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Autore: Adeia Di Elferas    21/02/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Leonardo si guardò alle spalle un'ultima volta. Non gli piaceva l'idea di andare a Mantova, ma non aveva trovato di meglio, e Milano, ormai, non era più un posto adatto a lui.

Anche se a volte aveva disprezzato il Moro, per il suo fare tracotante e il suo modo rozzo di condurre una corte tanto importante, rimpiangeva come non mai i pomeriggi passati nel cortile del palazzo di Porta Giovia a prendere appunti e fare schizzi, mentre osservava i gatti rincorrersi nella polvere sotto il sole d'agosto, o nella nebbia dell'inverno.

Stringendosi un po' nelle spalle, controllò con un'occhiataccia che tutti i suoi bagagli fossero ben al sicuro sul carretto e poi si chiese se frate Pacioli l'avrebbe raggiunto a breve. Non avevano trovato un accordo per partire assieme, ma il toscano aveva quasi sperato di avere un compagno così stimolante per quel triste viaggio. Erano amici, a entrambi piaceva confrontarsi sui temi più disparati, e dunque si sarebbero divertiti molto, lungo la via.

Colui che fino a pochi mesi prima era stato il Domine Magister della corte ducale fece un lunghissimo sospiro e si impose di non voltarsi più verso le mura che cingevano Milano.

Quella mattina, mentre finiva di fare i bagagli, aveva scritto una lettera che aveva rimandato fino all'ultimo minuto. Era un ordine importante, destinato all'Ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze.

Chiedeva che i suoi possedimenti in Toscana – di fatto seicento fiorini d'oro – venissero presi e custoditi presso i locali interni dell'Ospedale. Non sapeva nemmeno se quei soldi c'erano ancora, ma confidava ugualmente di ritrovarli, il giorno in cui fosse riuscito a tornare a Firenze sano e salvo.

Con una stretta al cuore, nel ripensare alle strade brulicanti e al profilo altero e dolce della sua terra, Leonardo si trovò a rimuginare sull'offerta di Isabella Este. Sapeva che l'aveva voluto a Mantova solo per due motivi. Il primo: rivaleggiare con tutti gli altri potenti d'Italia, sbandierandolo come una grande conquista. Mentre il secondo era rimpiazzare un Mantegna ormai stanco e allergico ai ritratti.

“Come se fosse certa che io le farò davvero un ritratto...” borbottò tra sé Leonardo, che ancora ricordava il viso della Marchesa e non sapeva come avrebbe fatto a renderla meno antipatica almeno sulla tela.

“Che state dicendo, amico mio? Parlate da solo?” la voce di Pacioli fece rinsavire il vinciano, che, felice di vedere come l'amico, alla fine, l'avesse raggiunto sulla strada, si voltò di scatto, perdendo quasi l'equilibrio già precario con cui si reggeva sul carretto.

“Anche voi venite a Mantova, alla fine?” gli chiese, con gli occhi azzurri che brillavano di speranza.

“Se si vuol mangiare – sbuffò il biturgense, affiancandolo in sella al suo cavallo – si va anche a Mantova, anche se avrei preferito tornarmene a Sansepolcro!”

Leonardo rise, trovando di colpo anche il cielo grigio piacevole, e poi esclamò: “Alla nostra età, io quasi cinquant'anni e voi quasi sessanta...”

Il frate sollevò una mano e, scuotendo il capo, concluse: “Si vive in tempi pazzi, amico mio, pazzi!”

 

Le campane suonavano a martello, assordando i forlivesi che stavano ancora ammassati in piazza, e, intanto, a palazzo Riario si stava già lavorando per riorganizzare lo stato.

Luffo Numai, suo malgrado, era stato visto come l'iniziatore, nonché la vera anima di quella piccola rivoluzione, e gli altri nobili – sia per scansarsi di dosso la colpa di un'eventuale catastrofe, sia per mancanza di intraprendenza – avevano lasciato al Consigliere pressoché campo libero.

Nel frattempo, gli Anziani si erano radunati in uno degli altri saloni, discutendo i bandi d'ordine pubblico che andavano pubblicati quel giorno stesso, per evitare che tra i forlivesi scendesse il caos.

Agli altri Consiglieri restava il compito di occuparsi della resa e della trattativa con i francesi, nonché la redistribuzione dei poli difensivi della città che, benché non fossero necessari, andavano comunque tenuti sotto controllo.

“Per prima cosa – stava dicendo Numai, intento a conciliare l'interesse cittadino, il proprio, e quello della sua signora, dando solo mostra di avere a cuore le sorti di Forlì – bisogna riassegnare le porte, perché non possono restare così, in balia dei francesi, anche se vogliamo trovare con loro un accordo.”

Tutti quanti annuirono, fomentati dalla sicurezza con cui il loro capo parlava. Ciò che aveva dato a tutti una sorta di senso di ineluttabilità era stato il mandare due portavoce ad Achille Tiberti che, chissà come, aveva intuito i movimenti cittadini, e si era portato al limitare della città con venticinque cavalli. I due incaricati portavano con sé la notizia della resa della città, ma non si sarebbero espressi in merito alle condizioni della suddetta.

Ecco perché il lavoro di riorganizzazione era ancora più frenetico: tutti pensavano che, saputa la decisione della città, il Valentino non avrebbe perso tempo e avrebbe cercato un colloquio con il nuovo governo.

Sudando freddo, Numai decretò: “Porta Cotogni verrà affidata a Matteo Pansecchi. Quella di San Pietro, invece, andrà a Bartolomeo Moratini.”

Giovanni, parente di quest'ultimo, si fece avanti e chiese: “La dovrà far aprire?”

Luffo ci ragionò un solo istante e poi confermò: “Spalancare, la deve spalancare.”

“E Porta Schiavonia e Porta Ravaldino?” chiese, incerto, Lambertelli.

Numai stava già scuotendo la testa: “Sono a tiro di cannone l'una della cittadella e l'altra di Ravaldino. Sarebbe troppo rischioso occuparle. Le lasceremo vuote, quelle...”

Nessuno ebbe da ridire, giacché tutti si aspettavano dalla Tigre una reazione quanto meno rabbiosa, nel vedere la sua città arrendersi tanto facilmente dopo che, per settimane, nessun Consiglio Generale era riuscito a esprimersi in modo univoco circa la posizione esatta di Forlì.

“E adesso andiamo dagli Anziani...” tagliò corto Luffo: “Voglio esserci, quando faranno le nomine...”

 

“E ci possiamo fidare?” chiese Cesare Borja, guardando Achille Tiberti, che, appena finito il colloquio con i portavoce dei forlivesi, era subito corso da lui per dire che la città si era arresa.

Faceva ormai buio e fuori una nebbiolina attaccaticcia e fastidiosissima rendeva gli abiti umidi e il terreno scivoloso. Il figlio del papa preferiva passare ancora una notte nel suo comodo padiglione, piuttosto che esporsi a quel tempo ostile.

“Direi di sì.” rispose Tiberti.

Il Valentino si morse il labbro e poi, schiarendosi la voce, decise: “Ebbene, voi entrerete dunque in città come mio emissario. Stanotte chiamerete a raccolta il nuovo governo, dato che mi avete detto che ne hanno già costituito uno, e annuncerete il mio arrivo.”

Achille fece un mezzo inchino, sperando di essere abbastanza abile da non rovinare tutto con la sua presenza. Aveva congedato Giannotto, per la sua mancanza di abilità nelle trattative, e sperava che quella sua scelta lo rendesse più simpatico ai forlivesi, che avevano odiato profondamente il mercenario.

“E che si ricordino che mio padre è il papa – soggiunse il Duca, strizzando un po' gli occhi contro la luce della torcia che rischiarava l'intero tendone – loro sono sotto il suo comando, non sotto quello del re di Francia. Che facciano qualcosa che mi dimostra la loro buona volontà.”

Achille si accigliò per un momento, chiedendosi che intendesse dire il suo comandante, ma poi, sperando che i forlivesi sapessero intendere meglio di lui quelle parole, si limitò a un cenno del capo: “Come dite voi.”

Il Borja, già abbastanza infastidito da tutto e insofferente a quello strano inverno che sembrava solo un protratto autunno, sollevò appena il mento, congedando Tiberti come fosse stato uno dei suoi servi.

Il cesenate non volle fomentare il figlio del papa, perciò non rimbeccò, ma, una volta uscito dal padiglione, non trattenne un commento tra sé: “Chi sale troppo in fretta, dovrebbe stare attento, perché quelli che gli tengono la scala per impedirgli di cadere potrebbero stancarsi presto...”

 

Gli Anziani avevano redatto vari bandi da rendere pubblici, e i più importanti, indubbiamente, erano i primi due. Col primo si vietava, sotto la pena di venticinque ducati d'oro, di prendere qualsiasi cosa appartenesse alla Contessa, ovunque si trovasse o fosse nascosta.

Questo aveva rincuorato in parte Numai, che aveva riconosciuto in quella decisione non tanto una reazione di paura nei confronti della Sforza, quanto più un riconoscimento alla grandezza della sua figura. Malgrado tutte le parole fatte, nel Consiglio degli Anziani c'erano ancora molti forlivesi che ricordavano anche le azioni generose e disinteressate della Tigre, e quella disposizione altro non era se non un modo un po' goffo e sicuramente tardivo di mostrarle rispetto.

Il secondo, importantissimo bando, invece, vietava di rubare i pegni agli ebrei, perché, in quel caso, secondo gli accordi presi, sarebbe poi toccato alla città risarcirli per il danno, e creare un nuovo governo basandolo subito su dei debiti non sembrava a nessuno una buona idea.

Fatto leggero tutto quanto a Numai, si procedette con la scelta degli uomini che avrebbero creato il nuovo Consiglio della città. Si decretò che venissero istituite quattro brigate, una per quartiere, con a guida di ciascuna un Capo Gonfalonieri, che avesse poi quattro collaboratori che lo aiutassero a prendere le decisioni e che lo sostenessero nelle votazioni in sede consiliare.

“Ed è deciso, dunque...” proclamò, dopo una discussione nemmeno troppo lunga, Luffo: “Io sarò il Capo Gonfaloniere per San Mercuriale, mentre gli altri saranno: per San Pietro Gasparo Numai, per Santa Croce Bernardino Bezzi e per San Biagio Silvestro Miranda.”

L'ex Capo dei Magistrati, Nicolò Tornielli, che era stato scelto come uno dei compagni di Luffo, gli si avvicinò appena e sussurrò: “Credo sia necessario, a questo punto, informare anche la Contessa...”

Numai lo fulminò con lo sguardo, non perché non fosse d'accordo, ma perché voleva avere modo di scegliere chi mandare e di spiegare al nuovo governo perché fosse necessario metterla a parte dei loro movimenti.

“Tempo al tempo, Nicolò.” lo freddò, senza dargli troppe spiegazioni: “Mi sono appena reso conto che non mangio e non dormo da oltre un giorno. Devo passare un momento da casa.”

Il forlivese ribadì il concetto a voce più alta, affinché gli altri sentissero e poi, andando verso la porta del salone, ricordò a tutti che quelle prime ore erano fondamentali per dare un buon assetto al nuovo Stato, e, se ci fossero state novità da parte del Valentino, dava a chiunque il permesso di andare a cercarlo a casa.

“Perché in tempi gravi, lo Stato viene prima di tutto il resto.” concluse, retorico, voltando finalmente le spalle al branco di concittadini che stavano già ricominciando a discutere e pontificare sulle meravigliose opportunità che quella guerra portava con sé.

 

“Guardate voi, se vedete meglio...” fece Caterina, lasciando il punto di avvistamento al Capitano Mongardini, che strizzò gli occhi contro l'oscurità della notte.

Lui e la Contessa erano saliti nel punto più alto del mastio, perché le sentinelle avevano avuto il sentore che in città stesse succedendo qualcosa, anche se dai camminamenti era impossibile capire cosa.

Sembrava quasi che tra le vie di Forlì fosse in atto una processione, ma sia l'ora, sia le circostanze rendevano difficile credere che a qualcuno potesse essere venuto in mente di dedicarsi a delle orazioni tanto manifeste.

Mongardini tese l'orecchio e poi, scuotendo appena il capo, seguì ancora per un po' le luci malferme di quelle che sembravano fiaccole votive e poi scosse il capo: “Non capisco.”

“Ci vuole qualcuno con gli occhi migliori dei nostri.” sentenziò la Sforza, benché dubitasse che, anche con una vista perfetta, si riuscisse a capire cosa stesse accadendo.

“Vedo se trovo qualcuno.” si offrì il Capitano, andando subito alle scale.

Rimasta sola, la Tigre continuò a osservare l'orizzonte. Da quel punto, tra i cannoni che la circondavano, Forlì sembrava un pugno di case insignificante e inutile, nulla, insomma, per cui valesse la pena combattere, tanto meno morire.

Lei e Mongardini avevano spento tutte le luci, in modo da poter osservare meglio in lontananza, e quella notte non c'era nemmeno la luna. Caterina avvertiva la presenza dei pezzi d'artiglieria, tutt'intorno a lei, solo perché ne sapeva l'esistenza, e per il tenue e quasi confortante odore che sprigionavano: un misto di ferraglia e polvere da sparo.

Quando il Capitano tornò, portava con sé Baccino da Cremona. Sembrava essersi appena svegliato: aveva i capelli un po' in disordine e la giubba infilata tutta storta. Probabilmente si era alzato dal proprio giaciglio e si era vestito senza nemmeno darsi una controllata prima di seguire il forlivese.

La donna gli dedico uno sguardo sorpreso e poi, notando il sorrisetto arrogante del giovane, si rivolse a Mongardini, facendo un commento sprezzante.

“Questo ragazzino è il meglio che avete trovato?” chiese, distogliendo subito lo sguardo.

L'uomo non comprese il motivo della sua reazione, ma, avvezzo ai suoi modi spesso incomprensibili, invitò Baccino a osservare e dire qualche che poteva vedere.

Il cremonese si appoggiò al parapetto e ascoltò attento, cercando di scrutare nel buio e poi, quando riconobbe certi canti, disse, con una discreta sicurezza: “Questa è una processione guidata dai monaci di San Mercuriale.”

Caterina e Mongardini si scambiarono uno sguardo strano, entrambi attoniti, davanti a quella che arrivava loro solo come una conferma più precisa. Che fosse una processione religiosa, l'avevano pensato anche loro, ma non l'avevano creduta possibile.

“Grazie.” disse in fretta la Leonessa: “Tornate a fare quel che dovete.”

“Non stavo facendo nulla di che, stavo dormendo...” fece Baccino, grattandosi la nuca: “Quindi se volete che vi aiuti in qualche cosa, sono disponibile per...”

“Dormire è importante – lo contraddisse subito la Contessa – specie in questi momenti. Non sappiamo che accadrà domattina, voglio che tutti siano pronti all'azione. Quindi tornatevene a dormire subito.”

Il cremonese abbassò la testa, mormorò un saluto e, un po' mortificato, scese di nuovo di sotto.

“Che credete che significhi, questa processione?” domandò, teso, il Capitano.

“Ho un paio di idee in mente...” soppesò la Tigre: “Ma per ora è presto per dirlo. Probabilmente quando sorgerà il sole ne sapremo di più.”

 

Nicolò Tornielli era un fascio di nervi. Era stata una notte pesante e la processione a cui era stato costretto ad assistere l'aveva solo stancato.

Quando Numai aveva lasciato la sala del palazzo Riario, dopo aver preso tutte le decisioni necessarie per dare legittimità al Consiglio dei Venti, gli Anziani e gli altri nobili ancora presenti si erano visti arrivare davanti Achille Tiberti.

Lo avevano riconosciuto subito e la sicurezza con cui quell'uomo camminava tra loro aveva fatto sì che nessuno lo vedesse come un nemico, tanto meno come un pericolo. Anzi, era come se il primo tra loro ad aver capito come andavano le cose, fosse tornato per congratularsi del fatto che finalmente tutti quanti erano passati dalla parte giusta.

Achille aveva parlato loro a lungo, e si era detto felice di aver potuto portare personalmente al Valentino la notizia della loro resa. Dopodiché, iniziando a usare eufemismi e metafore da retore, aveva fatto capire loro che andava fatto qualche gesto plateale per ingraziarsi il figlio del papa e far capire ai francesi che Forlì era di Alessandro VI e non mai di Luigi XII.

“Per il vostro bene, lo dico, fratelli...” insisteva Tiberti, ogni qualvolta qualcuno provava a opporre la propria contrarietà a quella proposta.

Alla fine, dopo lunga discussione, si era dato ordine ai monaci di San Mercuriale di fare una processione che passasse attorno alla piazza, in modo simbolico, portando la statua del santo in abiti pontificali, canto l'inno Veni Creator Spiritus, in simbolico ringraziamento al Santo Padre della sua protezione rinnovata.

Tornielli aveva invidiato moltissimo Numai, che era arrivato in loco solo alla fine della processione, quando la statua era stata posta sull'altare della Crocetta, con torchi e lampade in quantità incredibile.

Era stato allora che Luffo gli si era avvicinato e gli aveva detto, in un soffio, tralasciando ogni formalità e parlandogli come a un fratello: “Tu sarai uno dei due che andrà a parlare con lei, e le dirai le cose come stanno e le porterai anche un messaggio da parte mia.”

“E l'altro?” aveva chiesto subito Nicolò, deglutendo.

Il concittadino aveva scosso un po' il capo e aveva liquidato la questione con un semplice: “Gli diremo cosa dire e lo lascerai tutto il tempo con il castellano, fingendo che sia con lui che deve parlare di cose di guerra, mentre tu devi parlare con la Sforza di cose di politica.”

E così, all'alba, con alle spalle una notte insonne e l'ultimo pasto consumato più di un giorno addietro, Tornielli si trovava sotto la statua del Barone Feo, assieme a un altro Consigliere, in attesa che qualcuno permettesse loro di entrare alla rocca.

“Che volete?” la voce che arrivava dalle merlature era quella della Contessa e, infatti, dopo un minuto appena, Nicolò scorse la chioma bianca della sua signora smossa dal vento freddo di quel giorno.

“Siamo qui per parlarvi! Siamo disarmati!” spiegò l'uomo, sollevando le braccia.

“Oggi è domenica.” disse la Sforza, con tono quasi ironico: “Il vostro padrone non vi impone di riposare, la domenica?”

Tornielli fece un sospiro. Capiva la recita, capiva tutto quanto. Però non voleva vedersi rifiutare l'ingresso alla rocca. Aveva troppe cose di cui discutere con lei a quattrocchi e non poteva tirarsi indietro.

“Vi prego!” gridò allora: “Messer Luffo Numai, capo del nostro nuovo governo, mi manda da voi per parlare! E di cose importanti! E di vostro interesse!”

Caterina capì, più dal modo che dalle parole, che Nicolò non la stava cercando come portavoce dei forlivesi, ma come tramite tra lei e il suo fedele amico. Per un istante, temette che quell'uomo portasse con sé brutte notizie riguardo ai suoi figli, e tanto bastò per metterle fretta.

“Fateli passare dal ponticello.” disse, in fretta, a due guardie che le stavano accanto.

 

“Voglio entrare in città!” sbraitò Cesare, battendo un piede in terra.

L'Aubigny lo guardò storto, trovandolo più simile a un bambino, che non a un uomo fatto, e poi, con la freddezza che spesso lo contraddistingueva, ribatté: “Fatelo pure, se volete, ma lo farete da solo.”

“Io non capisco! Non capisco!” il Valentino non sapeva più come fare, per farsi ascoltare dagli altri comandanti.

Lo trattavano tutti come un incapace. I lampi di paura che aveva saputo scagliare nei giorni addietro, quando era riuscito a prendere facilmente Imola, sembravano essersi dissipati per sempre.

“Non capite perché non ragionate.” borbottò Giampaolo Baglioni, che era stanco di sentire il figlio del papa frignare a quel modo: “Siete certo che ci si possa fidare? Aspettiamo ancora un giorno, almeno. Che si stabilizzi questo nuovo governo che dicono di aver fatto, e solo allora...”

“Un accidente!” sbottò di nuovo il Borja, stringendo le mani a pugno con tanta forza da farsi quasi male: “Hanno fatto quella dannata processione! È un segno di sottomissione! Sono in nostro pugno!”

“Se entreremo in città con l'esercito – disse piano l'Aubigny, con l'ostentata calma di un maestro paziente intento a dissuadere un alunno particolarmente cocciuto dal mettere in pratica un'idea sciocca – poi dovremo restarci. Se attendiamo fuori, invece, potremo essere più sicuri di cosa troveremo una volta che...”

“Tutto questo – lo interruppe Cesare, indicando con gli indici tutto intorno a sé – è pagato con i soldi di mio padre. Ricordatevelo.”

“Ma questa è la vostra prima guerra. E potrebbe anche essere l'ultima. Ricordatevelo.” rimbeccò, gelido, l'Aubigny, smettendo di colpo di giocherellare coi guanti che si spostava da una mano all'altra e andandosene a passo svelto.

Il Valentino lo guardò in silenzio, mentre il francese si allontanava, camminando deciso tra i soldati accampati. Avrebbe voluto dare ordine di infilzarlo su una picca, ma sapeva che sarebbe stato un errore enorme. Quel comandante era amato dai soldati, e aveva un istinto impagabile per la guerra.

“Se entro il tramonto non sarà cambiato nulla – decretò Cesare, senza guardare più nessuno – allora entrerò in città, e voi mi seguirete.”

I comandanti non osarono dire nulla, mentre il Duca di Valentinois scalpicciava in direzione del suo padiglione, rosso in viso e con la schiena curva, così furibondo da non riuscire quasi a respirare.

 

Tornielli e l'altro forlivese erano entrati alla rocca ormai da ore. Caterina aveva dovuto aspettare parecchio, prima di poter restare da sola con Nicolò.

Per quasi tutta la mattina si era sorbita la lunga trattazione dei sue su come e perché fosse nato un nuovo governo e sul fatto che la resa della città non era da imputarsi a una mancanza di gratitudine dei forlivesi nei suoi confronti, quanto più come una naturale speranza di trovare la salvezza mostrandosi agnellini docili davanti a un lupo tanto famelico.

La Sforza aveva tenuto per sé il suo pensiero, ovvero che per degli agnellini fingersi ancor più docili di quanto non fossero era a suo modo di vedere la strategia più sbagliata in assoluto, davanti a un lupo, e aveva atteso con pazienza che finissero il loro discorso.

“Se non è per voi disturbo – aveva detto a un certo punto Tornielli – il mio compare dovrebbe discutere con il vostro castellano riguardo ciò che la città a deciso di fare, e vedere con lui se sarà possibile mantenere una certo mutuo accordo di non attacco tra la città e la rocca, mentre io vorrei discorrere ancora un po' con voi d'affari più politici.”

Compreso che era finalmente arrivato il momento di parlare di ciò che la interessava davvero, la donna aveva annuito, e, lasciando la scrivania, aveva invitato Bernardino da Cremona e il forlivese scelto dal Consiglio dei Venti a restare nello studiolo, mentre lei e l'ex Capo dei Magistrati si sarebbero ritirati in un punto tranquillo di Ravaldino.

Appena usciti in corridoio, Caterina aveva chiesto all'uomo se avesse fame e, ricevuta una risposta positiva, gli aveva chiesto di attenderla, ed era tornata dopo pochi minuti con un paniere di cibo e del vino.

“Perdonate la confusione – si scusò la donna, quando lo fece entrare in camera sua – ma la mia serva personale in questi giorni deve badare anche ad altri, e le ho chiesto io personalmente di non perdere troppo tempo riordinando il mio alloggio.”

Nicolò non avrebbe voluto mostrarsi curioso, ma gli fu impossibile non osservare la tana della Tigre. Era una stanza modesta, con un camino di discrete dimensioni e un letto semplice, per due persone, ma degno di una stamberga, più che della dimora di una Contessa. L'inginocchiatoio era un cumulo di vestiti e la cassapanca era aperta. Sulla scrivania erano ammonticchiati liberi e fogli sparsi e, in un angolo, perfettamente sistemata, così in ordine da fare a pugni con il resto della camera, era stata sistemata un'armatura completa, con tanto di spadone e scudo.

La Sforza seguì lo sguardo di Niclò e comprese la sua espressione: “Sì, è la mia armatura. Mi avete vista, a volta, con quella indosso... Non credevo vi stupiste, a trovarla qui.”

L'uomo sollevò le sopracciglia, in segno di scuse per i propri pensieri, e poi si mise in attesa, in mezzo alla stanza, non osando cominciare a parlare senza il permesso della sua signora.

La Leonessa avrebbe voluto chiedergli tutto e subito, perché era certa che Numai avesse affidato a lui qualche messaggio, ma, siccome temeva che fossero brutte notizie, si prese ancora qualche secondo.

Guardò a sua volta l'armatura, pensando a come, quella notte, quando erano andati a chiamarla per dirle che in città stava succedendo qualcosa di strano, lei stessa si fosse spaventata nel vedere quella sagoma luccicante nel buio. Quando erano andati a cercarla, si era addormentata da poco, cedendo alle richieste di suo fratello Alessandro, che l'aveva vista troppo stanca, e, dopo, non aveva dormito più. Perciò quel 15 dicembre aveva l'impressione di dormire in piedi, per quanto la tensione la tenesse sveglia.

“Sedetevi.” disse all'uomo, indicando il letto.

Lui, con cautela, si mise sul bordo e accettò il calice che la padrona di casa gli stava offrendo. Si sentiva un po' a disagio, perché le chiacchiere riguardo ciò che succedeva in quella camera, anzi, su quel letto dove ora lui stava seduto, avevano riempito le sue orecchie per anni.

“Come stanno i miei figli?” chiese, a bruciapelo, la donna.

Bevendo un sorso, Nicolò fece un cenno con il capo: “Luffo mi ha detto di dirvi che sono partiti, che nessuno dovrebbe averli visti e che ormai dovrebbero essere quasi fuori dalla zona più pericolosa.”

Con il cuore che batteva veloce, la Contessa si sentì leggera come una piuma. Forse era presto per rallegrarsi, ma, se non altro, sapeva di essere riuscita a fare tutto quello che poteva per cercare di salvarli.

“Parlatemi di quello che succede in città e di tutto quanto, questa volta senza reticenze e senza parole da omelia.” disse la Tigre, incoraggiando il suo interlocutore anche con lo sguardo: “Siamo soli, non dovete più nascondere nulla.”

 

Era ormai quasi sera, e dalla rocca di Ravaldino non era ancora uscito nessuno. In piazza e tra le vie di Forlì cominciava a serpeggiare una velenosissima inquietudine.

C'era chi ricordava a tutti della cattura di tutti quegli uomini, all'indomani della caduta di Imola, poi giustiziati perché ritenuti responsabili del tradimento – e poco contava se qualcuno, con migliore memoria e più buon senso ricordava loro che quell'episodio non riguardava affatto degli imolesi, ma dei parenti di Achille Tiberti, catturati per tutelare la sicurezza di Forlì – e c'era anche chi già gridava all'omicidio, sostenendo che per certo Tornielli e il suo accompagnatore fossero già con la testa mozzata in qualche meandro della rocca.

Era impossibile capire che cosa stesse succedendo a Ravaldino e, più si faceva buio, più tra i forlivesi si consolidava l'ipotesi che la Contessa, saputo del loro tradimento, si fosse rivalsa sui due poveri sventurati che le erano stati mandati come messaggeri.

A poco era valso, per calmare tutti, indire Messe dall'alba al tramonto. Il conforto della fede sembrava non bastare per tenere le acque calme.

Così, in questo clima di agitazione profonda, fu molto facile per il Consiglio dei Venti prendere una volta per tutte la decisione definitiva di affidarsi in tutto e per tutto al figlio del papa.

Con la voce che tremava appena, subito dopo lo scoccare delle sette di sera di quel 15 dicembre, Luffo Numai si rivolse all'intera cittadinanza e proclamò: “Dichiariamo Cesare Borja di Francia, Duca di Valentinois, Conte di Diois, in questo anno del Signore Millequattrocentonovantanove, dì Quindici del mese di dicembre, die Dominica, eletto e istituito dal nostro Senato Signore a Bachetta della nostra città di Forlì!”

Il boato che seguì a quella dichiarazione, venne coperto quasi all'istante da un altro tipo di rombo: quello di un colpo di cannone, appena partito dalla rocca di Ravaldino.

 

 
   
 
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