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Autore: steffirah    25/02/2020    2 recensioni
A causa del lavoro del padre Sakura verrà ospitata a casa di una sua cugina, in una cittadina dal nome mai sentito prima, nell'estremo nord del Paese. Qui farà nuovi incontri, alcuni dei quali andranno oltre la sua stessa comprensione, mettendo a dura prova le sue più grandi paure. Le affronterà con coraggio o le lascerà vincere?
Una storia d'amore e di sangue, di destino e legami, avvolta nel gelo di un cielo plumbeo, cinta dalle braccia di una foresta, cullata dalla voce di un lupo.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eriol Hiiragizawa, Sakura, Sakura Kinomoto, Syaoran Li, Tomoyo Daidouji | Coppie: Shaoran/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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NdA: Secondo "capitolo ricapitolazione" dal POV di Syaoran (ricordo che chi non è interessato può anche saltarlo).








 

Colei che rappresentò la sua felicità



 
Dopo aver detto la verità su di me a Sakura mi sentivo meglio. Come se mi fossi tolto un grosso peso dalle spalle. Sapevo che l’avevo sicuramente scioccata – chi non ne sarebbe rimasto sconvolto? – e per questo cercavo di mostrare sempre molto tatto in sua presenza. Le stavo accanto, controllavo le sue reazioni, cercando turbamenti in lei, sperando sempre di non trovarne.
Avrei voluto vederla sorridere sempre, piena di spensieratezza, ma ben presto capii che qualcosa la stava crucciando. Qualcosa le stava apportando infelicità. Non avevo idea di cosa fosse, ma non avevo alcuna intenzione di sfruttare il subdolo potere di Hiiragizawa per scoprirlo; perciò semplicemente cercai di distrarla, facendola tornare se stessa, mantenendo una piccola promessa. In tale occasione usai per la prima volta una nostra abilità innata, mostrandole la mia visione delle cose. Non ero sicuro che lei avesse recepito la neve come la vedevo io, ma a giudicare dalla meraviglia nel suo sguardo e dalla sua reazione supponevo di sì. Non era semplice bilanciarmi con la sua mente e connettermi ad essa, sapevo come si faceva solo perché mia madre me lo aveva spiegato, ma non avendolo mai attuato prima non ero certo di esserci riuscito. E al di là di questo, non ero ancora sicuro che lei volesse vedere tramite i miei occhi. Continuava a sorprendermi il suo non temermi, sebbene ormai avessi dovuto essermi rassegnato all’idea che non l’avrebbe mai fatto.
Comunque ne valse la pena, sia di mostrarle i fiocchi di neve, che di farle conoscere lo shima-enaga, se quello era il sorriso che mi rivolgeva. Risollevato glielo sfiorai, incantandomi dinanzi alla morbidezza delle sue labbra. Cosa non avrei fatto per vederla sempre, per sempre, con quell’espressione che sembrava sbocciare direttamente dal suo cuore. Con mia sorpresa, lei mi baciò le dita, poggiando la guancia contro la mia mano. Ancora e ancora, lei mi toccava, lei mi cercava, lei ci univa, senza che io riuscissi a fare nulla per evitarlo. Non poteva neppure immaginare cosa mi faceva. Se ero io a stabilire un contatto per primo riuscivo a prepararmi psicologicamente: mi contenevo, mi trattenevo, mi controllavo; ma quando lei prendeva l’iniziativa, dovevo metterci tutto me stesso per non impazzire. Per non sentirmi soggiogato da quel calore, dal suo buon profumo, dal suo dolce viso, dai suoi occhi così colmi di un sentimento che potevo riconoscere come amore, e cedere ad esso. Lei amava tanto, intensamente, chiunque le fosse accanto. Io non avevo mai amato, non sapevo neppure come si facesse, però… per lei… volevo provarci. Volevo sfiorarla, carezzarla, abbracciarla, e sapevo che i miei desideri si spingevano oltre, ma già soltanto per mettere in atto quelli dovevo stare attento perché c’era una cosa che non si poteva cancellare: in qualsiasi situazione, rischiavo di farle del male. Proprio mentre pensavo questo, lei mi disse di credere in me stesso. Di non farmi problemi, di non titubare tanto. Lei riconosceva che io stessi cercando di fare costantemente del mio meglio, in qualunque ambito. Allora mi prese nuovamente per mano, chiedendomi se potessimo cominciare con un gesto tanto piccolo. Sì, potevamo, e per il momento mi bastava, davvero.
Quello stesso giorno la condussi a casa mia, approfittando dell’assenza delle mie sorelle. Se dovevo introdurla al mio mondo, se dovevo renderla partecipe e permetterle di entrare in esso, dovevo farlo bene. Ammirò tutto l’ambiente a bocca aperta, in estasi, emozione che scemò quando incontrò mia madre. Naturalmente, doveva averla intimorita.
Quando tornammo dalla gita la prima cosa che feci fu chiedere a Hiiragizawa e Daidouji di riunirci, raccontando insieme a Meiling tutto quello che era accaduto mentre eravamo lì. Hiiragizawa confermò i miei sospetti, ipotizzando con me che non si trattava della stessa persona dei suoi sogni, piuttosto di qualcuno di “sacrificabile” inviato in avanscoperta. Il vero nemico era ancora da trovare, chiunque fosse. Eravamo persuasi che non volesse lei, ma noi, tranne mia madre, la quale continuava ad avere visioni di ciliegi insanguinati, angosciandomi sempre più, facendomi temere che ci stessimo sbagliando e che invece, chiunque fosse a cercarla, mirava unicamente al suo sangue.
Non appena mia madre ebbe modo di conoscerla e sentì il suo profumo riconobbe che fosse speciale, particolare. Quindi non ero io ad essere pazzo, il che in parte mi rincuorò. Mi fece poi capire che non sarebbe stato semplice proteggerla, ma io ero determinato: avrei messo la mia vita prima della sua e per lei avrei girato anche tutto il mondo, per nasconderla e tenerla al sicuro. Dentro di me, tuttavia, mi sentii come se mi stesse dicendo anche che non sarebbe stato facile per me stare al suo fianco. Sapevo che aveva ragione. Ciononostante, come sempre, mi sarei impegnato con tutto me stesso, comportandomi al meglio. Poi mi sorprese, parlandole in maniera criptica delle avversità che avrebbe incontrato – naturalmente, come tutti i sogni anche quelli premonitori necessitavano un’interpretazione e questa, il più delle volte, non era mai chiara –, dicendole che già l’aveva vista arrivare (quando aveva intenzione di dirmelo?!) e persino sfiorandola e toccandola. Vi si aggiunse anche Meiling abbracciandola, portandomela via, e io mi sentivo sempre più frustrato. Perché lo facevano sembrare così naturale? Perché soltanto per me risultava tanto difficile?
Rimasto solo con mia madre ci sedemmo sul divano per discuterne. Ascoltai il suo parere su di lei, e non era molto dissimile da quel che avevo capito io; era solo incredibile il fatto che nel giro di pochi minuti lei avesse compreso più di quanto io fossi riuscito a fare in mesi interi, ma non c’era da stupirsi considerando la sua età e l’esperienza del suo vissuto. Lasciai pertanto che fosse lei a parlarmi, prestando intanto attenzione a quel che combinava Sakura con mia cugina. Prevedibilmente Meiling le raccontò la sua storia, facendola piangere. Avevo evitato di parlargliene proprio per non apportare ulteriore sofferenza in lei. Mi rabbuiai, chiedendomi come potessi farla riprendere, finché mia madre non si accorse che fossi parzialmente distratto e decise di tenermi occupato chiedendomi di suonare. Spesso ciò mi aiutava a riflettere e rilassarmi, così suonai anche per Sakura e mia cugina, sperando di ridurre almeno un po’ le loro pene. Cominciai con alcuni componimenti di Bach che sapevo mia madre apprezzasse particolarmente, per poi eseguire il componimento che avevo realizzato per lei, per ringraziarla. C’era il me bambino in quel brano e per un attimo mi risentii in esso, perdendomi, finché non mi ritrovai nel cuore palpitante di Sakura.
Lei e Meiling erano venute a spiarci e mia madre si affrettò a nascondere il sangue che stava sorseggiando, mostrandosi più abile di me nel spostare altrove la sua attenzione, proponendole di mostrarle la cerimonia del tè. Peccato che nel frattempo Meiling si divertisse, come sempre, a mettermi in imbarazzo, facendo osservazioni del tutto fuori luogo e provocando la mia timidezza. E no, non mi ero scelto proprio nessuna ragazza. Non c’era nulla da scegliere, perché per quanto io provassi tutti quei sentimenti per lei, Sakura non avrebbe mai potuto stare con qualcuno come me.
Dopo la cerimonia mi riempii di entusiasmo sentendola raccontare del lavoro del padre, visto che come tutti in famiglia ero sempre stato attratto dall’arte e l’archeologia. Mi sarebbe proprio piaciuto vedere i reperti che avevano in casa, ma lo ritenevo infattibile. Meglio che non mi nutrissi di speranze irrealizzabili.
Poi si parlò di sua madre, e io in quel momento capii: ecco cosa la affliggeva, ecco l’origine della sua tristezza; sicuramente ne sentiva la mancanza seppure lei lo negasse, sicuramente avrebbe voluto avere un’altra opportunità per conoscerla, così come anche io avrei voluto vivere un’altra vita, in cui mio padre avrebbe vissuto con noi. Vedevo lo struggimento nelle sue iridi cristalline e mi sentii esplodere. Faceva male, troppo male, quel suo viso così afflitto, quella sua sofferenza, quella sua ansia nel dover per forza mostrarsi serena, per non far preoccupare nessuno.
Non potendone più la portai via da loro, a prendere una boccata d’aria, sperando le giovasse. Là fuori, tuttavia, fu lei a spiazzarmi, non solo interessandosi sul come stessi io, ma anche vantandosi di aver capito come fossi fatto. Lo faceva sin dal nostro primo dialogo, mi scavava dentro, leggendo in me più di quanto io stesso fossi capace di fare. Mi assicurò che per trovare la sua felicità mi bastava stare con lei, e mi chiese di fare altrettanto per cercare la mia. Il mio cuore si alleggerì, rispondendole al mio posto: “Non devi cercarla, Sakura, perché l’hai già trovata. La mia felicità sei tu.”
Quando rientrammo nella mia camera la scandagliò con il suo solito occhio curioso, avvicinandosi agli spartiti che avevo stupidamente lasciato in bella vista, accanto al letto.
«Stai scrivendo un nuovo componimento?» domandò accendendosi di eccitazione e ammirazione.
Se fossi stato umano, a quel punto sarei sicuramente avvampato. Non potevo certamente rivelarle che lo stessi scrivendo per lei. Né potevo confessarle tutte le altre cose che facevo per lei. Per noi. Per cui mi limitai a rispondere di sì, e fortunatamente non insistette per sapere cosa fosse; piuttosto si incuriosì sul perché prediligessi il pianoforte come strumento. Quello non avevo motivo di nasconderglielo, e lei in cambio mi raccontò che anche il fratello suonasse. Chissà se anche lei aveva imparato qualcosa. Avrei voluto chiederglielo e, in caso negativo, proporle di insegnarglielo o suonare insieme a me, attraverso le mie mani, ma no, non potevo spingermi a tanto. Mi distolse da quel pensiero porgendomi altri quesiti su mia madre mentre la riaccompagnavo a casa, parlandomi anche della sua. Da quel che mi raccontava, sembrava sempre più che mi stesse descrivendo se stessa, tralasciando giusto qualche dettaglio.
«E poi, pare che pur essendo negata in cucina inventò una ricetta per fare dei pancake speciali da regalare a mio padre, quando si accorgeva che fosse stanco dal lavoro o giù di morale.» Sorrise luminosa, rivelandomi: «Sarebbe bello se un giorno potessi prepararli anche per te.»
«Sarei lieto di provarli.»
Immaginai come potesse essere, visto che, dopo avermi lasciato intendere che il sapore dei dolci fosse particolarmente buono, mi aveva invogliato ad assaggiarli. Lei ne gioì e io in cambio le parlai di quel che sapevo delle nostre tradizioni. Le spiegai la differenza di quelle femminili, come per l’appunto la cerimonia del tè, la danza, il canto, l’imparare a suonare uno strumento e tutte le arti di seduzione, e quelle maschili, come la pittura, il kung fu, l’arte della spada, per poi dirle quelle che avevano in comune, ossia lo studio, la calligrafia e la divinazione.
«Anche tu le hai imparate?»
Ci pensai su. Non in maniera rigida come avremmo fatto se fossimo rimasti a Hong Kong, ma mia madre era stata abbastanza severa nella mia educazione, sperando che anche con me si tramandassero le nostre tradizioni. Per questo quando ero bambino mi mise nelle mani di un maestro di arti marziali, Wei Wang, umano, affinché potessi imparare a controllare sia il mio corpo che il mio spirito e il mio istinto. Dovevo ammettere che mi fu utilissimo, visto che riuscii a sentirmi più equilibrato grazie alle sue lezioni. Non per questo dovevo abbassare la guardia.
«Nel complesso, sì» confermai quindi, prima di parlarle meglio di mia madre. Dopo averle spiegato di nuovo la sua storia attesi che rientrasse in casa prima di andarmene.
Durante la settimana che seguì quell’evento cercai un regalo adatto a Sakura per Natale. Sarebbe stata la prima volta che facevo un regalo a una persona non facente parte della mia famiglia, sebbene fosse raro che ne facessi in generale, visto che di compleanni da noi si festeggiavano, per così dire, solo il mio – contro il mio volere – e quello di Meiling – anche perché le mie sorelle avevano quasi perso il conto dei loro anni, eccetto Feimei che si ostinava ad esigere una festa seppure più che ventenne. Non avevo quindi idea di cosa donarle, volevo che fosse qualcosa di particolare, di speciale, di bello, di unico e di utile, con cui potessi proteggerla anche a distanza. Ricordai allora di quell’acchiappasogni che Hiiragizawa aveva costruito in precedenza per lei, per cui gli chiesi di insegnarmi la tecnica per realizzarlo e la magia necessaria a difenderla dai suoi incubi. Mi impegnai ogni notte, riducendo le ore di sonno, tuttavia non ne risentivo più molto visto che il sole non era quasi più comparso. Soltanto durante la luna piena dovetti interrompere necessariamente quel lavoro, ma invece di gironzolare nella foresta senza meta – come avevo sempre fatto per scappare da quelle pazze squinternate delle mie sorelle (che altrimenti non mi avrebbero dato pace, approfittando della mia “indole canina”) – tornavo sempre da lei, in quel posticino buio celato dinanzi alla sua finestra.
Da settembre cominciai a farlo tutti i mesi e talvolta la vedevo affacciarsi oltre la tenda, scrutare il bosco e sollevare lo sguardo verso il cielo, con un’espressione gentile rivolta alla luna. Chissà a cosa pensava in quei momenti. La luce lunare illuminava sempre la sua figura, rendendola diafana, quasi divina, e nel guardarla, il cuore sembrava farmi le capriole nel petto. Inconsciamente, la parte animale di me già aveva compreso che non riusciva a fare a meno di lei. Non riuscivo a stare senza di lei. Perché lei mi stava cambiando, lei mi stava migliorando, lei mi stava aiutando a vivere.
Ad ogni modo, una volta tornato umano, pur lottando contro la sofferenza che ormai percepivo solo vagamente, continuai ad abbellire il suo regalo, completandolo proprio la sera della vigilia.
Quella successiva Daidouji ci invitò tutti a cena a casa sua, insieme agli amici umani di Sakura. Eravamo in tanti, forse pure troppi, eppure non mi dispiaceva. C’erano innumerevoli presenze, voci, respiri, vene piene di sangue, cuori che lo pompavano con veemenza a pochi centimetri da me, eppure la mia attenzione era tutta posta su Sakura. Per tutto il tempo non vedevo l’ora che gli altri se ne andassero, che sparissero tutti, che avessimo un po’ di tempo per restare soli e scoprire quale sarebbe stata la sua reazione al mio regalo.
Prima però Meiling voleva giocare e, dato l’entusiasmo unanime, contai con riluttanza insieme a Yamazaki. A ben pensarci, mi dissi che quella avrebbe potuto essere la mia occasione; per cui, non appena arrivammo a 50 cercai la sua scia, la quale si interrompeva a poca distanza dal roseto. Poteva essere più astuta di quanto pensassi se credeva di poter celare così il suo odore, ma no, non ci sarebbe mai riuscita. L’avrei ritrovata, anche a chilometri di distanza. Quando la raggiunsi glielo feci capire, inalando il suo odore, avvertendo quella ricchezza inebriante che superava di gran lunga il profumo delle rose. Con mio sgomento, Sakura finì inspiegabilmente stesa a terra, senza che io potessi prevederlo, come se avesse perso i sensi. Proseguimmo in ogni caso col gioco, ma per fortuna qualche ora dopo finalmente giunse il momento che avevo tanto atteso.
Una volta rimasti soli, prima che potessi farmi avanti lei mi anticipò, dandomi il suo regalo. Aprii il sacchetto sbigottito, osservando quella bottiglietta luccicante. Proprio come lei. Mi fece segno di leggere all’interno del fiocchetto e allora spalancai gli occhi. “Le tue stelle”.
“Sei tu, Sakura…” avrei voluto dirle. Ma non me ne sentivo in grado, la voce mi mancava, per cui semplicemente misi a tacere entrambi, posando le mie labbra sulla sua morbida guancia. Le dissi che era il regalo migliore che potesse farmi, ma in realtà era il più bello che avessi mai ricevuto. Il primo dono che mi aveva fatto era stato se stessa, proprio come avevo fatto anch’io con lei. Glielo spiegai, tuttavia, solo dopo che le ebbi consegnato anche il mio regalo. Tutto quello che sentivo per lei, tutto quello che lei rappresentava e significava per me, tutto quello che io provavo con lei. Tutto era racchiuso in quel singolo oggetto. Le rivelai le mie intenzioni, il mio desiderio di darle tutto ciò che meritava, promettendole che avrei fatto il possibile per far sì che si avverassero. Le dissi che per essere felice io, mi bastava che fosse felice lei. E lei mi assicurò che fosse già felice, abbracciandomi. Ero sempre timoroso di farle del male con la mia forza, ma sapevo anche che avrei saputo controllarmi, quindi dopo che mi strinse maggiormente e smise di piangere riuscii finalmente a rilassarmi, beandomi semplicemente della sua presenza, del suo calore, del suo corpo tanto vicino al mio. Sì, tutto quello mi bastava per essere felice.
Da quel giorno sembrò filare tutto liscio tra di noi: trascorrevamo la maggior parte del tempo insieme, che fosse a scuola o fuori da essa, sebbene continuassimo a prenderci i nostri tempi in base alla nostra natura. Ero lieto che tutto stesse andando meravigliosamente, finché poi, dopo che l’ebbi lasciata sola – non era che volessi farlo davvero, ma dovevo –, tornò più angosciata che mai.
Durante il soggiorno con le sue amiche alle stazioni termali quell’essere che la tormentava aveva ricominciato ad infestarla. Dopo che scoprimmo che fosse un D., secondo quanto aveva detto sua madre, tutto sembrava acquisire più o meno senso. Per una stirpe crudele come la loro, perché accontentarsi di cacciare altri vampiri quando si potevano ottenere anche gli umani? Soprattutto se possessori di un sangue speciale, un sangue come quello di Sakura. Non gli avrei mai permesso che lo avesse, l’avrei protetta sempre, costantemente, a costo di sacrificare me stesso. Ma prima di quello, ora che sapevamo il suo nome, lo avrei ucciso, distrutto, vendicandomi della morte di mio padre, della sofferenza atroce apportata a mia madre.
Quel che mi sorprese, invece, fu scoprire dei sogni di Sakura. Non per me, sebbene avesse sognato la mia morte, ma per lei stessa mi auguravo che non fossero realmente premonitori. Una capacità come quella sarebbe stata una dannazione, le avrebbe apportato unicamente sofferenza.
Per questa ragione nei giorni successivi cercai di alleggerirle la mente, mentre noi organizzammo dei turni di guardia per proteggerla per ogni evenienza, cominciando ad escogitare un piano per sconfiggere il nemico. Non ci era ancora molto chiaro il suo potere, ma da quei pochi dati che avevamo raccolto mia madre supponeva che potesse entrare nel subconscio per sostituire la volontà della persona colpita con la propria. Dovevamo, prima di tutto, difenderci da questo e indagammo in numerosi libri di magia, sperando di trovare un qualche incantesimo che ci potesse difendere da ciò. Che potesse sconfiggerlo e, se fossimo riusciti a scovarlo, che avremmo dato anche a Sakura stessa per proteggerla. Eravamo alla disperata ricerca di qualcosa di più potente di ciò che avevamo fatto con gli amuleti, ma per quanto scavassimo nei testi antichi sembrava del tutto vano.
Pertanto facevo del mio meglio come persona: di giorno stavo con lei, di notte mi allenavo con gli altri, costantemente, dormendo e nutrendomi più del solito per essere quanto più in forze possibile.
In men che non si dica giunse febbraio e, con esso, il cosiddetto “San Valentino” che tutte le ragazze parevano attendere con ansia. Mi aggiunsi a queste solo perché Sakura mi aveva promesso di prepararmi della cioccolata, ma per quanto morissi dalla voglia di assaggiarla mi lasciò per ultimo, dandomela soltanto dopo ore di trepida attesa.
Durante la pausa pranzo, quindi, ci allontanammo nel bosco e lì potei assaggiarlo. Inizialmente ero perplesso, non mi capacitavo del come fosse possibile che sapesse di lei. Ovviamente, non avendola mai assaggiata non potevo essere certo di quale fosse il suo sapore, ma avevo l’impressione che se avessi leccato la sua pelle sarebbe stato lo stesso. Sapeva di ciliegio, del mio amato ciliegio. Esitai quindi nel darle un responso, insicuro se fosse un bene dirglielo o meno. Fraintendendo il mio silenzio lei mi rubò dispettosamente i biscotti, mangiandosene uno; me ne riappropriai stizzito e nell’accostarmi a lei notai le minuscole briciole rimaste sul suo labbro. Glielo pulii, attardandomi per un po’ a seguirne la morbida, rosea curva, sfiorando anche la sua saliva, bagnandomene il polpastrello per poi portarlo alla mia bocca e saggiarla con la mia lingua. Chiusi gli occhi, sentendomi un vuoto allo stomaco, come se stessi precipitando. Era proprio lo stesso sapore, non mi ero sbagliato. Dovetti necessariamente distanziarmi da lei per resistere a qualsiasi impulso che mi avrebbe tradito, ma quasi lo facesse apposta, come sempre quanto più avevo bisogno di spazio tanto più lei mi si avvicinava. Mi toccò e io mi sentii attraversare di nuovo da quell’incomprensibile scarica elettrica e avrei ceduto, davvero, se non mi fossi accorto che c’era qualcosa che non quadrava nella sua espressione. Mi guardava come se volesse chiedermi un enorme favore, ma non sembrava sicura che fosse una buona idea. La spronai a parlare, a rivelarmelo senza remore, ma era irremovibile – quando ci si metteva sapeva essere più testarda di me. Alla fine, sorprendentemente, scoppiò a piangere dopo che le ebbi spiegato ancora una volta tutto quel che provavo, sperando fosse chiaro che poteva chiedermi qualunque cosa, avrei esaudito qualunque suo desiderio, e se questi prevedevano lo stare insieme non potevo che assecondarla perché io ormai non ero niente, più niente, senza di lei. E lei quello sembrava realmente volere, così la accompagnai a casa sua, restando finché non mi avrebbe cacciato. Quella era la mia idea di partenza, ma non potevo immaginare che sarei giunto io stesso a rovinarla.
Avevo ceduto alla sua offerta di dormire di pomeriggio – non lo facevo da tempo e ci voleva proprio – ma come mi stava accadendo spesso negli ultimi tempi lei finiva col palesarsi nei miei sogni, i quali prima che la conoscessi non erano stati altro che dominati dal vuoto più assoluto. Forse dipendeva dal fatto che mi trovassi sul suo letto, forse dipendeva dal fatto che il suo odore era dappertutto nella sua stanza, forse era perché pur nell’incoscienza del sonno sentivo il suo cuore, sentivo il suo calore, sentivo il suo respiro e, improvvisamente, si era fatto tutto troppo vicino. All’improvviso lei era lì, con me, mi abbracciava, io la stringevo, lei mi baciava, io la carezzavo, ed entrambi eravamo privi di tutto, avvolti unicamente da lenzuola candide, che avevano un che di evanescente, immateriale, e splendevano talmente tanto da sembrare essere intessute di luce, rendendo la sua candida pelle ancora più eterea e levigata. Ci sfioravamo, ci amavamo, ed io ero sicuro che quello fosse amore. Non avevo più dubbi perché mai mi ero sentito tanto bene, tanto completo, come quando ero insieme a Sakura. La mia Sakura. Percepivo distintamente il suo calore su di me, il suo odore dentro di me. Volevo morderla. Se lo avessi fatto, lei sarebbe stata mia, lo sarebbe stata per sempre. Così ribaltai la situazione e finii su di lei. La bloccai, gustandomi quella piacevole attesa, prima di avvicinare i denti al suo collo immacolato…. Ma all’improvviso la luce svanì, divenne flebile, soffusa, e avvertii il suo petto alzarsi e abbassarsi ripetutamente sotto di me, come se fosse nel panico. Le diedi una rapida occhiata, notando che fosse vestita, che io fossi vestito, che mi guardava con occhi spalancati, inerme, nelle mie mani, a mia completa disposizione.
Mi staccai violentemente da lei, destandomi. Che cosa stavo facendo?! Che fosse in un sogno o nella realtà era una cosa che non doveva accadere, assolutamente! Avrei dovuto ammazzarmi anche soltanto per averlo pensato, per averlo immaginato. Non importava quanto provassi ad accettarmi, solo perché lei sembrava accettarmi. Quella parte di me continuava ad essere deplorevole, disgustosa, da castigare. E invece lei, ancora e ancora, la perdonava, mi perdonava, dicendomi persino che quando le ero così vicino non le dispiaceva. Pensavo di illudermi, che fosse soltanto ciò che io volevo sentirmi dire, ma sapevo che per lei era realmente così. Glielo leggevo negli occhi. Ed era qualcosa che non sapevo se riuscivo ad approvare, non in quel momento, quando mi sentivo tanto smarrito. Per questo decisi di andarmene, ma prima di salutarla lei mi sorprese ancora una volta, baciandomi per prima sul collo. Nonostante tutto, con quella timidezza sfacciata mi fece tornare il buonumore. Ricambiai pertanto con la stessa moneta, lasciandole in quel flebile bacio il “Ti amo” che non avrei mai potuto dirle.










 
Spiegazione: come immagino avrete già capito nel precedente capitolo, la frase che Syaoran pronuncia nel sonno è "Wǒ de yīnghuā" ("La mia Sakura" - ammetto che qui l'ho messo in corsivo apposta).
  
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