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Autore: V a l y    13/02/2020    0 recensioni
Una raccolta di oneshot, drabble e flashfic incentrate sui membri della ShinRa, nel quale verrà svelato il lato più quotidiano e al contempo più crudo della loro vita.
Il titolo è tratto da una canzone di David J scritta da Alan Moore per il secondo capitolo di V for Vendetta che parla di una società corrotta e sbagliata.
[CAPITOLO 1: Il barista lo nota arrivare per la sua aria diversa. In mezzo a quell'ambiente di giacche di pelle e tatuaggi, è come un borghese qualunque dai pantaloni scuri e la camicia bianca.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Reno, Rude, Scarlet, Tseng
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
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N.d.a.: scritta per la decima edizione del COW-T seguendo il prompt Trovati un bar che sarà la tua chiesa tratto dal testo della canzone "Sincero".

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Il barista lo nota arrivare per la sua aria diversa. In mezzo a quell'ambiente di giacche di pelle e tatuaggi, è come un borghese qualunque dai pantaloni scuri e la camicia bianca. Lo vede sedersi sul primo sgabello disponibile e appoggiarsi al bancone coi gomiti. Si strofina le palpebre, poi si regge la fronte.
Il barista capisce che ha gli occhi lucidi di un ubriaco. Ha esperienza a sufficienza per riconoscerli alla prima occhiata.
“Che ti servo?” gli chiede chinandosi in avanti e appoggiando i palmi al bancone.
L'uomo alza lo sguardo, sembra farlo con fatica. Non riesce a stare in equilibrio, ma non è solo per l'alcol. Il barista capisce che è qualcos'altro, una spossatezza sul viso che rivela una certa tristezza malcelata. I capelli neri e lunghi ricadono in avanti. La camicia ha le maniche arrotolate fino ai gomiti e lascia intravedere l'alone di sudore sotto le ascelle.
“Un doppio whisky liscio,” ordina l'uomo. Il barista versa il liquore nel bicchiere senza guardare in basso. Non smette di osservare il nuovo arrivato.
“Brutta giornata, eh?” gli chiede mentre gli porge il bicchiere. “Sei hai bisogno di sfogarti sono la persona giusta, ho una certa esperienza con queste cose.”
Lo sconosciuto sorride con ironia, per un lampo, poi inizia a sorseggiare il whisky.
“Cos'è, non mi credi?”
“Non penso tu possa capire quello che sto passando.”
“È quello che dicono sempre tutti,” scherza il barista. “Scommetto che è stata una donna a ridurti così.”
Lo sconosciuto scuote la testa e beve. C'è una donna, nella sua vita, per cui a volte si distrugge con l'alcol, ma non è la causa di tutto questo.
“Se non sono problemi di cuore, sono problemi col lavoro.”
Il barista nota un guizzo diverso negli occhi.
“Ti hanno licenziato, eh?” chiede, e lo sconosciuto stavolta ride.
“Dammene un altro,” dice muovendo in avanti il bicchiere vuoto con le dita.
“Allora hai un capo stronzo.”
“Sono io il capo.”
Il barista corruga la fronte. Gli versa il doppio whisky e lo trova di nuovo a reggersi la testa mentre guarda il bicchiere in silenzio. Ha chiaramente un peso che sopporta da troppo tempo e di cui non parla a nessuno.
Il barista, che è un brav'uomo, gli si siede di fronte e sorride.
“Hai paura che qualcuno ti giudichi, eh?” chiede, e lo sconosciuto lo fissa con uno sguardo indecifrabile e cupo. “Se è questo, non dovresti farti troppi problemi. Da' un'occhiata alle tue spalle.”
Lo sconosciuto gira disinteressatamente la testa per poco più di qualche secondo, poi torna a bere.
“Avrai notato la feccia che frequenta il mio locale. Ho sentito le storie di ognuno di loro, storie così terribili che neppure puoi immaginare... eppure eccoli qui, tutte le sere, che ridono e scherzano con me. Alcuni sono persino diventati miei amici.”
Lo sconosciuto ha lo sguardo pungente, ma è solo per via del taglio in su dei suoi occhi. Il barista lo sa, come sa di trovarsi davanti a uno come tanti, un uomo normale in camicia che si sente sopraffatto dalla vita come capita a chiunque, prima o poi.
“Che tipo che sei. Con tutto che ti ho detto dei clienti abituali e con quello che hai bevuto ancora non spiccichi una parola.”
“Stasera ho ucciso quindici persone,” racconta compassato lo sconosciuto e il barista viene preso contropiede, poi ride.
“Bastava dire che non avevi voglia di parlarne. Avrei smesso di chiedere, davvero.”
“Sono entrato a casa di alcuni trafficanti di armi. Smerciavano AK-47 ad alcuni membri dell'AVALANCHE. Ho freddato i primi tre. Gli altri si trovavano per caso, ma erano comunque della resistenza e avevo l'ordine di ucciderli. Erano disarmati, perciò non ci è voluto molto. Un uomo ha provato a pararsi dietro a un ragazzino. Era necessario che non fuggisse, così ho dovuto agire,” dice lo sconosciuto, e la voce controllata e che non inciampa in una sola parola lo fa sembrare sobrio e quasi sincero. Il barista gli guarda gli occhi lucidi e taglienti, capendo solo adesso che non è per la loro forma.
Si alza di scatto dalla sedia, inorridito. Mette una mano dietro la schiena sullo scaffale dei vini. Sta cercando un appoggio per reggersi in piedi, o forse un'arma? Lo sconosciuto lo osserva e non lascia trasparire alcuna emozione.
“Hai paura di me,” incalza con sicurezza.
“Eh? Ma cosa dici?” nega il barista, ma non riesce a nasconderlo con quegli occhi troppo grandi e dalle emozioni evidenti.
“Non è necessario averne. Un uomo qualunque come te non sarà mai un nemico dei miei committenti,” spiega guardandolo con occhi sottili. Beve l'ultimo sorso di whisky, poi allunga il bicchiere verso il barista e lo fissa. Lo vede tentennare. Lo sa, muovere anche un passo verso di lui gli costa una forza straordinaria.
Il barista prende la bottiglia di whisky che ha lasciato vicino e lo guarda col timore di sbagliare qualsiasi mossa.
“Lo vedi quel tipo vicino al juke-box?” chiede lo sconosciuto, e il barista guarda oltre le sue spalle. Lo nota, un'omaccione grosso e di mezz'età che fa un sacco di chiasso. “Un tuo amico, suppongo. Quell'uomo picchia sua moglie,” racconta freddamente. “È da quando sono arrivato che lo sento parlare di questo. E la goliardia che accompagna i suoi compagni sembra quasi divertente prima di sentire il motivo per il quale ridono.”
Lo sconosciuto guarda intensamente il barista, che irrigidisce la schiena e deglutisce. “Non pensi che sia peggio chi fa male ai propri cari che a degli estranei?” e poco dopo sorride, a malapena. “Certo, non giustifica ciò che faccio. Non è questo il punto. Ma credo che chi uccide la moglie o si para dietro al figlio per salvarsi la vita sia peggio.”
“Io... non lo so,” borbotta il barista, e si morde le labbra, anche solo per aver parlato senza dire nulla.
“Voglio che mi dici quello che pensi,” afferma lo sconosciuto con un tono che suona perentorio. “Non sono un provocatore, non mi piace prevaricare in una discussione aperta e sono un buon ascoltatore purché le argomentazioni siano valide.”
Il barista gli rivolge uno sguardo stranito, più incuriosito dalle sue parole che spaventato.
“Sei la cosa più simile ad un confidente che mi sia capitata negli ultimi tre mesi,” ammette poi lo sconosciuto, e questo, in qualche modo, intiepidisce il cuore del barista, che è un uomo buono e comprensivo. Così, si siede di nuovo davanti a lui e gli versa da bere. Lo sconosciuto gli fa quello che, per un attimo, sembra un sorriso grato.
“Hai mai pensato di... cambiare lavoro?” chiede il barista, riflettendo che suona strano parlarne così discorsivamente, come se la persona che ha davanti si fosse lamentata del salario troppo basso o delle eccessive ore lavorative. Cerca in tutti i modi di costringere la sua mente a trovarsi di fronte a un uomo comune, come quello della prima impressione che ha varcato la soglia del suo locale.
“Smettere di lavorare cambierà qualcosa?”
“Che... vuoi dire?”
“Sarà come cancellare tutte le mie colpe? È così che funziona una redenzione?” chiede lo sconosciuto. Il barista è perplesso.
“Penso che... sia un inizio.”
“Sì, potrebbe,” ammette lo sconosciuto, “ma ci sono delle difficoltà iniziali. Se un uomo nella mia posizione dovesse decidere di abbandonare il suo lavoro, l'azienda che lo ha assolto spesso si trova a doverlo uccidere per prevenire la divulgazione di informazioni pericolose.”
Il barista si domanda terrorizzato se quelle che ha detto finora lo sconosciuto davanti a sé siano delle informazioni pericolose.
“Talvolta, l'azienda minaccia di uccidere i suoi cari per scoraggiarlo a licenziarsi,” spiega lo sconosciuto. Tende il bicchiere per il suo quarto giro.
“Hai qualche persona cara?” chiede il barista mentre riempe il contenuto con la speranza di trovare un frammento di umanità in mezzo a tutta quella crudeltà.
“Sì. Lei vale più di ogni lotta ideologica di questa città.”
“Allora potresti cambiare vita per lei...” suggerisce il barista. Lo sconosciuto sorride per l'involontaria ironia di ciò che ha appena sentito.
“Hai mai fatto qualcosa per cui per molto tempo hai provato vergogna per te stesso?”
La domanda a bruciapelo coglie il barista impreparato. “Sì, come tutti quanti, d'altronde...” risponde dopo un po'.
“Ognuno ha il proprio tempo per perdonarsi. Spesso richiede che passino mesi, persino anni. Immagina adesso che non hai avuto neppure il tempo di metabolizzare la brutta azione che hai fatto perché sei costretto a doverne fare un'altra. E queste brutte azioni si accavallano, per anni e anni, fino a buttarti giù nel baratro, e l'unico modo di uscirne è proprio quello di non dover più cercare redenzione o accettazione, ma semplicemente di non cercare niente.”
Il barista lo guarda con gli occhi sgranati. Pende dalle sue labbra in una maniera pericolosa.
“Suppongo che non hai mai dovuto sobbarcarti queste responsabilità. Ciononostante ne stai avendo una importante, adesso, ed è quella di ascoltare. L'unico modo che ha un mostro come me di liberarsi dalle proprie colpe è anzitutto lasciare che qualcun altro ne sopporti il peso con lui, perché quello che regge da solo è insostenibile.”
Gli occhi dello sconosciuto, forse, adesso raccontano qualcosa al barista. Una sofferenza che passa per un lampo, ma che stavolta è percettibile.
“Amico,” gli dice il barista con trasporto mettendo una mano sull'avambraccio scoperto dello sconosciuto, “io ci sarò, ok? Se questo può servire ad aiutare te e tanti altri...”
Lo sconosciuto guarda la mano grossa e callosa dell'uomo. Solo una persona è così audace con lui, e non essendo abituato ad altro irrigidisce i muscoli. Vorrebbe ringraziare il barista, ma quel che fa è semplicemente annuire velocemente senza che alcuna emozione stoni la sua apparenza glaciale.
Lo sconosciuto si alza un po' malamente e allontana il braccio per prendere il portafoglio nella tasca posteriore del pantalone. Il barista lascia la presa, tirando per sbaglio il manico della camicia, e nota la macchia di sangue sull'orlo.
La realtà si getta addosso al barista come acqua gelida, e nessun inganno mentale riesce più a sostenerlo. Nasconde le mani che tremano vicino alla cassa, una sopra l'altra per cercare di fermare i brividi.
Lo sconosciuto non si accorge di niente perché ha tutta l'attenzione sul portafoglio. “Quant'è?” chiede atono.
“40 guil,” mormora il barista.
“Ah. Ho solo 30 guil,” realizza lo sconosciuto. “Non immaginavo che con tutto quel chiacchierare avessi bevuto così tanto.”
“Non preoccuparti, amico, offre la casa,” dice tutto d'un fiato il barista. Il sorriso è forzato e la voce è innaturalmente squillante.
“No. Un lavoro viene sempre pagato,” sostiene lo sconosciuto, e le sue parole suonano al barista ironicamente terrificanti. Mette le banconote sul bancone. “Questo è l'anticipo, domani torno a dare il resto.”
Il barista annuisce debolmente. Lo sguardo dello sconosciuto è meno arrossato e lucido, adesso. Esce dal locale e il barista non smette di fissare l'ingresso con il terrore che possa tornare da un momento all'altro.

***


Lo sconosciuto, la sera dopo, ha un portamento impeccabile. I capelli sono pettinati all'indietro e neppure una ciocca è fuori posto. Indossa un completo scuro sopra la camicia abbottonata fino al collo abbinata ad una cravatta nera e impersonale.
Entra al bar trovando il solito chiasso, le urla e la musica metal, ma al bancone non vede l'uomo della sera precedente. C'è una donna, invece, alta e robusta, che appena lo nota fa un sorriso largo.
Lo sconosciuto le va incontro. “Devo parlare al barista.”
“Ah, vuoi dire mio marito!” esclama la donna. “Si è ammalato, perciò stasera lo sostituisco io. E dire che fa di tutto per non farmi venire qui ripetendomi che non è un ambiente giusto per una signora. Deve stare davvero male per assentarsi!”
Lo sconosciuto fissa negli occhi la donna con uno sguardo anonimo e freddo.
“Vuoi che... gli lascio un tuo messaggio?” domanda perplessa e un po' intimorita la donna.
Lo sconosciuto ripone il portafoglio nella tasca. “Non avevo nulla da dirgli, mi sono trovato qui per caso.”
Esce dal locale. Si ferma in mezzo alla strada e si volta, notando che l'uomo che il giorno prima era vicino al juke-box ride a voce alta coi suoi amici.
Un sms fa vibrare il cellulare nel taschino della giacca. Lo sconosciuto lo prende e legge la frase in codice che la ShinRa gli manda ogni volta che deve compiere un assassinio.
Tseng fissa il display del cellulare e per un minuto intero lascia che i suoi occhi taglienti non mettano a fuoco il testo del messaggio.
Ripone il telefonino in tasca, si sistema la cravatta e si avvia.
  
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