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Autore: Mahlerlucia    26/02/2020    3 recensioni
{Sequel di ‘E ti vengo a cercare’ e ‘Mentre tutto scorre’}
Coraggio non vuol dire avere la forza di andare avanti, ma di andare avanti anche quando non si ha nessuna forza.
(Theodore Roosvelt)
[Semi x Shirabu]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Accetto miracoli'
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Anime/Manga: Haikyuu!!
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico
Rating: arancione
Avvertimenti: Lemon, What if?
Note: Spoiler!, Tematiche delicate
Personaggi: Eita Semi, Kenjirō Shirabu
Pairing: SemiShira
Tipo di coppia: Yaoi

 
  

 
Il mio gioco preferito
 
 

I'm losing my favourite game
You're losing your mind again
I'm losing my baby,

losing my favourite game... 


 
Sei anni dopo


La fama del locale in cui stavi per metter piede si poteva riconoscere già a partire dal modo in cui erano state lasciate le auto tra il piccolo parcheggio e il ciglio della strada. Qualcuno era rimasto fuori, intento a tracannarsi litri di alcol o a pomiciare con ragazze che probabilmente avevano ceduto più per disperazione che per vera attrazione nei confronti di quegli energumeni.
La tua giacca elegante stonava con qualunque dettaglio su cui i tuoi occhi potessero cadere, a partire da quelle riproduzioni dal carattere piuttosto volgare che erano state appese sulle pareti del corridoio che conduceva alla sala centrale, quella adibita ai concerti della band emergenti. Tra i vari gruppi presenti in scaletta quella sera c’era anche il suo. Una sottospecie di presentatore – che pareva appena uscito da uno di quei famosi ‘peggiori bar di Caracas’ per quanto si muovesse barcollando e urlando parole senza alcun senso – era appena salito al centro del palco su cui eri riuscito ad intravedere qualche strumento musicale. Dopo aver chiesto diverse volte al pubblico presente di ‘far rumore’, applaudire non si sa bene per chi e d’invocare ‘gli dèi dello sballo’, si era finalmente deciso ad introdurre l’unico motivo per cui ti trovavi in mezzo a quel frastuono: i Raijin.
I quattro componenti della band entrarono uno alla volta, in ordine d’attesa: salì per primo il batterista, poi il bassista accompagnato dal chitarrista. Conoscevi i loro nomi grazie alle rade volte in cui avevi avuto modo di parlare con loro dandoti una buona impressione. Non avresti però potuto giurare sulla loro affidabilità a proposito di quello che poco prima era stato banalmente definito con il termine di ‘sballo’.
A musica già avviata, si presentò sul palco anche un frastornato Semi.
Finalmente.

D’improvviso il muro smise di essere l’unico sostegno a cui poggiare la tua schiena in un susseguirsi di momenti di puro disinteresse. Ti eri avvicinato al palco quel che bastava per prendere posto tra la folla in visibilio. Come al solito la tua scarsa altezza non ti era stata di alcun aiuto; perciò, l’idea di tornare al punto di partenza non poteva più essere scartata di proposito.

“Buonasera gentaglia di Sendai! Come state? Siete pronti a far casino?”

La sua voce strideva dentro a quel microfono mal funzionante. Aveva riso di gusto dopo aver pronunciato quelle poche parole di rito; chiunque disponesse ancora di un minimo di lucidità mentale si sarebbe rapidamente potuto rendere conto di quanto il tutto fosse stato simulato per bene allo scopo di nascondere ben altro tipo di stato d’animo.
Eita, puoi ingannare tutti queste teste brille e strafatte, ma non me.

Le note di ‘Song 2’ dei Blur invasero la sala a colpi di urla, schitarrate e colpi di batteria volutamente accentuati. Nonostante le scarse disponibilità che il tirocinio in ospedale ti stava fornendo, avevi avuto modo di assistere a performance ben più elaborate e meno confusionarie, anche se non ti era difficile comprendere le motivazioni di quel baccano di cui Semi aveva bisogno per non fermarsi a pensare e per non finire di nuovo in quel baratro dal quale non era ancora completamente uscito pur impiegando tutte le sue forze. E se urlare emulando un giovane Damon Albarn poteva essere l’escamotage momentaneo utile per restare in superficie nonostante le continue ricadute, non saresti di certo stato tu a fermarlo.
Peccato che Eita fosse noto anche per essere un talentuoso cantautore; i suoi testi avevano sicuramente qualcosa in più da raccontare a quella massa di rammolliti pronti solo a ‘far casino’. Ma purtroppo l’autostima dell’ex setter della Shiratorizawa Academy ne aveva risentito sotto tutti i punti di vista, specie dal giorno del terribile incidente.

‘Don’t look back in anger’ degli Oasis si avvicinava maggiormente al marasma di emozioni che in quegli ultimi mesi avevano assediato il suo cuore offeso dagli eventi. Il fatto che avesse impugnato una chitarra classica e la stesse eseguendo in una versione acustica – con tanto di sgabello – ne era la palese dimostrazione. I pezzi capaci di riportare la sua mente al passato erano sicuramente molto più sentiti da parte di entrambi.
Il modo in cui modulava la voce, gli occhi tenuti chiusi durante l’esecuzione del ritornello e persi nel vuoto nel corso delle strofe, le corde della chitarra accarezzate senza l’utilizzo del plettro, le labbra incollate a quel vecchio microfono, i capelli chiari disordinati e buttati da un lato. La tua fervida immaginazione aveva azzardato qualche improbabile paragone con grandi miti del rock e del grunge appartenenti oramai alla storia della musica contemporanea; qualcosa che andava ben oltre le travagliate vicende che intercorrevano tra i fratelli Gallagher di Manchester.  
Tra applausi, un tripudio di urla e diverse richieste di ‘bis’, eri riuscito a conquistarti la sua attenzione, seppur per pochi secondi. L’occhiolino che ti concesse ti fece ben sperare per la sua salute, specie per il suo stato d’animo da non sottovalutare in una fase come quella che stavate attraversando insieme. Non era facile per nessuno di voi due, ma in qualche modo il dolore vi aveva unito ancor più di quanto non fosse successo in precedenza.

“Vi ringrazio per essere venuti fin qui, soprattutto ringrazio chi è stato costretto a percorrere diversi chilometri per mostrarci il suo supporto. Sì, sì, lo so. Nessuno può essere costretto a presentarsi ad un concerto messo in piedi da band sconosciute come la nostra... sono cose che si fanno per diletto. Dico solo che... insomma, chi vuole intendere, intenda. Grazie!”

Idiota! Non lo vedi che così mi metti in imbarazzo davanti a tutta questa banda di scalmanati?! Per lo meno potevi evitare di tenere gli occhi puntati su di me per tutto il tuo intenso discorsetto e di sorridere come un ebete per i dieci minuti consecutivi. Ok, dovrei essere felice di trovarti finalmente in buona ma... Ok, la smetto! Sono felice! Sono dannatamente felice di vederti alle prese con la tua vita come un tempo, Semi-san!
 
***
 
Il tuo telefono aveva iniziato a ricevere messaggi e notifiche provenienti dalle capitale. Una collega ti chiedeva un cambio turno per la settimana successiva, il tutor responsabile del tuo reparto non si ricordava in quale database potesse trovare la ricerca a cui stavate lavorando assieme – figurarsi se riusciva ad occuparsi da solo delle questioni più pratiche da gestire! –, la madre di un piccolo paziente che avevi preso in cura non molto tempo prima ti voleva invitare alla sua festa di compleanno. Un bombardamento d’informazioni e richieste sicuramente eccessivo per essere una tranquilla domenica da dover trascorrere nella lontana prefettura di Miyagi. Di certo non ci si poteva aspettare gli stessi ritmi asfissianti presenti nella stragrande maggioranza delle strade e dei viali edochiani.
Non avevi né la voglia e né la pazienza di rispondere ad ognuno di loro, ci avresti pensato poi e giusto per non lasciare nulla in sospeso una volta tornato a Tokyo. Non eri passato a trovare i tuoi genitori e nemmeno li avevi avvisati della tua presenza a Sendai: ogni secondo passato nella tua città natale sarebbe stato solo ed esclusivamente dedicato a lui; glielo dovevi, considerando tutte le volte in cui gli avevi dato buca a causa delle tue abituali full immersion lavorative.

Ma dove sei?
Il letto che avevate condiviso nel suo discreto appartamento era vuoto; ancora caldo, ma privo di quella presenza pronta a farti compagnia al tuo risveglio, come avresti desiderato. Il guanciale era ancora impregnato del suo odore misto a quelli di nicotina ed alcol. La serata precedente era terminata ancor più tardi del previsto e le forze erano poi venute a mancare proprio quando finalmente avevate avuto la possibilità di restare da soli.
La stanza che ti circondava era scarsamente arredata: oltre al letto, un piccolo guardaroba straripante di abiti che tu non avresti indossato neanche sotto tortura, una vecchia cassettiera e una gigantografia dei Kiss che ti dava più fastidio che altro. Nessuna foto, nemmeno un appiglio legato alla memoria di chi non c’era più.
Faceva ancora troppo male.

Oltre la porta della camera faceva piuttosto freddo, dato che la portafinestra che dava sul piccolo terrazzino era aperta. Semi se ne stava appollaiato sul piccolo divano in vimini lasciato in prestito dalla proprietaria. Le gambe nude ripiegate su loro stesse, le spalle abbigliate solo dalla vecchia giacca di una tuta rimasta aperta, i tatuaggi che gli ricoprivano le braccia lasciati in bella vista, così come quel braccialetto spinato che contornava le sua caviglia sinistra. Quello era stato il suo capriccio più recente, un sigillo che si era voluto far imprimere sottopelle sin dal giorno in cui aveva cominciato a provare interesse per la religione Cattolica. Era arrivato a leggersi l’intero Pentateuco con la stessa voracità con cui tu leggevi tomi di Oncologia e Pediatria Generale per la preparazione dei tuoi esami universitari. Con l’unica differenza che tu lo facevi per lavoro, lui per mero interesse personale.
I suoi occhi erano persi nel vuoto, fissi su un punto indefinito del cielo limpido che troneggiava oltre quella ringhiera in ferro battuto. Nel posacenere lasciato a terra vi erano già due mozziconi ancora tiepidi.

“Ti gira ancora la testa?”

La sua espressione non era arrivata al punto tale da dedicarsi a te, ma lo sguardo era finalmente tornato sull’hic et nunc, supportato dalla piccola smorfia che si era concesso ad un solo lato della bocca. Per il resto era rimasto completamente immobile, con l’unica eccezione di un braccio che si stava allungando nel goffo tentativo di recuperare il pacchetto di sigarette. In quel momento fu solo il tuo istinto cautelare ad indurti ad afferrare quello stesso polso per allontanarlo dall’ennesima dose di veleno di cui i suoi polmoni non avevano certo bisogno. Aveva opposto resistenza ma, a dirla tutta, ti saresti maggiormente stupito del contrario. L’equilibrio ti era venuto a mancare, fino al momento in cui non era stato Eita stesso ad avvolgerti da dietro con il braccio opposto, giusto in tempo per non farti finire a gambe all’aria. Ti aveva invitato a sederti al suo fianco, senza mai mollare la presa e sorridendoti in maniera provocatoria. Le sue occhiaie non ti piacevano minimamente, ancor meno le cicatrici che portava sulle nocche di entrambe le mani.

“Prendimi una sigaretta, Shirabu-kun.”

“No!”

“Mi mancavano i tuoi ‘No!’ Specie quando li pronunci in maniera così poco convincente.”

Ti fissò stringendo appena le palpebre, con quell’aria di sfida che ricordavi sin dai tempi della Shiratorizawa. Ti stava chiaramente mettendo alla prova per tastare fino a che punto potessi arrivare con la tua caparbietà da buon futuro pediatra. Probabilmente avrà pensato che talvolta tu lo potessi considerare al pari di uno qualsiasi dei tuoi piccoli pazienti di reparto. Ma era dura fargli comprendere che non era così, che tra di voi c’era molto di più, nonostante il suo infantilismo cronico.

“Ti sbagli, so essere molto persuasivo quando si tratta della salute altrui.”

“Mi vuoi curare la bua, dottore?”

Il suo naso si era fermato a pochi centimetri dal tuo, mentre con le iridi argentee puntava alla tua bocca rimasta dischiusa per lo stupore. Non ti aveva nemmeno lasciato il tempo di allontanarlo a dovere che ti aveva attirato a sé prendendoti dalla nuca e portando le sue labbra a diretto contatto con le tue già in fermento. Era inutile ed ingiusto cercare di resistere, visto che non avresti potuto negare in alcun modo che aspettavi l’occasione più propizia esattamente da quando eri salito sul treno che ti avrebbe ricondotto a lui.
L’odore della nicotina era insopportabile, ma bastarono la sua irruenza e l’eccitazione in continuo sviluppo per far sì che questo passasse presto in secondo piano. Non t’importava nemmeno se quel piercing inconcepibile s’intrometteva in gran parte di quei giri di walzer che si svolgevano all’interno delle vostre bocche; da quando avevi accettato i sentimenti che da sempre provavi nei suoi riguardi eri diventato molto più paziente ed accondiscendente di un tempo; ma sempre nei giusti limiti e in maniera coerente. D’altronde eri sempre stato tu il giusto rappresentante della parte più razionale della vostra unione e la cosa stava bene anche al tuo ex senpai.

“Quando ti toglierai quel bullone dalla lingua?”

Ancor prima di degnarsi di risponderti schioccò più volte la lingua come se stesse masticando uno di quei chewing gum pregni di zuccheri e coloranti. Un attimo dopo ti mostrò con orgoglio l’accessorio di cui stavi osando lamentarti. Era strano da dover ammettere, ma ogni sua stravaganza stilistica sembrava sempre calzargli a pennello, come se fosse stata ideata appositamente per le personalità controverse come la sua. Molte volte si contornava di dettagli che personalizzava e abbinava a colori che di primo acchito potevano apparire come impossibili da accostare, ma che lui riusciva a portare e a rendere in maniera più che convincente. Peccato solo che nell’ultimo periodo prediligesse tonalità scure e tendesse a rimarcare questo stato d’animo truccandosi con matite e smalti neri.

“Con tutte le volte in cui lo hai leccato di gusto, ora mi chiedi di toglierlo?”

Poggiandoti l’indice sulla fronte ti fece indietreggiare quanto bastava per consentirgli di alzarsi e di rientrare in casa. le sue parole ti avevano lasciato interdetto e privo di una risposta efficacie con cui poter controbattere a quella mera provocazione. Lo sapeva che non amavi parlare della vostra intimità in quei termini, che non avevi mai amato l’abitudine di riportare i dettagli oralmente, qualche volta persino in forma scritta mediante messaggi su WhatsApp o per e-mail. Non pretendevi nemmeno che si presentasse sotto casa tua con un enorme mazzo di rose rosse chiamandoti ‘Watashi no ai’; un’equa vi di mezzo, di tanto in tanto, non avrebbe di certo guastato il vostro rapporto.

“Sono altre le cose che amo leccare con gusto!”

Non sapevi nemmeno tu come ti fossero uscite quelle parole dalla bocca. Stavi cercando di adattarti al suo linguaggio colorito... o volevi solamente tendergli la tua personale trappola oratoria? Avevi reagito talmente d’impulso da sentire la mancanza della fermezza che ti avrebbe consentito di capire dove diavolo stessi andando a parare. Sta di fatto che eri riuscito a bloccarlo prima che richiudesse la portafinestra e a riportare la sua attenzione completamente su di te. Insomma, piano perfettamente riuscito, seppur con insoliti mezzi.

“Shirabu-kun! Se hai tutto questo desiderio di avermi potevi dirmelo subito! Shower-time e arrivo!”

“Ma che cosa... Semi-san!”

Come suo solito non ti concede tempo per replicare, approfittando della scarsa prontezza dei tuoi riflessi verbali in quel preciso frangente. Parlando di Eita avresti potuto riportare molti aspetti decisamente migliorabili, ma con ogni probabilità non ti saresti mai azzardato a sminuire la fervida capacità con cui sapeva cogliere i segnali altrui, specie quelli che sembravano più impliciti e reconditi.
L’occhiata furtiva che aveva lanciato sulla tua erezione non lasciava alcun dubbio su quali fossero i suoi piani per quell’ancor lunga mattinata da poter trascorrere insieme.
 
***
 
“Hai preso le pastiglie?”

Eita sollevò appena il capo dall’incavo del tuo collo e ti fissò con aria sconcertata; aggrottò la fronte e fece ‘no’ con testa. Qualche rada gocciolina d’acqua ricadde sul tuo esile petto, rimasuglio di un lungo shampoo che non aveva previsto l’utilizzo dell’asciugacapelli. L’umidità rendeva i suoi crini quasi monocolore, il ché era davvero una visione più unica che rara. Dovevi riconoscere che non stava affatto male.

“E non ti sei nemmeno asciugato i capelli.”

“Sono proprio uno sconsiderato!”

Quel termine non era da lui e non fu molto arduo comprendere che ti stesse semplicemente scimmiottando. Più volte aveva avuto modo di notare come ti approcciavi con alcuni colleghi più giovani, o con alcuni pazienti in età adolescenziale. Le modalità non si discostavano poi molto da quelle che utilizzavi con il povero Goshiki-kun durante gli allenamenti e in campo, nel bel mezzo dei match più importanti.

“No, sei proprio un deficiente, che è diverso ed è ovviamente peggio! Lo sai che devi prendere quelle dannate pastiglie!”

“Altrimenti?! Potrei ricominciare a pensare che Satori sia ancora vivo?!”

La lucidità con cui sentenziò quell’ultimo pensiero lasciò senza parole entrambi. I suoi occhi divennero enormi mentre con una mano arrivò a coprirsi la bocca per evitare di proseguire quel discorso. Una realtà da cui cercava inesorabilmente di scappare da oltre un anno, dal giorno in cui il suo migliore amico lo aveva lasciato solo, totalmente infognato nelle sue paure e nei suoi implacabili sensi di colpa.

Quella sera c’era Eita la volante. Quella sera era stato Eita ad invitare Tendou al suo concerto. Quella sera era stato sempre lui a offrirgli da bere, mentre l’ex numero cinque della Shiratorizawa si dilettava a raccontargli di una ragazza che aveva conosciuto da poco all’Università e che pensava di invitare fuori a cena, prima o poi.

“Non volevo dire questo.”

Semi si allontanò per rimanere sul ciglio del letto, accasciato sulle ginocchia. La mano ancora davanti alla bocca, gli occhi divaricati – e sempre più lucidi – fissavano un punto indefinito di quel lenzuolo sicuramente troppo bianco per i suoi gusti ed incoerente rispetto ai pensieri negativi che in quel momento si stavano facendo largo nella sua fragile materia grigia.
L’accappatoio slacciato lasciava intravedere le due enormi ali d’aquila tatuate sulla schiena. L’ennesima follia partorita dalla sua mente a soli pochi giorni dalle dimissioni dall’ospedale, quando non riusciva ancora a capacitarsi del motivo per cui lui fosse sopravvissuto a discapito dell’amico. Quelle fantomatiche ali gli sarebbero servite per raggiungere Satori, a qualunque altezza fosse arrivato nel frattempo.
E fu solo la prima fase di quel Delirio Post Traumatico di cui aveva inevitabilmente cominciato a soffrire nelle settimane a seguire e dal quale sembrava non essersi ancora interamente ripreso. Il percorso terapeutico era stato lungo e mai semplice, con diverse recidive da affrontare, compreso un quasi tentato suicidio. Il suo amor proprio era andato via via scomparendo e la musica sembrava essere rimasta la sua unica valvola di sfogo.
Ma non era così, dato che in gran parte dei locali in cui si recava per esibirsi con i Reijin si spacciavano sostanze illecite di diversa provenienza. Liberare la mente da qualsiasi pensiero nebuloso per almeno qualche ora era diventato fondamentale per poter andare comunque avanti, per quanto fosse maledettamente sbagliato.

“Ormai ho capito che non c’è più. Il tuo amico strizzacervelli è stato bravo a riportarmi alla realtà, anche se gli avrò ribadito un miliardo di volte che non me ne fregava più un cazzo.”

Il tuo sospiro lo fece rinsavire, riportando ancora una volta la sua premura su di te. Questa volta il suo sguardo era diffidente, colmo di risentimento e pronto ad anticipare una palese di una crisi di nervi.
Il presentimento che avevi avuto sin dalla sera prima al concerto non era stato infondato: Eita era maledettamente solo e aveva bisogno di te, per quanto non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura. In fondo, sai bene anche tu che quella parvenza di attrito che si era da sempre fatta largo tra di voi non si era mai veramente estinta. Due caratteri forti ed indipendenti come i vostri avrebbero continuato sempre a collidere tra loro, anche condividendo lo stesso letto e gli stessi reciproci sentimenti. A volte era una questione di sopportazione, altre di pura necessità di vicinanza fisica ed emotiva. Il bisogno assoluto di avere qualcuno a cui poter stringere la mano e raccontare le proprie paturnie senza dover incorrere nella paura di non essere capito o, peggio ancora, di essere giudicato.

“Non dire così. Ti fai solo del male.”

“E quelle fottute pastiglie ansiolitiche sarebbero la mia salvezza?”

“Eita, calmati per favore.”

L’istinto ti aveva spinto ad avvicinarti a lui per buttargli le braccia al collo e per stringerlo con tutto l’affetto e la comprensione che avevi in corpo. Lo avevi avvicinato al tuo petto, accarezzandogli delicatamente quei capelli dalle punte scure. Erano morbidi, profumavano di shampoo alla lavanda, quello che tu stesso gli avevi consigliato tempo addietro e che non aveva mai mancato di acquistare. Non aveva opposto alcuna resistenza, tanto da arrivare a stringerti con le sue mani forti, ma piene di graffi e piccoli tagli resi quasi impercettibili dagli ingombranti tatuaggi.
Tremava, mentre cercavi di sistemare alla bell’e meglio sulle sue spalle quell’accappatoio ormai fradicio ed inutile. Gli effetti della mancata somministrazione degli ansiolitici si stavano riversando tutti in quell’esternazione malinconica per la quale si sarebbe maledetto per numerosi giorni a venire. Se c’era una cosa che Semi detestava era mostrare le sue debolezze a chi avrebbe potute usarle a suo sfavore o, ancor peggio, a chi voleva bene più di sé stesso.

“Vuoi un po’ d’acqua?”

Sollevò di scatto la testa e tornò a guardarti in maniera torva, come se non si aspettasse minimamente quella domanda carica di affetto nei suoi confronti. Afferrò le tue spalle e ti fece sdraiare di nuovo sul letto, per poi togliersi l’accappatoio e bloccare i tuoi fianchi con le sue ginocchia. Nonostante indossasse ancora quelle assurde mutande color senape, avevi già avuto la fortuna di entrare in contatto con la sua accesa virilità.
Il tuo gemito fu senza dubbio la reazione che si sarebbe maggiormente aspettato da parte tua, assieme all’eccitazione crescente che aveva già avuto modo di adocchiare.

“No, grazie. È altro quello che voglio!”

Com’è possibile che tutte le volte tu riesca a passare dalla risata, alle lacrime... alla voglia di scopare? Pensavo stessi meglio... pensavo che almeno i tuoi pensieri ossessivi avessero smesso di tormentarti, almeno un po’. Ne ero convinto. Ho sottovalutato tutto e non avrei dovuto. Scusami, Eita.

Liberò il suo sesso turgido dalla biancheria e si sistemò tra le tue cosce. Avresti preferito una punta di sentimentalismo in più dato che, quando era in vena, Semi sapeva essere persino più cordiale ed accorto di una figura di sesso femminile. Ma non era quello il caso, inutile rimuginarci sopra più del dovuto.
Le sue dita ti penetrarono e ti prepararono in maniera piuttosto rapida. I suoi occhi languidi puntavano alla tua intimità, ma sembravano persi nel vuoto, come accadeva fin troppo spesso da qualche mese a quella parte. Chissà se mentre si beava nel donarti piacere la sua mente era impegnata in qualche universo parallelo; magari in compagnia di qualcuno che portava dei lunghi capelli rossi. Del resto, te l’aveva addirittura confessato: Tendou era stato il primo ragazzo con cui era andato ben oltre l’amicizia, anche se i loro frequenti momenti erotici non si erano mai evoluti in una vera e propria relazione. Era semplicemente la strategia che osava mettere in atto per punire le tue costanti assenze e per dar sollievo ai suoi impulsi primordiali.

Le sue spinte erano divenute ben presto piuttosto decise, dimostrando la sua necessità di dover sfogare quell’iperattività ansiogena quantomeno dal punto di vista fisico. E poco contava se sapevi che le cose sarebbero comunque dovute andare in quel modo: realizzare di averlo dentro di te e sentirlo gridare per quel piacere che tu stesso gli stavi donando – senza chiedere nulla in cambio – ti riempiva comunque il cuore di gioia.

“Eita...”

“Che c’è, dottore? Lo sai che mi devo ancora vendicare... vendicare per bene... per il posto in squadra che mi hai fottuto tanto tempo fa...”

“Tanto tempo fa... appunto. Pensa al presente, Semi-san.”

Pensa al presente.
Le parole esatte che lo fecero venire mentre si trovava ancora nel tuo orifizio. Si accasciò quasi interamente su di te, afferrandoti d’impeto entrambi i polsi. Quando riuscì a riprendere sufficiente fiato e a trovare la forza per riaprire gli occhi, tornò ad inchiodarti con uno dei suoi tipici sguardi criptici. Paradossalmente era lui quello che qualche anno prima si lamentava di faticare nella comprensione del linguaggio non verbale, fatto prevalentemente di piccoli gesti e movimenti saccadici improvvisi. Ora i ruoli si erano curiosamente invertiti.

“Il presente... sei tu, Kenjirō.”

Cos’hai detto? Sei impazzito definitivamente, Eita?!
La lacrime che sgorgarono dai tuoi occhi decisero di mostrarsi tra voi senza nemmeno chiederti l’autorizzazione ufficiale; non potevi nemmeno permetterti il lusso di nasconderle o far finta di niente in quella posizione scomoda che – in verità – non ti dispiaceva affatto.

“Ho già pianto io. Perché devi sempre copiarmi?”

“Io non copio. Traggo solo ispirazione da chi merita, caro Senpai.”

Le sue labbra ancora una volta si posarono sulle tue. Quel tremore che ormai non riusciva più a tenere sotto controllo si stava trasferendo fin dentro la tua mente, inebriandola di quel sollievo di cui finalmente potevi godere assieme a lui, sperando che quell’attimo potesse durare ancora a lungo.
Magari tutta la vita.










 

Angolo dell'Autrice


Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere e recensire questa mia piccola one-shot! :)

Mi scuso in anticipo se i toni di questo terzo episodio sono cambiati, ma abbiamo fatto un salto temporale non indifferente e molte cose si sono evolute. In meglio? In peggio? A voi giudicare! Io, nel mio piccolo, ho cercato di rendere il tutto nella maniera più realistica possibile, senza ingigantire e puntando molto sulla ‘particolare’ relazione presente tra Semi e Shirabu. Eh sì, ho voluto dare anche un po’ più di rilievo ad un personaggio che credo non sia molto amato (why?). Mi perdonerà per averlo fatto in questo modo. <3

Terzo episodio. *inforca gli occhiali ancora una volta*
Angst. Lo volevate? E io ve l’ho appena offerto su di un piatto d’argento. Volete ulteriori dettagli? Attendete la prossima shot della serie perché sì, ci sarà almeno un (?) altro sequel.
Nella prima parte ritroviamo il nostro Semi alle prese con le sue serate in musica. Come si evince dagli ultimi capitoli del manga, tra le altre cose, l’ex setter della Shiratorizawa si darà anche alla carriera musicale. E Shirabu, dal canto suo, si è fatto un viaggetto non indifferente (Tokyo e Sendai sono ad oltre 350 Km di distanza l’una dall’altra) per essere a sua volta presente.
Nella seconda e nella terza parte i nostri eroi si ritrovano per un attimo a ridere e a prendersi in giro, per poi finire con l’immergersi nei ricordi più malinconici e ‘bui’. Ribadisco che ulteriori dettagli arriveranno in seguito, ma penso che quello che purtroppo è successo a Semi e, soprattutto, a Tendou sia abbastanza chiaro. E chi è sopravvissuto deve comunque trovare la forza per andare avanti e ricominciare a credere in sé stesso e nella propria beltà (in tutti in sensi ipotizzabili). Anche per questo la presenza di Kenjirō diventa – e diventerà – fondamentale per lui.
Per tutto il resto... stay tuned! ;)

Il testo è scritto in seconda persona (questa volta il pov è quello di Shirabu) e al tempo passato.
Il titolo della serie di cui questa one-shot fa parte è ‘Accetto miracoli’, tratto dall’omonima canzone di Tiziano Ferro.
Il testo della canzone che riporto nella prima parte della storia è ‘My favourite game’ dei The Cardigans. Dal titolo del brano ho ricavato anche il titolo generale tradotto in italiano.
Per il nome della band (Raijin) ringrazio Johanna per il prezioso suggerimento lasciatomi su Facebook.

Grazie ancora a chiunque passerà di qua. **

A presto,

Mahlerlucia
 

 
   
 
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