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Autore: lady lina 77    08/02/2020    1 recensioni
Poldark, Season 5 Episodio 8: Cosa sarebbe successo se nell'episodio finale le cose fossero andate diversamente e Demelza si fosse imbarcata davvero coi suoi figli per la Jamaica, lasciando Ross al suo presunto tradimento con Tess? Cosa la attende ai Caraibi? Cosa le succederà? Che donna potrebbe diventare in quelle terre selvagge popolate da pirati? E i suoi figli?
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Demelza Carne, Nuovo personaggio, Ross Poldark
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le prime settimane, che poi si erano tramutate in mesi, erano scorse veloci per Demelza. Quel mondo nuovo da scoprire, quelle abitudini sconosciute che doveva fare sue, una nuova casetta da costruire e un pancione sempre più evidente, non le avevano fatto percepire quanto tutto stesse accadendo velocemente.

La domenica e anche durante la settimana, se necessario, suonava la spinetta che accompagnava le funzioni di Padre Colin che pian piano le aveva presentato i fedeli del posto, aveva imparato a conoscere gli abitanti del borgo portuale che li aveva accolti al loro arrivo, aveva appreso i nomi di piante, animali e frutti fino ad allora a lei sconosciuti e appreso dal vento o dalle maree il cambio del tempo. Aveva conosciuto i bambini dell'orfanotrofio gestito da Padre Colin, una allegra massa di monelli senza radici e felicemente selvaggi, aveva incrociato a volte anche dei pirati, gente strana vestita in modo strano e a prima vista poco raccomandabile, aveva dovuto abbassare lo sguardo e mordersi le labbra per non urlare quando aveva dovuto assistere, tornando a casa dalla Messa, a un mercato degli schiavi e soprattutto, aveva dovuto in parte abbandonare i suoi abiti inglesi per sostituirli con qualcosa di più comodo e leggero. Gli abiti a maniche lunghe erano stati sostituiti da vestiti sbracciati, leggeri, freschi e dai colori accesi, i suoi lunghi capelli erano spesso racchiusi in una treccia o una coda di cavallo a causa del caldo e spesso al pomeriggio tardi aveva anche fatto un bagno con indosso solo una sottoveste, circondata da una spiaggia deserta, in quel mare meraviglioso dalle acque verde-smeraldo, in compagnia di migliaia di pesci variopinti.

Anche Jeremy e Clowance si erano abituati presto a quella nuova vita. Suo figlio stava tutto il giorno in spiaggia e girava perennemente a petto nudo, con indosso solo dei corti pantaloncini, intento a pescare e a procurare pranzi e cene per tutti. Lui e Cecily spesso si allontanavano dalla riva con una barchetta, muniti di canne da pesca, tornando solo molte ore dopo con un lauto bottino. Anche Clowance era diventata più spartana e, abbandonati i suoi vestiti inglesi, aveva scelto di vestire solo con sottovesti o abitini smanicati che le arrivavano alle ginocchia, con cui poteva correre, saltare nel mare e rotolarsi liberamente. Giocava spesso sulla sabbia costruendo castelli ed atteggiandosi a sorella maggiore del piccolo James che la seguiva dappertutto gattonandole dietro. Il piccolo adorava Clowance e lei sembrava essersi appassionata al suo ruolo di guida esperta e di baby sitter improvvisata. Doveva fare pratica per la sorellina, diceva, e Demelza si sentiva così orgogliosa di lei e dell'entusiasmo con cui aspettava l'arrivo di Isabella-Rose. Entusiasmo decisamente più marcato del suo...

Per quanto riguardava la casa, la piccola capanna scelta da Demelza al suo arrivo era fiorita giorno dopo giorno con l'incessante lavoro di tutta quella piccola famiglia allargata. Cecily e Kitty l'avevano aiutata a pulirla e a trovare dei piccoli arredi ma l'aiuto più grande, Demelza lo aveva ricevuto dai fedeli di padre Colin, gente poverissima ma amica e sempre pronta a darsi una mano l'un l'altro, come le avevano raccontato al suo arrivo.

Uomini e donne avevano aiutato a portare legname per rinforzare le pareti e allargare la capanna, avevano dato una mano a costruire dei giacigli, avevano trovato dei piccoli armadietti e qualche oggetto d'arredo che potesse tornarle utile e lei aveva ricambiato col pesce pescato da Jeremy e spesso di sera, quando finivano di lavorare, avevano cenato tutti insieme in una allegra combriccola raccolta attorno al fuoco in quella grande spiaggia che con gioia li aveva accolti facendoli sentire poco alla volta a casa.

Demelza si era affezionata a quelle persone e oltre a padre Colin aveva imparato a conoscere la chiacchierona signora Paula che gestiva un piccolo negozio di panettiere, il timido e giovane dottor Phillips che cercava di curare la gente del posto con quel poco che aveva e che si era preso una cotta ancora non corrisposta per Cecily, le simpatiche suore che curavano i bimbi dell'orfanotrofio, i pescatori anziani del porto con le loro famiglie e tante altre persone che come lei avevano poco o nulla ma che trovavano sollievo proprio nel dividersi quel poco fra loro, dandosi una mano quando serviva.

Alla fine venne fuori una bella casetta composta da due stanze da letto e un ambiente comune all'ingresso, che fungeva da salottino e cucina. C'erano pochi mobili, raccattati qua e la o costuiti con la legna della foresta: una piccola credenza, un tavolaccio in legno mal levigato, due panche, dei giacigli nelle stanze, una per lei e Prudie e l'altra per i bambini, una cassettiera malmessa ma ancora utile per contenere i loro pochi abiti e un baule dove mettere ciò che non trovava altra collocazione. C'erano ancora piccole rifiniture che Demelza voleva apportare alla casa, piccoli lavoretti che poteva fare anche da sola prima di partorire, ma nel giro di poco aveva trovato un suo nido, un suo posto in quel nuovo mondo dove sentirsi a casa e non più ospite. Una casetta a una decina di metri da quella di Kitty e Cecily, uno spiazzo comune fra le due abitazioni dove trovarsi per mangiare insieme, cucinare marmellate da vendere alle navi in partenza dal porto, chiacchierare ed aiutarsi in quella vita spartana. Era un angolo di pace in un mondo paradisiaco e Demelza cercava, nell'azzurro del cielo, nella meraviglia del mare e nella bellezza degli animali del posto che aveva imparato a conoscere e che di fatto erano i suoi vicini di casa, di sopravvivere alla tempesta che aveva fatto naufragare il suo matrimonio. Ross le mancava, con tutte le sue forze. E la sera, quando Prudie e i bambini dormivano e Isabella-Rose si scatenava dandole un sacco di calci, si allontanava sulla spiaggia con Garrick e piangeva tutte le sue lacrime pensando a quell'uomo lontano, fra le braccia di un'altra, che l'aveva tradita e fatta soffrire ma che ancora amava con tutta se stessa. Si chiedeva se si fosse cacciato nei guai, se avesse capito l'errore di tradire la propria patria coi francesi, se ancora Tess gli fosse accanto, se ogni tanto pensasse a loro e a quanto avevano perso... Ne poteva parlare solo con Kitty o Cecily ma spesso era stata Prudie a sorreggerla durante i momenti di maggiore crisi, quando poteva permettersi di urlare il suo dolore perché i bimbi erano lontani, fuori a giocare. Jeremy e Clowance non chiedevano mai di Ross e questo la stupiva. Non sapeva cosa pensassero, temeva di chiederglielo ma era anche consapevole che prima o poi avrebbero dovuto affrontare l'argomento. Sarebbero cresciuti, avrebbero voluto spiegazioni approfondite, avrebbero sofferto e fatto mille domande e lei non sapeva come avrebbe potuto rispondere loro.

E in tutto questo c'era Isabella-Rose che sarebbe nata a breve, sconvolgendo la sua vita. E anche lei sarebbe stata una sfida, al pari dei fratelli, anche se per motivi diversi... C'era ancora molto che la separava da questa bambina non ancora nata e di certo non desiderata ma nelle notti solitarie dove si immergeva in mare e nuotava come a voler purificare il suo corpo e la sua mente dai pensieri e dai sentimenti negativi, erano solo loro due. La sentiva muoversi, scalciare, la sentiva prepotentemente voler affermare la sua esistenza per costringerla a prenderne atto. Calciava forte, era una bambina energica e Demelza nonostante tutto aveva imparato a conoscerla, a percepire quando dormiva o quando era sveglia e anche un certo gusto che la piccola sembrava avere per la musica. Quando si muoveva troppo e le faceva male, le bastava cantare per farla tranquillizzare e stare ferma. Isabella-Rose si fermava, pareva trovare pace e dopo un pò i calci cessavano e lei sembrava dormire tranquilla... A volte si chiedeva come fosse, che viso avrebbe avuto, a chi sarebbe assomigliata e se ne stupiva. Come faceva ad essere tanto curiosa di qualcuno che non aveva desiderato nella sua vita? Era amore? O solo, appunto, curiosità? Isabella-Rose era stata concepita per sbaglio quando il matrimonio con Ross era già vicino al naufragio e questo l'aveva spezzata. Eppure anche Jeremy era arrivato in un momento simile ma mai, nemmeno per un attimo, aveva vacillato nell'amore per lui. Con questa nuova bambina invece, non ci riusciva. Era arrivata dopo un periodo dove pensava di aver lasciato alle spalle ogni problema e ogni dolore pregresso con Ross, ogni crisi, i tradimenti, Hugh ed Elizabeth, le recriminazioni e i silenzi pieni di risentimento. Era arrivata quando pensava che il loro amore fosse ormai adulto, consolidato e cementato in loro... E invece la vita le aveva dimostrato che nulla andava mai per scontato, che ogni amore può finire e che forse... e che forse l'amore vero che dura tutta la vita non esiste. E allora che senso aveva quella bambina? Che cattivo scherzo del destino era stato quello di farla arrivare nella sua vita proprio quando tutto era finito, dopo otto anni da Clowance, quando pensava che non avrebbe avuto più figli? Non poteva succedere prima, quando lei e Ross erano nella loro luna di miele a Londra? O dopo la morte di Elizabeth, quando il loro amore era diventato pieno, maturo e consapevole e nessuno dei due poteva fare a meno dell'altro? O prima della morte di Ned, prima che Ross perdesse se stesso...

Ma perché, perché era rimasta incinta quando Ross aveva smesso di amarla e il suo sguardo era rivolto altrove?

Se lo chiedeva spesso e nessuno le avrebbe mai saputo dare risposte. E allora si imponeva di smettere di pensare e si concentrava sulla sua vita, prendendola come veniva giorno per giorno, cercando un appiglio in quel nuovo mondo e quella nuova esistenza tutta da costruire con Jeremy, Clowance e sì, anche Isabella-Rose. I suoi bambini sarebbero cresciuti ai Caraibi, senza padre, lontani da miniere e minatori, sviluppando un'esistenza totalmente diversa da quella che aveva immaginato per loro. E doveva rendere tutto questo il più facile possibile, creare una casa accogliente, essere forte, sorridente e imparare a conoscere quell'isola e le sue abitudini per poterle insegnare a loro. E doveva riuscirci!


...


Le serviva della legna per accendere il fuoco per scaldare della zuppa a mezzogiorno e per la grigliata di pesce di quella sera e non aveva animo di chiedere aiuto a Kitty o Cecily. James aveva pianto tutta la notte per i denti e sua madre quel giorno, quando il piccolo si era calmato, ne aveva approfittato per dormire un pò anche lei, mentre Cecily era andata al villaggio per comprare del cibo e vendere le loro marmellate.

Ttuti loro erano stati gentilissimi con lei in quei mesi, l'avevano aiutata in ogni modo e non voleva più approfittarne. Le donne, soprattutto quelle conosciute ad Illugan da piccola, lavoravano fino al momento del parto e il giorno dopo aver messo al mondo il loro bambino erano già nei campi a raccogliere grano e mais e quindi anche se lei aveva un pancione ormai ingombrante, di certo non era malata e poteva raccogliere e trasportare, facendosi aiutare dai suoi figli, qualche ciocco di legno senza problemi e soprattutto, senza dipendere da altri.

Si erano addentrati nella foresta tropicale dietro alla loro casa e alla spiaggia di primo mattino, prima che il sole diventasse troppo caldo, camminando fra arbusti e grandi piante piene di frutta mentre gli uccelli, dai mille colori variopinti, volavano sulle loro teste. Avevano visto anche delle scimmie, sui rami più alti, che le osservavano incuriosite e Demelza ogni volta rimaneva a bocca aperta davanti a quella fauna tanto variegata. In quell'isola vivevano animali che fino a pochi mesi prima le erano sconosciuti e la loro forza, la loro capacità di adattamento e la loro bellezza erano per lei fonte di ispirazione e nuova vita.

"Dovremmo prendere un pappagallo!" - disse Jeremy, indicandone uno variopinto appollaiato su un ramo. "L'altro giorno al porto un pirata girava con un pappagallo sulla spalla e la spada alla cintola e sembrava così fantastico e degno di rispetto!".

"Tu non sei un pirata, però!" - lo rimbeccò Clowance mentre addentava una fetta di cocco che sua madre aveva tagliato per loro prima di mettersi in cammino.

Demelza rise, prendendola per mano. Erano vestite uguali lei e sua figlia, con un abito smanicato bianco legato in vita da un nastro azzurro. La gonna arrivava ad entrambe sotto le ginocchia ed entrambe avevano optato per uscire scalze e gustarsi la morbidezza della sabbia sotto i piedi. "Tua sorella ha ragione, non sei un pirata! Alla tua età potresti al massimo essere un mozzo!".

"Tu mamma, ce l'hai l'età però! Dicevo per te!" - rispose il bambino, divertito e alla ricerca di una motivazione valida.

"Ah, una donna non può fare la piratessa e nemmeno ambisco ad esserlo. Ed inoltre abbiamo Garrick, non ti basta?" - gli chiese Demelza.

Jeremy sbuffò. "Sì, ma non ha nemmeno voluto seguirci! Se n'è stato a poltrire con Prudie. E noi lavoriamo quando dovrebbero essere loro a farlo".

Demelza sospirò, ripensando al rum bevuto dalla sua serva la sera prima durante la cena, rum di contrabbando che Cecily aveva trovato chissà dove al porto. "Prudie stamattina... non era in grado di seguirci".

"Era ubriaca!" - esclamò Clowance, decisamente meno diplomatica di sua madre. "Ci serve una domestica più affidabile".

"Ahhh, fossimo ricche, perché no?" - chiese Demelza, ridendo.

Jeremy la osservò pensieroso. "Ma ci servirà davvero una nuova domestica! Fra un pò fra Prudie ubriaca e Bella che nascerà e strillerà ogni notte, sarà un macello casa nostra".

"Ce la faremo..." - rispose Demelza, assorta dai mille pensieri che quelle parole avevano risvegliato in lei.

"Davvero?" - chiese il bambino, serio. "Anche senza...". Fece per concludere la frase ma poi parve mordersi la lingua e imporsi di fermarsi.

Demelza lo guardò e capì che era preoccupato e che c'erano tante domande che gli frullavano in testa e non osava fare per non turbarla. Jeremy aveva undici anni e anche se non ne parlava, di certo pensava a Ross e a cosa avrebbe comportato la sua assenza. Si avvicinò a lui e lo abbracciò, forte, incapace di dire troppo ma decisa a rassicurarlo. "Anche senza tuo padre, sì! Senza di lui abbiamo costruito una casetta tutta nostra e abbiamo attraversato mezzo mondo. Non c'è motivo di preoccuparsi, sta tranquillo".

Lo disse cercando di apparire serena ma Jeremy e Clowance non le credettero, non fino in fondo. Ma decisero di non insistere e di farle pensare ad altro per rasserenarla. Demelza li conosceva e ne comprendeva appieno atti e pensieri, pensieri anche nascosti ma che lei sapeva leggere dietro ad ogni loro azione.

Jeremy la prese per mano, cambiando argomento e stato d'animo. "Mamma, ti facciamo vedere un posto magico! Ci siamo vicini!".

"Sìììì, lo abbiamo scoperto qualche giorno fa cercando noci di cocco!" - aggiunse Clowance mettendosi a correre agilmente fra gli arbusti seguita dal fratello.

Meno agile dei suoi figli, tenendosi il pancione, Demelza li seguì fuori dal sentiero sterrato. "Bambini, ma dove stiamo andando?" - chiese trafelata.

Jeremy tornò indietro, prendendole nuovamente la mano. "Vieni mamma, vedrai che bello!".

Demelza, impossibilitata a fare altro, si affidò a lui e camminando a fatica fra arbusti, piante e massi, giunsero davanti a un piccolo e incantevole specchio d'acqua nascosto fra la vegetazione, alimentato da una cascata che vi si gettava da una roccia che dominava la radura. Si sentiva il rumore dei ruscelli che alimentavano quel laghetto, lo scroscio della cascata e il canto degli uccelli che lì probabilmente si ristoravano. Acqua purissima, trasparente, che prendeva i colori delle piante che la circondavano e vi si riflettevano. Jeremy e Clowance entrarono nel laghetto, l'acqua era bassa, arrivava fino alle ginocchia o alla vita e i bambini la invitarono a fare altrettanto.

"Jeremy, Clowance, è un posto bellissimo ma non è il caso di fare un bagno quì! C'è il mare davanti a casa".

Jeremy le strinse ancora più forte la mano. "Non è per fare il bagno, è quello che c'è dopo la cascata. Passiamoci sotto e vedrai!".

Clowance li precedette, correndo agilmente nell'acqua e saltellando superò lo scroscio della cascata e vi sparì dietro.

"Giuda!" - esclamò Demelza, terrorizzata.

Ma Jeremy non le diede tempo di avere paura. "Vieni!" - le sussurrò, incitandola a seguire le orme di Clowance.

Tentennando, superarono lo scroscio della cascata, si bagnarono come pulcini, ma dopo...

"Santo cielo!". Demelza si guardò attorno, all'asciutto di una grotta nascosta dietro la cascata, invisibile da fuori, che li tagliava dal mondo esterno e ne creava uno tutto nuovo e nascosto. Non c'era nulla, solo rocce e il rumore dell'acqua alle sue spalle... Ma il fascino di quel posto era innegabile, era come aver oltrepassato una barriera magica ed essere approdati in un mondo nuovo,ovattato e misterioso. Le rocce incombevano su di loro e l'acqua della cascata, che faceva passare attraverso di essa i riflessi del sole e i colori della foresta, proiettava su quel mondo sconosciuto e nascosto, un arcobaleno di colori.

"Ti piace, mamma? E' un nascondiglio perfetto, lo conosciamo solo io e Jeremy!" - esclamò Clowance, esibendosi in una giravolta. "Se diventiamo ricchi come i pirati e abbiamo tesori da nascondere, questo posto sarà perfetto!".

Santo cielo, ancora con questa storia dei pirati!? I suoi figli erano davvero fissati con quelle poco raccomandabili persone! Ma avevano ragione, se dovevano nascondere delle provviste o rifugiarsi davanti a un pericolo, quel posto sarebbe stato perfetto!

"Ti piace, mamma?" - chiese Jeremy abbracciando lei e il pancione.

Demelza gli accarezzò i capelli pensando che sì, quel posto gli piaceva e valeva la pena essere arrivata fin lì nonostante pancione e fatica. "Tanto e vorrei restare quì. Ma abbiamo molto da fare, non ricordi? Come cuoceremo il tuo pesce di stasera se non troviamo della legna da ardere?".

Jeremy le fece la linguaccia, ridendo. "Vero! Abbiamo da lavorare. Ma prima volevamo davvero fartela vedere, la grotta delle fate".

Demelza osservò i riflessi dell'acqua sulla roccia. "Grotta delle fate... Che nome perfetto per questo posto...".

Clowance sorrise. "Già!".

I bambini la aiutarono ad uscire, oltrepassando nuovamente la cascata ed uscendone bagnati come pulcini, dalla testa ai piedi. Ma non importava, in quel mondo nuovo non c'era spazio per l'apparenza ed essere bagnati ma circondati da tanta bellezza era solo un piacere da assaporare insieme e di cui non vergognarsi. Il sole avrebbe asciugato i loro capelli e i loro vestiti e in cambio di un pò d'acqua, avevano scoperto la grotta delle fate.

Affascinata e decisa a far suo per sempre quel modo gioioso di pensare tipico dell'isola, Demelza cercò di ricordare la strada verso quel luogo mentre si allontanavano. Jeremy e Clowance ci sarebbero tornati di certo a giocare, ma lei... Lei non sapeva ancora perché ma qualcosa nella sua mente le suggeriva che quella grotta nascosta sarebbe diventata importante nel suo futuro... In che modo non lo sapeva, ma sentiva che sarebbe stato così! Poi, tornati sul sentiero, osservò con orgoglio i suoi figli ancora piccoli che avevano imparato a prendersi cura di lei in silenzio, che si erano abituati a quella nuova vita senza piangere l'assenza di un padre, ad essere forti e soprattutto, che avevano fatto già loro quel nuovo mondo e modo di vivere. Era fiera dei suoi bambini, i suoi due gioielli preziosi. E silenziosamente, mentre raccoglievano ramoscelli e ciocchi di alberi spezzati, ringraziò Dio per averglieli dati. Jeremy e Clowance erano la sua ragione di vita, la sua spinta per andare avanti e tentare di vivere ancora... E avrebbe fatto ogni cosa per loro e il loro bene, sempre!

Con loro raccolse parecchia legna, la raccolse fino al limite massimo che con il suo pancione poteva trasportare. E lo stesso fecero Jeremy e Clowance che le trotterellavano vicino chiacchierando ed osservando gli animali che, in aria o striscianti in terra, incrociavano il loro cammino.

Sarebbe stata una passeggiata perfetta se non fosse stato per un urlo e un pianto che, improvvisamente, spezzarono la quiete della foresta nel primo mattino.

Demelza si bloccò cercando di capire da dove arrivassero quei rumori, ma Jeremy fu più veloce di lei e come un segugio corse verso il sentiero principale dove di solito passavano carri da e per il porto carichi di merci o mogano che i grandi signori dell'isola spedivano nel vecchio continente dopo aver spremuto spesso fino alla morte i propri schiavi.

Demelza difficilmente si addentrava nella foresta da quel sentiero che, benché più comodo e ampio da percorrere, l'avrebbe spesso messa in contatto con quei mercanti di vita e morte. Cercò di fermare Jeremy ma quando anche Clowance si lanciò dietro al fratello, non poté fare altro che seguirli.

Quando li raggiunse, i bambini erano a ridosso della strada principale che, benché sterrata e dall'aspetto selvaggio, era la via di comunicazione più sviluppata dell'isola.

Un grosso carro pieno di tronchi si era impantanato nel terreno con una delle ruote posteriori e tre poveri schiavi di colore, due uomini e una donna, si dannavano per liberarlo da quella stretta mentre un altro uomo, dai capelli neri come la pece, sguardo distinto ma feroce e abiti eleganti, con una frusta in mano li incitava a suon di cinghiate a lavorare più celermente.

Demelza sentì i suoi bambini sussultare e il suo sangue congelarsi nelle vene. Aveva già visto schiavi in quell'isola, in catene e con lo sguardo basso, ma anche se era riuscita ad immaginare la misera delle loro vite, mai aveva assistito a qualcosa del genere. O forse sì, tanti anni prima, quando era suo padre ad usare la cinghia con lei... E la cinghia faceva male, lo ricordava bene, e questo la rendeva la più vicina di tutti gli altri ai patimenti di quella ragazza. Osservò i due uomini, alti e muscolosi, che resistevano senza lamenti a quei trattamenti disumani e poi lei, una ragazza dai capelli neri e corti, ricci come trucioli di legno, esile, giovanissima e coperta di sangue che le colava dalle braccia a causa delle percosse ricevute. Era sfinita, sembrava sul punto di svenire e il suo padrone non faceva che percuoterla con la cinghia...

A un certo punto Clowance urlò forte e l'uomo dai capelli neri si fermò di colpo, rendendosi conto di essere osservato. Guardò i tre nuovi arrivati, piegò la cinghia fra le mani e poi, con fare elegante, come se nulla fosse si avvicinò loro. "Buongiorno. Spero che questa visione di tre sfaticati che non sanno lavorare, non abbia turbato la vostra passeggiata" – mormorò, esibendosi in un inchino.

Aveva un fisico minuto ma ogni suo muscolo pareva esprimere ferocia e cattiveria, dietro ai suoi modi eleganti. A pelle, Demelza sentì che lo detestava, anche se non ne conosceva nemmeno il nome. "Non è stato questo a far urlare mia figlia. E' stata la vostra cinghia e le ferite a quella ragazza".

"Ohhh". L'uomo si voltò verso la schiava e poi di nuovo verso Clowance, esibendosi in un ghigno forzato. "Ma piccolina, non preoccuparti. Lo faccio per farla lavorare, si fa così".

"No, non si dovrebbe fare così!" - lo interruppe Demelza, fregandosene del fatto che doveva usare le buone maniere. "Frustare una donna è un atto vile, soprattutto quando è indifesa". Al diavolo, poteva anche offendersi quel tizio, ma non aveva decisamente voglia di stare zitta.

L'uomo parve ignorare quanto dettogli. Si lisciò i baffetti, sorrise nuovamente e poi lanciò uno sguardo ai suoi schiavi. "Non fraintendetemi signora, io sono un gentiluomo e faccio ciò che faccio perché devo. Ma sono una persona generosa e quest'isola e chi ci vive, deve ringraziarmi per quel che ha. Ho dato commercio e un futuro a questo posto dimenticato da Dio e per fare grandi cose, c'è sempre un piccolo prezzo da pagare".

Demelza sostenne lo sguardo dell'uomo, per nulla colpita da quelle parole melliflue. "Un gentiluomo non frusta una ragazza indifesa" – ribadì.

Era una strana guerra di nervi la loro e a quell'uomo sembrava piacere. "Voi sapete cavalcare, mia signora?".

"Certo".

"E non usate, talvolta, il frustino col vostro cavallo? Per farlo andare veloce, ovviamente, non per diletto...".

Demelza deglutì. "Capita, sì. Ma lo faccio con l'intenzione di non ferire l'animale e di non fargli del male".

"Quindi, lo fate per ottenere migliori risultati".

"Sì" – rispose lei, incerta, rendendosi conto che si trovava davanti una persona feroce ma non stupida. La stava mettendo in un vicolo cieco e se tanto le dava tanto, presto non avrebbe più saputo come rispondergli.

"Io faccio altrettanto".

Jeremy osservò la povera ragazza frustata che gli altri due schiavi avevano aiutato a rialzarsi. "Ma lei mica è un cavallo, è una donna!".

L'uomo scosse la testa. "Lei è una schiava, un animale. E la tratto da tale, ci vuole forza e vigore per far ubbidire gli animali, esattamente come fa tua madre coi cavalli. Come vedi, io sono un gentiluomo e tua madre una gentildonna e agiamo allo stesso modo. Con gentilezza coi nostri simili, con vigore con chi dobbiamo dominare".

Demelza strinse i pugni mentre Jeremy la guardava, confuso. Non si sarebbe fatta ingannare dai giochetti di parole di quello schiavista, lei NON era come lui. Strinse a se Clowance e prese per mano Jeremy, non togliendo gli occhi di dosso dal viso di quell'uomo odioso. "Io non sono come voi".

"Vi ritenete migliore? Chi siete? Non vi ho mai visto in giro prima...".

"Il nome di mia madre non è affar vostro!" - ribatté Jeremy, prima che lei potesse parlare, mettendosi in modo protettivo fra loro.

Demelza lo scostò, non voleva che si inimicasse quell'uomo che di certo era potente e soprattutto non voleva che Jeremy si sentisse responsabile della sua protezione al posto di Ross. "Non mi ritengo migliore di nessuno ma faccio del mio meglio per vivere onestamente, senza nuocere agli altri. Vivo quì da pochi mesi e in un posto isolato, per questo non mi conoscete. E mi piace, mi evita spiacevoli incontri".

L'uomo la guardò, sornione. "Avete la lingua lunga ed affilata, mia affascinante lady. Peccato che abbiate scelto una vita appartata, sareste un bel peperino al villaggio" – disse, leccandosi le labbra con la lingua in un gesto vagamente volgare. "Vostro marito? Non vi aiuta con la legna? In quello stato non dovreste fare sforzi".

"Non ho marito, sono sola!" - rispose, tagliando corto.

L'uomo sospirò. "Sola, con la lingua lunga e tagliente, incinta e con un pesante carico da portare. E con la supponenza di volermi insegnare a vivere. Ma io, come vi dicevo prima, sono un gentiluomo e non posso permettere che una donna fatichi senza aiutarla".

"Non ho bisogno del vostro aiuto".

"Ma io non posso esimermi dal darvelo".

"Lasciate stare!".

L'uomo scosse la testa. "Perché portate quella legna? E' pesante, non avete schiavi che possano aiutarvi? Quì tutti ne hanno, almeno uno".

Demelza si rabbuiò. Quell'uomo voleva provocarla e lei non aveva voglia di proseguire quell'assurda discussione con lui. L'unica cosa positiva era che, parlando con lei, aveva dato modo ai suoi schiavi di riprendere fiato ed essere lasciati in pace. "Ovviamente non ho schiavi e nemmeno ne voglio".

"Quì funziona così" – insistette l'uomo.

"Ho dei princìpi e una coscienza!" - ribatté lei. "E sono perfettamente in grado di rimboccarmi le maniche".

Gli occhi dell'uomo si assottigliarono e come se lei gli avesse appena lanciato una sfida, fu subito pronto a ribattere. La osservò, soffermandosi come affamato sulle sue curve ancora più evidenti a causa del vestito bagnato, poi tornò a fissarla in viso. "No, non è coscienza, vi sentite migliore di me. Ma non lo siete e ora vi dimostrerò che siamo uguali".

Demelza rise, sarcastica. "E come?".

"Dimostrandovi che sono un gentiluomo e che voi usate male la vostra coscienza". Indicò la giovane schiava che aveva appena frustato, brandendo la cinghia. "Lei non ha saputo lavorare, oggi. E' una mia schiava, ho tutto il diritto di punirla se mi va, per questo. Ho diritto di vita e di morte su di lei e per quanto non è riuscita a fare oggi, io posso andare a casa, portarla in giardino, legarla a un albero e frustarla fino alla morte. E nessuno mi direbbe nulla, si fa così con gli schiavi inutili".

Il sangue le si gelò nelle vene, era un uomo che lo avrebbe potuto fare senza problemi. Sentì i bambini tremare accanto a lei e guardando quella schiava provò un'infinita pena per lei perché di fatto, non poteva aiutarla. "E' solo una ragazza, forse non ha nemmeno vent'anni".

L'uomo annuì e nel suo modo di fare era impossibile leggerne i pensieri e il fine per cui stava portando avanti quella discussione con lei. "Vero. Solo una ragazza... Inutile per me! Ve la regalo" – disse infine, con un ghigno, prendendola di sorpresa.

Demelza spalancò gli occhi. "Cosa?".

"Ve la regalo" – ripeté l'uomo.

Demelza strinse i pugni. "E' una persona, non un oggetto".

"E' una schiava e questo fa di lei una mia proprietà e un oggetto. E voglio regalarla a voi che di schiavi non ne avete e ne necessitate".

"Io non voglio una schiava!" - gridò quasi, sentendosi però in trappola e capendo troppo tardi il gioco di quell'uomo.

L'uomo allargò le braccia. "Il mio dovere di gentiluomo verso di voi e quella povera schiava l'ho fatto ma la vostra coscienza vi impedisce di accettare il mio gentile dono. Come volete, tornerò a casa coi miei schiavi e il mio carro e poi la cara dolce negretta andrà incontro al suo destino. Poteva essere vostra e lavorare per voi ma il vostro animo che volete mantenere candido, vi impone di lasciarla alla mia frusta. Chi è meglio, io che eseguo i miei doveri o voi che per principio non salvate una povera schiavetta".

Jeremy e Clowance la guardarono con occhi sbarrati, come in attesa di una soluzione a quella situazione assurda. E lei si sentì sprofondare... Santo cielo, e ora? Che doveva fare? Accettare, macchiare la sua coscienza per sempre e prendere una schiava che l'avrebbe resa in tutto e per tutto simile a quell'uomo, o no? Lottare perché venissero rispettati dei diritti? Non aveva senso, avrebbe perso quella lotta e nessuno avrebbe né protetto né pianto la morte di quella schiava... Era tutto in mano sua, ora. E quell'uomo, di proposito, per diletto e divertimento, l'aveva portata a quel punto per distruggere ogni sua certezza o credo. A lui di quella schiava non importava nulla, così come non gli importava di lei che, incinta, portava legna fra le braccia. Voleva solo corrompere, per il semplice gusto di farlo, la sua anima. E purtroppo ci stava riuscendo...

Le venne in mente Padre Colin e quanto le aveva detto quando era arrivata su quell'isola. Princìpi, coscienza, certezze... Tutto doveva essere messo da parte, zittito per un bene superiore. Quel giorno non aveva capito cosa volesse dire, ma ora lo comprendeva appieno. La sua anima sarebbe stata corrotta ma lo sarebbe stata anche nel caso avesse detto no e avesse proseguito il suo cammino verso casa coi suoi figli, da soli. L'avrebbe avuta sulla coscienza quella ragazza che poteva salvare e quell'uomo sapeva che l'avrebbe fatta sentire così, senza possibilità di scelta. Era una persona subdola ma intelligente, che sapeva manovrare le persone e aggirare ogni resistenza nel suo interlocutore. L'aveva messa in un vicolo cieco e qualsiasi strada ora lei avesse preso, sarebbe stata senza ritorno. "Chi siete?" - chiese infine, con un filo di voce, prima di decidere.

L'uomo si esibì in un inchino. "Vincent Copper, uno dei grandi signori dell'isola".

Demelza spalancò gli occhi, mentre nella sua mente appariva l'immagine di una strana ragazzina incontrata sul pontile di una nave quasi tre mesi prima. Eccolo, era lui l'uomo più potente della Jamaica. E l'aveva appena messa in trappola come fa un gatto col topo.

Guardò la ragazza di colore che, con occhi sgranati, la guardava come se lei fosse stata la sua ultima speranza.

E decise...

  
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