminando la minaccia di Valentine.
Dopo quella guerra, Maryse sapeva che Jace era rimasto solo e così le era venuto naturale prenderlo con sé.  
Jace aveva immediatamente legato con i suoi figli, in particolare con Alec – tanto che poi, una volta cresciuti, avevano deciso di diventare parabatai.
Anni dopo, era arrivato il suo ultimo figlio, la sua terza e ultima gravidanza: Max, che aveva nove anni, ormai.
Il suo desiderio di essere madre era stato esaudito per ben quattro volte e, in vent’anni, nessun prezzo era stato pagato. Era questo che la terrorizzava. Più di qualsiasi altra cosa.
La conoscenza è un privilegio, le parole di Magnus le risuonarono nelle orecchie, chiare come se lui fosse lì a sussurrargliele.
La donna rabbrividì ed ebbe la sensazione sgradevole che presto un destino infausto sarebbe calato su di lei.







Alec sospettava che i suoi fratelli gli nascondessero qualcosa. L’avevano evitato per tutto il giorno e li aveva sempre beccati in un angolo a parlottare per poi smettere quando lo vedevano spuntare.
Loro potevano anche mentire, ma il legame parabatai, quello non mente mai.
Sapeva che, nonostante gli sforzi di Isabelle e Jace di nascondergli qualcosa e di ripetergli che andava tutto bene e che non c’era niente di cui preoccuparsi, in realtà qualcosa c’era. Eccome, se c’era. Lo avvertiva nella runa pulsante che gli faceva pizzicare la pelle sul fianco sinistro.
Jace stava mentendo. E non aveva bisogno di una runa per capire che anche la sua cara sorellina aveva passato tutto il giorno a propinargli una vagonata di frottole.
Sperava solo che i suoi dubbi non ricevessero conferma.
Non ci voleva un genio per capire che gli stavano organizzando una festa di compleanno a sorpresa.
Alec odiava i compleanni perché significavano stare al centro dell’attenzione e dover dare udienza ad un sacco di persone che non ti parlano mai, ma in quel giorno specifico si sentono in dovere di farlo per rispettare una tradizione che prevede la celebrazione di un individuo che anno dopo anno si avvicina sempre di più alla fine della sua vita.
Quindi no, non gli piacevano i compleanni. E sì, era certo che la sua famiglia gliene avesse organizzato uno a sorpresa.
Per questo si era rintanato nella sala addestramenti e stava tirando con l’arco.
Era la sua arma, quella che si portava in battaglia. Aveva un talento particolare, come arciere, ma sapeva di dover imparare ancora tantissime cose.
Perfezione. Doveva mirare sempre a quella. Non poteva essere da meno, dal momento che nella sua squadra c’era Jace, il ragazzo d’oro. Lui era il guerriero perfetto e, nonostante volesse bene a suo fratello, sembrava che chiunque si aspettasse che tra di loro ci fosse una sana competizione.
Fa bene alla squadra, diceva sempre Hodge, il loro insegnante, ma Alec non ne era convinto.
Competere con Jace non faceva altro che andare ad ingigantire le sue già radicate insicurezze.
“Ehi, sei qui.”
Alec scoccò la freccia che aveva incoccato e la guardò colpire il centro del bersaglio, prima di voltarsi verso la fonte di quella voce.
Isabelle lo stava guardando con un sorriso sulle labbra. Aveva un vestito blu elettrico abbinato a delle scarpe dello stesso colore. Portava dei tacchi così alti che Alec si stupiva ogni volta della facilità con cui riusciva a camminarci.
I suoi capelli neri erano lasciati sciolti e le ricadevano sulle spalle. “Perché ti nascondi?”
“Non mi sto nascondendo, mi sto allenando.”
“Mh, l’abbiamo già fatto stamattina.”
“Non abbastanza.”
La ragazza si avvicinò e appoggiò una mano sul braccio del fratello. “Alec,” lo chiamò, disarmandolo di arco e faretra. “Per oggi basta. Vatti a fare una doccia e sistemati un po’.”
“Perché?” Chiese, anche se già conosceva la risposta.
“Perché te lo chiedo gentilmente?”
Alec a quel punto sbuffò, deciso a smettere di fare finta di niente. “Odio i compleanni, Iz. Perché me ne avete organizzato uno?”
Isabelle decise di lasciare perdere la possibilità di fare finta che Alec non avesse ragione. “Perché ti vogliamo bene ed è giusto celebrarti.” Si sporse per lasciargli un bacio sulla guancia. “Ora, lavati e cambiati. E mi raccomando, quando andremo nella sala grande fai una faccia sorpresa!”
Alec sbuffò, frustrato. “D’accordo.”




Alec aveva dovuto persino mettersi in tiro. Altra cosa che odiava. A lui piaceva mettersi la divisa, o abiti comodi come le tute e le felpe, dei jeans ogni tanto. Abiti scuri e informi che lo aiutassero a non attirare l’attenzione.
Isabelle non la pensava nello stesso modo. A lei piaceva apparire, attirare l’attenzione. Era sicura di sé ed esprimeva questo lato del suo carattere anche attraverso la moda e il suo stile.
Ad Alec andava bene, gli piaceva che sua sorella fosse a proprio agio con se stessa. La cosa che non gli andava bene era quando traslava questo suo lato di sé su Alec, costringendolo, come quella specifica sera, ad indossare abiti che mai avrebbe indossato di sua spontanea volontà.
Una camicia super aderente, blu, e un paio di pantaloni beige. Gli aveva vietato categoricamente di mettersi gli anfibi da combattimento, così aveva optato per le uniche altre scarpe che aveva: un paio di Converse blu.
Alec si sentiva a disagio e ridicolo, e ovviamente non vedeva l’ora che quella tortura finisse.
“Devo per forza vestirmi in questo modo?”
“Sì!” Esclamò la ragazza, sistemandogli il colletto della camicia. “Il blu è il tema della serata. Ogni invitato deve necessariamente avere qualcosa di quel colore.”
“Blu, Iz, sul serio? Perché sono un maschio? Chi l’ha avuta questa orribile idea?”
Isabelle alzò lo sguardo sul fratello, riservandogli un’occhiata assassina. “Io. E non è orribile, è classica e sofisticata. Il blu ti sta benissimo, e lo sapresti anche tu se evitassi di usare sempre gli stessi logori vestiti che variano dal nero al grigio topo.” Isabelle lisciò il tessuto sulle spalle del fratello e abbandonò le mani lungo i propri fianchi.
Alec emise un grugnito a mezza voce e si passò una mano tra i capelli, scompigliando quella matassa di ricci corvini che aveva in testa.
“Non voglio andarci. Odio dover stare al centro dell’attenzione, non fa per me.”
Isabelle lo prese a braccetto. “Ci verrai e sarai sorpreso. Sorridi, ogni tanto. E vedrai che la serata finirà ancora prima che tu te ne accorga.”
Alec non era per niente convinto di quello che stava dicendo sua sorella, ma decise di crederle.




Non appena varcò la soglia della sala grande, Alec fu assalito da un sorpresa! che l’avrebbe fatto sussultare davvero, se non fosse stato preparato all’evenienza.
Finse un leggero sussulto, in ogni caso, mettendo su l’espressione più sorpresa che riuscì a fingere e abbozzando sorrisi che non convincevano nemmeno lui, in realtà.
Salutò ogni membro del Clave per fare un piacere a suo padre – sapeva quanto tenesse alla politica e al fatto che il nome dei Lightwood fosse ben visto. Per questo Alec si comportò educatamente con tutti loro.
Una volta che ebbe finito di salutare i membri del Clave, si guardò intorno per trovare un angolino in cui si sarebbe rifugiato per il resto della serata.
Sospettava che anche le decorazioni fossero opera di sua sorella. C’erano palloncini blu e striscioni argentati, delle piccole stelle azzurre pendevano dal soffitto e una grossa scritta era attaccata alla parete principale: buon compleanno, Alec!
Tutto questo non aveva niente a che fare con le tradizioni degli Shadowhunter. Era una cosa tipicamente Mondana, ma ormai tutti sapevano della passione che avesse Isabelle per quel mondo.
Era attratta dalla loro visione delle cose, dalla semplicità della loro vita. I problemi delle ragazze mondane riguardavano la scelta del college, o a quale corso extrascolastico partecipare, se erano al liceo; se d’estate conveniva loro lavorare in un bar o fare la cassiera in qualche supermercato. Nessuna di loro doveva mai domandarsi se il vestito con cui stava uscendo sarebbe stato completamente in grado di nascondere una daga angelica. O se esisteva davvero un lavaggio in grado di togliere l’icore secca sui pantaloni nuovi.
Alec a volte la capiva.
Comprendeva il suo desiderio di scoprire se davvero tutto il mondo si riduceva a battaglie senza fine con creature infernali e ronde notturne. A volte invidiava il suo coraggio. Isabelle usciva di notte per soddisfare le sue curiosità sui Mondani. Alec avrebbe voluto seguirla la maggior parte delle volte, ma c’era sempre una vocina nella sua testa che gli diceva che non poteva, che era sbagliato perché lui era il maggiore e da lui tutti si aspettavano dei comportamenti esemplari.
E uscire di notte per inseguire una fantasia, una curiosità sciocca, non rientrava nei comportamenti esemplari che spettano al primo genito di una famiglia importante come la sua.
Alec a volte si sentiva in trappola, come se tutte quelle aspettative nei suoi confronti non facessero altro che andare a stringere un cappio che aveva intorno al collo e che lo faceva soffocare giorno dopo giorno.
Sbuffò, dal suo angolino che si era abilmente conquistato. Osservò gli invitati. Oltre ai membri del Clave, c’erano i rispettivi figli e altri ragazzi che normalmente vivevano all’Istituto. Non erano lì per lui, ovviamente. Quel suo compleanno sembrava più che altro una scusa per radunare persone influenti e dare l’occasione ad altri di entrare nelle loro grazie per ottenere favori politici.
Alec lo sapeva.
Molti dei ragazzi e ragazze con cui si allenava miravano ad una spiccata carriera politica. Alcuni cercavano il potere, altri lo facevano solo per seguire le orme di un genitore, convinti che in quel modo l’avrebbero reso fiero.
Non c’era spontaneità, in quelli della sua razza. Alec lo sapeva bene. L’unica eccezione potevano essere Jace e Izzy, loro erano spontanei e impulsivi – più veri e autentici di tutte le persone presenti in quella sala messi insieme, compreso Alec.
Lui stesso non ricordava un momento dove si era lasciato andare, dove un suo gesto non aveva previso come minimo dieci minuti di ragionamento, nel quale aveva analizzato i pro e i contro del suo comportamento.
Era una gabbia, la sua, dalla quale non si sarebbe mai liberato.
“Sai, c’è un enorme striscione con il tuo nome,” Esordì una voce alle sue spalle e Alec era talmente concentrato a rimuginare sui suoi pensieri che questa volta sussultò davvero. Si voltò, notando Jace che sorrideva, “Quindi non puoi nasconderti. La gente chiede di te.”
“Allora strappa quello striscione, così si dimenticheranno di me e io potrò starmene qui, in pace.”
Jace fece una smorfia contrariata, come a voler dire che un’ipotesi del genere non era nemmeno da prendere in considerazione. “Lydia Branwell non fa altro che chiedere di te. È quasi imbarazzante da tanto che è esplicita.”
Alec si sentì sprofondare nell’imbarazzo. Le sue guance si accaldarono immediatamente. “Non è vero!”
“Sì che è vero, ma non ti accorgi mai di niente perché sei imbranato con le ragazze.”
“O forse non sono attratto da qualsiasi cosa respiri, come te, Jace.” Commentò, pungente, evitando di dirgli che nell’ipotesi in cui avesse provato qualcosa per qualcuno, più che per Lydia sarebbe stato per Andrew Underhill.
Non che gli piacesse davvero. Erano amici, più che altro, e Alec non provava nessun tipo di sentimento, per lui. Aveva solo notato che fosse carino, tutto qui, nello stesso modo in cui, di solito, Jace lo notava delle ragazze.
“Touché, ma a mia difesa… non è colpa mia se le ragazze mi trovano irresistibile. Ho un certo fascino.”
“Mh-mh,” commentò Alec, “Ti ricordi cos’è successo a Narciso?”
Jace aggrottò le sopracciglia, offeso. “Non farò la fine di Narciso!”
“Allora smettila di crogiolarti nel tuo ego.” Lo punzecchiò Alec, divertito da quella reazione.
Jace gli lasciò una gomitata nelle costole. “Solo se tu smetti di crogiolarti nella tua asocialità!”
“Io non sono asociale!” Esclamò convinto, massaggiandosi la parte lesa.
Jace lo guardò con un sopracciglio alzato. “Tu sei patologicamente asociale, Alec.” Sentenziò.
Alec sbuffò sonoramente, ma non si sentì di negare, questa volta. Dopotutto Jace non aveva del tutto torto: gli unici che lo conoscevano veramente erano Isabelle, Jace e Max. Aveva qualche amico, ma anche con loro non si lasciava mai andare del tutto. Metteva sempre delle barriere per difendersi da tutte le sue insicurezze. Non sapeva se gli altri l’avrebbero capito, o se l’avessero trovato una persona gradevole, di conseguenza, anzi che rischiare di esporsi troppo non si esponeva affatto.
Il cuore di Alec e tutta la sua intera persona erano circondati da alte mura di cemento invalicabili. La sua era una fortezza di solitudine e silenzi.
“Devi fare presenza.” Jace riprese il discorso iniziale. “Ho sentito papà che si chiedeva dove fossi finito. Penso voglia presentarti ad altri membri del Clave…”
Alec emise un sospiro sconfitto. “D’accordo.”
Avere dei comportamenti corretti, la maggior parte delle volte implicava prendere parte a delle situazioni che lo facevano sentire profondamente a disagio. E insoddisfatto.  
Ma ormai c’era abituato, di conseguenza lasciò il suo angolino e si sforzò di sorridere ad ogni persona che stringeva la sua mano.



“Mi dispiace tanto Alec! Non avevo idea che il tuo compleanno si sarebbe trasformato in una serata conosci-ogni-membro-del-Clave.”
Alec sorrise e abbracciò Isabelle. Si era allontanato dall’ultimo gruppo di persone che aveva appena conosciuto, politicanti per i quali suo padre aveva simpatia e che aveva insistito lui conoscesse. Robert Lightwood aveva già deciso che il suo primogenito sarebbe stato colui che avrebbe portato avanti il nome di famiglia, contribuendo a dargli maggiore importanza intraprendendo una carriera politica.
“Non preoccuparti.” Le lasciò un bacio sui capelli. Con Izzy riusciva ad essere spontaneo. A lasciarsi andare a dei moti affettuosi che non riservava a nessun altro. “Se escludiamo i tentativi di papà di farmi entrare nel Clave a soli vent’anni, la festa mi piace. Sei stata brava.”
Isabelle strinse la presa su Alec, abbracciandolo forte. “Grazie.” Rimase in silenzio solo qualche istante, prima di aggiungere: “Ti piace quell’idea? Della carriera politica, intendo… non sei obbligato.”
“In realtà sì, e lo sai meglio di me. Ma… mi piace l’idea della politica. La cosa che non mi piace è che papà si aspetti che la farò come lui pensa sia giusto farla. Vorrei… vorrei cambiare le cose a modo mio, far parte del Clave ed essere semplicemente Alec, e non il primogenito Lightwood. Non so se capisci.”
“Capisco.” Annuì Izzy, la guancia contro il petto di Alec, “E credo che tu possa fare qualcosa di veramente buono, fratellone. Entra in politica, se vuoi, e infischiatene di quello che dicono gli altri. Cambia le cose a modo tuo. Hai un cuore così grande, Alec, e un’intelligenza caparbia. Sono sicura che se c’è qualcuno in grado di cambiare le cose, quello sei tu.”
Alec strinse Isabelle a sé. Nonostante portasse i tacchi, rimaneva comunque molto più bassa di lui. Era minuta, sebbene avesse una muscolatura definita, e ogni volta che Alec l’abbracciava, Izzy rischiava quasi di sparire. Le lasciò un altro bacio sui capelli. “Sei la mia forza, Iz. Non so davvero come farei senza di te.”
Isabelle alzò lo sguardo sul fratello. “Siamo una squadra e prima ancora di quello siamo una famiglia. Ci sarò sempre per te.”
“Lo so,” L’abbraccio durò ancora per qualche istante, fino a quando uragano-Jace non piombò su entrambi, stritolandoli con tutta la sua forza, e provocando una risata che nemmeno Alec riuscì a trattenere.





Maryse osservò i suoi figli scoppiare a ridere. Era la prima risata che Alec faceva in tutta la sera.
Non si era immaginata così il ventesimo compleanno di suo figlio.
Si aspettava più che altro che ci fossero loro come famiglia e alcuni dei ragazzi che si allenavano con i suoi figli.
Di certo non si aspettava che suo marito trasformasse quella festa in una scusa per radunare il Clave.
Ultimamente si arrabbiava sempre più spesso con Robert. Lo sentiva distante e freddo, e lei davvero non aveva idea di come fare per riavvicinarlo. O forse non voleva davvero farlo. Non che il loro rapporto fosse mai stato così caloroso… anche quando erano giovani, ma lei aveva sempre pensato che dipendesse dal fatto che entrambi fossero stati cresciuti seguendo la tipica educazione dei Nephilim: tenere sotto controllo le emozioni, non farsi sopraffare da esse.
Adesso Maryse non era più sicura che la loro distanza dipendesse dall’educazione ricevuta da giovani, ma in ogni caso non voleva pensarci. Non ora.
Ora voleva solo pensare al fatto che voleva trovare un modo per rendere piacevole quella serata a suo figlio.
Isabelle e Jace si erano impegnati tanto per organizzare qualcosa di carino e non voleva che le manie politiche di Robert rovinassero i loro sforzi e l’umore di Alec.
“Max,” Chiamò, abbassando lo sguardo verso il bambino vicino a lei. Aveva la bocca piena di cibo, quando alzò la testa verso la madre. “Potresti andare a prendere il regalo di Alec, per favore? Ti ricordi dove l’ho messo?”
Il bambino annuì e, dopo aver ingoiato il suo boccone, uscì dalla stanza senza destare troppi sospetti. Maryse lo guardò sparire oltre la soglia della porta. I suoi occhi, a quel punto, cercarono di nuovo il trio. Erano ancora intenti a parlottare chissà di che cosa e Maryse poteva chiaramente percepire l’intesa che li univa. Bastava guardarli, per capire quanto fossero uniti, quanto si volessero bene – e lei non poteva che esserne felice.
Aveva ancora un sorriso tenero a tenderle le guance, quando sentì Max che le tirava una manica del tailleur blu che indossava.
“Eccolo,” Disse, orgoglioso di aver portato correttamente a termine la sua missione. Porse il pacchetto alla madre, ma lei negò con il capo.
“Portaglielo tu, sarà felice.” La donna passò una mano tra i capelli corvini del bambino.
Max annuì e si incamminò verso i fratelli con il pacchetto stretto in mano. Quando li raggiunse fu accolto da una serie di saluti ed esclamazioni che lo misero immediatamente al centro dell’attenzione. D’altronde era sempre stato così.
Maryse pensò, con una punta di tristezza e amarezza, che i maggiori dei suoi figli fossero stati sempre decisamente più affettuosi di lei con Max. Erano sempre riusciti a dimostrargli l’affetto e l’amore che provavano nei suoi confronti, a differenza sua.
Era stata la sua maledizione. Amare i suoi figli con tutta se stessa e non essere in grado di dimostrare quell’amore.
Quel pensiero le provocò una fitta al petto, un dolore che presto di tramutò in un velo di lacrime. Si asciugò gli occhi prima ancora che qualcuno notasse quel suo momento di debolezza, e fece per incamminarsi verso i suoi figli.
Non appena fece il primo passo, tuttavia, sentì la terra che cominciò a tremarle sotto i piedi. Una scossa forte e violenta che cominciò a far tremare tutto l’Istituto nel giro di solamente qualche minuto.
Ma con la stessa velocità con cui tutto era cominciato, finì anche. La terra aveva smesso di tremare e lei aveva quasi raggiunto i suoi figli, che a loro volta si erano chiusi intorno a Max, facendo da scudo.
Le sarebbero bastati pochi passi. Dieci, al massimo, ma non riuscì mai a compierli.
Non riuscì mai a raggiungere i suoi ragazzi perché, dopo il terremoto, una palla di fuoco le bloccò la strada.
In un primo momento pensò ad un incendio, ma poi la palla infuocata le parlò – e lei capì che niente stava andando a fuoco, che era solamente un portale.
Un portale infuocato che puzzava di zolfo e cenere. Un brivido di terrore la percorse, non appena quell’odore raggiunse le sue narici: avrebbe riconosciuto la puzza di Edom tra mille.
“Maryse,” La voce uscì dal portale, che brillò ancora qualche istante, prima di chiudersi e mostrare la figura che l’aveva appena attraversato.
Magnus.
Maryse era pietrificata, così come il resto degli Shadowhunter presenti in quella sala. Avevano assistito immobili a quella scena, trovando solo dopo il tempo di reagire.
Il primo istinto di Maryse fu quello di guardare oltre alle spalle di Magnus per vedere se i suoi figli fossero disarmati.
Notò con enorme sollievo che non lo erano. Jace aveva impugnato una spada angelica, Isabelle aveva la sua frusta, e Alec aveva il suo arco. Non sapeva da dove l’avesse appena fatto comparire, ma non le importava. L’importante era che fossero armati. Notò che avevano formato una specie di scudo umano per proteggere Max.
“Magnus,” sibilò la donna, riportando l’attenzione sullo Stregone di fronte a sé. Non era invecchiato, ma di certo questo non fu una sorpresa, per lei. Magnus aveva l’aspetto di un ragazzino, venti, venticinque anni al massimo. I tratti orientali del suo viso non sembravano induriti dal tempo, contribuendo a dare l’illusione che fosse giovane. Niente del suo aspetto avrebbe dato alcun indizio della sua natura immortale e demoniaca – niente, a parte gli occhi da gatto che non si impegnava a nascondere, troppo fiero del suo sangue di demone.
“Cosa ci fai qui?”
Lo Stregone le rivolse un sorriso appuntito, una scintilla dorata fece brillare i suoi occhi di demone. “Sai perché sono qui, Nephilim. È arrivato il momento.”
Un sospiro sorpreso lasciò le bocche dei presenti, ma Maryse non prestò loro attenzione. Era troppo concentrata a reprimere le sue emozioni. Ansia e panico avevano cominciato a scorrerle nelle vene. Si stavano impossessando di ogni centimetro del suo corpo, stavano avvelenando ogni suo pensiero razionale.
Soffocò tutto. Lasciò che le emozioni andassero a posarsi in fondo al suo cuore e laggiù le tenne a bada, facendo in modo che solamente la forza per affrontare quella situazione emergesse.
“Cosa vuoi?”
Magnus le si avvicinò. Il suo passo era fluido ed elegante, come quello di una pantera – e Maryse sapeva che, proprio come il felino, Magnus era altrettanto imprevedibile.
Ma non si sarebbe fatta intimorire. Non sarebbe stata la sua preda. C’erano i suoi figli in quella stanza e lei doveva proteggerli. Quel pensiero fece sì che il suo sguardo si spostasse di nuovo alle spalle dello Stregone e fu proprio in quella frazione di secondo che notò la posizione di Alec. Aveva incoccato la freccia e stava prendendo la mira.
Avrebbe fatto centro. Lei lo sapeva. Suo figlio era il miglior arciere della sua generazione e probabilmente anche della generazione precedente.
Maryse riportò l’attenzione sullo Stregone. Non ebbe paura nemmeno per una frazione di secondo che la freccia potesse prendere lei anziché Magnus. Sapeva che Alec avrebbe colpito il suo bersaglio. E quando Alec scoccò la freccia, Maryse rimase con il fiato sospeso, in attesa: quale delle sue due nature avrebbe prevalso? Quella di demone o di Stregone? Si sarebbe dissolto nell’aria, tornando all’Inferno da dove proveniva come un demone superiore, o la ferita l’avrebbe definitivamente ucciso, come un normale umano?
Maryse non lo sapeva. Sapeva solo che quella frazione di secondo in cui la freccia lasciò l’arco fu la più lunga di tutta la sua vita.
Rimase a guardarla, quasi al rallentatore, aspettando che tutto finisse. Non le importava come, voleva solo che finisse.
Ma sarebbe stato troppo semplice. Troppo facile.
E le guerre non sono mai semplici o facili.
E, di certo, Magnus non era un avversario sprovveduto. Bloccò la freccia con la sua magia quando la punta stava per sfiorarli la parte della schiena dove era previsto fosse presente il nucleo demoniaco.
Si trovava tra due costole e, una volta distrutto quello, il demone superiore, teoricamente, sarebbe stato rispedito all’Inferno.
Era difficilissimo riuscire a centrare quel punto, se non altro perché il nucleo era davvero minuscolo e il colpo doveva essere estremamente preciso. Cercare di prendere quel nucleo era come cercare di colpire una piccola ape in volo.
Ma Alec ci sarebbe riuscito. Ce l’avrebbe fatta, se solo Magnus Bane non avesse intercettato la sua mossa.
Non si voltò nemmeno. Continuò a dare le spalle alla freccia, che era sostenuta dalla sua magia, e fissò Maryse negli occhi. La guardò come se avesse voluto incenerirla e poi, senza dire nulla, si voltò. Afferrò la freccia sospesa in aria e la spezzò in due, gettandola a terra. I suoi occhi felini, a quel punto, si posarono su Alec, che aveva ancora l’arco alzato. Incoccò un’altra freccia e Magnus gli riservò un’amara risata sprezzante.
“Non ci sei riuscito quando ero di spalle, cosa ti fa credere che tu possa avere qualche possibilità adesso?”
Alec emise un respiro profondo, lento e controllato. Per rimanere concentrato doveva evitare di rispondere a quella provocazione. Sentì ai suoi lati Isabelle e Jace che si facevano più vicini, come se volessero compattare la formazione. Alle loro spalle, Max fremeva per dare loro una mano, combattere come un vero Shadowhunter, ma Alec lo zittì bruscamente.
Gli dispiacque farlo, ma era necessario per proteggerlo.
La sua attenzione tornò sullo Stregone. Non gli rispose. Semplicemente, incoccò di nuovo e lasciò andare la freccia.
Magnus rise di nuovo, una risata derisoria e irriverente, e un lampo di magia azzurra spezzò la freccia ancora in volo.
“Sei un ragazzino ridicolo. Come pensi di potermi colpire?”
“Con un pugno in faccia, magari?” Fu Jace a rispondere. Non sapeva gestire bene le provocazioni e tendeva a lasciarsi andare all’impulso, qualche volta.
Magnus spostò l’attenzione da Alec a Jace. “Ti prego,” Lo compatì, “Non riusciresti a colpirmi nemmeno se io tenessi le mani legate dietro la schiena.”
“Adesso basta!” Tuonò Maryse. I suoi passi risuonarono per tutta la sala grande, mentre raggiungeva Magnus e si metteva in mezzo tra lui e i suoi figli. “Sei qui per me, non per loro. Lasciali stare.”
Guardò lo Stregone con fierezza, senza lasciarsi intimorire dalla sua presenza, o dal fatto che si stesse comportando come se nessuno tra gli Shadowhunter presenti fosse una vera minaccia.
Li stava ridicolizzando nello stesso modo in cui aveva ridicolizzato le difese dell’Istituto, abbattendole con facilità e riuscendo ad entrare in un luogo che avrebbe dovuto essere a prova di demone.
“Hai sempre avuto tanti difetti, Maryse, ma la codardia non ti è mai appartenuta. Ti ammiro, per questo.”
“Non aspettarti che ti ringrazi.”
“Non voglio che mi ringrazi, volevo solo dirti qualcosa di gentile, prima di infliggerti il colpo di grazia.”
Magnus abbassò il viso all’altezza di quello della donna. Una minima distanza era ciò che li separava, e Maryse sentì chiaramente i suoi figli alle sue spalle muoversi.
“Non un passo.” Intimò loro – senza lasciare lo sguardo felino di Magnus –  in tono fermo e severo. Era un ordine. “Ora, se devi uccidermi, fallo, Stregone.” La sua voce non vacillò, non c’era paura nel suo tono. I suoi occhi scuri non tremarono mai, e mai distolsero lo sguardo, rimanendo fissi in quelli del suo aguzzino. Non avrebbe mostrato nessun tipo di timore, anzi si sarebbe dimostrata coraggiosa e fiera, quasi come se fosse lei a permettergli di ucciderla. “Ma ti chiedo di avere almeno la decenza di non farlo davanti ai miei figli.”
“Mamma…” Sussurrò Max, il pianto trattenuto, mentre Isabelle lo teneva stretto a sé.
Quella vocina fu un colpo in pieno cuore, per Maryse. Sapeva che quella supplica appena uscita dalle labbra del suo piccolo era la stessa emozione che albergava nei cuori dei più grandi.
“Ucciderti? Oh Cielo, no. Non voglio ucciderti. La tua morte non mi soddisferebbe abbastanza. Voglio qualcosa a cui tieni, qualcosa senza il quale ti sentiresti persa, vuota.”
Maryse strinse la mascella. “Perché?”
“Perché te lo meriti. Tu e quelli del Circolo avete ucciso moltissimi Nascosti innocenti. Io ero presente quando Valentine ha fatto a pezzi quei due bambini. Era la mia gente, lo capisci, vero?”
“Se eri presente, dovresti ricordare che in quella battaglia io ho combattuto Valentine. Ho ucciso molti Nephilim, in quella guerra. Ho espiato i miei peccati.”
“No, per come la vedo io. Ma continua pure a raccontarti questa favoletta, se riesce a chetare la tua coscienza. Ciò non toglie, comunque, che hai un debito con me e sono venuto per riscuoterlo.”
Maryse fece un profondo respiro, cercando di quietare il suo cuore agitato. Aveva un orrendo presentimento e cercare di controllare le proprie emozioni stava diventando sempre più difficile. Ma era fermamente convinta di non voler mostrare nessuna debolezza, a quello Stregone.
“Cosa vuoi?”
Magnus rimase qualche istante in silenzio, quasi gustandosi l’elettricità che abitava nell’aria, la tensione che si era impossessata di ogni individuo presente in quella stanza. E poi, con un sorriso che tirava le sue labbra immortali, parlò.
“Voglio uno dei tuoi figli.”




La magia ha un prezzo, Maryse.
Voglio uno dei tuoi figli.

Quelle frasi le risuonarono contemporaneamente nelle orecchie. Si impossessarono di lei a livello molecolare. Divenne sorda a qualsiasi altro suono, che non fossero le parole pronunciate da Magnus.
Il suo intento di non mostrare alcuna debolezza, vacillò fino a frantumarsi quando quelle parole divennero reali.
Non erano solo parole, erano realtà.
Magnus le aveva chiesto un pagamento e adesso era venuto a riscuoterlo. E Maryse non avrebbe mai pensato che la magia avesse un prezzo così alto, un prezzo che non era disposta a pagare.
Separarla da uno dei suoi figli era inconcepibile per lei, non dopo tutto quello che aveva fatto per averli.
No.
Non avrebbe accettato una cosa simile.
Non avrebbe mai permesso che uno dei suoi figli diventasse merce di scambio per estinguere un debito.
Non avrebbe mai permesso che Magnus mettesse le mani su uno dei suoi ragazzi. Mai.
“No,” Disse, quindi, “Preferisco la morte, all’idea di permetterti di prendere uno dei miei figli.”
Magnus arricciò le labbra, con fare pensoso. Alzò una mano e dalle dita fuoriuscirono piccole scintille blu. Fiammelle innocue, che tuttavia scatenarono un potere immenso che andò direttamente a stringere le gole dei ragazzi. All’improvviso, Alec, Jace, Izzy e Max stavano soffocando, annaspando inutilmente in cerca d’aria.
Nessuno degli Shadohunter si mosse in loro aiuto. Maryse percepì a malapena Robert fare un passo e lo odiò con tutta se stessa, mentre lei, invece, si stava precipitando verso Magnus, cercando di colpirlo per fargli cessare quella tortura il prima possibile.
“Smettila!” Lo supplicò, colpendo la barriera magica che proteggeva lo Stregone. “Smettila!” I suoi pugni battevano forti contro la gabbia magica, così intensamente che presto le vennero a fare male persino i polsi, ma non le importava. Il dolore fisico diventava nullo, paragonato a quello che le stava divorando il cuore.
“Scegline uno, in fretta, o moriranno tutti e quattro.”
Una lacrima solcò il suo viso e lei la cacciò via con rabbia. Ogni suo tentativo di abbattere quella barriera venne abbandonato. Le sue mani adesso stavano lungo i suoi fianchi, mentre i suoi occhi neri fissavano con odio lo Stregone di fronte a sé.
“Scegli.” Le ordinò.
Maryse si voltò verso i suoi figli. Erano tutti e quattro a terra, le mani che toccavano le rispettive gole, come se volessero combattere delle altre mani invisibili che stringevano le loro trachee. Annaspavano, in cerca d’aria, e i loro respiri mozzati e ansanti riempivano la stanza. Non erano mai stati così vulnerabili come in quel momento, e lei non si era mai sentita inutile come in quel preciso istante.
Maryse ebbe la sensazione di sentire il suo cuore sanguinare.
Non poteva scegliere. Non voleva scegliere. Voleva tenerli a sicuro, tutti e quattro, con lei. Voleva guardarli crescere, diventare gli uomini e la donna coraggiosi, buoni, leali e giusti che sapeva sarebbero diventati.
Maryse sapeva che i suoi figli avrebbero rimediato agli errori che la sua generazione aveva fatto in passato. Aveva fiducia in loro, nelle loro capacità, nella loro visione del mondo.
“Non posso,” la voce le si spezzò, mentre lacrime salate solcavano il suo viso. “Ti prego, prendi me. Ti prego!”
Lo Stregone fece un cenno di dissenso con il capo. “Scegli, Maryse. Sto perdendo la pazienza.”
La donna si accasciò a terra, prosciugata di qualsiasi forza. L’unica cosa che abitava il suo essere, adesso, era dolore.
“Prendi me,” un sussurro, un sibilo fragile e soffocato, che tuttavia echeggiò in quelle mura silenziose. Maryse riconobbe la voce arrocchiata di Alec, e lo guardò. I suoi grandi occhi verdi la guardarono con dolcezza e lei si sentì morire dentro.
“Smetti di fare loro del male, e verrò con te.” Alec parlava a fatica. Ogni parola era rauca e sussurrata.
Magnus pose immediatamente fine all’incantesimo. I ragazzi cominciarono a respirare di nuovo e Maryse si alzò da terra solo per gettarsi verso di loro, controllando la loro condizione. Li aiutò ad alzarsi. Max piangeva, Jace e Isabelle, invece avevano uno sguardo terrorizzato e spaesato. Fissavano Alec, che si era alzato in piedi da solo.
Izzy si gettò immediatamente sulla sua schiena, abbracciandolo da dietro e cercando di tenerlo fermo. “No, Alec, ti prego, no!” Era sull’orlo di un pianto.
Jace si posizionò davanti al parabatai, invece. “Non farlo, per favore. Troveremo una soluzione.”
“Ah sì? E quale? Non possiamo competere, l’hai visto anche tu.” Alec guardò prima Jace, poi abbassò lo sguardo sulle braccia di Isabelle che lo tenevano stretto. Le accarezzò i polsi, prima di coprire le mani della sorella con le proprie. Rimase qualche istante così, prima di spronarla a sciogliere la stretta e voltarsi versi di lei.
“Starò bene, Iz.”
“NO!” Urlò lei, disperata, “Morirai laggiù. Il nostro sangue non riesce a sopravvivere ad Edom, e lo sai. Sei condannato a morte.”
“Non lo lascerò morire.” Si intromise Magnus. “Se avessi voluto ucciderlo, l’avrei fatto nell’esatto momento in cui i suoi ridicoli tentativi di uccidermi sono falliti.”
“E allora cosa vuoi fare con lui??” Sibilò Jace, voltandosi verso il demone.
Questi non sono affari tuoi, dolcezza. Il patto prevede che uno di voi venga con me. Vostro fratello è stato coraggioso e altruista. Per questo vi concederò di salutarlo.”
Isabelle lo fulminò con lo sguardo. “Ti credi tanto magnanimo, non è vero? Sei solo un demone spietato. Se gli torcerai anche solo un capello, io troverò il modo di scendere ad Edom e ti strapperò la testa con le mie mani.”
“Mi piace il tuo fervore, ragazzina.” Concesse Magnus, per nulla intimorito da quelle minacce. La guardò ancora un attimo, prima di dare le spalle ai cinque e volgersi al resto degli Shadowhunter.
“Signori, potete essere così gentili da lasciare la sala? Grazie.”
All’iniziale riluttanza di obbedire a quella richiesta, seguì l’ordine secco e autoritario di Maryse. “Uscite! ORA!”
A quel punto i Nephilim lasciarono la sala. Persino i membri del Clave obbedirono a quell’ordine. L’unico che rimase fu Robert Lightwood, ma Maryse si accorse di lui solo quando con cautela si avvicinò.
“Ho pensato che voleste salutarlo in privato,” Esordì Magnus, “E magari spiegargli come mai sua madre l’ha condannato a passare il resto della sua vita ad Edom.” Gli occhi dello Stregone si posarono su Maryse, che sostenne il suo sguardo.
Alec a quel punto si voltò verso il suo carceriere e lo fissò negli occhi senza paura alcuna. La sua voce era carica di rabbia e disprezzo. “Mia madre non mi ha condannato proprio a niente. Tu l’hai obbligata a prendere una decisione che sapevi benissimo non avrebbe mai preso. Era una scusa per ucciderci tutti, la tua. Almeno abbi la decenza di ammetterlo.”
Magnus gli rivolse un sorrisetto. “Hai un bel caratterino, non è vero?” L’uomo piegò la testa di lato, come se volesse studiare il ragazzo di fronte a lui. Era indubbiamente bellissimo, alto, con i capelli neri e gli occhi di un colore molto particolare. Una combinazione che lo rendeva estremamente attraente, ma rimaneva pur sempre un Nephilim. L’arroganza scorreva nel suo sangue per natura e la componente angelica presente nel suo DNA gli aveva sempre fatto credere che fosse superiore, per diritto, a qualsiasi essere non avesse il suo stesso sangue.
I Nephilim erano egoisti, brutali, bigotti e ciecamente devoti all’Angelo e alle sue regole rigide. Seguivano una legge che non ammetteva nessuna eccezione e che era dura persino nei loro confronti.
Erano soldati dal cuore freddo, addestrati a reprimere qualsiasi tipo di emozione.
“Mi vuoi davvero dire che non sei curioso? Che la tua mente accetta tutto questo senza porsi delle domande?”
La mente di Alec era sovraffollata di domande. Ne aveva così tante in testa che a malapena riusciva a concentrarsi sull’intera situazione. Ma non voleva dare nessun tipo di soddisfazione a quel demone. Non avrebbe mai ammesso che aveva ragione.
“No. Nessuna curiosità. Nessuna domanda.”
Magnus emise un verso sprezzante. “Ovvio. Vi addestrano ad obbedire, non a ragionare. Se tua madre ti chiedesse di buttarti nel fuoco, lo faresti?”
Alec lo guardò con gli occhi ridotti a due fessure. “Sto letteralmente per scendere all’Inferno, pur di salvare la mia famiglia. Tu cosa credi?” Lo sfidò. “Non si tratta di obbedire ad un ordine. Si tratta di fare la cosa giusta per chi amo. Concetto che penso tu non riesca a capire, demone.”
“Piano con le parole, ragazzino, o potrei rivalutare la mia propensione a non ucciderti.”
“Non ho paura della morte. E nemmeno di te.”
Questa è un’altra delle tantissime cose sbagliate che vi insegnano.” Magnus scosse la testa, con disapprovazione. “Se non hai domande, allora, ti concedo dieci minuti per salutarli. Ne ho abbastanza di questa dimensione.”
Alec si voltò, dando le spalle allo Stregone, e guardò i membri della sua famiglia. Max fu il primo a reagire, circondandogli la vita, stringendolo con tutte le sue forze. Un pianto scosse la sua schiena nell’esatto momento in cui Alec si chinò alla sua altezza per ricambiare quell’abbraccio. Un silenzio carino di tristezza riempì la stanza, fino a quando Robert non lo spezzò.
“Io non ce la faccio a non chiedere.” Si voltò verso la moglie. “Perché? Perché si sta portando via nostro figlio?”
Maryse, in un momento in cui un moto di cattiveria e rabbia le riempì il cuore, si chiese se quella domanda celasse la preoccupazione del marito che, senza Alec, non avrebbe potuto perseguire i suoi scopi politici. Si vergognò immediatamente per quell’insinuazione, ma una parte di lei non poté fare a meno di farle notare che mentre i suoi ragazzi stavano soffocando, Robert aveva a malapena mosso un passo nella loro direzione per tentare di salvarli.
Tuttavia, Maryse decise di rispondere. Se non altro perché, nonostante Alec non avesse chiesto niente, sapeva che in realtà voleva sapere. E lei sapeva che glielo doveva –  gli doveva delle risposte, visto il sacrificio che stava per fare.
“Ho sempre voluto avere dei figli. Mi piaceva l’idea di poter essere dell’altro, oltre che una guerriera. Volevo essere anche una mamma, ma la natura ha voluto che fossi sterile.” Fece una pausa, guardò tutti i presenti, uno ad uno. Lesse nei loro occhi la consapevolezza di quello che lei aveva fatto ancora prima che le parole lasciassero la sua bocca. Ma parlò comunque: “Non c’era rimedio alla mia condizione. La nostra magia non aveva una soluzione. I Fratelli Silenti, che hanno mantenuto il mio segreto, continuavano a dirmi che la mia condizione era un desiderio dell’Angelo – e che non avrei dovuto interferire con le sue decisioni. Non potevo accettare quella risposta. Così ho cominciato a cercare altrove, fino a quando non ho trovato il Grimorio Proibito. Lì c’era scritto che dove non arrivava la magia angelica, poteva arrivare quella demoniaca. Per questo, vent’anni fa ho evocato Magnus, gli ho chiesto se poteva aiutarmi e lui ha detto di sì. Non avrei mai immaginato che il prezzo che mi avrebbe chiesto di pagare sarebbe stato così alto.” Maryse si avvicinò ad Alec e prese il posto di Max. Il bambino si avvicinò ad Isabelle, mentre Maryse afferrò tra le mani il viso del maggiore dei suoi figli. “Perdonami, tesoro. Ti prego, perdonami. Il mio egoismo ti ha condannato.”
Alec afferrò i polsi della madre e la spronò a togliergli le mani dal viso. In un primo momento, Maryse pensò che lo facesse perché non voleva essere toccato, perché la odiava talmente tanto da non riuscire a sopportare nemmeno un minimo contatto. Ma poi il ragazzo l’abbracciò più forte che poté e le sussurrò all’orecchio: “Va bene così. Promettimi che ti prenderai cura di loro. Promettimi che farai di tutto per non farli scendere ad Edom. Non rendere il mio sacrificio vano. Morirebbero, laggiù, e io non me lo perdonerei mai.”
Maryse non riuscì a trattenere il pianto, mentre stringeva a sé il suo bambino. Ebbe l’impressione di riavere tra le braccia la versione neonata di Alec. Ricordò il suo primo pianto, la sua prima risata, la prima volta che aveva assaggiato qualcosa che non fosse latte. Ricordò i suoi primi passi e il suo primo dentino. Ricordò tutta la sua vita, ogni singolo momento dei suoi vent’anni. E non riuscì a trattenere un singhiozzo.
“Il mio bambino,” Sussurrò. “Proteggerò i tuoi fratelli, ma non posso prometterti che io non proverò a scendere ad Edom. Troverò un modo, Alec, e ti porterò via di lì. Sii forte, tesoro mio, so quanto puoi esserlo.”
Alec annuì, prima di abbracciare ancora un po’ la madre. Andava contro tutto quello che gli era stato insegnato. Mostrare debolezza, abbandonarsi al contatto, al bisogno di affetto. Ma Alec era umano, più umano di quanto ogni Nephilim avrebbe ammesso, e stava per scendere ad Edom, quindi si sentì in diritto di comportarsi più come un figlio, o un fratello, che come un soldato.
Maryse si staccò da lui per lasciare spazio a Jace e Isabelle. Si incamminò verso Robert, che non le rivolse la parola. Era deluso e arrabbiato, e lei pensò che ne aveva tutto il diritto.
“Ti prego, fai attenzione. Ci sono molti demoni ad Edom.”
“Lo so, Izzy.”
“E alcuni riescono a fiutare il sangue angelico. Tieniti sempre pronto.” Gli occhi neri di Iz erano velati di lacrime, mentre cercava di farsi forza, di non lasciarsi andare – lo faceva per Alec, per non fargli vedere quanto stesse soffrendo, consapevole che, altrimenti, lui si sarebbe caricato addosso la sua sofferenza.
La ragazza gli buttò le braccia al collo, stringendolo forte. Lui ricambiò quella stretta con così tanta intensità che arrivò persino a sollevarla da terra.
“Comportati bene, Iz, d’accordo? Sii prudente in battaglia.” La mise a terra e si rivolse a Jace, “Siate prudenti. Niente colpi di testa, va bene?”
Entrambi annuirono e Alec si sforzò di sorridere. Detestava separarsi da loro. Erano una squadra, erano cresciuti insieme. Alec non ricordava un singolo momento della sua vita dove Jace o Isabelle non fossero presenti. Separarsi da loro era il dolore più grande che aveva mai provato.
Jace percepì quel dolore, e non solo perché erano legati dal legame parabatai, ma perché la sola idea di separarsi da suo fratello lo lacerava profondamente. Si sporse verso di lui per abbracciarlo, stringendolo forte, quasi non volesse lasciarlo andare.
“Trova un modo per tornare, per favore. Noi faremo altrettanto.”
Alec evitò di dirgli che non dovevano assolutamente rischiare la vita per lui, perché sapeva che ciò avrebbe scatenato una discussione e lui non aveva nessuna voglia di litigare con loro l’ultima volta che sarebbero stati tutti insieme.
Dopo Isabelle e Jace, Alec riabbracciò Max, che aveva ancora gli occhi gonfi dal pianto e si ancorò a lui come se in quel modo avrebbe potuto impedirgli di andare via. Rimasero cinque minuti buoni stretti in quel modo, con Alec che continuava a ripetergli che tutto sarebbe andato per il meglio, mentre gli accarezzava la schiena per tranquillizzarlo.
Quando Maryse recuperò Max, Alec si rivolse al padre. Si salutarono con un abbraccio breve e qualche parola.
A quel punto, il Cacciatore fece un passo indietro e diede un’ultima occhiata alla sua famiglia, poi si voltò verso Magnus.
“Sono pronto.”
Lo Stregone aprì un portale, inondando la stanza di una forte luce arancione e rossastra, e trascinò Alec al suo interno.
Quando il portale si richiuse, di loro non rimase alcuna traccia, se non l’odore di zolfo e la consapevolezza che l’assenza di Alec sarebbe stata una presenza costante nei cuori di coloro che gli volevano bene.




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Ciao a tutti! Io me ne esco con nuove storie a caso e voi magari non mi sopportate più!
Inizialmente, questa doveva essere una OS, ma poi visto che veniva più lunga del previsto, ho pensato anzi di dividerla in due parti. Ci sarà un altro capitolo, quindi, che spero di pubblicare abbastanza presto.
Ora, questa storia nasce principalmente da un’idea che ho avuto guardando un video su YouTube
https://www.youtube.com/watch?v=R3EZHvHAqsw e mi sono chiesta cosa sarebbe successo se Magnus avesse avuto una natura più dark, più vicina al demone ed è nata questa cosa.
Credo che in alcuni punti io mi sia lasciata un po’ trasportare e sia finita nell’OOC, soprattutto con Maryse e Robert.
Vorrei sapere cosa ne pensate di questo primo capitolo, qualsiasi commento è ben accetto!
Se avete letto fino a qui, vi ringrazio immensamente!
A presto!
   
 
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