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Autore: Adeia Di Elferas    11/02/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quelle che sembravano solo voci, riguardo l'avvicinamento degli uomini di Giannotto, si erano invece dimostrate realtà. Più di un ricognitore aveva riconosciuto i soldati del francese e, ormai, sembrava che fossero solo in attesa di un ordine dall'alto per sferrare il loro attacco.

Quel fatto, assieme alla certezza della caduta di Imola, stava mettendo fretta a Caterina. Non le importava quasi più nulla dell'esito del Consiglio Generale di quel giorno, dato che era sicura che Forlì avrebbe dimostrato una volta di più il suo carattere capriccioso e insondabile, ciò che le occupava la mente, in quel momento, era altro.

Aveva appena incontrato il Capitano Rossetti, che le aveva riferito delle parole di Giovanni da Casale che al forlivese erano parse incomprensibili, ma che la Sforza aveva capito molto bene.

“Stasera o mai più.” aveva ripetuto il soldato, cercando di scrutare bene il volto della sua signora, come sperando di capire a cosa Pirovano si riferisse di preciso.

La Tigre, però, benché sapesse che il suo amante le stava facendo capire che, comunque fosse andato il Consiglio e tutto il resto, probabilmente dal giorno dopo si sarebbero trovati divisi, l'uno alla Cittadella e l'altra a Ravaldino, e, quindi, se non si fossero incontrati quella sera, non avrebbero più avuto altre possibilità di farlo.

“Ditegli che gli farò sapere io più tardi.” era stata la risposta un po' fredda che la donna aveva dato al Capitano.

Ci stava ancora pensando, mentre raggiungeva a passo svelto la stanza di Ottaviano, e si chiedeva se avrebbe o meno avuto modo di passare ancora qualche ora con quell'uomo che, in certi momenti, era stato capace di strapparla alla cupezza delle sue giornate, accettandola per quello che era, riuscendo a domare abbastanza bene tanto la gelosia quanto la sensazione di non averla mai davvero avuta come compagna di vita.

Quando la donna aprì la porta, senza annunciarsi, si trovò davanti il figlio in brachette da camera, che si aggirava senza uno scopo apparente tra il letto e la cassapanca aperta.

“Non sei ancora pronto?” gli chiese, sentendo già la rabbia montarle in corpo.

Il giovane, colto alla sprovvista, si voltò verso di lei, senza fiato. Non si era aspettato di vedersela arrivare in camera, tanto meno senza preavviso.

“Sbrigati.” intimò allora la Sforza, per scuoterlo: “Tra meno di un'ora sarai fuori da Forlì. Come credi di andarci, a Firenze? Scalzo e a petto nudo?!”

Il Riario non controbatté, affannandosi nella ricerca degli abiti che sua madre gli aveva fatto preparare proprio per quel viaggio. Sapeva che a lui erano stati destinati meno gioielli che agli altri fratelli, ma non si sentiva nella posizione di recriminare nulla. Anche se lui era il primogenito e, quindi, per legge, sarebbe dovuto essere anche l'erede delle sostanze della madre, aveva capito ormai da anni che la Tigre non gli avrebbe mai dato quel privilegio.

Mentre Ottaviano si vestiva il più in fretta che poteva, la donna lo osservò con attenzione. Era alto, e avrebbe potuto avere un fisico slanciato e potente, se non l'avesse già rovinato, a vent'anni, con il vino, l'indolenza e gli stravizi.

Quando si rese conto che le mani del figlio tremavano un po', rendendogli quasi impossibile annodare come si doveva le stringhe del camicione, per far più in fretta, la Sforza gli si avvicinò e se ne occupò personalmente.

Esterrefatto da quella che sembrava quasi una premura materna, il Riario la lasciò fare, guardandola di sottecchi, cercando di ricordare se mai, in passato, l'avesse mai aiutato a vestirsi. Pur andando parecchio indietro coi ricordi, gli esempi restavano molto scarsi.

Anche Caterina, inconsciamente, si era trovata a chiedersi quante volte, quando Ottaviano era piccolo, l'avesse vestito. Era un compito che lasciava sempre alle serve. Perfino Girolamo, a volte, si era preso cura dei figli cambiando loro i vestiti, accudendoli come pochi padri facevano.

Lei, invece, aveva sempre preso le distanze, andando ad acuire il senso di estraneità che spesso aveva provato per i figli nati dal primo matrimonio, specie per il primogenito.

Quando ebbe finito di sistemargli il camicione, prese di propria iniziativa il giubbone che aspettava sul letto. Era pesante, per via del carico di gioielli che portava con sé, e, quando glielo mise, la Leonessa non poté evitare di pensare che avrebbe preferito poter infilare una cotta di maglia sulle spalle del figlio.

“Con te non ho mai capito quale sia stato il mio errore più grave.” disse piano la donna, dopo averlo vestito di tutto punto: “Ti ho dato troppo pochi schiaffi o troppe poche carezze?”

Siccome la domanda non sembrava retorica, ma in attesa di una risposta seria, il Riario si morse il labbro, cercando di trovare qualcosa da dire. Nemmeno lui, però, sapeva quale fosse stato il vero errore di sua madre. Anzi, c'erano momenti, come quello, in cui si convinceva che la colpa di tutto fosse solo ed esclusivamente sua, perché era nato senza che la Tigre lo volesse e, da lì in poi, non aveva fatto altro se non rovinarle la vita con la sua presenza e le sue sconsiderate azioni.

“Forse avresti accettato di buon grado anche qualche schiaffo in più, purché ti dessi l'attenzione che meritavi, vero?” domandò la Contessa, questa volta non aspettandosi alcuna risposta.

Il figlio deglutì, sempre desideroso di dar voce ai suoi pensieri, ma impossibilitato a farlo da un groppo alla gola che gli toglieva il fiato.

“Avanti. Adesso andiamo. Dipintore ti aspetta...” concluse la Sforza, con un sospiro pesante.

La donna aveva già una mano sulla maniglia della porta, quando il figlio, che ancora non si era mosso, chiese, con un filo di voce: “Davvero avete intenzione di restare qui fino alla morte?”

Caterina non si era attesa una domanda simile proprio da Ottaviano, specie per il suo tono stupito, come se la semplice idea gli sembrasse assurda.

“Sì.” gli rispose solo, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.

“E perché?” anche in quel quesito l'unica cosa che si sentiva distintamente era la profonda incomprensione per quella scelta, quasi che per lui la madre fosse semplicemente impazzita.

La Tigre si morse l'interno della guancia. La faceva andare su tutte le furie pensare che Galeazzo, nemmeno quattordicenne, avesse capito perfettamente le motivazioni del suo gesto, mentre il suo primogenito, che avrebbe potuto essere il suo erede, non aveva la più vaga idea di cosa significasse difendere il proprio nome e il proprio onore.

“Se non lo capisci da solo – fece lei, greve, mentre apriva la porta, per chiudere una volta per tutte il discorso – allora è inutile che io provi a spiegartelo.”

 

Nicolò Tornielli sapeva che la Sforza stava lasciando la città proprio in quel momento, e trovava la sua sua decisione di andare a Forlimpopoli accompagnata dal figlio maggiore e dall'Auditore proprio mentre i forlivesi erano distratti dal Consiglio Generale fosse saggia.

Gli era stato detto che la Contessa doveva recarsi dal fratello per discutere gli ultimi dettagli della difesa, dato che ormai i francesi erano alle porte. Non c'era nulla di strano, quindi, in quella breve assenza da Forlì. Tuttavia era ovvio che, nel vederla uscire a cavallo così all'improvviso, tutti avrebbero creduto a una sua fuga, e, sentendo la spiegazione ufficiale, avrebbero subito pensato a una scusa, e la convinzione generale avrebbe finito per esasperare le tensioni, portando chissà a cosa.

Il Capo dei Magistrati cercò di non pensare più alla Contessa e a tutti gli azzardi che stava facendo in quei giorni e guardò con attenzione i cittadini che prendevano posto davanti a lui nel salone del palazzo Riario. Erano quattrocento rappresentanti di ogni ceto sociale, distinti per posizione e vestiario, in modo che fossero subito riconoscibili, ma comunque tutti dotati del medesimo diritto di parola.

Non appena fu certo che tutti fossero presenti, Tornielli si schiarì la voce, salutò i presenti, compresi i curiosi che, pur non facendo parte del Consiglio, si stavano accalcando tutt'attorno, e poi riassunse in fretta ciò che Alessandro Sforza gli aveva detto il giorno prima.

Sottolineò poi come – dalle ultime disposizioni che gli aveva fatto avere proprio la Tigre quella mattina prima dell'alba – se la città avesse deciso di combattere, la Contessa avrebbe messo al servizio della comunità e della comunità soltanto, duemila veterani.

Quell'ultimo inciso parve fare una certa presa sui membri del Consiglio, specie tra i cinque deputati del Corpo dei Contadini. Tuttavia, quando Tornielli fece le dovute precisazioni, l'interesse iniziò a scemare irrefrenabilmente, fino ad azzerarsi quasi del tutto.

“Prima di fornire concretamente questo aiuto – aveva infatti detto il Capo dei Magistrati – Madama vuole venire in chiaro per espressa testimonianza del vero animo che nutrono i forlivesi e della spontanea e comune determinazione.”

Nel vano tentativo di recuperare l'ascolto del pubblico, Tornielli fece un azzardo, dicendo che la Sforza aveva anche assicurato che, se la città si fosse schierata apertamente con lei, e non avesse fatto, invece, come gli indegni imolesi, allora oltre ai soccorsi promessi ne sarebbero arrivati altri, e che, in caso si fosse arrivati a trattare una pace coi francesi, lei non avrebbe firmato e accettato nulla senza prima consultare il Consiglio Cittadino.

Qualcuno dei quattrocento presenti cominciò a vociare coi vicini, e dopo poco un grande brusio si sollevò nella sala, rendendo a Nicolò impossibile continuare. Fece allora battere in terra per un paio di volte, dalla guardia che gli stava accanto, la mezza lancia e quel suono sordo gli permise di recuperare il silenzio, che però venne rotto da una domanda che arrivava dal fondo della stanza.

“E se invece decidessimo di non schierarci con lei?” aveva chiesto uno dei deputati.

“In tal caso – rispose a malincuore Tornielli – Madama vuole che sappiate che se non pensate di restarle accanto in modo costante, ma bensì siete più inclini a sostenere e poi accordarvi con il nemico a seconda delle circostanze, allora lei gradirà anche questo. E questo perché, se fatta ogni resistenza possibile, come di certo farà, dovesse morire, non vuole morire disgustata dai forlivesi, ma in buona pace con voi.”

I rappresentanti dei Contadini chiesero qualche minuto per discutere e poi il loro portavoce, facendosi avanti, disse: “Rimandiamo il parere definitivo agli Anziani della città. L'unica cosa che domandiamo è che nella Guardia Cittadina non si faccia più conto dei contadini, dato che la maggior parte di noi, con le proprie bestie, se n'è già andato altrove o lo farà presto, per scansare i pericoli presenti.”

Tornielli incassò quello che gli sembrava il preludio di una completa disfatta e poi, rivolgendosi a tutte le altre corporazioni, esclamò: “E dunque, consultatevi e datemi risposta!”

 

Caterina fece fermare quasi di colpo il suo stallone nero e poi, guardando in modo significativo l'Auditore, disse: “Qui ci dividiamo.”

Avevano lasciato Forlì da un po', tanto che la città si scorgeva appena alle loro spalle. La campagna, tutt'attorno a loro, era desolata e deserta, perfetta immagine delle disposizioni che la stessa Sforza aveva dato poco tempo addietro. I campi erano stati o bruciati o allagati e delle case era rimasto poco più che qualche rudere.

Dipintore annuì e poi, credendo di fare cosa gradita alla sua signora, soffiò: “Vi lascio un momento soli.”

Sia Ottaviano, sia la Tigre, avrebbero voluto dire che non era necessario, ma nessuno dei due volle mostrare al loro accompagnatore quanto fossero già lontani l'uno dall'altra.

Siccome, però, ormai l'uomo si era fatto da parte, madre e figlio non poterono evitare di scambiarsi un ultimo impacciato saluto.

La Contessa sollevò lo sguardo verso il suo primogenito, strizzando appena le palpebre alla luce plumbea di quel 12 dicembre. Sapeva che lo stava fissando in modo freddo, ma non riusciva a evitarlo. La sua mente, infida e crudele, le stava rimandando l'immagine di Girolamo a cavallo, che l'attendeva appena fuori Roma, per portarla con sé nell'Urbe. Ottaviano era vestito in modo meno vistoso, aveva un fisico meno prestante ed era anche più giovane, ma la scintilla di paura che attraversava le sue pupille era la stessa che aveva trafitto anche quelle del padre tanti anni prima.

Mettendosi a fissare le redini che stringeva in pugno, la Leonessa provò ad aprir bocca, ma senza riuscirvi. Avrebbe voluto dirgli che lo perdonava per tutto quello che le aveva fatto, soprattutto per il modo in cui aveva fatto uccidere Giacomo, ma sarebbe stata una menzogna, e non intendeva dire addio a suo figlio mentendogli.

Così, facendo del suo meglio per congedarsi da lui con una frase che non suonasse come un rimprovero o una recriminazione, la donna iniziò a dire: “Cerca di non...” ma le parole le morirono in gola, senza trovare un senso logico.

Ottaviano aveva chinato la testa. Solo in quel momento si rendeva conto che non avrebbe mai più rivisto sua madre e, anche se c'erano stati momenti in cui si era augurato che morisse, in quell'istante tutto ciò che avrebbe voluto sarebbe stato poter rimanere con lei, scoprire che lei in fondo non l'aveva mai odiato e che da quel momento in poi sarebbe cambiato tutto, tra loro.

Invece, non disse e non fece nulla.

Il suo baio diede un breve scossone e il ventenne si tenne con fatica in sella. Notò di sfuggita lo sguardo di biasimo della Tigre, che, evidentemente, era contrariata nel vedere il proprio figlio così poco abile nel cavalcare.

Dopo quel momento di impasse, entrambi sollevarono di nuovo lo sguardo, e, per la prima volta da anni, sembrarono trovare un punto di incontro. Senza saperlo, tutti e due stavano ripensando a quando, oltre dieci anni addietro, si erano corsi incontro all'indomani della vittoria sugli Orsi.

Forse, si disse Caterina, mentre in Ottaviano rivedeva il bambino che, in lacrime, le si era avvinghiato al collo, quello era stato l'ultimo momento in cui l'aveva sentito appieno figlio suo.

“Dipintore!” gridò la Sforza, con la voce che vibrava appena, facendo quasi sobbalzare sia il Riario, sia l'Auditore: “Siamo pronti, ora andate!” e, con quelle ultime parole, dando un colpo fin troppo forte ai fianchi del suo purosangue, la donna ripartì a gran velocità, lasciandosi alle spalle il figlio e il suo accompagnatore, ben decisa a non voltarsi nemmeno.

Ottaviano, che era rimasto come sempre spiazzato dai modi bruschi della madre, la fissò mentre si allontanava sollevando schizzi di fango, ma non provò né a seguirla, né a chiamarla. Aveva intravisto i suoi occhi lucidi, e sapeva che se n'era andata a quel modo solo per non fargli capire che, in fondo, anche per lei separarsi era un dolore.

 

Casa Numai era diversa dalla rocca che avevano lasciato. Assomigliava molto di più al palazzo in cui i Riario avevano vissuto da piccoli, con grandi stanze tutte collegate l'una all'altra, grandi tappeti stesi in terra e le pareti affrescate, calde e avvolgenti, molto diverse da quelle grezze e spesso ruvide di Ravaldino.

Bianca conservava perfettamente l'immagine degli ampi spazi dell'edificio in cui si trovava assieme ai figli, anche se, fin dal suo arrivo, era rimasta confinata in una stanzetta seminterrata, nascosta agli occhi dal mondo e rischiarata solo da un paio di candele.

Sia lei sia i fratelli non si lamentavano per quella sistemazione temporanea. Certo, era scomoda, e usare il secchio per i bisogni li metteva tutti in imbarazzo, facendoli sentire alla stregua di carcerati, ma tutti loro capivano l'importanza di restare nascosti. Perfino Giovannino, che pur era spaventatissimo dal buio, si stava facendo coraggio e, non lasciando mai la sorella, stava affrontando quelle breve reclusione come meglio poteva.

Stavano tutti in silenzio la maggior parte del tempo, e si permettevano due parole solo quando Luffo o la moglie entravano qualche minuto per portare loro del cibo, svuotare il pitale ed eventualmente accendere qualche nuova candela.

Era anche difficile tener conto dell'ora, se non addirittura del giorno, in cui si trovavano. La figlia della Tigre si era già trovata a pensare, più di una volta, cosa dovessero aver passato gli innocenti che sua madre aveva anni prima fatto rinchiudere nelle segrete della rocca. Pensare che quella reazione spropositata da parte della Contessa era dovuta in parte anche a una sua mancanza la faceva stare ancora peggio.

Quando la porta scattò, i figli della Sforza si rannicchiarono in un angolo, come avevano preso a fare sempre. Non avevano nulla da temere, o almeno così speravano, ma quel cigolio sommesso veniva interpretato dai loro nervi come un segnale di chiaro pericolo.

“Sono qui per riferirvi un paio di novità.” si trattava di Luffo, e, da come si era chiuso in fretta la porta alle spalle, era chiaro quanto fosse teso.

Bianca sentiva il respiro veloce di Galeazzo affianco a sé e la tensione di Giovannino, in braccio a lei. Anche se il piccolo non poteva davvero capire che stava accadendo, sembrava aver assorbito come una spugna l'ansia del fratelli.

Sforzino, che pur non aveva mai osato lamentarsi una volta per il poco cibo che il forlivese forniva loro, sperava quasi che si stesse per dare inizio al viaggio che li avrebbe portati a Firenze. In Toscana, pensava, avrebbero finalmente potuto riempirsi lo stomaco come si doveva.

Bernardino, invece, schivo, se ne stava un po' distaccato dagli altri, guardando di sottinsu Numai, come se si aspettasse da un momento all'altro l'arrivo di un tradimento da parte sua. Anche se sua madre aveva rassicurato tutti loro, ordinando di seguire tutte le direttive di Luffo, il Feo era diffidente per natura, e lo era ancora di più in una situazione tanto delicata.

“Vostro fratello Ottaviano è partito da poche ore – disse in fretta Numai, gli occhi cerchiati dalla preoccupazione e dall'insonnia di cui soffriva, da che aveva in casa i figli della Contessa – e adesso si sta tenendo un Consiglio Cittadino per decidere definitivamente la posizione della città.”

I ragazzi ascoltavano in silenzio e nessuno sembrava intenzionato a fare domande, perciò l'uomo proseguì senza interrompersi più.

“Poco fa è giunta notizia di un tentativo degli uomini di Giannotto di prendere Porta San Pietro con il tradimento. Le guardie si sono rifiutate e per il momento i guasconi si sono allontanati, ma non è detto che non tornino con le armi.” nelle parole di Luffo si avvertiva distintamente sia la paura, ma anche e soprattutto il disprezzo per i metodi dei nemici: “Vostra madre non è ancora rientrata e stiamo aspettando lei per prendere qualsiasi decisione, perché il suo amante...” il Consigliere si frenò un momento, rendendosi conto di aver parlato senza ragionare, ma, quando vide che nessuno dei figli della Sforza si era indispettito per la franchezza con cui si esprimeva, riprese: “Giovanni da Casale non vuole prendersi la responsabilità di ordinare un accentramento nelle fortificazioni e tanto meno un inseguimento dei nemici. Stiamo solo aspettando.”

“E riguardo noi?” chiese Bianca, dando voce al dubbio comune a tutti i suoi fratelli.

“Devo vedere come finirà questo Consiglio. Quando vostra madre tornerà, capiremo come...” il forlivese avrebbe voluto suonare sicuro di sé, ma di fatto nemmeno lui sapeva come sarebbe andata, ricordava solo il progetto iniziale e, così, per rassicurare anche se stesso, ripeté ciò che lui e la Leonessa avevano deciso tempo addietro: “Aspetteremo che i francesi siano in città, ma farò in modo che voi non siate in pericolo, durante l'uscita da casa mia. Seguirete la strada di cui vi ho già parlato e troverete i contatti di vostra madre che vi diranno come proseguire di lì in poi.”

“Va bene.” annuì la ragazza, deglutendo: “Va bene.”

Con un sorriso mesto, l'uomo li guardò uno per uno, soffermandosi soprattutto su Giovannino e poi, allargando un po' le braccia, quasi a scusarsi per non saper dire di più, sussurrò: “Torno di sopra, vi farò sapere se ci sono novità.”

 

Caterina era arrivata da meno di mezz'ora a Forlimpopoli. Era entrata un momento alla rocca, per salutare il fratello e poi gli aveva detto di non voler perdere tempo e di dover visionare subito le mura di cinta del paese e incontrare la popolazione.

Stava cavalcando assieme a un paio di soldati lungo il perimetro di cinta e poteva già costatare come i lavori di ristrutturazione fossero stati puntuali e precisi. Si congratulò con i responsabili e, poi, chiese di indire in fretta un Consiglio Cittadino.

Ci volle meno di un'ora per radunare i sudditi che ne facevano parte. La Sforza fu molto diretta, con loro, dicendo apertamente che, chi voleva, poteva andarsene, mentre chi era pronto a combattere per lei e per quella terra, avrebbe potuto prendere le armi alla rocca e o restarvi all'interno, o tornare a casa e prepararsi alla battaglia.

Senza aspettare dai forlimpopolesi una risposta univoca, la donna si congedò da loro e tornò da Piero.

Il giovane la stava aspettando, teso. Non si era aspettato di vederla arrivare da lui così all'improvviso e, sapendo dei venti che tiravano a Imola, temeva che fosse arrivata per annunciargli il peggio.

“Possiamo parlare un momento in un posto dove nessuno ci senta?” chiese lei.

Il Landriani annuì, senza parlare, trovando conferma dei suoi sospetti nel suo modo cupo di parlare, e la condusse nella sua stanza.

Caterina guardò con curiosità i pochi averi del fratello e apprezzò l'ordine che regnava nel suo alloggio, indice di un rigore di vita che per un soldato era indispensabile.

“Novità da Imola?” chiese Piero, abbassando gli occhi azzurri.

“Non ti è arrivato il mio dispaccio?” chiese la sorella, accigliandosi.

Il ragazzo scosse il capo ed entrambi pensarono che la staffetta dovesse essere caduta in un'imboscata.

“Maledizione...” sbuffò la Tigre, consolandosi solo al pensiero che nella lettera del giorno prima non aveva scritto nulla che i francesi non sapessero già.

“È successo qualcosa a mio padre?” chiese a quel punto Piero, non riuscendo più a trattenersi.

“No, no...” rispose immediatamente la Sforza: “Lui sta bene. Quando la rocca di Imola è stata presa, lui era ancora vivo e in salute. Di certo starà cercando di scappare in un posto sicuro.”

Il volto del giovane riprese colore, come se quella notizia gli avesse ridato un briciolo di speranza.

“I francesi arriveranno presto.” disse la donna, deglutendo rumorosamente: “Voglio essere sicura che tu sappia cosa stiamo per affrontare.”

Il Landriani non volle essere precipitoso, quindi la lasciò parlare. La sorella gli spiegò in modo anche troppo preciso i rischi che correva, nel restare al suo servizio, e insistette parecchio sul fatto che, se avesse deciso di andarsene e mettersi in salvo, non avrebbe perso la sua stima, né il suo affetto.

“Ti ho detto che rimarrò.” decretò lui, alla fine di tutto quel lungo discorso: “E non cambierò più idea.”

La Tigre ci mise qualche secondo per convincersi che non avrebbe trovato mai un modo per metterlo in salvo, se non ordinandogli di andarsene, ma non voleva farlo. Egoisticamente, saperlo al suo fianco in quella guerra impossibile da vincere, le infondeva coraggio e forza.

Così, annuendo in modo secco, prese a dargli una serie di consigli pratici per far sì che la rocca durasse il più a lungo possibile.

Solo alla fine, quando si rese conto di non aver altro da dire, sospirò: “Avrei voluto poter passare più tempo con te.”

“Anche io.” convenne lui, raddrizzando poi un po' la schiena, nel dire: “Ma sono felice di averti servito con dedizione e di potermene andare da uomo.”

Caterina fece un cenno con il capo, che il fratello faticò a interpretare, e poi gli rivelò: “Ho fatto uscire i miei figli da Ravaldino. Spero che vengano messi in salvo. Il piano sembra buono, ma possono accadere così tante cose...”

Piero non le chiese dove fossero diretti, perché sapeva quanto lei che, più cose avesse saputo, più ne avrebbe potute rivelare, in caso di cattura e tortura. Era già stato un azzardo, da parte della Contessa, condividere con lui quelle poche frasi.

“Perdonami...” fece lei, arrivando alla medesima conclusione: “Non voglio metterti in difficoltà. È solo che vorrei qualcuno con cui...”

Non riuscì a terminare il pensiero, perché l'insieme di pressione e stanchezza e paura che provava da settimane, si concentrò nel suo petto nel pensare una volta di più che non avrebbe mai rivisto i suoi figli, togliendole il fiato.

Piero, senza dire altro, l'abbracciò in silenzio, lasciandole qualche minuto per calmarsi.

Quando la sentì tornare a respirare normalmente, sciolse la stretta e, guardandola in viso, le mormorò: “Ti voglio bene.”

La Tigre si schiarì la gola e poi, squadrando a fondo il volto del fratello, ribatté: “Assomigli tantissimo a nostra madre.”

Il Landriani non trattenne un sorriso e notò: “Anche tu. In tanti modi.”

Caterina avrebbe voluto fermarsi di più, parlare con lui, bere qualcosa assieme, trascorrere qualche momento ancora di pace. Però sapeva di non potersi permettere un simile lusso.

“Devo tornare a Forlì.” disse, con un filo di voce.

“Ti accompagno al portone.” si offrì il giovane.

Percorsero la strada dalla stanza all'ingresso della rocca in completo silenzio. Di quando in quando si scambiavano un'occhiata, ma non osavano fare altro.

Solo quando furono in prossimità del portone, Caterina prese con urgenza la mano del fratello e tentò, per l'ultima volta: “Scappa. Salvati.”

“Ti ho già detto che questo è il mio posto. Morire combattendo per te è la cosa migliore che potesse offrirmi la vita.” rispose lui.

La Sforza avrebbe voluto spiegargli che non era così, che era ancora così giovane che avrebbe potuto, anzi, che avrebbe dovuto dimenticarsi tutto quanto e vivere, trovarsi una donna, una che stavolta fosse solo sua, e diventare un marito e un padre.

E, invece, con un sospiro tremulo, ribatté solo: “Nostra madre sarebbe orgogliosa di te, così come lo sono io.”

Piero annuì e poi, ricambiando un po' la stretta alla mano, concluse: “Sappi che in me hai sempre avuto un alleato fedele.”

“Lo so.” fece eco lei e, con un sospiro tremulo, accettò le redini del suo stallone, che le venivano porte da uno degli stallieri della rocca.

Continuando a fissare il fratello, dicendogli addio una volta per tutte con quel silenzio, la Contessa montò in sella. Sollevò una mano a mo' di saluto e poi, voltandosi di scatto, diede di tacco al purosangue e attraversò il portone, passò sopra al ponte e lasciò per sempre Forlimpopoli.

 

 
   
 
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