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Autore: Sheep01    12/02/2020    2 recensioni
[IT, Fix-It fic]
Aveva fatto i conti con la possibilità che avrebbe potuto restare intrappolato in quelle fogne per sempre. Il suo corpo, le sue ossa, a sgretolarsi nel ventre di Derry. Per sempre.
Ma non era stata Beverly a metterli al corrente che chi moriva a Derry era destinato a non morire mai veramente? Doveva essere vero perché, in qualche universo alternativo a quello, nessun Eddie avrebbe mai potuto sopravvivere a una ferita del genere...
Eppure... eppure...
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 6

 

Richie correva come avesse le ali.

Non avrebbe mai creduto di poter andare tanto veloce, i piedi che a malapena toccavano terra. La polvere che si gonfiava alle sue spalle, le gambe a mulinare come ruote: nella sua testa funzionava immaginarsi come un beffardo Road Runner che avrebbe dato del filo da torcere ai suoi aguzzini. Rendeva tutto meno spaventoso. E a Richie non piaceva avere paura.

Bowers e la sua cricca si erano preparati un appostamento quel giorno. Lo avevano aspettato fuori da scuola, per l'intervallo e, dopo essersi presi la briga di spargere ai quattro venti il contenuto del suo zaino, avevano deciso di divertirsi un po' con lui. Richie però non poteva permetterlo. Indossava un paio di occhiali nuovi di pacca: sua madre non gli avrebbe mai perdonato, se per l'ennesima volta li avesse persi o distrutti. Non aveva idea dei sacrifici che avevano dovuto affrontare per permettersi il lusso di quegli occhiali? Come se fosse colpa sua, se madre natura lo aveva reso praticamente cieco come una talpa!

Perciò correva. Correva immaginando di essere un cartone animato, sperando di essere veloce come quello stupido uccello.

Virò al volo sul retro della scuola ancora deserto, i ragazzi tutti nel cortile di fronte a consumare la merenda. Sentì le voci di Bowers e degli altri chiamarlo con tono indolente: 'tanto ti prendiamo Quattrocchi! Tanto ti prendiamo, secchione del cazzo.'

I polmoni bruciavano tanto e forse anche un po' gli occhi, che avevano preso a lacrimare (per il vento, certo, solo per il vento), quando per poco non andò a scontrarsi con qualcuno che stava camminando nella direzione opposta. Fece appena in tempo a scorgere la sorpresa sul suo volto, prima di rendersi conto che si trattava di quel ragazzino ebreo che aveva intravisto qualche volta a educazione fisica.

«Scappa», si ritrovò a dirgli senza nemmeno prendere in considerazione l'idea che avrebbe potuto essere un buon diversivo alla caccia di Bowers e dei suoi amici teppisti. Un ragazzino pallido, pulito e sistemato come per una festa e per di più ebreo? Uno svago più che succulento, in mancanza del quattrocchi che li costringeva a correre un po' troppo velocemente. Avrebbe potuto essere abbastanza egoista da fregarsene per aver salva la pelle, ma Richie Tozier non era egoista. Nè mai lo sarebbe stato. Pregio o difetto questo non avrebbe saputo dirlo nemmeno da adulto.

Il ragazzino si limitò a fissarlo, stranito e immobile, come faticasse a realizzare quello che stava accadendo. Ma quando le voci di quegli psicopatici arrivarono a riecheggiare, come un canto di morte, da dietro l'angolo della struttura, Richie lo afferrò per un braccio, in corsa, e se lo portò via a forza.

«Sei sordo, scemo o cosa? Ho detto scappa! Corri o quelli ci ammazzano.»

E così fecero. Ripresero a correre. Correre entrambi come avessero un branco di iene affamate alle calcagna.

«Beep-Beep!» esclamò Richie, in perfetto stile Road Runner, mentre li seminavano. Una risata, forse isterica, che gli scaturiva dalla gola.

Quando furono certi, estremamente certi di averli persi, si fermarono.

Il fiatone, i polmoni in fiamme e i volti arrossati, esausti ma eccitati come avessero appena scampato il pericolo del secolo. Non che Richie pensasse di essere al sicuro: probabilmente lo avrebbero aspettato fuori alla fine delle lezioni, ma a quello che avrebbe fatto da lì a qualche ora, ci avrebbe pensato poi.

«Tu...» esalò il ragazzetto che nonostante la corsa forsennata non aveva che qualche ciuffo fuori posto, come se l'universo tentasse di proteggerlo dal disordine del mondo, «tu sei Richard Tozier, giusto?»

«Come?» si issò Richie, cercando di recuperare un contegno, asciugandosi la fronte con la manica della felpa che indossava, «Mi conosci?»

«Conosco quasi tutti quelli del primo anno.»

«Cosa sei, una specie di psicopatico che tiene un registro?»

«No», gli rispose, senza dare segno di essersela presa per l'insulto gratuito, come fosse una domanda del tutto legittima, «ma so ascoltare quando fanno l'appello.»

«Oh... devi avere una gran bella memoria per ricordartelo. Io non lo so come ti chiami tu.»

Un invito a comunicarglielo, in modo del tutto non convenzionale.

«Stanley. Stanley Uris», gli disse e Richie lo scrutò da capo a piedi come avesse bisogno di imprimersi nel cervello un sacco di informazioni.

«Ah, Stanley Urina. Ora mi ricordo. Non è così che ti chiamano quelli più grandi?»

Il ragazzino si limitò ad annuire: «Anche se preferisco quando Bowers mi chiama Ammazzacristiani», ci tenne a precisargli.

Richie lo fissò con tanto d'occhi e poi sorrise. Riconobbe un suo simile. Quell'Uris già gli piaceva.

«Se ti chiamo Stan va bene uguale?»

«Chiamami come ti pare.»

«Va bene: Come ti pare

 

***

 

«Come ti pare...» mormorò Richie, prima di riaprire gli occhi e rendersi conto di avere il collo incriccato nonché un rivoletto di saliva che gli colava giù dalle labbra.

Lo scomodissimo sedile dell'auto e il rumore costante del motore lo trascinarono rapidamente fuori dal sogno per catapultarlo nella realtà.

«Che hai detto?»

Volse lo sguardo per ritrovare Eddie alla guida della sua auto. Si erano scambiati di posto all'ultima stazione di servizio in cui si erano fermati per rifornimento; doveva essersi addormentato senza rendersene conto.

«C-che ho detto?» cercò di rimettersi seduto dritto, di nuovo, massaggiandosi il collo. Non aveva più l'età per quel genere di cose, aveva decisamente bisogno di fare una capatina dal suo osteopata di fiducia.

«Non lo so, hai farfugliato qualcosa di incomprensibile, mentre ti sbavavi sulla camicia.»

«Ah quello: sognavo di venir inseguito da un branco di uomini superdotati. Un sogno tanto attraente quanto terrificante.»

«Grazie per avermene reso partecipe.»

«Terrificante perché ti assomigliavano tutti, sai...»

Eddie gli rivolse uno sguardo di morte, prima di tornare diligentemente a guardare la strada.

«Dove siamo?» gli chiese allora, stropicciandosi il viso per permettersi di accantonare il sogno.

Stan.

Non gli capitava spesso di pensare a Stanley, tanto meno sognarlo. Ma da quando Eddie aveva deciso di intraprendere quel viaggio, potenzialmente suicida, verso Atlanta, il pensiero se ne restava lì sospeso, deciso a tormentarlo con tutta una serie di trucchetti mai usati prima.

Un ricordo, camuffato da sogno. Era andato davvero così il loro primo incontro? A parte qualche dettaglio edulcorato dal mondo onirico, probabilmente sì. Lo ricordava, nitido come fosse successo solo il giorno prima.

«Non lontani. Un paio d'ore ancora. Minuto più, minuto meno.»

Si domandava spesso se Stan gli mancasse.

«Scommetto che stai mantenendo una velocità di crociera costante per non sgarrare di quel minuto in più.»

Poteva mancargli qualcuno che non aveva più rivisto per ventisette anni?

«Con le dovute precauzioni, sì, Richie.»

A giudicare dalla sensazione di languida malinconia che gli aveva scatenato il sogno di poco prima...

«E quanto ti farebbe incazzare quel minuto in più: ogni tanto mi chiedo come sarebbe vivere nella tua testa, Eds.»

… sì. Gli mancava.

«Non sono sicuro ti piacerebbe scoprirlo.»

Allungò istintivamente una mano, per raccogliere quella di Eddie, posata distrattamente in grembo.

E se fosse successo a Eddie? Di non risvegliarsi mai più. Sarebbe riuscito a sopportare una vita intera, sapendo di non poter mai più rivedere Eddie?

«A me interessa sempre sapere quello che pensi.»

Quante volte se lo era chiesto. Quanti incubi a ricordarglielo.

La terribile sensazione di come si era sentito quel maledetto giorno di qualche mese prima. Eddie che perdeva tutto quel sangue, Eddie, al quale scivolavano via colore ed energie, lentamente, inesorabilmente. Gli occhi sempre meno vigili che andavano spegnendosi. Occhi vacui che lo fissavano come se non riuscissero più a vederlo, a vederlo veramente. Le mani viscide del suo stesso sangue, mani fredde, gelide, mani di un uomo morto. Ricordò di essere stato trafitto da un dolore ben più atroce di quello di una lama nel ventre. Come se qualcuno gli stesse strappando il cuore dal petto.

«E tu non me la racconti giusta. Sicuro di stare bene, Rich?»

Non sarebbe riuscito a sopportarlo.

«Sì, Spaghetti. Se mi stessi insultando mentalmente lo vorrei sapere... è fastidioso doverselo solo immaginare, ti pare?»

Non era sicuro sarebbe mai riuscito a superarlo.

«Per chi mi hai preso? Preferisco insultarti a voce alta, dove starebbe il divertimento, altrimenti?»

Forse non era ancora riuscito a superarlo. A superare del tutto quella sensazione di smarrimento. A superare il terrore, anche solo del ricordo, di aver creduto di averlo perso per sempre.

«Grr...» gli fece un verso di scherno, intrecciando le dita alle sue, godendosi la sensazione, aggrappandocisi tenacemente.

Eddie era lì. Al suo fianco. Ed aveva le mani calde.

 

***

 

C'era decisamente troppa ressa nel corridoio della scuola, per essere solo le otto del mattino.

Richie aveva rincorso Stan, affiancandolo per le consuete chiacchiere mattutine, prima di esser separati da classi diverse, quando si erano accorti che, da quella parte, non si passava per niente: un capannello di alunni e qualcuno che li intimava di stare alla larga, di fare spazio, di fare aria.

Quando finalmente i curiosi cominciarono a disperdersi, Richie allungò il collo, riuscendo a individuare il motivo di tanto clamore: un ragazzino, che sembrava molto più piccolo della loro età se ne stava seduto pallido pallido contro al muro. Dalla gola gli usciva un sibilo che non aveva mai sentito in vita sua. Un risucchio, un fischio, come se la trachea non fosse che una sottilissima cannuccia che faticava a regalare aria ai suoi polmoni.

Di fianco a lui un altro di quelli nuovi, del primo anno. Richie ancora doveva imparare i nomi di quelli che non conosceva dalle elementari.

Guardò Stan, che sicuramente era più informato di lui.

«Bill, che cosa è successo?» Stan non lo deluse nemmeno questa volta.

«S-S-Stanley, c-c-ciao.»

Ma che diamine di problemi avevano quei due? Uno che risucchiava aria come in apnea e l'altro che pareva avere la lingua annodata a un ferro arroventato.

«N-n-niente di g-grave. S-solo un p-p-piccolo incidente. F-forza E-Eddie, un altro tiro.»

Vide il ragazzino accostarsi un piccolo oggetto di plastica fra le mani tremanti e spruzzarsi in gola qualcosa che poteva essere lacca o acido, Richie non riusciva a capirlo.

Il respiro del ragazzino sembrò tutto d'un tratto meno teso, sibilante. Persino il suo viso sembrò rilassarsi dopo quella spruzzatina.

Che fosse un concentrato di serenità in bottiglietta?

Vide il famoso Bill agganciare il suo braccio e aiutarlo a rimettersi in piedi.

«V-va m-m-meglio, E-E-Eddie?»

Il ragazzetto annuì debolmente, prima di posare uno sguardo sugli ultimi spettatori rimasti ad assistere a quel fuori programma. In un misto di curiosità e timore.

Richie intercettò l'occhiata di Stan che sembrava supplicarlo di non dire stronzate, e per un istante ci riuscì egregiamente, prima di tornare a guardare quel duo del tutto singolare. Lo spilungone dall'aria protettiva con la lingua molle e il bimbo coi polmoni a nocciolina dagli occhi da cerbiatto spaurito.

«Un'altra ordinaria mattinata alla scuola media di Derry!» esclamò, suscitando la perplessità dei presenti.

«Richie...» lo ammonì Stan.

«Meglio questo che la lezione di matematica comunque, no?»

«Richie!»

Sorrise, tronfio della sua ignobile battuta e incrociò lo sguardo di Eddie. Per un istante, leggero come un refolo di vento e più rapido di un battito di ciglia, il suo cuore ebbe uno strano sfarfallio e niente di lui riuscì a ignorare quanto fosse carino. Carino, carino. Proprio... carino.

 

***

 

«Sei sicuro sia questa?» Richie aveva allungato lo sguardo su per il vialetto di quella deliziosa villetta a due piani. Un viale alberato, a fare da cornice idilliaca a un posto da favola.

Strade pulite, giardini curati, alberi potati di fresco, rigogliosi ma ordinati.

Un posto perfetto per Stan.

Un posto che urlava Stan a gran voce, a dirla tutta.

Eddie annuì e si slacciò la cintura di sicurezza, spegnendo il motore della macchina. Non era meno agitato di lui, questo poteva dirlo. Era sicuro avesse sbagliato strada di proposito almeno un paio di volte prima di inforcare la giusta diramazione del navigatore. Come a prolungare il più possibile il momento in cui avrebbero dovuto affrontare definitivamente il motivo per cui avevano fatto tutta quella strada.

Era stata una buona idea? E se la moglie di Stan non fosse dell'umore adatto? Se li avesse presi a male parole? Se peggio, si fosse messa a piangere? Non era bravo a consolare le persone in lacrime. Non sapeva nemmeno come gestire se stesso, in lacrime!

E se... non avesse abitato più lì? Per un imbarazzante momento, Richie lo desiderò ardentemente: nessuna famiglia Uris? Mi scusi, ci siamo sbagliati. Nessuna informazione su dove sia finita la precedente proprietaria? No? Peccato, grazie comunque e scusi per il disturbo.

Eddie però era già sceso dall'auto e già indirizzato al vialetto di casa. Si fermò solo per voltarsi e aspettare che Richie si decidesse a fare il passo successivo. Senza spronarlo a muoversi, né mettergli fretta; in paziente attesa.

Si prese tutto il tempo per impedire alle sue mani di tremare, di recuperare un'espressione dignitosa e infine di scendere dalla macchina senza farsi prendere da un attacco di nausea immotivato.

Stan era già belle che morto, defunto, trapassato. Che altro avrebbe potuto succedere... di peggio?

Raggiunse Eddie che lo guardava come si osserva un ragazzino a cui tocca affrontare il primo giorno di scuola.

«Non sei costretto a venire con me, lo sai questo vero?»

Allora Eddie era ben consapevole di avercelo trascinato lui in quella magagna. Se non altro, lo ammetteva!

Si rimproverò però subito di aver partorito un pensiero tanto maligno. Dopotutto aveva deciso in totale autonomia di seguirlo, spacciando la sua codardia per altruismo. Come se Eddie avesse bisogno del suo sostegno per affrontare quel viaggio.

Se lo era ripetuto così tante volte che aveva finito per crederci, quando in realtà quello ad aver bisogno di sostegno era sempre stato lui.

Ci aveva già pensato a quella sottospecie di pellegrinaggio, a raggiungere Stan, ma non ne aveva mai avuto il fegato, così come non ne aveva avuto mai per telefonare con più costanza a Eddie nei mesi trascorsi o anche solo andare a trovarlo a New York, come gli aveva promesso.

Due delle persone a cui aveva tenuto più di qualsiasi cosa, durante gli anni felici della sua infanzia, che venivano sfacciatamente, pavidamente snobbati, per mesi.

Richie Tozier aveva ancora molta strada da fare, per riuscire a sconfiggerle tutte, quelle sue paure.

«Non ho fatto certo tutta questa strada per aspettarti in macchina, mentre fai gli occhi dolci alla vedova Uris.»

«Se ti azzardi a fare anche solo una stupida battuta davanti a lei...»

«Ma per chi mi hai preso? Non faccio mica il buffone di lavoro», lo prese sottobraccio, trascinandoselo dietro, come fosse sua iniziativa quella di affrettare i tempi.

Eddie lo seguì, un po' recalcitrante all'inizio e poi sempre più determinato. Quando furono di fronte alla porta d'ingresso restarono entrambi immobili a fissare il campanello, come avesse i denti.

«Forza, fallo tu», Eddie.

«Perché io? Fallo tu», Richie.

«Ho un improvviso déjà-vu di noi due di fronte a una porta.»

«Dici che Patricia Uris assomiglia a un volpino di Pomerania?»
Eddie lo guardò storto.

«Okay, lo faccio io.» Eddie allungò una mano per suonare, ma...

«Posso aiutarvi?» una voce alle loro spalle li fece trasalire come nemmeno il lamento di uno zombie marcescente.

Si volsero entrambi con uno scatto quasi comico, trovandosi di fronte una donna.

Sulla quarantina, capelli chiari raccolti in una coda approssimativa, aria delicata, minuta ma solida. Abiti da lavoro, ginocchia sporche di terra, le mani guantate a stringere delle erbacce.

Richie balbettò qualcosa, straordinariamente a corto di parole. Grazie al cielo Eddie fu più rapido a uscire da quell'imbarazzante impasse.

«Cercavamo... Patricia Uris?» azzardò, non del tutto sicuro si trattasse semplicemente di una vicina o qualcuno che stava lavorando in giardino.

«Sì?» rispose, «sono io.»

Aveva un bel sorriso. Sembrava una persona gentile, pensò Richie. Non si sorprese affatto di affiancarla all'immagine che aveva di Stan e di non vederla stonare affatto, in quel contesto. Fu di nuovo travolto da quell'attacco di malinconia inarrestabile.

Cercò di trovare le parole, che Eddie anticipò, ancora una volta.

«Salve Patricia», lo sentì esordire con spontaneità, «Mi chiamo Edward. Kaspbrak e lui è Richard Tozier».

Vide la donna indugiare incuriosita sui loro visi, indecisa se fossero dei semplici scocciatori o si trattasse di qualcosa di serio, ma l'occhiata smarrita lentamente si trasformò in consapevolezza.

«Oh...» disse e poi si guardò attorno, come si aspettasse di veder sbucare fuori qualcun altro, finendo per tornare su entrambi, in particolare proprio Richie.

«Non avevo mai creduto a Stan quando mi diceva di conoscerti», disse. La voce si era lentamente incrinata, una voce che sapeva di troppi pianti già consumati.

«Ti ha parlato di me... ?» domandò Richie, incredulo a quella rivelazione. Stan aveva ricordato? Per ventisette anni?

«Mi ha parlato di te e mi ha parlato di Bill Denbrough...» mormorò, «di te per via delle pubblicità sui tuoi spettacoli mentre di Bill ha tutti i romanzi... mi raccontava di aver passato l'infanzia a Derry... assieme a un gruppo di amici che...» lanciò uno sguardo a Eddie, «di te non mi ha mai parlato però.»

«Non è una novità, Patricia, nessuno si ricorda mai di Eddie» lo prese in giro, cercando di alleggerire i toni di quella conversazione già di per sé, piuttosto surreale.

Eddie decise di soprassedere in silenzio.

«Immagino che siate qui perché avete saputo... quello che è successo a Stan...», fece un vago cenno con la mano, come non riuscisse a continuare.

«Sì, lo abbiamo saputo», disse Eddie.

«Non sono sicura di potervi dare una spiegazione... plausibile a quello che è successo.»

«Non siamo qui per delle spiegazioni, volevamo solo conoscerti.»

La donna annuì, rassegnata, ma non arrabbiata, mesta ma affatto ostica. Qualsiasi spiegazione si fosse data al suicidio del marito, di certo era ben lontana da tutto quel buio e quel terrore che aveva dominato le loro, di esistenze. Richie decise che si sarebbe personalmente preoccupato che continuasse a restarne fuori.

 

La casa di Stan sembrava ormai un santuario più che un'abitazione vissuta.

Molti dei mobili erano stati spostati, altri coperti con teli bianchi.

Gli oggetti d'arredamento però erano ancora lì, a fare bella mostra di sé, come aggrappati ad una realtà che faticavano ad abbandonare. Fotografie, libri, vecchi dischi in vinile, souvenir dai paesi del mondo e quadri.

Richie fece scorrere lo sguardo sulla collezione di libri nella vetrinetta in salotto. Patricia non aveva mentito: Stan aveva tutti i libri di Bill. Tutti libri che Richie invece non aveva ancora mai letto. Non era esattamente un fan del genere di Denbrough.

Andò a raggiungere Eddie che si era accomodato sul divano, quando la donna tornò con un paio di tazze piene di caffè bollente.

«Scusate l'attesa, ma alcune cose le avevo già sistemate negli scatoloni... fra cui la macchina del caffè.»

«Non dovevi scomodarti... sei stata molto gentile», intervenne Eddie, recuperando sia la propria tazza che quella di Richie.

Patricia si sedette loro di fronte, sfregandosi i jeans logori con le mani, evidentemente nervosa.

«Siete i primi amici d'infanzia di Stan che conosco...» si ritrovò a dire, guardandoli entrambi con aria un po' spaesata ma altrettanto curiosa, «mi parlava di quel periodo come di qualcosa di meraviglioso ma che per qualche motivo aveva... rimosso.»

Richie la osservò a lungo come aspettandosi chissà che rivelazione, ma tutto quello che identificò fu la stessa curiosità per la vita di Stan. Quella che c'era stata prima di Derry e quella dopo Derry. Come fossero due catene che avevano solo bisogno di essere saldate di nuovo assieme.

«Abbiamo avuto i nostri motivi per rimuovere gran parte di quel periodo», disse Richie, senza quasi rendersene conto. Eddie si volse a guardarlo vagamente in allarme, «ragazzetti pieni di brufoli e insicurezze con la voce che è un concentrato di sgradevoli sbalzi ormonali? Ew. Anche se Stan era quello meno affetto dalle piaghe della pubertà di certo non ne è stato graziato.»

Patricia sembrò gradire quella risposta e si lasciò andare a un accenno di risata.

«Penso gli sarebbe piaciuto rivedervi...» mormorò.

«Non ne sono così sicuro», rispose di nuovo, «il giorno in cui è partito da Derry si è preoccupato di farci sapere quanto ci odiasse.»

«Richie...» arrivò puntuale, il rimprovero di Eddie, che non poté far altro che abbandonarsi un po' sul divano, facendo cenno alla donna di non starlo a sentire.

«Proprio una cosa che Stan avrebbe potuto dire», confermò però lei, a sorpresa.

«Vuoi dire che quel suo sarcasmo incomprensibile e fuori luogo gli è rimasto? Stan... l'Uomo. Così lo chiamavano, perché a tredici anni sembrava già ne avesse quaranta.»

«Oh sì... non avrei saputo descriverlo meglio.»

Richie sorrise appena. Dunque Stan non era cambiato poi molto con il passare degli anni. Come avrebbe potuto? Già più maturo della sua età, già avanti, come consapevole di dover anticipare i tempi, perché la sua vita si sarebbe interrotta troppo rapidamente.

«Quindi stai traslocando», le domandò, per impedire al suo cervello di partire per la tangente, di lasciarsi travolgere dalla tristezza.

«Più o meno», disse Patricia, guardandosi attorno mestamente, «in realtà non abito più in questa casa da mesi, ci torno ogni tanto per tenerla in ordine per via dei... bè, sapete... le visite dell'agenzia immobiliare. Quando troveremo un acquirente mi deciderò a portare via tutto quello che voglio tenere. Ma non è facile capire cosa voglio tenere».

Richie e Eddie la guardarono con aria interrogativa, anche se Richie aveva una vaga idea di quello che volesse dire.

«Questo posto mi ricorda Stan ovunque», la sentì aggiungere, «è stata la prima vera casa... che abbiamo mai avuto. Ci siamo cresciuti insieme... qui dentro. Abbiamo fatto progetti, cercato di avere un figlio che non è mai arrivato. Ma non riesco... non riesco più a viverci da quando... quando...».

«È tutto okay, Patricia.»

«No, non è tutto okay. Non sarà mai più tutto okay», disse senza astio nella voce ma con uno sguardo che raccontava tutto il dolore provato, «ma ho bisogno di ricominciare, da qualche parte. Liberarmi di qualcosa, per poterlo fare. Non finirò la mia vecchiaia con mio marito e questo è un fatto. L'unica cosa che posso fare è tenermi stretto ciò che di bello c'è stato e liberarmi di quello che mi terrorizza», fece un cenno alla casa, «salire i gradini di quella scala per arrivare al bagno mi terrorizza. Non voglio più dover affrontare una cosa simile. Non posso permettere che il terrore di chiudere gli occhi mi porti via i ricordi migliori che ho di Stan.»

Richie serrò le labbra. Le parole di Patricia gli erano arrivate dritte come un pugno ben assestato nello stomaco. Liberarsi del terrore, conservare le cose migliori per poter andare avanti. Tutte cose di cui nemmeno Stan era riuscito a liberarsi, prima di quel fatidico giorno del bagno.

Quante notti Richie stesso si era svegliato nel bel mezzo della notte con un grido, bloccato in fondo alla gola? Quante volte aveva dovuto rivivere, di nuovo, la paura di quella lunga notte, nelle fogne di Derry? Vedere Eddie morire, notte, dopo notte, dopo notte.

Le volte che aveva raccolto il telefono per poterlo sentire e assicurarsi che erano solo incubi. Le volte che lo aveva rimesso al suo posto per lo stesso motivo.

La paura. La paura che nonostante tutto continuava a dominare la sua vita. Quella stessa paura che Stan si era preoccupato di annientare in quelle poche, precise parole nella sua lettera d'addio.

La paura di affrontare la morte stessa di Stan. Un momento che aveva accantonato per così tanto tempo. E che adesso sembrava una cosa un po' meno gravosa anche solo decidendo di affrontarla e parlarne, una volta per tutte?

«Spero conserverai tutti quei manuali sull'ornitologia. Credo che Stan sarebbe disposto a tornare solo per fartela pagare per un affronto simile», disse, senza starci troppo a pensare.

Patricia che ancora indugiava col pensiero sulle ultime considerazioni, tornò a guardarlo e scosse la testa con un sorriso.

«Vi andrebbe di raccontarmi un po' voi di Stan, adesso?»

«Quanti giorni hai a disposizione?»

 

***

 

«Sai che dovresti fare?», Richie aveva scovato Stan, seduto sul retro della sinagoga, quando ormai la cerimonia si era esaurita da un pezzo, «Incorniciare il tuo discorso fuori programma al Bar mitzvah di oggi e appenderlo in camera.»

«Non sono in vena per il tuo umorismo in questo momento», lo intercettò, lanciandogli uno sguardo affranto.

«Invece è proprio ora che dovresti accoglierlo, Stan, sei stato spettacolare là dentro.»

«Già, proprio spettacolare... sono partito per la tangente e mi aspetto una sfuriata incredibile da mio padre quando tornerò a casa stasera.»

«Ma ne sarà totalmente valsa la pena: il giorno in cui Stanley Uris ha tirato fuori le palle di fronte a una cinquantina di fedeli.»

Richie gli si era seduto accanto, levandosi il Kippah, che aveva tenuto sul capo durante tutta la cerimonia, facendolo roteare su un dito solo.

«I tuoi discorsi sono sempre sull'orlo della blasfemia, te ne rendi conto, sì?»

«Può darsi, un giorno finirò su tutti i giornali per aver detto qualcosa di sbagliato, ma sai come si dice: bene o male, purché se ne parli.»

«Non contare su di me quel giorno.»

«Oh, non rovinare così l'immagine che ho di te in questo momento, Stanny. Sei stato il mio eroe per ben cinque minuti!»

Stan sorrise con un angolo della bocca, alzando gli occhi al cielo.

«Non lo so se è stato eroismo Richie, ma sentivo di doverlo fare. Non ti capita mai di... esplodere, perché ti sei tenuto dentro troppe cose tutte insieme? Alla fine strabordano e non puoi far nulla per trattenerle.»

Richie gli lanciò un'occhiata curiosa, come se non riuscisse a riconoscere Stan in quel discorso. Lo Stan che si preoccupava sempre di mantenere la calma, che calibrava le parole, che non si lasciava mai troppo andare a sbalzi d'umore imprevedibili. L'exploit di cui si era reso protagonista quel pomeriggio era ciò che di più lontano ci si potesse aspettare da lui, eppure era successo. Stan aveva preso il coraggio a due mani e cacciato fuori tutto quello che non era mai riuscito a dire, a suo padre, alla comunità tutta, forse persino a se stesso.

«Non saprei, dico sempre tutto quello che mi passa per la testa, lo sai.»

Stan ricambiò il suo sguardo, lasciandogli intendere che non era proprio certo di poterla accettare come spiegazione.

«Tutte le cavolate che ti passano per la testa, sì. Ma lo fai... mai per le cose serie, Richie?»

«Che vuoi dire?»

«Ti è mai scappato qualcosa che non volevi dire?»

Richie ci rifletté su per qualche istante, la consapevolezza di avere un sacco di cose trattenute dentro quella sua Boccaccia, sotto strati di cazzate senza contegno alcuno.

«Tipo quello che ho detto a Bill, su suo fratello, qualche giorno fa?»

«Tipo quello, sì...»

«Ma quello volevo dirlo. Era l'unico modo per far capire a quel lingua molle che ci saremmo fatti tutti sbudellare in modo splatter se avesse continuato a spingerci nelle fauci di quel mostro.»

Per colpa sua adesso il gruppo si era disintegrato. Ben era stato sfregiato e Eddie era finito all'ospedale con un braccio rotto. Per quanto tempo non lo avrebbe rivisto?

«Allora pensa a qualcosa che non vuoi dire e che non riesci a dire. E pensa a quante volte ti è scappato di dirlo e sei riuscito a trattenerlo. Aggiungici il peso delle responsabilità e delle ripercussioni che potrebbero avere sulla tua vita e... capirai di che parlo.»

Stan non aveva idea di quanto Richie già capisse. Capisse alla perfezione di cosa stesse parlando.

E non scherzava affatto quando diceva che Stan era diventato il suo eroe. Per il coraggio che aveva portato, quel pomeriggio, di fronte alle persone che gli stavano più care. Di donare se stesso, senza filtri, senza paura.

Un coraggio che Richie, non era sicuro avrebbe mai avuto.

«Ti ho già detto di quanto vecchio tu sembri ogni volta che parli in questo modo?» non riuscì a fare a meno di dire.

Stan, come da abitudine, scosse la testa, rassegnato.

«Sì, lo hai detto, molte volte.»

«Allora goditi la sensazione di essere il mio eroe, per oggi, Stanley caro. E il giorno in cui mi verrà l'ispirazione di fare quello che hai fatto tu, ti prometto che ne sarai testimone.»

«Guarda che ci conto.»

«Puoi giurarci. Come ora, mio prode suddito, puoi giurare che andremo a prendere un gelato, prima della sfuriata serale di tuo padre e ci leccheremo anche le ditina-ina-ina», disse con aria solenne, cercando una voce interiore adatta all'occasione. Una voce, che per il momento, assomigliava sempre e solo a quella di Richie Tozier.

Si rimise in piedi, allungando una mano per tirarlo in piedi a sua volta.

Un giorno forse, avrebbe mantenuto la promessa.

 

***

 

… e in parte lo aveva fatto. Aveva mantenuto quella promessa. Era riuscito a mostrare parte del vero se stesso al mondo. Era riuscito a distruggere un sacco di barriere, a scavalcare quella paura folle di dimostrare quanto ci fosse di fragile e prezioso sotto quello strato di sarcasmo e ingannevole sicurezza.

Anche ora che sostava di fronte alla tomba di Stan. Ora che la sua morte era improvvisamente diventata reale. Un dato di fatto. Definitivo. Scritto nero su bianco sulla nuda pietra.

Stan era morto e non c'era molto altro da fare o da dire, solo prenderne atto e imparare a conviverci, per il resto dei suoi giorni.

Ma come aveva detto Patricia, forse quel viaggio era servito a liberarsi dei dubbi, del terrore. Accantonare l'oscurità per potersi nutrire solo di ciò che di bello c'era stato, nel conoscere Stan.

Uno Stan che sarebbe rimasto cristallizzato, nella sua memoria di tredicenne. Uno Stan che parlava come un adulto, che sapeva dispensare consigli, che amava l'ordine e riconosceva il cinguettio degli uccelli. Un buon amico. Uno dei migliori. Che questa volta non avrebbe dimenticato.

Eddie indietreggiò dalla tomba dopo averci sistemato sopra un mazzo di fiori. Un gesto che sapeva di chiusura, più di quanto non lo avesse fatto quella stupida lettera, qualche mese prima.

«Mi pizzicano gli occhi», lo sentì commentare, «probabilmente la mia allergia è tornata.»

«L'allergia ce l'hai in testa, Kaspbrak», sorrise, concedendosi di dargli una pacca sulla schiena, «credevo che questo lo avessimo appurato anni fa ormai.»

«Certo, prendimi pure in giro. I fiori avresti potuto tenerli tu, intanto.»

«Sai che sono allergico alle melensaggini di questo genere.»

«Piantala di fare il duro, non ci crede nessuno, Tozier.»

Richie sorrise, inspirando a fondo, concedendosi ancora un istante per guardare quella lapide che diceva di Stan più di quanto avrebbero potuto fare ventisette anni di aggiornamenti.

Stanley Uris, per tutto il bene che ci hai dato. Con amore.

Si chiese che cosa avrebbe voluto sulla sua tomba (se mai ne avesse avuta una senza lasciar detto di gettare via le sue ceneri e tanti saluti). Qualcosa di divertente, qualcosa di estremamente ridicolo? Qualcosa in grado di far ridere chiunque, per ricordare a tutti quanto fosse spiritoso? O avrebbe voluto qualcosa che dicesse al mondo quanto era stato amato?

Patricia aveva parlato loro di Stan tutto il pomeriggio. Rendendoli partecipi dell'uomo che era stato. Un uomo ordinario che era riuscito a diventare straordinario per le persone che avevano avuto il privilegio di amarlo.

Richie non aveva mai concesso a nessuno, dopo quella fatidica estate di ventisette anni prima, di amarlo così come i suoi amici lo avevano amato. Non si era mai concesso, per nessun motivo, di amare qualcuno, tanto quanto aveva fatto con loro.

Ventisette anni. Di un cuore arido come il deserto.

Stan era stato felice, magari non disgustosamente felice come si erano augurati da ragazzini, ma era stato felice. E adesso era morto.

Lui non lo era mai stato davvero e ancora camminava su quella Terra.

Una peregrinazione che non aveva avuto altro scopo se non insegnargli che, forse, c'era ancora modo di annientare la paura degli incubi. Di rimediare a ventisette anni di errori. Il tempo gli aveva concesso il privilegio di mantenere quella promessa di un'estate di ventisette anni prima. Una delle tante che doveva a Stan.

«Grazie per avermi portato qui, Eds», disse, senza distogliere lo sguardo dalla lapide, le mani ora sprofondate nelle tasche dei pantaloni. Il cuore gonfio di gratitudine e leggero allo stesso tempo.

«Grazie a te per avermici accompagnato.»

Richie sorrise.

«Te la saresti cavata alla grande anche senza di me, Spaghetti.»

«Forse...» non lo contraddisse, «ma con te è stato più facile.»

Sorrise. Uno di quei sorrisi caldi e sinceri che solo Eddie sapeva elargire in modo tanto limpido. Richie si volse finalmente a guardarlo.

Era più facile sì.

Come era facile farsi sorprendere ogni volta, di averlo ancora accanto.

Come era facile riempirsi gli occhi e il cuore di lui.

Facile... come meravigliarsi di pronunciare le parole più spaventose che mai si era concesso di dire. Parole che improvvisamente trovarono spontaneamente la loro voce, dopo anni di ostinato silenzio.

«Io ti amo, Eddie.»

Non si sentì un eroe, ma qualcosa, dentro di lui - Stan come testimone - esplose disgustosamente di gioia.

 

Continua...

 

  
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