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Autore: Adeia Di Elferas    03/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare si trovava in Forlì da meno di dodici ore, e già era stanco della gente lamentosa che l'abitava.

Aveva ascoltato con finta pazienza le lamentele del Consiglio dei Venti, che denunciavano come i suoi soldati avessero fatto scempio dei luoghi importanti della città e di come, cosa ancor più grave, alcuni di loro avessero fatto irruzione nel convento delle Domenicane, distruggendo un muro della chiesa, prendendole senza pietà prigioniere, usando loro violenza e uccidendone addirittura qualcuna.

Il Borja non aveva voluto presenti altri comandanti, quando gli era stato detto che i Consiglieri lo voleva incontrare per discutere di affari del genere. Voleva prendere le decisioni per conto proprio e voleva che si vedesse che nessuno gli sussurrava all'orecchio consigli sul da farsi. Era lui il nuovo signore della città, e tale doveva dimostrarsi.

Era necessario, a suo modo di vedere, mostrarsi magnanimo e comprensivo, ma far pesare la propria bontà d'animo, facendo ben capire come fosse una misura straordinaria e a cui non abituarsi.

Così, dopo che il Bernardino Bezzi ribadì: “Quelle povere monache erano in convento! Dovevano essere al sicuro da certe brutture, e invece ne hanno fatto strazio!”, il Valentino si alzò da suo scranno e si schiarì la voce.

“Questa è la guerra, mie signori – iniziò a dire – si muore anche per molto meno e dovevate saperlo, quando avete permesso che la vostra Contessa vi trascinasse in questo disastro. Incolpate lei e le tasse mai pagate a mio padre, se ora dovete aver a che fare con questa gente.”

Il silenzio, tra i Gonfalonieri del Consiglio, si fece pesante. Tra tutti, solo Luffo Numai teneva lo sguardo alto, fisso sul volto del Borja.

Cesare non diede molto peso a quell'atteggiamento. In fondo, era alloggiato a casa di Numai e aveva avuto modo di vederlo molto servile e disponibile, nei suoi confronti. Conoscendolo ancora poco, poteva ben essere che quel suo modo di atteggiarsi fosse parte del suo carattere e che non significasse nulla di particolare.

“Con ciò – riprese il Valentino, con un sospiro pesante, allacciandosi le mani dietro la schiena e iniziando a misurare la sala a grandi passi – emetterò un ordine molto chiaro, che impedisca ai soldati di avvicinarsi ai luoghi di clausura delle monache, pena la forca.”

“E per quello che è già successo?” provò a domandare proprio Luffo.

“Non c'erano ordini, fino a ora, che impedissero ai miei soldati di prendersi, tra le monahce, le donne che preferivano. Non hanno commesso alcuna infrazione, dunque non posso punirli.” si affrettò a ribattere il figlio del pontefice: “Comunque, vi invito a tenermi al corrente di eventuali altri malintesi e disguidi e vedremo cosa si potrà fare.”

I Gonfalonieri del Consiglio dei Venti si scambiarono lunghe occhiate cariche di tensione e poi, come di comune accordo, chinarono il capo e ringraziarono, come se avessero appena ricevuto una concessione inattesa e vantaggiosissima.

Il Borja li congedò tutti, tranne Luffo, che, abitando in quella casa, non poteva andarsene. Gli chiese di chiamare il Bourbon e di farlo andare nelle sue stanze.

“E fatemi anche portare qualcosa da mangiare.” aggiunse il Duca di Valentinois, avvertendo un certo languorino: “Questa notte la vostra serva mi ha dato del filo da torcere, e ora ho una gran fame.”

Ricacciando indietro un conato di vomito, all'idea di quello che era successo sotto il suo tetto quella notte, per altro a danno di una delle serve preferite da sua moglie, Numai si esibì in un lungo inchino e rispose: “Tutto ciò che il mio signore comanda.”

“Ah – soggiunse il Valentino, ripensandoci – mandate a chiamare quel Bernardi che fa il barbitonsore. Mi serve una buona rasatura.”

Il padrone di casa fece un secondo profondo inchino e se ne andò. Il Borja avrebbe voluto incontrare prima quel 'Novacula' di cui tanto gli avevano parlato, ma era stato travolto dagli impegni e aveva continuamente rimandato.

Chiamarlo al palazzo con la scusa della barbare da radere era il modo migliore, secondo lui, per avvicinarlo e saggiarne la consistenza. Se si fosse dimostrato l'uomo savio e capace di cui tutti parlavano, allora gli avrebbe fatto una proposta che non avrebbe potuto rifiutare.

 

Lorenzo stava camminando a passo svelto, diretto a casa. Il cielo di Firenze si era rischiarato da poco, ma a lui quel clima mite dava solo l'impressione di essere stato beffato perfino dall'inverno, che, invece di gettare la sua cupezza sull'intera città, faceva sorridere un grande sole pallido oltre la cupola del Duomo, dando ai suoi concittadini l'impressione che non si fosse in dicembre, ma in marzo.

Al Medici dava fastidio tutto, quel giorno. Era stata una mattina impossibile, alla Signoria, e non riusciva a farsi passare la rabbia che aveva covato fino a che non era riuscito a lasciare il palazzo.

Già gli pareva che gli altri membri del governo gli stessero fuggendo di mano quando, un paio di giorni prima, avevano deciso di contattare re Luigi per mettere la Sforza sotto la sua protezione, redarguendolo circa le mire del papa. Per lui era stato come ricevere uno schiaffo in pieno volto, ma era riuscito a non opporsi, facendo due semplici ragionamenti.

In primo luogo, era abbastanza chiaro, ormai, che al re di Francia non interessasse più di tanto la posizione di Firenze, né quello che ne sarebbe stato della Romagna, dato che tutti i suoi sforzi erano concentrati sulla prossima discesa verso Napoli.

In secondo luogo, incaponirsi apertamente contro quel tentativo – sciocco e inutile, o almeno così sperava si rivelasse – l'avrebbe potuto mettere in cattiva luce. Più di un fiorentino aveva già osato dire, seppur a mezza bocca, che la sua testardaggine, quando si trattava della Tigre di Forlì. Non voleva commettere troppi errori. Aveva fatto di tutto, si era dannato l'anima, pur di avvicinarsi al potere. Non poteva rovinare tutto per colpa di una donna del genere.

Quella mattina, però, si era passato il limite. Era arrivata una lettera del papa, arrivata a Firenze con un certo ritardo, indice che le strade cominciavano a non essere più tanto tranquille e scorrevoli, e il suo contenuto aveva scosso nel profondo la Signoria.

Il Santo Padre si dichiarava 'per nulla calmato' dalle scuse fatte da Firenze in merito agli scarsi aiuti che la Repubblica stava fornendo al figlio. Anzi, rincarava la dose, specificando la propria profondissima delusione per il modo in cui i fiorentini si stavano prendendo gioco del Vaticano.

La Signoria, presa visione di quella che suonava chiaramente come una minaccia, aveva deciso di prendere delle misure straordinarie, sia per cautelarsi nei confronti del papa, sia per difendersi da un eventuale rivalsa del re di Francia, cui avevano da poco fatto appello affinché proteggesse anche loro da una probabile deriva espansionistica del pontefice.

In questo modo, il governo era caduto nel peggiore degli immobilismi, e Lorenzo vedeva sempre più lontano il suo obiettivo, ovvero quello di portare Firenze a non rischiare troppo né in un senso né nell'altro, ma schierandosi ugualmente contro la Sforza, indipendentemente dal fatto che ella fosse una preda francese o pontificia.

Così, mentre finalmente vedeva in lontananza il profilo inconfondibile di casa sua, il Popolano sentiva lo stomaco in fiamme e la testa che pulsava come se volesse esplodere. Desiderava solo un calice di vino e un po' di pace.

Sentì le campane di San Lorenzo battere l'ora. Probabilmente Semiramide era in chiesa. Negli ultimi giorni vi andava spesso e, anche se era un semplice venerdì, era probabile che fosse andata anche a Messa, quella mattina.

Sperando di non incontrarla, quindi, a palazzo, il Medici accelerò un po' il passo e varcò la soglia di casa. Si lasciò aiutare da un servo a togliersi il mantello e poi chiese espressamente di non essere disturbato.

“Veramente...” disse piano il domestico, corrucciandosi, temendo di vedere il suo padrone reagire in modo violento, come ultimamente faceva spesso, quando era irritato: “Ecco, nel salone vi stanno aspettando due vostri uomini...”

Lorenzo trattenne a stento una bestemmia. Ciò che più desiderava era riposare e riordinare le idee, per dissipare la fitta nebbia della sua mente, che gli impediva di ragionare lucidamente sugli utlimi fatti.

“Va bene. Sento cosa vogliono, ma poi mi ritirerò in stanza.” disse alla fine, sbuffando.

Arrivò nel salone senza salutare, puntando gli occhi tondi prima verso l'uno e poi verso l'altro suo informatore e chiese che accidenti fosse successo ancora.

“Non ne siamo certi, ancora – disse con cautela uno dei due – ma sembrerebbe che al massimo un paio di giorni fa siano entrati in città dei ragazzini e dei bambini, degli esuli... E che tra loro ci fosse anche un bambino piccolo.”

“Potrebbero essere i suoi figli?” chiese il Medici, senza bisogno di specificare meglio il soggetto.

“Pare di sì. Ma non sappiamo né dove siano alloggiati, né se vi siano tutti.” rispose l'altro delatore.

Il Popolano sospirò, il dolore alla testa che si faceva ancora più pressante: “Non ditelo a nessuno, e comprate il silenzio di chi vi ha dato queste informazioni. Nessuno deve saperlo, nessuno. Si deve scoprire ogni dettaglio, ma nessuno a parte me deve esserne a conoscenza, per il momento.”

I due uomini annuirono, e a Lorenzo non restò che dare loro del denaro, per coprire le spese, e sperare che fossero abbastanza svegli da portare a termine il loro compito con efficienze. La notizia, se confermata, non doveva trapelare. Sapeva che anche il figlio del papa, probabilmente, voleva mettere le mani sulla prole della Tigre. In tal caso, lui avrebbe potuto dire addio a tutti i suoi progetti, perché non avrebbe mai ottenuto l'affidamento del bambino più piccolo. Doveva tessere la tela e aspettare, e, solo raggiunto il suo scopo, allora avrebbe potuto denunciare la presenza di tutti gli altri a chi di dovere.

 

L'esercito francese sembrava non aver ancora fatto in tempo a far nulla, se non creare scompiglio in città. Caterina teneva sott'occhio la situazione come meglio poteva, osservano in prima persona e facendo osservare dai suoi più stretti collaborati quello che capitava oltre le mura della sua rocca.

Dalle merlature di Ravaldino potevano intravedere soldati e pezzi d'artiglieria entrare quasi senza soluzione di continuità da Porta San Pietro, e poi, nelle vie di Forlì, i piccoli tafferugli coi cittadini e gli scontri intestini tra francesi.

In tutta sincerità, alla Sforza quei quindicimila uomini sembravano almeno essere il doppio, ma non osava condividere con nessuno la sua impressione, per paura che la potessero vedere debole e indecisa, quando, invece, una guida forte e sicura era l'unica cosa che potesse offrire ai suoi soldati.

L'unico a cui si era permessa di confidare quelle sue paure era stato Monsignani. Anche quella notte era stato nella sua stanza e, dopo averle dato il conforto fisico che lei aveva apertamente cercato, le aveva prestato anche il suo orecchio, per raccoglierne i pensieri e le ansie.

“Sono quindicimila, o poco più.” aveva detto lui alla fine, avvertendo nel corpo teso della sua amante un'agitazione che non le aveva mai visto addosso: “Ti sembrano tanti solo perché sei abituata al tuo esercito, che è molto più ridotto...”

“Quando vivevo a Milano – aveva ribattuto lei, ostinata – ho visto anche più di quindicimila uomini tutti assieme e so di che parlo.”

Il frate non aveva più voluto contraddirla, ma aveva ancora una volta cercato di appoggiarla, sussurrando: “Siano quanti vogliono, anche loro finiranno ad avere paura di te.”

Poco tranquillizzata dagli scambi di battute di quella notte tra lei e Vangelista, la Tigre aveva indetto per quella mattina un Consiglio di Guerra con tutti i suoi Capitani.

“Facendo così – disse Facendina, il nipote di Roberto Sanseverino, le braccia incrociate sul petto e gli occhi scuri fissi su Alessandro Sforza – ci esporremmo a un rischio troppo alto.”

Il fratello della Tigre aveva appena proposto, su incoraggiamento della Contessa, di provare qualche sortita notturna tra i francesi, imitando, in una certa misura, quello che l'esercito milanese aveva fatto qualche mese addietro ad Alessandria.

“La grande differenza tra quello che avete fatto voi e quello che faremmo noi – convenne Pretone da Modigliana – sta nel fatto che qui il nemico si è sistemato in case e palazzi... Non sono in un campo aperto.”

“Case e palazzi che molti di voi conoscono benissimo.” fece notare lo Sforza, mentre Caterina restava in silenzio al suo fianco, sondando le reazioni dei Capitani: “Abbiamo un vantaggio territoriale che dobbiamo sfruttare.”

“E per fare cosa?” chiese, Giorgio Attendolo da Cotignola, più curioso, che contrario a quell'iniziativa.

“Per far loro paura – prese la parola la Tigre – per scompaginarli, fiaccarli, spaventarli come se avessero visto un fantasma.”

All'improvviso tutti i presenti ammutolirono, seguendo ciò che la loro signora diceva. Il suo tono era basso, il suo sguardo era cupo, ma il modo in cui teneva fieramente le spalle larghe faceva in modo che la sua sola presenza bastasse a rendere l'opinione di chiunque altro semplicemente superflua.

“Non dovranno capire subito che siamo noi. Dovremo uscire dalla rocca con il buio, in silenzio. Si dovranno usare i cavalli, per poter rientrare in fretta, in caso di necessità.” continuò la Leonessa, cominciando a elencare le cose da farsi, decisa a non dare più ascolto a nessuno: “Bruniremo le armature, in modo da confonderci al meglio con il buio, e poi passeremo veloci e silenziosi sul ponticello, passeremo dalla cittadella e poi ne usciremo, sbucando proprio nel punto più indifeso della città, dove iniziano i primi baraccamenti francesi.”

“A questo punto – si intromise Scipione Riario – non sarebbe più opportuno attaccare i pezzi d'artiglieria che stanno piazzando attorno alle nostre fortezze?”

“Sarebbe un attacco troppo diretto.” commentò Paolo Riario, che aveva inteso alla perfezioni le intenzioni della Sforza: “Prendere di mira prima i soldati che dormono e riposano li sorprenderà di più e per noi sarà un bel banco di prova.”

“Esattamente.” convenne Caterina: “Non possiamo batterli, a meno che qualcuno dei signori di Romagna non capisca che questo è il momento di darci una mano, questo ormai immagino sia evidente a tutti voi. Però possiamo rendere loro la vita difficile e ritardare la loro vittoria. Forse, con un po' di costanza, potremmo addirittura fermare la loro discesa.”

“In quanti usciranno per l'attacco?” chiese, preso da una nuova ansia, il Facendina, ormai del tutto catturato da quella nuova prospettiva, che non gli sembrava più così campata per aria.

“Non lo so...” soffiò la Sforza, sollevando un sopracciglio: “Per la prima volta non porterei con me più di cinquanta uomini.”

“Io sarò con te.” si offrì all'istante Alessandro.

“Anche io voglio esserci.” disse piano Michele Marulli, che se n'era stato zitto fino a quel momento.

“Deciderò con calma chi portare.” prese tempo la donna, dicendosi che per quel compito le ci volevano uomini ben addestrati, ma anche che conoscessero molto bene Forlì: “Intanto fate brunire con il fuoco le armature. Tutte quelle che potete. Alla fine, ci serviranno tutte.”

“In futuro – le disse piano il fratello, quando il Consiglio di Guerra venne sciolto e la sala cominciò a svuotarsi – l'Italia si ricorderà della tua strenua resistenza e di chi ha combattuto al tuo fianco, non della facile vittoria di quel dannato figlio di un papa.”

“Me lo auguro.” ribatté lei, senza l'ombra di un sorriso: “Comunque, questa notte tu resterai alla rocca. Prenderai il comando al mio posto, se dovessi morire nello scontro.”

Alessandro ammutolì. I suoi occhi cercavano quelli della sorella in un misto di stupore e gratitudine.

Solo dopo un paio di minuti l'uomo trovò la prontezza di dire: “No, voglio starti accanto.”

“Non se ne parla. Tu hai il mio stesso sangue. Voglio qualcuno di cui fidarmi, qui a Ravaldino. Io uscirò a combattere e tu resterai qui a coordinare i soldati. Non voglio disordini.” tagliò corto la Contessa: “E ora lasciami andare. Voglio aiutare gli uomini con le corazze da scurire...”

 

Cesare stava ancora ripensando alle parole vagamente sibilline che Bernardi gli aveva rivolto il giorno prima. Ne aveva fatto tesoro, ma non gli erano bastate ancora per capire se quel barbiere sarebbe stato o meno dalla sua parte.

Di certo era palese l'odio che covava nei confronti della Sforza, benché, ogni tanto, quando la nominava aveva un'incertezza di fondo, come se si sentisse in colpa nel parlare di lei a qualcuno che le era nemico.

Il Borja aveva deciso di non correre e gli aveva chiesto di tornare ancora a palazzo Numai, per discutere delle opportunità che un sodalizio tra loro poteva portare a entrambi. Al Valentino serviva uno scrittore capace, disposto a prendere nota dei suoi successi, mentre Andrea, pareva, accarezzava da tutta una vita la possibilità di vivere della propria penna, abbandonando una volta per tutte il rasoio e le sanguigne.

Con l'immagine dello strano barbiere-storico che ancora gli frullava in testa, il figlio del papa aveva seguito le indicazioni del forlivese e già quella mattina aveva dato ordine all'artiglieria di fare un giro di rodaggio dei cannoni, puntando soprattutto verso la cittadella. La maggior parte dei colpi erano andati completamente fuori bersaglio, ma nel pomeriggio, finalmente, gli artiglieri avevano raddrizzato la mira e qualche palla aveva centrato le mura del Paradiso.

Il Borja non aveva voluto avvicinarsi troppo al centro dell'azione. L'unica cosa che aveva voluto vedere, prima che iniziassero gli attacchi, era il portone della cittadella, che, a detto di tutti, era qualcosa di colossale.

In effetti, anche da una certa distanza, il Valentino era rimasto colpito da quello che sembrava essere quasi l'unico sprazzo artistico che la Tigre avesse voluto portare in Forlì nel corso di tutto il suo dominio. Le decorazioni del portale erano tanto ben delineate e grandi da essere riconoscibili pure per un osservatore inesperto in ambito di stemmi familiari. Nel centro campeggiava una gigantesca vipera di gusto visconteo, un omaggio al sangue che scorreva nelle vene della Tigre.

Le spire dell'animale erano intagliate con una precisione certosina e il moretto stretto tra le sue zanne avrebbe incusso timore in chiunque.

Alla sinistra di quell'araldo stava una rosa d'oro, simbolo dei Riario. Era di certo la parte meno appariscente di tutto l'apparato e il Borja si chiese il perché di quella scelta, dato che il legame con il nipote di papa Sisto IV era, per la Sforza, l'unico appiglio possibile per reclamare ancora il possesso di Forlì.

Ciò che lo colpì di più, però, più ancora della magnifica vipera centrale, furono le sei palle medicee incise sul lato destro. Si trattava di un intaglio deciso, pulito, molto meno magniloquente degli altri, ma, paradossalmente, molto più maestoso.

Il Duca di Valentinois non avrebbe creduto che la sua nemica fosse una donna tanto arrogante da sbandierare a quel modo quello che pareva essere stato il suo terzo marito: il Medici di Firenze. Era pericoloso, in teoria, per lei far capire che si era risposata senza il permesso espresso né del papa né dell'Imperatore e, in più, in quel momento poteva essere per lei anche molto difficile mostrare un simbolo fiorentino come proprio, dato che Firenze era, de facto, alleata dei francesi.

Tenendo per sé i commenti poco lusinghieri che gli frullavano per la mente riguardo la libertà di costumi e d'azione della Sforza, il Borja aveva lasciato le artiglierie al loro lavoro ed era tornato a occuparsi del proprio.

Il secondo giorno come amministratore di Forlì lo stava sfinendo, e, mentre il cielo cominciava a imbrunire, trovarsi ancora davanti a dei petulanti forlivesi che reclamavano il suo soccorso gli sembrava un incubo.

Fin dal mattino i suoi nuovi sudditi erano arrivati come un fiume a casa Numai parlandogli di come i soldati francesi fossero invadenti e violenti. Gli avevano detto che rubavano loro il pane e la farina, che avevano sottratto loro i letti, i mobili, il vino e perfino i vestiti. Poi ce n'erano stati alcuni che avevano portato come prova dei soprusi subiti le proprie ferite, denunciando percosse, bastonate e aggressioni di vario tipo.

Il Borja aveva deciso di attenersi a una regola molto semplice: dare a tutti un contentino, ma non risolvere in nessun modo la situazione. Non voleva inimicarsi i suoi soldati e, se avesse cominciato con le limitazioni, di certo sarebbe diventato a loro inviso. Non poteva permetterselo proprio nel delicato momento in cui iniziava a cingere d'assedio la tana della Tigre.

Così, a chi si lamentava degli uomini che si era trovato in casa, Cesare prometteva di cambiare ospiti, facendo andare al posto dei primi soldati, un altro manipolo – spesso anche più numeroso – e pregando i malcapitati di tornare pure a lamentarsi, se ne avessero avuto bisogno.

A chi avanzava proteste generiche, rispondeva chiedendo di avere pazienza ancora qualche giorno e di rimettersi alla sua fede, che, rimanendo egli signore di Forlì a vita, li avrebbe ricompensati di tutto, una volta finita la tempesta.

Anche in quel momento, mentre congedava due poveri malcapitati che si erano visti rubare l'intero guardaroba e picchiare in testa una trave di legno, il Valentino metteva in pratica la linea che aveva autonomamente scelto di adottare e i due forlivesi, vinti e soggiogati dai suoi modi melliflui e sorprendentemente accomodanti, invece di andarsene insoddisfatti, lasciavano palazzo Numai piegati in due in un profondo inchino, ringraziando per la magnanimità del loro signore e invocando per lui la benedizione di Dio.

“Un branco di caproni.” commentò a denti stretti Cesare, quando, finalmente, poté dire conclusa, almeno per quel giorno, la sfilata dei questuanti: “E meno male che ormai è sera, così la pianteranno di venire a cercarmi, così come i cannoni di sparare. Ho la testa che scoppia...”

 

“Più stretta.” ordinò la Tigre, mentre Argentina le sistemava la fascia per il seno: “Non deve darmi fastidio, con indosso l'armatura.”

La serva annuì e fece quello che le veniva chiesto. Si domandava come mai la sua signora le avesse chiesto di aiutarla quando, di norma, era solita vestirsi da sola.

L'armatura aspettava ancora montata sul suo sostegno, a lato del letto, ma gli occhi della Sforza continuavano a correre alle pile di libri ammonticchiati vicino alla scrivania. Avevano svuotato la sala delle letture per far posto a qualche posto letto in più, per decongestionare i baraccamenti, e così aveva preferito portare in salvo quei volumi, prima che qualcuno tra i più rozzi dei suoi uomini ne usasse uno per alimentare il camino.

“Quella camicia.” indicò la Leonessa, scegliendo quella più semplice e leggera.

“E le brache?” chiese Argentina, corrucciandosi.

“Quelle là, di cuoio. Sono comunque una protezione in più.” soffiò la Contessa, distogliendo finalmente lo sguardo dai libri.

Aveva passato tutto il pomeriggio a brunire le armature assieme ai suoi, e a scegliere chi portare con sé. Non era stato semplice. Aveva optato per soldati che conosceva bene, e che a loro volta conoscessero bene la città. Li aveva voluti giovani, veloci e molto motivati.

Quando aveva fatto presente, benché le paresse ovvio, che gli eventuali caduti non sarebbero stati recuperati, un paio di loro erano sbiancati e così li aveva subito sostituiti. Voleva che quella prima spedizione fosse la migliore. Doveva infondere coraggio ai suoi uomini, non gettarli ancor più nel panico.

“Va bene così.” concluse la Tigre, dopo che Argentina l'ebbe aiutata con i calzari: “Tra poco dovrebbe arrivare uno dei soldati per aiutarmi con l'armatura.”

La serva annuì, senza dire nulla. La sua signora, la cui bellezza era nota ormai ben oltre i confini di Forlì, conciata in quel modo le pareva solo un soldataccio.

“Mentre non ci sono – aggiunse Caterina, guardando Argentina che andava alla porta – è mio fratello Alessandro a dare gli ordini. Vale anche per la servitù.”

La donna annuì e, con un saluto appena mormorato, lasciò la stanza.

Ci volle quasi un quarto d'ora, prima che la porta si aprisse di nuovo. Nel frattempo la Sforza aveva controllato un pezzo per uno tutti i componenti della sua armatura, per accertarsi che non vi fossero imperfezioni di sorta. Malgrado tutte le parole spavalde che aveva sprecato in quei giorni, non voleva morire alla prima battaglia.

“Avanti – disse piano la Contessa, ancora spalle alle porta, prima ancora di vedere chi fosse arrivato per aiutarla a indossare i suoi ferri – è buio già da tre ore, tra poco è tempo di uscire...”

“Non andate.” la voce di Baccino fece voltare di scatto la donna.

Di tutti i soldati che aveva al suo servizio, non credeva che sarebbe arrivato proprio lui a farle da scudiero. Lo guardò per qualche istante, scrutando la sua espressione grave e poi, scuotendo il capo, indicò l'armatura.

“Devo andare.” tagliò corto lei: “Avanti. Non voglio perdere altro tempo. Ormai i frati avranno finito di confessare i soldati che usciranno con me, quindi è tempo che vada da loro. Se non hai intenzione di darmi una mano, vattene. Chiamerò qualcun altro.”

Baccino arrossì, e non volendo lasciare il suo posto a qualcun altro per nessun motivo, prese la prima piastra da far indossare alla sua padrona. Sembrava essersi placato del tutto, però, proprio mentre le stringeva le prime cinghie, non riuscì a tacere oltre.

“Non dovete essere per forza in prima fila.” sussurrò.

“Devo, invece.” lo contraddisse lei: “E lo farò.”

“Ma è quello che volete?” indagò il giovane, chinandosi un po' per assicurarle i lacci sui fianchi.

“È quello che ci si aspetta da me.” ribatté lei, sentendo la gola seccarsi un po', come se quello scambio di battute le permettesse, per la prima volta, di mettere seriamente in discussione i suoi doveri.

“Che razza di risposta è?” sbuffò il cremonese, sollevando lo sguardo verso di lei.

“Che altro vuoi che dica?” il tono colloquiale con cui la Sforza si era messa a parlare diede una strana sensazione a Baccino: “Vuoi che dica che non è questo ciò che voglio? Vuoi che ti dica che non voglio rischiare la vita sotto la pioggia, in piena notte, nella speranza di uccidere dei soldati che parlano francese? Vuoi che ti dica che non ho voluto quasi nulla di tutto quello che è successo nella mia vita?”

Gli occhi della Contessa si erano fatti lucidi, man mano che il suo tono si abbassava. Dalle sue parole trapelava una rabbia profondissima e antica, qualcosa che, se liberato tutto d'un colpo, avrebbe potuto radere al suolo il mondo intero.

Baccino, quasi spaventato da quel dialogo, continuava a vestirla e lei, impassibile, lo lasciava fare.

“Come posso lasciarmi alle spalle il nome che porto?” chiese a un certo punto la Tigre, fissando il soldato: “Non mi è rimasto nient'altro.”

“Essere una Sforza non significa per forza...” iniziò a dire lui, ma la donna lo interruppe subito.

“Essere una Sforza adesso significa esattamente questo.” decretò: “Combattere in prima linea, far capire al mondo intero che gli Sforza non sono tutti come mio zio. Non tutti si arrendono. Non tutti hanno così tanta paura di morire da scappare invece di impugnare una spada. L'onore della mia famiglia, per me, è l'unica cosa che conta, ormai.”

Baccino strinse le labbra. Faticava a capirla. Forse, si disse, perché lui non discendeva da grandi condottieri, né da Duchi o colti uomini di potere. Sapeva a malapena il nome dei suoi genitori.

“Quindi...” soffiò, incerto.

“Quindi finisci di mettermi addosso quest'armatura e poi levati di torno.” concluse lei, aspra: “Non ho bisogno dei tuoi consigli.”

Il ragazzo preferì non aggiungere altro e, con perizia e solerzia, finì di bardare la sua signora per la battaglia. Le piastre, brunite dal fuoco, riflettevano poco e male la luce delle fiamme del camino. Se ne accorse anche la Sforza, e ne parve molto compiaciuta.

“Ora devo andare.” concluse lei: “I miei uomini mi aspettano.”

Con il rumore sferragliante che Caterina aveva imparato a riconoscere e stimare fin da bambina, la donna si avvicinò alla porta e fece cenno a Baccino di seguirla. Non voleva che restasse in camera sua.

“Vi aspetterò.” disse a voce bassa il cremonese, mentre camminavano in corridoio: “Passerò ogni minuto a pregare per voi.”

“Saresti più utile nell'armeria a preparare qualche cocca in più per le frecce.” ribatté lei.

Il giovane fece un sospiro e si fermò, lasciandola andare oltre, sperando che per qualche motivo si fermasse a guardarlo, chiedendogli, magari, se quell'ultima stoccata l'avesse in qualche modo offeso. E invece la Sforza proseguì per la sua strada, diretta alle scale, l'elmo sotto al braccio e i capelli bianchi raccolti dietro la nuca, il passo marziale, degno del condottiero che tanto desiderava sembrare.

 

 

 
   
 
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