La canzone di
Kiwidinok
«William Brown
camminò faticosamente
fino al fuoco, lo osservò e poi si voltò a
guardare il suo pubblico. Quando il
vecchio con il copricapo di piume gli fece cenno, si sedette sul tronco
e
iniziò a rollarsi una sigaretta prima di iniziare a parlare.
“La
prima volta che incontrai Kiwidinok era l’alba e io stavo
vagabondando nel bosco da tutta la notte. Ero stato rapinato dagli
indiani ed
ero corso nella boscaglia per nascondermi.”
Un brontolio
generale circondò il fuoco. L’uomo li
guardò
senza abbassare lo sguardo e, quando il capo del villaggio
riportò il silenzio,
continuò.
“Avevo
la punta di una freccia nella coscia sinistra e quella
che immagino fosse la più grossa febbre da infiammazione che
io abbia mai
avuto.
“Sentii
la voce di Kiwidinok prima ancora di vederla: cantava mentre faceva il bucato al fiume. Iniziai a sentire questo
melodioso
canto prima ancora di udire i rumori dell’acqua del torrente
e seguii la sua
voce come incantato da una magia o da una maledizione.
“Quando
arrivai sulla riva del fiume mi bloccai: lei era
china sulle pelli e continuava a deliziare le mie orecchie con quel
suono
ammaliante e magico. Quando mi vide, voltandosi verso di me, si
bloccò,
spaventata, ma io cercai di non incuterle ulteriore timore, alzando le
mani e
parlandole lentamente e con tranquillità. Lei dovette capire
perché non scappò
via, ma mi osservò da capo a piedi e, dalla sua espressione,
mi sentii come se
indossassi degli indumenti sporchi di feci e urina, ma poi capii che
stava osservando
la freccia che mi sporgeva dalla coscia.
“Si
avvicinò a me, indicò la freccia e
poi se stessa per chiedermi se volessi aiuto per tirarla via. Io scossi
il
capo, ma subito rabbrividii dalla febbre e svenni. Non so cosa
successe, né
come lei ci riuscì, ma quando rinvenni, ero sdraiato
nell’insenatura di una
roccia, al riparo e riscaldato dal fuoco che scoppiettava appena fuori
dall’entrata della grotta. Avevo delle pelli di bisonte a
coprirmi e ancora la
freccia nella gamba, ma non ero solo. Lei era china su di me, stava
cantando a
voce bassa e trafficava sulla mia gamba. Cercai di tirarmi su, ma lei
mi spinse
con la mano e io mi ritrovai di nuovo sdraiato. Subito dopo le sue mani
tornarono fra le mie cosce e il dolore che provai mi fece gridare e
irrigidire.
Lei mi mise un bastone di legno fra i denti e mi obbligò a
rimanere giù. Pochi
secondi e il male si fece insostenibile: svenni ancora. Sembravo un
narcolettico.
“Quando mi
risvegliai il profumo di
cibo sul fuoco riempì le mie narici e non mi sentii
così male come quando ero
svenuto, ma ero ancora debole. Riuscii ad alzare la testa, mi appoggiai
sui
gomiti e guardai la mia gamba: la freccia non c’era
più, i pantaloni erano tagliati
e una fascia premeva sulla ferita. La toccai e notai che era stata
curata bene.
Il taglio era anche stato cauterizzato in maniera esperta e una
poltiglia
strana lo ricopriva. La ragazza nativa sapeva il fatto suo.
Sentii il suo
canto prima ancora di vedere lei tornare e
sorrisi, me lo ricordo bene. Quando lei entrò nella grotta
mi appoggiai sui
gomiti e lei ricambiò il mio sorriso.
Si sedette
accanto a me, io mi indicai la ferita e mi baciai
le dita verso di lei, sperando che capisse che volevo ringraziarla. Lei
annuì e
divenne rossa sulle guance. Aveva una pelle incantevole. Dorata, liscia
e
perfetta. I suoi occhi scuri, circondati da linee disegnate per farli
risaltare, si abbassarono e io capii che era in imbarazzo. Scossi la
testa e
cercai di richiamare la sua attenzione. Mi battei il palmo sul petto e
le dissi
il mio nome. Lo dovetti ripetere più volte prima che lei
capisse come
pronunciarlo, ma quando ci riuscì, mi sentii affascinato dal
suono che aveva
detto dalle sue labbra.”
William
aspirò dalla sigaretta e guardò tutte le persone
intorno
a lui che ascoltavano rapite il suo racconto. Sarebbe riuscito a
spiegare cosa provasse
per Kiwidinok?
“Lei,
copiandomi, mi disse il suo nome: Kiwidinok. Come ben
sapete, Kiwidinok significa ‘nel vento’ e lei non
me lo disse subito, ma io
imparai inconsapevolmente il suo significato, mentre giacevo ferito
nella
grotta. Lei andava e veniva da me, non stava mai ferma, cacciava,
preparava da
mangiare, immagino che tornasse anche a casa qualche volta.”
Guardò
di nuovo tutta la gente seduta come lui intorno al
fuoco e vide qualcuno annuire. Aspirò l’ultimo
tiro dalla sigaretta e andò
avanti nel suo racconto.
“Lei
era esattamente come il vento: non era mai ferma nello
stesso posto. Ho avuto più volte l’impressione che
lei stessa fosse il vento.
Giuro che all’alba, quando passo vicino a un fiume, qualsiasi
fiume, sento il
vento che canta la sua canzone.”
Spense la
sigaretta sotto lo stivale e guardò di nuovo il
Grande Capo. Sarebbe riuscito a convincerlo? A convincerlo di cosa poi?
Che lui
fosse una brava persona?
“Quando
Kiwidinok cercò di spiegarmi il significato del suo
nome, io feci fatica a capirlo, così lei soffiò
sulla mano, dove aveva
appoggiato dei fili d’erba, e quando esclamai:
‘Vento!’, lei fu così felice che
mi abbracciò. Poi si staccò da me e divenne
ancora rossa. Io non resistetti e
le lasciai un bacio…”
Tutte le donne
(le poche donne, possibile che ci fossero così
poche donne?) intorno al fuoco brontolarono e lui si
apprestò a continuare.
“…sulla
fronte, posandole le mani sulle guance. Lei mi guardò
con quei suoi occhi dolcissimi e io feci un cenno con il capo. Quando
lei mi
diede il permesso, annuendo e sporgendosi verso di me, la baciai sulle
labbra e
i nostri mondi si unirono.
La mattina dopo,
dopo aver passato tutta la notte con me,
Kiwidinok mi fece sedere vicino al fuoco, si accomodò
davanti a me e mi diede
quella che mi sembrò una spazzola. Sciolse i suoi
lunghissimi capelli, prese la
mia mano e mi fece capire che voleva essere pettinata.
Quando le toccai
la testa lei cantò. Io le pettinavo i
capelli, capelli di seta, morbidi come stoffa pregiata, e lei cantava,
serena.
Le intrecciai le ciocche scure in due trecce e quando si
voltò verso di me, i
suoi occhi brillarono. Si alzò e mi aiutò ad
alzarmi.
Mi
guidò fino al fiume e, prima di tuffarsi, si
spogliò.
Completamente nuda mi fece cenno di raggiungerla nell’acqua e
noi…”
Le donne
brontolarono ancora e qualcuna tappò le orecchie a
qualche bambino che ridacchiava.
“Nuotammo.
Nuotammo insieme e diventammo marito e moglie.”
Il Grande Capo
fece un cenno con la testa e una linea si
disegnò sul suo viso: stava sorridendo. Un piccolo nativo
arrivò correndo e si
inchinò prima di parlare all’anziano. William
riconobbe parole come ‘pronta’ e
‘possibilità di vederla’ e si
spaventò. L’uomo si alzò e
allargò le braccia
verso il vecchio.
“Ora,
Aquila Bianca, Grande Capo, io sono qui, sono qui
perché mi avete fatto chiamare, ma sono sei lune che
Kiwidinok mi ha abbandonato,
e io non so più niente di lei, neanche che fosse qui la sua
tribù” disse,
guardandosi intorno prima di continuare. “Quindi vi chiedo:
perché sono qui?
Cosa le è successo? Perché improvvisamente questa
fretta? Perché avete voluto
sapere la nostra storia? Cosa non mi state dicendo?”
Il brusio
generale riprese a riempire l’aria, ma l’anziano si
alzò e batté il suo bastone contro il suolo e
subito si fece silenzio.
“Io,
Aquila Bianca, avrei dovuto dare la benedizione per la
tua unione con nostra Kiwidinok, e volevo conoscere le tue intenzioni,
ma ormai
è troppo tardi…” esordì
l’anziano.
William
impallidì: cosa era successo alla sua Kiwidinok?
Era…
morta? Si pentì di non averla cercata prima. Di non averla
rintracciata meglio.
Le braccia gli caddero lungo i fianchi e sentì il petto
stringersi in una
morsa. Una lacrima prese a scivolargli dall’angolo
dell’occhio verso la
guancia. La scacciò con la mano. Cosa avrebbe fatto senza
Kiwidinok?»
Il
mormorio intorno al fuoco si fece più intenso e tante frasi
di disapprovazione
si sentirono fino al bosco. Sorrisi. Avevo tutta la loro attenzione.
Soprattutto quella di Melanie, che pendeva dalle mie labbra. La guardai
e
sorrisi ancora, prima di continuare.
«Il
Grande Capo scosse ancora il bastone, indicò delle donne
native e continuò il
discorso.
“Voi
uomini pallidi non siete forti come i guerrieri delle nostre terre. Non
potevamo fartela vedere prima. Ora puoi andare da Kiwidinok.”
Con un cenno
della mano, due donne gli fecero strada
attraverso il campo. William, con il terrore nel cuore, le
seguì senza porgere altre
domande. Era un soldato, aveva visto uomini morire e cavalli straziati,
ma
sapere che avrebbe potuto vedere il corpo senza vita della sua amata,
lo
rendeva insicuro e pieno di terrore. Come avrebbe reagito?
Quando si
avvicinarono a una delle tende di pelli, le donne
si fermarono e gli indicarono l’entrata. William
annuì, ma non era pronto. Per
niente.
Fece un passo
avanti quando l’ululato di un lupo in
lontananza lo fece bloccare. Era un segno? Sicuramente era un segno!
Guardò l’entrata
della tenda appena scostata e un altro suono riempì le sue
orecchie: il pianto
di un bambino. Stranito, fece un passo avanti e quando sentì
il canto di
Kiwidinok riempire l’aria e diventare vento niente
riuscì a tenerlo fuori dalla
piccola costruzione.
Entrò
e ciò che vide lo lasciò senza fiato: Kiwidinok,
la sua
amata Kiwidinok era sdraiata su un piccolo pagliericcio ricoperto di
pelli e
fra le braccia stringeva un bambino. Un bambino!»
Stetti zitto
giusto il tempo per creare un po’ di attesa e
poi ripresi a raccontare.
«Un bambino dalla
pelle più chiara
della madre e delle donne che le stavano intorno, un bambino con
tantissimi
capelli biondi e gli occhi azzurri.
William si
chinò sulla moglie, baciandole le guance e la
fronte. Prese in braccio il bambino e, dopo aver scambiato
un’occhiata con
Kiwidinok, che acconsentì, lo portò fuori,
tornò vicino al fuoco e lo alzò
perché tutti potessero vederlo e gridò:
“Mio figlio! Oggi, quattordici
febbraio, è nato mio figlio!”
Dopo aver
riportato il bambino dalla madre e aver parlato con
lei fino a quando non si addormentò, William
tornò fuori, si risedette intorno
al fuoco e quella notte ballò al suono dei tamburi,
fumò con i guerrieri più
valorosi e si fece dipingere il petto con colori sgargianti. Quella
notte
divenne un padre e festeggiò con la sua nuova famiglia.
All’alba,
con Kiwidinok, tornò nel bosco in riva al fiume,
dove l’aveva incontrata la prima volta. Lei cantò
per lui e William si
inginocchiò, tenendole la mano, diventando suo marito.
Secondo la
leggenda, se due persone sentono il canto di
Kiwidinok all’alba nel bosco in riva al fiume saranno
destinate a una vita
lunga e felice, insieme, come quella di William e della sua amata.»
Mi fermai e
guardai il mio pubblico. Avevano tutti gli occhi
e la bocca spalancati. Sorrisi perché sapevo di farlo bene.
Tutte le volte che
c’era il falò al campeggio, facevano raccontare a
me la storia della
buonanotte.
«Ma no!
È rimasto con gli indiani? Che
sfigato!»
ridacchiò Melanie.
Ci rimasi
malissimo. Perché aveva detto una stupidaggine del
genere? Uno degli animatori del campeggio estivo si
alzò e ci disse di
tornare verso i nostri bungalow. Mi alzai subito e quasi corsi verso i
dormitori. Melanie, la ragazza più carina del campeggio,
pensava che i nativi
americani fossero degli sfigati? No… Mi sembrava di aver
sprecato la serata:
avevo raccontato quella storia per far colpo su di lei.
Sempre
più depresso, mi misi il pigiama e raggiunsi i
lavandini per lavarmi i denti prima di andare a letto.
«Gran bella
storia, Jake.»
Mi
girai. Tessa mi sorrideva da dentro un pigiama rosa con un orsetto
sulla parte
superiore: era carino. Carino e coccoloso, avrebbe detto mia sorella
minore.
«Non
starò a farti notare tutte le imprecisazioni che hai detto
perché l’hai
raccontata così bene che non te lo meriti.»
Quando
sorrise ancora mi resi conto che anche lei era carina: aveva dei gran
occhi
neri e dei capelli raccolti in una treccia che le cadeva sulla spalla.
Pensai a
Kiwidinok.
«Tipo
‘narcolettico’?» la presi in giro.
«Anche.
Ma anche ‘quattordici febbraio’. È stato
ingegnoso metterci in mezzo San
Valentino, ma mi sa che Melanie non ha apprezzato lo stesso»
disse, facendomi
l’occhiolino e, impugnando lo spazzolino da denti, si
avviò verso i lavandini.
Come?
Come? Le corsi dietro e nel farlo finii addosso a una bambina che
stringeva una
bambola di Sailor Moon. «Scusami» gridai, quando mi
ero già rialzato e stavo
correndo dietro a Tessa.
«Tessa!»
la chiamai e lei si girò ma non rallentò.
«Non mi sono inventato niente! Il mio
trisavolo è nato il quattordici di febbraio nel campo
Cheyenne» spiegai.
«Oh!
Una storia vera! Scusami, non lo avevo capito. Sei così
bravo a raccontare
storie… Ma questa allora è anche più
bella, perché di famiglia… Io ho sangue
Sioux…» Abbassò la voce quando
passò Melanie con alcune amiche, ma non abbassò
gli occhi. Le guardai andare via e presi la mano di Tessa.
«E
se ti chiedessi di venire con me nel bosco, domani all’alba,
in riva al fiume,
a sentire il vento che canta la canzone di Kiwidinok?»
«Ti
direi che sarebbe un piacere, Jake.»