Capitolo 23
Azzurro cielo
“L’altro, il tiranno
delle tue lenzuola, ti strappa fuori da ogni movimento e precipita cupo nel
ricordo.”
Alda Merini
Immagine
dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”
Napoli,
ottobre 1946
~
Un
mese al matrimonio ~
“Basta
ca ce sta ’o sole, ca c’è rimasto ’o mare, na nénna a core a core, na canzone pe’ cantá. Chi ha
avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce ’o ppassato, simmo ’e Napule paisá”[1],
canticchiava
Matteo, verniciando di beige rosato l’ultima parete
della camera da letto.
Aveva
impiegato l’intera mattina per riuscire a ottenere quel colore e fare una
sorpresa alla sua futura sposa che, sicuramente, si aspettava il monotono
bianco o, al massimo, un giallo pallido. Non vedeva l’ora di mostrarle il
risultato del suo lavoro. A breve, come i pomeriggi precedenti, sarebbe
arrivata con un caffè, un bacio e una miriade di sorrisi, sprigionando
nell’aria una scia del suo buon profumo ai fiori di mughetto e imprimendogli
nella mente e nel cuore l’immagine della sua radiosa bellezza. A volte, pensava
di non esserne degno e che, come gli ripeteva spesso il suo compare, Sarah
fosse troppo per un povero pescatore come lui. Se Matteo le aveva chiesto di
sposarlo, lei aveva fatto sì che la sua proposta diventasse un’immediata
concretezza.
Sarah
aveva messo in vendita l’appartamento di famiglia per pagare, subito e
interamente, la casetta dal tetto rosso affacciata sul mare che avrebbe abitato
con il suo sposo, scontrandosi con il dissenso del signor Gennaro che sperava
ancora nel ritorno dell’amico conosciuto in trincea durante la Grande Guerra. Inizialmente, anche lui, urtato nel suo
orgoglio di maschio e temendo una figuraccia con i suoi futuri suoceri, qualora
fossero ritornati dai lager nazisti, aveva dissentito, ma Sarah era stata più
forte. Il suo guscio di ragazza dolce e sensibile nascondeva in realtà una
donna testarda e determinata il cui carattere era stato forgiato dalle
ingiustizie e dagli abusi subiti. Ma Sarah non si era limitata soltanto
all’acquisto della casa e, con parte dei soldi rimasti, gli aveva anche
regalato una barca, offrendogli così un’indipendenza lavorativa, una
responsabilità a cui lui, però, non si sentiva ancora pronto e che lo
costringeva a diventare improvvisamente più adulto, più uomo. Temprata dalla
sofferenza del passato, Sarah era forte e lo era molto più di Matteo.
La loro decisione di sposarsi subito, senza prima
conoscersi di più ma sospinti da un sentimento d’amore e spinti da uno slancio
del cuore, aveva suscitato la disapprovazione sia del signor Gennaro sia della
famiglia di Matteo, mentre le malelingue del paese mormoravano di un matrimonio
riparatore. Ovviamente, non lo era. Il desiderio che Matteo aveva della sua
futura sposa era grande quanto il rispetto che nutriva per lei e non ne avrebbe
mai approfittato, pur sapendo della sua non più illibatezza. Temendo di poterle
riaprire una ferita e di offenderla nella sua sensibilità e nella sua dignità
di donna, non le aveva mai chiesto di quell’ufficiale tedesco. A volte, quando
era da solo con i suoi pensieri, mentre riparava una rete o riposava sulla
battigia oppure, come in quel momento, ristrutturava la loro casetta, si
ritrovava a immaginare con rabbia le violenze e le porcherie che la sua dolce
Sarah aveva subito per mano di quel criminale nazista, per lui senza nome né
volto, ma sapeva che, se le cose fossero andate diversamente, non l’avrebbe mai
incontrata. Beneficiario di una felicità frutto di un compromesso, forse, se la
vita gli avesse messo davanti quell’essere degenere, lo avrebbe anche
ringraziato, prima di ucciderlo con le proprie mani. Ma questo non sarebbe mai
accaduto, poiché quel tedesco era soltanto un fantasma del passato, un brutto
ricordo sepolto sotto cocci, ceneri e macerie di un mondo da ricostruire, di
una vita – quella di Sarah – rinata e a lui donata.
“Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha
dato, ha dato, scurdámmoce ’o ppassato”,
continuava a canticchiare Matteo, dando alla parete le ultime pennellate, “simmo ’e…” Si zittì e fermò il suo lavoro, quando,
rivolgendo lo sguardo alla finestra davanti a sé, nella cornice del luccichio
del sole che si specchiava sul mare increspato del pomeriggio e s’infrangeva
sulle barche ormeggiate in banchina, la vide arrivare con il vassoio del caffè
tra le mani.
La luce del sole faceva brillare i riflessi ramati
dei suoi capelli adornati su un lato da un fermaglietto argentato e che, adesso,
un po’ più corti e ondulati, si posavano a malapena sulle spalle coperte da una
giacchetta color panna; mentre la brezza del pomeriggio faceva danzare gli orli
del suo vestito azzurro.
Azzurro, come il mare che lui navigava e che,
generoso, era sempre stato il suo sostentamento e il suo rifugio; azzurro, come
il cielo che lui contemplava e che, rassicurante, aveva sempre raccolto i suoi
pensieri, paure e speranze.
Matteo adorava quel vestito che Sarah aveva
indossato per la prima volta il giorno della sua proposta di matrimonio a
Sorrento e ne rievocava il ricordo, i momenti e le sensazioni, il profumo di
zagare e salsedine, il suo batticuore di ansia e felicità, il sapore del pane
caldo, dei baci avvolgenti e delle lacrime dolci della sua amata.
Sorrise incantato dinanzi a quella visione
celestiale che, lentamente e in modo sinuoso, si apprestava a salire i gradini
di casa. Poi ritornò in sé e, in fretta, posò il pennello su un barattolo di
vernice e si pulì le mani con uno straccio per raggiungerla in cucina.
“Matteo!” Sarah lo chiamò con voce particolarmente
allegra, felice per ciò che avrebbe dovuto fare di lì a poco e, mentre
appoggiava il vassoio sul tavolo, lui apparve dalla camera da letto,
pronunciando il suo nome quasi in un sussurro.
Gli occhi luminosi e le ciglia incurvate dal
rimmel, il sorriso raggiante e le labbra colorate di un rosa delicato avevano
abbagliato Matteo, attraendolo verso di lei come una calamita. Le andò incontro
e l’accolse, salutandola con un dolce “ciao, amore” e un bacio sonoro sulla
guancia un po’ arrossata dal caldo.
Bevve quasi di un sorso il caffè diventato ormai
freddo e, intanto, Sarah si soffermò a guardare i suoi capelli scuri e ricci
impiastricciati di polvere; i suoi avambracci, abbronzati e scoperti dalle
maniche arrotolate, imbrattati di vernice; i suoi occhi marroni, segnati da
profonde occhiaie di sonno arretrato, fissi su di lei in un’espressione di
tenerezza e vagamente vispa che la ragazza adorava.
“Ti sei cambiata”, fece Matteo, posando la tazzina
sul vassoio, senza distogliere per un attimo lo sguardo da lei, “oggi non torni
al lavoro?”
“Te l’ho già detto ieri”, rispose, fingendosi
risentita, ma il timbro di voce gentile e il sorriso incollato sul viso
tradirono il suo tentativo, “oggi ho appuntamento con la sarta per provare di
nuovo l’abito. Stavolta mi accompagna la moglie del signor Gennaro, perché
Hannah non può muoversi dal Gran Cafè.” Sarah divenne più seria e si apprestò a
prendere il vassoio dal tavolo, dicendo: “Anzi, è meglio che mi sbrighi. Non
vorrei farla aspettare.” L’emozione per l’ennesima prova dell’abito da sposa
era mutata in un senso quasi di irrequietezza.
“Aspetta!” Matteo la fermò, afferrandole
delicatamente un polso. “Ho una sorpresa per te”, disse e, prendendola per
mano, fece tornare il sole sul suo viso, “chiudi gli occhi.”
“Va bene”, sussurrò Sarah, mentre il giovane le
restituiva il sorriso e, con una smorfia, chiuse gli occhi, lasciandosi guidare
verso la camera da letto.
“Adesso puoi aprire gli occhi, amore.” Alla dolce
esortazione di Matteo, gli occhi di Sarah si aprirono, rimanendo incantati nel
vedere quelle pareti rosate. “Allora, come ti sembra?” le domandò, già
compiaciuto della sua reazione.
“è meraviglioso!”
ribatté e, esalando un gridolino di gioia, gli si gettò al collo, baciandolo
sulle labbra. “Tu sei fantastico!”
Matteo le prese il viso tra le mani, restituendole un
bacio travolgente il cui impeto la fece indietreggiare verso l’uscio.
Sarah si scosse nel ritrovarsi con le spalle
incollate alla porta che sbatté lievemente contro il muro e si stupì nel vedere
le mani di Matteo ferme a mezz’aria sul suo petto.
“Posso, Sarah?” le chiese con il rispetto e la
gentilezza che lei, conoscendolo, sapeva avrebbero preceduto la loro intimità,
attenzioni fisiche e carezze più audaci che, già da qualche settimana, la
ragazza desiderava e pudicamente attendeva dal suo amato.
Ma, forse, non era quello il momento giusto per
permettergli di lasciarsi andare, tra il disordine di una casa in
ristrutturazione e la sua fretta per l’imminente appuntamento con la sarta, e
rispose con un titubante “sì”.
E Matteo non riuscì a scorgere il velo di tristezza
dietro le sue ciglia socchiuse, mentre stringeva tra le mani la morbida coppa
dei suoi seni e non si fermò, quando lei espresse la sua incertezza,
ritraendosi alle carezze e dicendo: “Credo che non sia questo il momento,
Matteo.”
“Sei bellissima, amore mio. Sei tutto ciò che ho
sempre desiderato nella mia vita”, rispose lui, sordo alle parole di Sarah e
ignaro che le sue mani stessero riaprendo vecchie cicatrici e rievocando
assurdi rimpianti.
Il forte odore di vernice fresca e di polvere di
gesso sparso nella stanza e quello acre di sudore emanato dal corpo di Matteo
iniziarono a confondersi con un profumo di ambra e muschio; la guancia scura e ispida
di barba incolta che la pungeva, sfiorandole il viso, divenne pelle cerea e
liscia d’impeccabile rasatura; le mani callose, la cui ruvidezza oltrepassava
la stoffa del vestito, raggiunsero le generose curve dei suoi fianchi, mutando
in dita morbide che non avevano mai conosciuto la fatica dei lavori manuali.
Sarah gemette di paura e nostalgia, al ricordo di Hermann che prendeva possesso
della sua realtà presente con Matteo.
“Basta, Matteo, devo andare. La signora Carmela mi
sta aspettando”, lo implorò, afferrandogli le braccia.
Ma il giovane, animato da un irrefrenabile e
smanioso desiderio che sembrava averne strappato via la consueta delicatezza,
non ascoltò la sua richiesta. “Lasciala aspettare”, ribatté e Sarah quasi volle
piangere, sentendosi inchiodata al legno di quella porta.
“No, basta, Matteo”, ripeté più volte, in un tono
di lamento, tentando invano di divincolarsi. Poi, con una forza che entrambi
non credevano potesse avere, la ragazza lo spinse via da sé. “Ho detto basta”,
urlò, dandogli uno schiaffo in pieno volto, “Hermann!”
E fu lo stupore e non il dolore a fargli portare e
trattenere la mano sulla guancia, mentre rielaborava il nome con il quale da
Sarah era stato respinto e chiamato.
Di quel tedesco Matteo conobbe, dunque, il nome e,
sfocato e senza fattezze, scorse il volto nel lampo di rabbia comparso negli
occhi di Sarah prima che s’inondassero di lacrime. E vide quell’ombra in divisa
riemergere da cocci, ceneri e macerie e occupare minacciosa la distanza che fra
loro si era creata.
“Azzurro come te,
come il cielo e il mare.
E giallo come luce del sole.
Rosso come le cose
che mi fai provare.”
Modà & Jarabedepalo,
Come un pittore
[1]“Basta che c’è il sole, che c’è rimasto il mare, una ragazza cuore a
cuore, una canzone da cantare. Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato,
ha dato, ha dato, dimentichiamoci il passato, siamo di Napoli paesano.”
“Simmo ’e Napule paisá” è una canzone napoletana del 1944, interpretata da Vera
Nandi al volgere del termine della seconda guerra mondiale.
La canzone racconta la voglia di rinascita del popolo napoletano e il desiderio
di lasciarsi alle spalle i tragici eventi della guerra.