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Autore: Mispon_    27/02/2020    1 recensioni
I pokémon sono creature misteriose che vivono negli habitat più disparati: dalle impervie montagne innevate ai bui fondali oceanici, dalle foreste più selvagge alle grandi metropoli industrializzate. Questi esseri vivono in perfetta armonia con gli esseri umani e il loro legame viene a concretizzarsi nel fenomeno delle lotte tra pokémon.
In questo contesto uno scienziato, il Prof. Y. Okido, crea il Pokédex, un'enciclopedia multimediale che raccoglie i dati di tutti i pokémon della regione di Kanto. Il suo desiderio è quello di affidare il Pokédex a due giovani allenatori per testarne il funzionamento. Ma qualcosa va drammaticamente storto...
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Blue, Red
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Videogioco
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Capitolo 8 - Rosa bruciata


Fronesis salì le scale senza fretta. Aggiustò la bombetta, diede una sistemata al nodo della sua rossa cravatta e procedette a piccoli passi. Il suono del suo bastone si mescolava a quello dei passi: qualcuno avrebbe potuto pensare che si trattasse di una creatura con tre gambe.
“Corridoio B, Stanza 21. Eccoci qui.” Bussò. Nessuna risposta.
Avvicinando la mano alla maniglia della porta la sua espressione seria si tramutò in un falso sorriso amichevole. Sul letto d’ospedale, collegato ad alcuni macchinari, un uomo grande e grosso giaceva in uno stato di semi-incoscienza.
“Buongiorno, signor Surge.” Disse, alzando il cappello.
Dall’altro lato l’uomo masticò alcune sillabe a fatica: “Ch… se…” La mascherina che gli copriva la bocca ovattava molto il suono ma era evidente che faceva anche fatica a respirare. La sera prima la sua Palestra a Kuchiba era saltata in aria ed egli era rimasto coinvolto gravemente nell’esplosione. Quando la polizia poche ore più tardi trovò il corpo, fu portato d’urgenza all’ospedale cittadino. Aveva perso tutti e quattro gli arti, un occhio e l’intero setto nasale. I suoi capelli dorati erano ridotti in cenere e la pelle aveva assunto un colore bluastro, lasciando scoperti i muscoli in molti punti. Ma era sopravvissuto.
“Mi perdoni per l’intrusione. Il mio nome è Tatsuya Hishida e faccio parte dell’Interpol.” Mostrò un distintivo. “Stiamo indagando circa l’incidente di ieri sera. Mi rendo conto che la sua situazione è quanto mai spiacevole e non è nostra intenzione disturbarla più di tanto. Ho assicurato al personale che quest’incontro non durerà più di qualche minuto.” Surge provò ad annuire.
“Veniamo subito al dunque: il suo caso è palesemente riconducibile agli altri due omicidi di queste settimane, non c’è bisogno che glielo dica. Lei però è l’unico a essere ancora vivo. Vorremmo sapere tutto quello che riesce a ricordare dell’assassino.”
Surge chiuse l’occhio che gli rimaneva. Attimi di silenzio rotti soltanto dal segnale acustico che evidenziava il battito cardiaco del capopalestra. Bip. Bip. Bip. Poi provò ad articolare: “Fu…” Tossì.
“Non si sforzi. Abbiamo tutto il tempo del mondo.” Il segnale acustico accelerò. Bip. Bip. Bip. Bip.
“Fu… ri… ko.”
“Furiko? Cos’è Furiko? Coraggio.” Sempre più veloce. Bip. Bip. Bip. Bip. Bip.
“Va… Ma.. sa… ra.” Tossì ancora, stavolta più a lungo.
Fronesis accennò un sorriso. Gli si illuminarono brevemente gli occhi. Bip bip bip bip bip bip bip.
“Pa… la… c… Ha… na… ko.”
Bip. Seguì un suono acuto, prolungato. Fronesis si alzò e si avviò verso l’uscita: “Lavorare con lei è stato un vero piacere! Sogni d’oro.”
Le infermiere si accorsero della tragedia dopo pochi minuti. Nell’ospedale si diffuse il caos: medici che andavano avanti e indietro per i corridoi, la sala di rianimazione gremita per ore. Non ci fu nulla da fare: Surge era morto, il suo cuore era andato in pezzi. Com’era possibile? Fino a pochi istanti prima era stabile! Era entrato qualcuno? Eppure tutte le visite erano state categoricamente negate.
Anche cercando, però, non avrebbero trovato nulla. Fronesis se n’era andato come era venuto: senza lasciare tracce. Si allontanò fulmineo dall’ospedale e iniziò a passeggiare per i viali della città portuale come se nulla fosse successo. Se non fosse stato per il rudere della Palestra sarebbe stato un posto come gli altri. Un cantiere in costruzione, il palazzo della prefettura, le navi che attraccavano. Si sedette su una panchina e osservò alcuni Pidgey che beccavano del mangime sparso per la strada. Probabilmente venivano dai percorsi a nord o a ovest, sono pokémon che non di rado si spostano nei centri abitati per mangiare. Gli venne quasi voglia di portarne uno con sé. Mentre rifletteva una voce anziana lo sorprese alle spalle: “Tatsuya Hishida dell’Interpol, eh? Ma a chi vuoi darla a bere?”
Dopo un istante di sbigottimento recuperò il sangue freddo: “Pistis, maledetto vecchiaccio! Ti ho detto milioni di volte di non apparire così all’improvviso.”
“Ti dà fastidio perché non riesci a prevedermi?” Rise di gusto.
“Perché mi stavi tenendo d’occhio?” Fece visibilmente seccato.
“Riteniamo che dovresti agire con maggior cautela. Ti sei fatto vedere in volto da quell’esaltato della guerra, l’ho dovuto far fuori. La poca prudenza che adotti non si addice al tuo nome.”
“Beh, neanche la poca fede che riponi in me si addice al tuo.”
Pistis lo guardò severo: “Non giocare con la semantica. Sei perfettamente consapevole della differenza tra fiducia e Fede.”
“Sì, sì, come vuoi. Ora perché non mi dici qualcosa di più interessante?” Si esibì in un ghigno colmo di malizia. “Come hai ucciso questa volta?”
“Sei proprio un edonista sopra le righe, tu. Gli ho semplicemente stritolato il cuore dall’interno.”
“Delizioso!”
“Cosa farai adesso?”
“Prima di tornare dai miei amici poliziotti ho un viaggetto da fare. Ma se stavi ascoltando questo lo sai già. Furiko. Va a Masara. Parla con Hanako. Era più o meno così, no?”

Il ragazzo dal berretto rosso stava correndo nel bosco.
D’un tratto si sentì afferrare la caviglia: una radice lo stava trascinando verso il suolo. Prontamente si voltò e riuscì a liberarsi maneggiando la lama di un coltello. La fitta vegetazione non gli aveva permesso di notarlo prima: era circondato da ogni lato dai pokémon ostili. Prima che i nemici potessero sferrare un altro attacco egli tirò fuori dalla Pokéball il suo Charizard e schioccò le dita. Il dragone delimitò un cerchio attorno al suo allenatore utilizzando la coda fiammeggiante: nessuno ora poteva avvicinarsi senza ustionarsi.
A giudicare dall’ambiente e dalla mossa che avevano utilizzato in precedenza, dovevano essere dei Tipi Erba: procedeva tutto come previsto. Alcune radici provarono a passare al di sotto del cerchio di fuoco ma si carbonizzarono quasi all’istante. Il ragazzo, invece, non sembrava avvertire il calore più di tanto.
Charizard spiegò le ali e si erse in volo. Gli alberi erano così numerosi che non poteva stimare quanti fossero i nemici. Alcuni Bellsprout erano usciti allo scoperto. Quegli stupidi pokémon pianta si gettavano tra le fiamme senza esitare un istante e il loro esilissimo fusto si sgretolava prima ancora che se ne rendessero conto. Evidentemente avevano avuto l’ordine di scagliarsi sul nemico e la loro consapevolezza del mondo era troppo bassa perché potessero capire che si stavano suicidando in massa.
Più prudenti erano gli Oddish: una ventina di loro si erano posizionati a distanza con il bulbo immerso nel terreno e soltanto le foglie in superficie. Da queste rilasciavano polveri di varia natura, da paralizzanti a sonniferi passando per veleni. Charizard si spostò a favore di vento in modo da non essere contagiato; virò rapido alle spalle di quelle fastidiose mandragore semoventi e le mise fuori gioco con il suo alito di fuoco. Poi recuperò il suo allenatore.
Il ragazzo continuò ad avanzare nella boscaglia. Molti Bellsprout e Oddish provarono a sbarrargli la strada, più e più volte. Era evidente che non fossero pokémon selvatici. Per controllare lanciò una Pokéball vuota su uno degli avversari. Come pensava, l’oggetto non funzionò: catturare il pokémon di un altro allenatore è impossibile. Dopo dieci minuti che vagava senza sosta aveva carbonizzato più di un centinaio di creature. Cominciava a essere più semplice individuarli; aveva iniziato a far caso ai rumori del bosco. Foglie spezzate, fruscii tra i rami, strani spostamenti d’aria: ogni cosa gli indicava la presenza di un elemento ostile.
Dopo l’ennesima orda di Bellsprout l’allenatore deviò dal sentiero principale. Imboccò una deviazione a destra praticamente invisibile: le foglie avevano coperto quasi interamente il percorso e soltanto la posizione degli alberi indicava che un tempo quella zona era stata adibita al passaggio umano.
Nel praticare quel sentiero il ragazzo rischiò più volte di precipitare: il terreno era colmo di profondi fossi nascosti dal fogliame. Quando si accorse per la prima volta del pericolo ritrasse il piede appena in tempo e la buca rivelò la sua vera natura: sul fondo brulicavano colonie di Paras. Come se non fosse bastato i funghi che crescevano su quegli insetti rilasciavano spore paralizzanti. Delle vere e proprie trappole degne del miglior cacciatore. Il ragazzo decise di ricorrere nuovamente a Charizard: schioccando le dita gli ordinò di soffiare un’estesa fiammata su tutto il sentiero. Molti alberi bruciarono e un principio di incendio iniziava a prendere forma, ma ancor più importante il fuoco penetrò all’interno dei fossi uccidendo i Paras.
Con la strada spianata i due proseguirono. L’allenatore avrebbe preferito salire in groppa al rettile volante ed evitare così di fronteggiare altre insidie ma lo spazio di manovra nel bosco era troppo ridotto. Avrebbe dovuto ergersi al di sopra degli alberi ma così facendo avrebbe con ogni probabilità perso l’orientamento. Dopo alcuni minuti di cammino la vegetazione cominciò a diradarsi. Le fronde lasciarono il posto ad un’ampia radura. E al centro di essa un piccola baita in legno. Non aveva dubbi: lì attorno c’erano almeno nove nemici.
Charizard si mise in guardia. Improvvisamente il dragone fu colpito: un proiettile dalla sinistra. Scomparve tra le fronde alle loro spalle. Silenzio. Un altro proiettile, stavolta da destra. Cosa diamine erano? E da dove arrivavano? Dal bosco che avevano già percorso, probabilmente, visto che nascondersi in quello spazio pianeggiante era impossibile. L’allenatore si voltò e tenne gli occhi spalancati. Terzo proiettile: eccolo! Schiocco di dita più forte dei precedenti, il rettile si voltò e bloccò il colpo tra le fauci. Un Weepinbell. Cosa? Stavano sparando delle piante carnivore?! Charizard triturò il malcapitato senza pensarci due volte.
Con un cenno il ragazzo ordinò al pokémon di seguirlo. Dovevano inoltrarsi di nuovo nella boscaglia per identificare il nemico. Pochi passi nel bosco e delle polveri si diffusero nell’aria. L’allenatore si tappò il naso, il drago sbatté le ali. Erano più concentrate delle precedenti ed emanavano un odore molto più forte. Il ragazzo cercò di seguire la scia dove si faceva più fitta, restando in apnea: gli bastarono pochi istanti per trovarne la fonte ma gli sembrò un tempo interminabile. I responsabili erano un gruppo di Gloom posizionati dietro grossi massi muschiati. Le piante maleodoranti furono bruciate da Charizard con un solo colpo.
Chi possedeva questi pokémon era uno stratega di tutto rispetto: aveva schierato in prima linea i più deboli, disseminato il percorso di trappole e adesso le truppe migliori attaccavano a distanza, celandosi alla vista. Tuttavia commise un errore fatale: un altro Weepinbell colpì Charizard per poi dileguarsi. Ora che si trovavano in territorio nemico non c’erano più dubbi, la posizione degli alberi indicava soltanto una possibile traiettoria del proiettile. A quella velocità il pokémon non poteva certamente curvare! Il ragazzo riuscì a intuirla in una frazione di secondo e indicò la strada al drago. A sinistra, oltre un gruppo di pioppi, poi diritto; si apriva un varco oltre alcune piante frondose fino a una grossa quercia. Lì quattro avversari li attendevano.
Un Ivysaur, un Parasect e un Victreebel facevano la guardia a un Tangela. Quest’ultimo aveva le elastiche liane del suo corpo attorcigliate ai rami del grande albero a formare una sorta di fionda. Ecco come facevano a sparare i Weepinbell!
L’allenatore capì di avere la situazione in pugno. Adesso che aveva individuato i nemici la battaglia si era conclusa. Sì, perché Victreebel poteva anche avere un Attacco e degli Speciali altissimi, Parasect e Ivysaur potevano provare a causare problemi di stato all’infinito e Tangela a sparare quanti pokémon aveva a disposizione. Ma il suo Charizard, così come qualsiasi altro suo compagno, era semplicemente troppo forte per poter perdere. Così era scritto. Così disse lo schiocco di dita.
Come prevedibile quando Charizard si fiondò all’attacco fu Victreebel a farsi avanti, avendo il potenziale offensivo maggiore, mentre gli altri tre diffondevano polveri e preparavano le munizioni. L’enorme pianta carnivora provò a gettarsi sul nemico con l’intento di ingerirlo. La sua grossa bocca poteva contenere creature ben più grandi del suo intero corpo e i succhi gastrici avrebbero fatto il resto. Ma Victreebel era lento: il rettile di fuoco schivò senza errore ogni suo assalto e al contempo respinse il pulviscolo generando raffiche con le ali; sembrava stesse giocando con una preda già morta.
Passarono circa quaranta secondi quando decise che era ora di farla finita. Schivò un Weepinbell, virò su Parasect e conficcò gli artigli nell’imponente fungo che gli cresceva sul dorso. Quell’attacco generò un gran rilascio di spore che oltre Charizard colpirono anche Ivysaur. Entrambi non risentirono direttamente degli effetti della nube di polveri, ma mentre il drago la allontanò da sé con un battito d'ali la minuta lucertola dal bocciolo rosato ci si ritrovò in mezzo e la sua visuale si ridusse considerevolmente. Fu colpito e messo fuori gioco dalla morsa del pokémon avversario prima che potesse rendersene conto.
Victreebel azzardò un ultimo disperato tentativo convogliando nelle sue foglie l’energia solare assorbita: si preparava a un Solarraggio. Ma in contemporanea Charizard diede sfogo a tutta la sua potenza sopita. La fiamma della coda arse più vigorosamente, il calore che stava per fuoriuscire dalla bocca generava piccole perturbazioni nell’aria. Solarraggio è un attacco che richiede del tempo per essere sferrato, al contrario il drago colpì velocissimo. La mossa Incendio fu così devastante che la grande quercia scomparve in un battito di ciglia, polverizzata. E con essa i suoi quattro guardiani.
Charizard rientrò nella sua Pokéball e l’allenatore si diresse nuovamente alla radura. Non avvertiva più alcuna presenza ostile. Ciottoli e pietrisco evidenziavano un piccolo sentiero che conduceva alla baita. La porta in legno non era chiusa a chiave, non aveva neppure una serratura. La aprì delicatamente, lama alla mano. Un breve corridoio, affiancato a sinistra da una rampa di scale, conduceva a un salotto. Fiori e rampicanti in ogni angolo, un tavolino apparecchiato per due, un lavabo, una vecchia dispensa, un divano rosa. E sul divano un’esile dama dai capelli corvini riposava senza curarsi dell’intruso. Di fianco al divano un’enorme pianta rossa. Soltanto i petali erano alti circa un metro. Aveva un odore pungente. O forse era dolce? Il ragazzo non lo ricordava. Le sue palpebre si fecero pesanti. Un sonnifero. Era caduto in trappola come uno stupido. Vide l’ombra offuscata della ragazza venire verso di lui. Il ricordo dei giorni passati in sua compagnia afferrò il suo animo con una morsa chiamata “malinconia”. Poi il buio.

Quando rinvenne era sdraiato sul divano rosa. La ragazza, seduta al tavolino, beveva una tisana alle erbe.
“Finalmente ti sei svegliato. Hai dormito per quattro ore. Non credevo che il Sonnifero di Vileplume fosse così potente, io non lo sento neppure.”
L’allenatore controllò la cinta. Poi gettò un’occhiata fulminea all’interlocutrice.
“Non preoccuparti. I tuoi pokémon sono al sicuro. Volevo soltanto assicurarmi che una volta rinvenuto non mi assalissi senza motivo.”
Provò ad alzarsi. Le gambe però erano ancora addormentate.
“La smetti o no di dimenarti? Sei proprio un bambino che non sa accettare la sconfitta. Ecco, tieni.”
Gli porse una tazza di quello che sembrava tè verde. Con lo sguardo rivolto verso il basso, quasi riluttante, il ragazzo accettò.
“Guarda che puoi anche dire qualcosa se vuoi. Non succederà nulla.”
Fece scendere la bevanda tutta d’un sorso, abbassò la testa e si voltò dall’altro lato del divano, affondando la testa nel cuscino.
“Che scemo… Senti, com’è che mi hai trovata? Il Bosco di Tokiwa non è esattamente a due passi dalla mia Palestra a Tamamushi.”
“Ci sono stato, a Tamamushi, ma non c’eri. Quando giocavamo a nascondino da piccoli questo era il tuo posto preferito, sapevo che eri qui. Ci venivi sempre anche se gli adulti ci dicevano di non allontanarci così tanto. Il vecchio sentiero oramai non lo usa più nessuno, è tutto coperto di foglie.”
“Maledetto scemo, se proprio vuoi parlare almeno togli la testa dal cuscino. Così non si capisce niente!” In realtà era felice che avesse finalmente aperto bocca, anche se non lo dava a vedere.
Ci furono alcuni istanti di vuoto. Non era un silenzio imbarazzante, piuttosto una pausa naturale per il discorso che stavano per iniziare.
“Erika…” Il suo tono si fece più basso. Come se volesse dirle con tutto il cuore qualcosa e allo stesso tempo desiderasse soffocare nella vergogna quelle parole.
“Sì?” Chiese lei.
“Quando sono stato a Tamamushi ho ucciso un uomo.” Spinse forte la testa sul cuscino.
Gli occhi di Erika persero vita. L’iride argentea e la pupilla si mescolarono in uno sguardo assente.
“Solo uno, Sato? Hai ucciso soltanto un uomo? Chi è stato a uccidere Takeshi? E Kasumi? E Surge? Li conoscevo tutti e tre, sai?” Il ragazzo continuava a tenere la testa bassa.
“Avevano tutti delle persone care. Takeshi si occupava da solo di nove fratelli più piccoli. Il più giovane ha quattro anni. La madre morì di parto e il padre scappò alla sua nascita. Takeshi era capopalestra soltanto perché doveva trovare il modo di sfamare la sua famiglia. Lo sapevi, Sato?” Silenzio.
“Kasumi ha tre sorelle. Sono una più in gamba dell’altra. Lei si impegnava sempre così tanto per raggiungerle, credeva di essere la più debole del gruppo. Quando capì che nel nuoto poteva davvero diventare qualcuno, quando vinse sua la prima gara, era al settimo cielo. E le sue sorelle erano così fiere di lei. Adesso che lei non c’è più come faranno a essere fiere della loro sorellina. Eh, Sato?” Silenzio.
“E quel vecchio bastardo di un tenente? Così pieno di sé, con quell’aria da uomo vissuto. Tu sai meglio di me che cos’ha dovuto passare.” La voce di Erika iniziò a tremare leggermente. “Che cosa dovrebbe pensare Hanako? Eh, Sato?! Come dovrebbe sentirsi tua…”
“Non è la stessa cosa.” La interruppe Sato, sollevando la testa.
Lei iniziò a urlare: “Come cazzo fa a non essere la stessa cosa, idiota?! Tu ti rendi conto di quello che stai…”
“Ho ucciso quell’uomo perché ha detto delle cose orribili su di te.”
Erika sussultò. Le mancò il fiato per un momento. “Cosa stai…”
“Ero a Tamamushi perché ti stavo cercando. Quando mi hanno detto che per ragioni di sicurezza avevi lasciato la Palestra sono andato in città a cercare informazioni. Dopo un po’ che vagabondavo sono entrato in un bar. Lì c’era un uomo di mezza età, basso, grasso. Fece il tuo nome. Mi avvicinai, gli chiesi se sapeva qualcosa di te. Glielo scrissi su un foglio in realtà, lo sai che parlo solo con te. Conoscendo quella puttana si starà facendo scopare da qualche riccastro, mi ha detto. Lei fa così. Una piccola mancia dopo una lotta in Palestra e te la porti a letto. In città lo sanno tutti. Anche io me la sono fatta un paio di volte. Che gran bei tempi. Ho aspettato che uscisse e gli ho staccato la testa. Non potevo sopportare che venissero dette queste bugie sul tuo conto.”
Il ragazzo si prese uno schiaffo in faccia, gli si gonfiò la guancia sinistra. Erika scosse la testa. Aveva le lacrime agli occhi: “Sei proprio stupido. Sei il più grande stupido del mondo.”
“Lo so che non avrei dovuto ammazzarlo, ma…”
“Ha detto la verità.” Lo disse di getto. Stava singhiozzando come non faceva da tempo. Forse da sempre.
Sato rimase senza parole. “Ma…”
“È così e basta! Non sono più quella bambina innocente di qualche anno fa. E anche tu non sei più quel bambino. Hai ucciso delle persone e dei pokémon. Anche i miei. E adesso vorresti farmi credere che tieni ancora a me?! Ti odio! Ti odio! Ti odio!”
Sato non disse nulla per un po’. Adesso però aveva lo sguardo rivolto verso di lei. Al suo viso tondo. Ai suoi occhi argentati arrossati dalle lacrime. Al suo corpo snello. A quel corpo che aveva venduto. Perché? Che cosa l’aveva spinta a fare una cosa simile? Lei che da piccola era così orgogliosa, che elaborava le strategie più disparate per non passare mai in svantaggio. Quel lato di lei non era scomparso, l’aveva visto chiaramente nel bosco. Allora che cos’era successo?
“Senti Sato.” Si era ripresa in parte dal pianto. “Io ho deluso te e tu hai deluso me. Perché non te ne vai e non facciamo finta di nulla? Se mi vuoi morta per qualche motivo sparirò dalla circolazione, resterò qui. Non ho molto altro da fare. Io non chiamerò la polizia. D’accordo?”
Il ragazzo si alzò dal divano. Le gambe erano ancora deboli ma riusciva a reggersi in piedi. Avrebbe potuto incamminarsi verso la porta e sparire per sempre. Invece si avvicinò a lei. E la abbracciò. La strinse forte tra le sue braccia. Erika in un primo momento si irrigidì. Poi portò le mani al viso di lui. Si guardarono negli occhi, sfiorarono i loro nasi, avvicinarono le labbra. Erano due persone piene di macchie, piene di peccati. Eppure fu un bacio innocente.
A piccoli passi, tentennando dalla timidezza, si accompagnarono vicendevolmente fino al piano di sopra tenendosi per mano. Si spogliarono poco per volta, tra un tremito e l’altro. Quando Sato si scoprì la ragazza sobbalzò: “Che cos’hai fatto?”
Le gambe del giovane erano quasi del tutto prive di pelle. Una grossa cicatrice gli cingeva l’intero bacino, come se il suo corpo fosse stato spezzato in due parti e poi ricucito.
“Quando…” Sato incrociò le braccia al petto come per ripararsi dal freddo e abbassò lo sguardo. “Quando la Palestra di Surge è esplosa io ero dentro. Ci ho messo un po’ per rigenerarmi. Lo so che è disgustoso.”
Erika chiuse gli occhi. Stavolta fu lei ad abbracciarlo. I corpi spogli dei due ragazzi si sovrapposero l’uno sull’altro. Per quanto potessero essere freddi combattenti o abili strateghi adesso non erano che giovani deboli e indifesi. Unirono i loro corpi e i loro spiriti danzando al lume di una lanterna, nella vecchia baita del bosco.

Il giorno seguente si svegliarono all’unisono, lei nelle braccia di lui. Distante, il canto degli uccelli mattinieri assumeva la forma di una melodia che rievocava ricordi lontani.
Erika si rannicchiò portando le ginocchia al volto, volgendo la schiena al ragazzo: “Dovremmo parlarne.”
Sato le accarezzò i capelli con il viso. Avevano un buon odore. Un fiore che non conosceva. “Lo so.”
“Prima tu.” Lo disse con una voce infantile. Ma non era un capriccio. Aveva paura di affrontare quella realtà.
Il ragazzo annuì. “Sono un sicario. Non so molto degli scopi della persona per cui lavoro adesso. Potrei dire che lo sto facendo per soldi. Uccidi tutti i capipalestra e ti renderò ricco. Ma sarebbe una menzogna bella e buona. Certo, mi pagano bene, ma non è quello il vero motivo.” Prese fiato. Finalmente decise di sciogliere quel nodo che si portava da anni in gola. “Questa è la mia punizione. Per quello che ho fatto dieci anni fa. Perché trovai gusto nel fare quella cosa. Ho continuato a uccidere perché so che prima o poi qualcuno mi fermerà. Presto o tardi mi faranno provare il dolore che merito.”
Erika, ancora rivolta dal lato opposto, si morse il labbro e iniziò a piangere: “C-che scemo. Noi due siamo proprio uguali. Due stupidi.” Sato le toccò spalle. Lei si voltò. Il sorriso del giovane la esortava a continuare. Non preoccuparti. Proprio io non potrei mai giudicarti, le diceva quello sguardo.
Sospirò: “Anche io non lo faccio per soldi. Non soltanto almeno, da quando la Lega ha così pochi sfidanti i nostri stipendi sono andati sempre più calando. Anche per me questa è un punizione.” Si fermò. Forse si aspettava una risposta, un dubbio, un timore. Il ragazzo però decise di ascoltare senza aggiungere nulla.
“Successe quando sparisti, sei anni anni fa. Tu forse non lo sai ma attorno quella data anche mio padre se ne andò e io mi trasferii con mia madre a Tamamushi. Avevo quindici anni. A quindici anni mio padre mi violentò e poi scappò senza dirmi nulla.” Disse l’ultima frase tutta d’un fiato, mescolando le ultime parole alle lacrime.
La voce si fece acuta e tremolante. Urlava di angoscia: “La cosa più terribile è che mi piacque. Capisci, Sato? Capisci che persona sono!? Mi ha violentato e io ho provato piacere per quell’atto orribile. Io merito di essere trattata come un pezzo di carne senz’anima da vendere al miglior offerente. Perché non mi uccidi, Sato? Tra tutti proprio io non merito di essere salvata! Uccidimi, ti prego!”
“No.” Rispose calmo. “Non è stata colpa tua.”
“Non è vero. Puoi dire quello che vuoi ma non cambierà la rea…”
“Anche se fosse non mi interesserebbe.”
Erika rimase spiazzata. “M-ma…”
“Non mi interessa quanto ti reputi orribile. Io sarò sempre peggio di te. Quindi continuerai a piacermi. Non puoi farci nulla.”
Le mani tremanti di lei afferrarono quelle di lui. “Grazie” disse con il viso ancora grondante di lacrime.

Si vestirono e scesero al piano di sotto. Erika preparò una tisana che servì con alcuni biscotti.
“Sato…” Esordì un po’ esitante.
“Dimmi.” Addentò un biscotto e bevve un sorso.
“Perché non scappiamo?”
Al giovane allenatore andò di traverso la colazione. “C-che cosa?”
“Andiamocene via di qui. Scappiamo in qualche regione lontana. Usciamo fuori dalla Nazione se necessario. Al diavolo le nostre punizioni. Io mi farò carico della tua e tu della mia. Possiamo vivere lasciandoci tutto alle spalle!”
I due si fissarono per un intero minuto senza proferir parola. Poi Sato ruppe la quiete: “Perché no?”
Si misero a ridere. Poi il loro sangue gelò. Si accorsero dell’uomo alla finestra.
“Dimmi, Satoshi. Quale pegno pagherai per questo tradimento?”

La fine del sogno.
   
 
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