~kagayaku mirai wo dakishimete.
[Emiru; 272 words]
Aveva solo quindici anni quando andò a
cercarlo.
Il tempo di prepararsi il discorso l’aveva avuto; era da allora che ci lavorava, da quando lei se n’era andata su un treno diretto
verso il cielo.
Ci aveva pensato bene. Ci aveva pensato a
lungo. Ruru aveva detto di voler tornare nel futuro
perché il futuro aveva bisogno di musica: ma quel giorno, su una spiaggia del
presente, il futuro era cambiato.
La Kuraiasu Corp.
non sarebbe mai esistita. Il dottor Traum non avrebbe
mai inventato un androide in grado di sviluppare un cuore.
Ruru
non ci sarebbe stata.
Perciò, toccava a lei aspettarla.
Aveva solo quindici anni quando andò a
cercarlo, e all’inizio, ovviamente, lui non le credette. Soprattutto, rise, non
riusciva a credere che una giovane idol di fama
nazionale venisse a trovare un vecchio inventore blaterando di viaggi nel tempo
– ai quali, per inciso, poteva pure permettersi di credere, perché lui era un visionario, un genio. Ma tutta
quella storia di androidi, di cuori e di canzoni...
Però – anche se non lavorava per nessuna
compagnia oscura, anche se i suoi robot, qui e adesso, li costruiva solo per
divertimento – lui c’era, quel
giorno, quando il cielo si era colorato della luce di un domani diverso. C’era
un lui che combatteva sulla spiaggia e
c’era un lui che guardava da fuori, costernato, ed Emiru
sapeva che si trattava dello stesso uomo. Anche se attraverso qualcun altro,
pensava di aver imparato a conoscerlo.
«Lei è già stato padre, una volta, vero?»
Traum
l’aveva guardata. Aveva pianto, anche dopo tanto tempo. Aveva creduto.
Ruru
non poteva mantenere la promessa di aspettarla; Emiru
sì.
[Homare; 280 words]
Aveva già vent’anni quando lo aveva
ritrovato.
Era successo praticamente per caso. Rientrata
in Giappone dopo una gara in Australia, era tornata per un po’ a una vita
tranquilla, andando a trovare la mamma e i nonni, uscendo con Saaya, portando a spasso Mogumogu.
Ed era stato il buon vecchio Mogumogu, in un
pomeriggio assolato in cui lei era particolarmente distratta, a trovare la via
per Harihari.
Loro – quei topastri
– non avevano accettato subito, quando lei si era offerta di prenderli con sé.
«Tutti
quanti?!»
Tutti quanti, certo.
«Ma
tu viaggi in continuazione.»
E allora? Sarebbero stati insieme, come una
famiglia.
«Ti
stancherai di noi.»
Bishin,
naturalmente.
Ma qualcosa di quel futuro cancellato era
pur rimasto: al male che gli uomini facevano alla natura non c’era rimedio –
almeno su questo, la Kuraiasu Corp. aveva ragione. Gli
alberi morivano. Sempre più creature si nascondevano. Il villaggio di Harihari era in pericolo.
Così, lui
aveva convinto gli altri.
«Possiamo fidarci di Homare.
È nostra amica.»
Amica.
Aveva vent’anni, ma quando lui sceglieva di
assumere quella sua forma umana – che la mandava in bestia, che le faceva male,
che le scioglieva il cuore – ogni volta era come tornare indietro nel tempo; a
un tempo che per lui non c’era mai stato.
In una notte piena di stelle, mentre Bishin e Ristol dormivano
accoccolati nella pelliccia di Mogumogu, Harry venne
a sedersi al davanzale della finestra, accanto a lei.
«Perché fai tutto questo per noi?»
Non la guardava. Homare
bruciava dal desiderio di toccarlo, ma non poteva, non adesso.
«Un giorno» gli disse, sincera, «dovrai
incontrare un angelo vestito di bianco. Voglio assicurarmi personalmente che tu
lo faccia.»
Così
sarai libero di scegliere, ancora.
[Hana; 111 words]
Hana
era una donna, il giorno in cui incontrò George Kurai
per quella che per lui era la prima volta.
Era diverso, ma era lo stesso. Lo riconobbe
subito, e avvertì qualcosa di stranamente incompiuto in fondo al cuore, ed ebbe
l’impressione che anche lui la riconoscesse, anche se non poteva essere. Forse era
solo perché mentre lui la guardava, lì, coi piedi a mollo in un torrente dalle
sponde fiorite, a metà primavera, aveva l’aria di un uomo che tornava a casa.
La sorpresa più bella erano i suoi occhi,
che sorridevano.
L’unica volta in cui lo vide piangere fu il giorno in cui
nacque Hagumi; ed erano lacrime buone.
Spazio
dell’autrice
C’era una
volta mio fratello che mi diceva: dovresti proprio guardare qualche stagione di
Pretty Cure, ti piacerebbe. C’ero una volta io
che rispondevo: figuriamoci, come se mi potesse piacere un majokko
sicuramente mezzo scopiazzato da Sailor Moon.
C’era una
volta HUGtto! Precure.
Ieri sera ho
guardato gli ultimi tre episodi, e ho pianto tutte le mie lacrime. E, poiché è
evidente che ormai riesco a scrivere solo di cose che mi toccano il cuore, oggi
eccoci qui.
Per quanto
abbia amato tutto – e sottolineo tutto – di questo anime, mi è sembrato
lo stesso che ci fossero alcune cose, soprattutto nel finale, che meritavano di
essere approfondite un po’. Perché Traum chiama Emiru appena dopo aver creato la “nuova” versione di Ruru? Perché in un frame vediamo Ristol,
Bishin e Harry dormire sorridenti avvolti dalla coda
di Mogumogu, il cane di Homare?
Di George poi neanche parlo; ho adorato
che non si vedesse la sua faccia, lasciando quella sorpresa fino alla fine, ma
mi sarebbe piaciuto anche vedere come la sua storia nel futuro fosse cambiata dopo
essersi innamorato di una Hana che, in qualche modo,
lo conosceva già. E così è nata questa piccola raccolta di missing
moments, o presunti tali. (Nota bene: mi spiace non
aver inserito Saaya, ma penso che il suo finale fosse
davvero il più completo – è stato davvero detto tutto di lei, e nel modo
migliore possibile.)
Niente, me ne
torno a piangere da qualche parte.
Thanks for reading,
Aya ~