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Autore: Ksyl    28/02/2020    4 recensioni
PREQUEL di "Surprise Surprise"
Kate Beckett decide di accettare, a sorpresa, di trascorrere il week end negli Hamptons, nella 2x24, e Gina non è mai stata invitata.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
Capitoli:
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7

La giornata seguente, teoricamente l'ultima della loro breve vacanza e quindi la più gloriosa, non iniziò invece sotto i migliori auspici.
Kate aveva dormito di un sonno pesante senza sogni, immersa in una cappa di piombo. Si era svegliata intontita e con il collo dolorante per essere stato a lungo costretto in una posizione innaturale. A peggiorare le cose, quando aveva aperto gli occhi si era trovata in un letto vuoto. Nemmeno un biglietto sul cuscino.
Decise di alzarsi e di uscire in terrazza a prendere un po' d'aria e schiarirsi le idee, ma non ebbe fortuna. Il cielo era solcato da nuvole basse e opprimenti, che rendevano l'atmosfera pesante e lattiginosa. L'aria era ferma e umida. L'oceano quasi invisibile. Il suo umore cupo rispecchiava l'immobilità del panorama che aveva di fronte.

Dopo qualche minuto sentì Castle chiamarla dall'interno. Non rispose, lasciò che fosse lui a trovarla.
Avanzò verso di lei e le porse una tazza di caffè fumante con un sorriso. Accettò grata, massaggiandosi i muscoli indolenziti, per trovare un po' di sollievo. Invano.
"Va tutto bene?", le domandò premuroso come sempre.
"Sì. Sono solo un po' stanca", ammise, senza trovare le parole per descrivere quel groviglio di frustrazione che non sapeva spiegarsi.
Da quel punto esatto la situazione precipitò. Nel tempo, non sarebbe mai riuscita a capire quale fosse stato il loro punto più alto. Erano stati tanti i momenti perfetti e lei li aveva vissuti tutti intensamente. Ma ricordò per sempre quando le cose cominciarono ad andare male. E poi, sempre peggio.
"Quando vuoi tornare a casa?", si informò Castle con tono noncurante.
"Tornare?" gli fece eco Beckett. Nessun tocco, nessun bacio, nessuna magia? Sentì risuonare tutti gli allarmi e in automatico si chiuse in se stessa. Gli diede le spalle, tornando a guardare verso l'oceano.
"Sì. Domani devi riprendere il lavoro e io ho un impegno con Alexis. Tenendo conto del traffico del rientro, sarà meglio muoverci subito".
Castle continuò a parlare, ma lei smise di ascoltare. Non le sembrava più l'uomo che era stato fino alla notte precedente, pareva essersi trasformato in un estraneo molto sorridente ed educato, senza alcuna connessione con lei.
"Come preferisci", rispose laconicamente.
"C'è qualche problema?"
"No".
"È quel no delle donne che vuol dire  e io dovrei capire che cosa è successo, perché tu non me lo dirai mai?"
Quel goffo tentativo di fare del banale umorismo la indispettì ancora di più.
Trangugiò il caffè, gli ficcò la tazza tra le mani e lo piantò in asso, dopo avergli gridato "No, Castle, è un no che vuol dire no, punto", mentre se ne andava.

Si infilò nella stanza degli ospiti, quella che le era stata destinata in principio e iniziò a lanciare con violenza tutte le sue cose nella borsa. Voleva andarsene e concludere in fretta e furia il loro weekend? Benissimo. Non voleva approfittare un minuto in più della sua ospitalità. Come poteva essere tanto... ? Non le venivano aggettivi adeguati con cui descriverlo.
Quando ebbe finito, avvertì un discreto bussare alla porta. Da quando era tornato tanto ligio alla privacy? Erano a mille anni luce da quello che erano stati fino a poche ore prima.
"Io sono pronta", gli annunciò con tono formale, dopo averlo fatto entrare. "Fammi sapere quando vuoi tornare a New York".
"Kate, possiamo parlare con calma?"

Castle avrebbe davvero voluto capire che cosa fosse successo. Non erano certo arrivati a quel punto per ripiombare in un attimo al punto di partenza. Non adesso che sapeva molto bene a che cosa avrebbe dovuto rinunciare. E per quale diamine di motivo doveva rinunciarci?
Erano stati bene, finora. Più che bene. Oltre qualsiasi definizione di bene. Ed era stato via per soli cinque minuti. Si era svegliato prima di lei e aveva pensato di farle una sorpresa, preparandole un caffè. Che cosa era successo, nel frattempo, per giustificare una tale reazione?
Si era pentita? Si era svegliata e la realtà aveva fatto capolino convincendola che fosse tutto uno sbaglio? Proprio quello che lui aveva sempre temuto potesse succedere.
Allungò una mano per toccarla, ma lei si scostò con un movimento repentino. Se ne sentì ferito.
"Di che cosa vorresti parlare?", domandò brusca.
Era così simile alla Beckett dei primi tempi della loro conoscenza da fargli venire una nausea improvvisa. Era completamente ostile. Si chiese a che punto l'avesse persa. Perché non era la persona che si lasciava stringere per tutta la notte e che gli aveva concesso spazio per avvicinarsi. Si trovava davanti a qualcuno che aveva rialzato le sue corazze per qualche motivo che si ostinava a non volergli dire.
"È successo qualcosa? Sei... diversa". Ci andò piano con le definizioni, non voleva farla allontanare ancora di più.
"Non sono affatto diversa. Lo hai detto tu, io devo tornare al lavoro, tu da Alexis, e il traffico", ripeté esattamente le sue parole, con un lieve tono di scherno.
"Siamo sempre noi?", chiese come ultimo, impacciato, tentativo.
Lei si voltò con uno sguardo di pura sofferenza, che lui non seppe interpretare, se non nella maniera più ovvia, senza porsi nessun dubbio a riguardo, cosa che fece deragliare tutto. "Non c'è nessun noi", lo informò con fare glaciale che lo mandò su tutte le furie.

Bene, quindi era così, si disse. Era finita qui. Il loro folle, inaspettato week end terminava in quel preciso istante, su una delle note più basse della sua vita. Non era quello che voleva, ma non poteva cambiare la realtà delle cose. Lei non provava niente. Non aveva nemmeno permesso che quel qualcosa di ineffabile, ma prezioso, che lui aveva sentito, ma che ancora non aveva un nome o una forma, prendesse vita. Non le importava nulla di quello che avevano condiviso.
"Bene. Preparo le mie cose e partiamo", la informò, smettendo di essere conciliante, e ritirandosi, anche lui, dietro all'orgoglio ferito.
Non doveva finire così. Ma a quel punto non era più possibile farla andare diversamente.
Il viaggio di ritorno si svolse prevalentemente in silenzio, intervallato da qualche comunicazione di servizio. La corsa in macchina di due giorni prima, spensierata e piena di eccitazione, era solo un lontano ricordo. Beckett trascorse tutto il tempo a guardare fuori dal finestrino, senza parlare.
Solo per un breve attimo gli sembrò che fosse possibile un contatto, quando lui le mise una mano sul ginocchio e lei non si scostò. Anzi, incontrò il suo sguardo. Gli parve che si aspettasse che lui dicesse qualcosa, ma non si risolse a farlo, nel timore di rovinare quel momento di tregua. Lei si ritrasse, allontanando la sua mano e lui tornò a concentrarsi alla guida, in silenzio, sentendosi sconfitto.

Arrivarono a Manhattan troppo presto. Parcheggiò sotto il suo palazzo e scese dall'auto per accompagnarla fino all'ingresso, senza sapere come comportarsi. Aveva la sensazione che qualcosa di speciale si fosse dissolto e temeva che non avrebbero mai più avuto occasione di metterlo nuovamente alla prova. Nonostante gli paresse di vivere in un incubo di cui non conosceva le dimensioni, non sapeva come colmare quella voragine che si era aperta tra di loro. L'intensità del loro sentimento li aveva travolti, ma questa violenza, declinata in senso contrario, rischiava di spazzarli via.
Kate lo osservò per qualche istante, non disse niente e lo abbandonò da solo sotto la pioggia sottile che aveva iniziato a cadere.

...

Trascorse un mese. Kate tornò al lavoro e si immerse nelle indagini, rimanendo in ufficio fino a tardi e rispondendo ai colleghi perlopiù a monosillabi. Le sue giornate erano lunghe e impegnative, il caldo rendeva le persone meno tolleranti e i casi di omicidio erano aumentati di conseguenza. Cercava di stordirsi con il lavoro, per arrivare a sera, buttarsi sul letto e perdere i sensi dalla stanchezza. Dormiva qualche ora e poi si svegliava, nervosa e irritabile, il sonno un ricordo lontano. Aveva coperto tutti i turni possibili, vivendo di cracker e caffè.

Le giornate di riposo erano la parte peggiore. Quale riposo? Non poteva smettere neanche per un momento di sentirsi triste e arrabbiata, e arrabbiata perché si sentiva triste. Voleva solo tornare alla sua vita di prima. Era così difficile? Aveva avuto una vita prima di Castle, e poteva riaverla. Solo, non sapeva come ritrovarla.
Non aveva mai preso in mano il telefono per chiamarlo. A che scopo? Per sentirlo chiacchierare della sua estate in tono mondano? Per scambiarsi i soliti convenevoli? Loro non avevano l'abitudine di telefonarsi solo per "sentirsi". Evidentemente, nemmeno adesso. Lui non si era fatto vivo. Era ovvio che ormai lei e il distretto non gli interessavano più. Aveva materiale per scrivere una cinquantina di romanzi, le aveva detto Espo. Per quanto la riguardava, li scrivesse pure tutti e ci vincesse dei premi.

Castle si trasferì negli Hamptons per terminare il romanzo, visto che si era imposto un allontanamento forzato dal distretto. Del resto non aveva nessun motivo per tornarci. O voglia. La stesura del libro andava a rilento, perché trascorreva la maggior parte del temo a cercare di non guardar fuori dalla finestra e ricordare i momenti passati insieme. Era doloroso starsene lì, ma New York non era grande abbastanza per contenerli entrambi. Così aveva preso la decisione di esiliarsi a chilometri di distanza da lei, senza aver voglia di vedere nessuno, imponendosi di scrivere, mangiare qualcosa, sopravvivere. Più spesso di quanto gli piacesse ammettere, andava nella camera degli ospiti, dove lei aveva dormito la prima notte, si sdraiava sopra le lenzuola, chiudeva gli occhi e non pensava a niente.

Qualche settimana dopo - il libro era ormai terminato -, fu costretto a tornare a casa. L'impatto con la città fu molto forte, perché a ogni angolo qualcosa gli ricordava lei.
Arrivò nel tardo pomeriggio, passò dal suo editore, tornò a casa, si sedette sul divano, si alzò dal divano e si disse che era arrivato il momento di smettere di stare così male. Di continuare a pensarci e di non riuscire ad andare avanti. Doveva parlarle un'ultima volta. Costringerla a dirgli in faccia che lei non aveva sentito quello che invece lui aveva sentito lui benissimo o che non le era sembrato abbastanza.
Giunto al distretto, si fece forza e salì. Salutò tutti con forzata allegria, mentre allungava lo sguardo cercandola. Esposito si parò davanti a lui, a braccia incrociate, fissandolo con aria truce.
"Che cosa ci fai qui, Castle?", gli chiese andando dritto al punto, per nulla amichevole.
"Sono passato per un saluto. Beckett non c'è?"
Si rese conto, con un tuffo al cuore, che la sua sedia non era più accanto alla scrivania.
"No, non c'è", rispose asciutto, senza aggiungere dettagli.
"È già andata a casa? Non è da lei", continuò con tono leggero, imponendosi di sorridere per non far trapelare nulla.
Ryan arrivò a far da spalla a Espo ed entrambi formarono una barriera compatta e ostile contro di lui.
"Che ti importa di Beckett?". Esposito aveva ormai abbandonato ogni forma di cortesia.
"Come che mi importa? Dai, ragazzi, passavo di qui e mi è sembrato naturale salire".
"La prossima volta prendi un'altra strada".
"Ok, è stato divertente, ma basta così. Che cosa vi succede?"
"Che cosa succede a noi? Tu, piuttosto. Che cosa le hai fatto?"
Se fossero stati seduti uno di fronte all'altro nella stanza degli interrogatori non avrebbe potuto essere più minaccioso di così.
"Non le ho fatto niente!", si difese Castle, arretrando impercettibilmente.
"A noi invece sembra che sia successo qualcosa", intervenne Ryan più conciliante del collega. "Qualcosa di brutto, per colpa tua".
"Lei vi ha detto che è stata colpa mia?"
"Lo vedi che allora abbiamo ragione?", replicò Espo, trionfante. "Che cosa è successo durante il vostro weekend? L'hai trattata male? Non ti vergogni?"
Era il colmo.
"Non ho fatto niente. Andava tutto benissimo e poi, di colpo, ha iniziato ad andare male, ma non so il motivo", confessò. Si tormentava da troppo tempo per tenerlo ancora per sé.
"Pensi che qualcuno ti crederebbe in tribunale? Ti sembra una storia convincente?", lo sferzò con sarcasmo.
"Non è una storia che mi sono inventato! È andata proprio così. E, comunque, sono affari nostri".
"Ok, se sono affari vostri, non venire qui a cercarla".
Capì che era inutile rimanere. Ora, a peggiorare la situazione, li aveva offesi. "Potete solo dirle che sono passato?"
"No", risposero all'unisono, girandogli le spalle.

   
 
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