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Autore: Momo Entertainment    06/03/2020    2 recensioni
[And... we are back on air.]
Unima, un anno prima degli eventi di Pokémon Nero 2 e Bianco 2.
Cinque bellissime ragazze sono state scelte, ma solo una di loro diventerà la nuova Campionessa della regione.
Insieme combatteranno e soffriranno, rideranno, piangeranno vivendo insieme l'estate della loro vita: la loro giovinezza.
Essere il Campione non significa solo lottare.
Significa anche vivere. Amare. Credere. Sognare. Proteggere.
Genere: Avventura, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri | Personaggi: Anemone, Camelia, Camilla, Catlina, Iris
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Anime, Videogioco
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ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early Summer Girls

Capitolo 21

Le figlie degli altri

Aprire la scatola della notte, infilarci dentro il buio e poi richiuderla. Metafore di “nulla”.

Catlina dischiuse le palpebre secche, come se gliele avessero scolpite nella creta e si stessero sgretolando. A vedere tutto quel cemento e quella polvere intorno a lei e alle altre, il verde acquamarina dei suoi occhi avrebbe finito per sbiadire; le sembrò subito che qualche particella vi fosse entrata ma resistette allo strofinarseli con le mani.

Una lunga notte senza sogni era appena passata ed adesso le pareva di stare in una cella mortuaria, le sue compagne addormentate non si accorsero neppure di lei. Stessa sensazione di quando l’avevano svegliata dal coma.

Si mise seduta, le punte dei piedi intorpiditi incurvate sull’orlo del materasso da dei tanto odiato. Le erano rimasti i calchi delle pieghe della tenuta carceraria sulle braccia e sul collo, quando provò a sfregarli via dall’epidermide si sollevò uno strato grigio di sporcizia mista a cellule morte.

Ora aveva capito perché le reclute volevano tagliare a tutte loro i capelli: le avevano infilate in un forno, senza ricambio d’aria, perfino il semplice respirare faceva aumentare la temperatura interna di qualche grado.

Non aveva idea di come lei, che aveva il sonno più pesante, non riuscisse già più a sopportarla e le altre quattro invece sì, quando ogni giorno alle sette si mettevano a scuoterle le spalle, soffiarle sulla faccia e urlandole di smetterla di essere pigra, ridendo a squarciagola.

Tuttavia, le mancava l’ondata di energia che, per quanto lei si dimostrasse riluttante, la colpiva sempre.

Afferrando le caviglie del pantalone per sistemarsi con le gambe immobilizzate parallela al letto, gettò lo sguardo verso la ragazza che dormiva di fronte a lei, dandole le spalle; subito presa dall’angoscia, Catlina s’addossò in anticipo tutte le preoccupazioni che le quattro avevano riposto da parte almeno per concedersi un po’ di riposo tranquillo.

«Oggi a chi tocca? Non a Iris o Anemone di certo… Quindi siamo o io, o… No…»

Non poteva essere altrimenti. Poteva quasi vedere Camilla alzarsi tutta scomposta, sistemarsi magari il suo ciuffo senza neanche l’ausilio di una spazzola, nelle condizioni in cui erano. Poi quella le rivolgeva un sorriso gentile, le chiedeva come stesse e se avesse dormito (perché il suo benessere, anche da prima del tempo della frattura cranica procuratale dal Team Plasma, aveva la priorità su tutto).

E alla fine, con il fatidico “non preoccuparti, andrà tutto bene”, Camilla si sarebbe lasciata interrogare al suo posto, sebbene condividessero lo stesso status e quindi le stesse responsabilità.

“Vorrei che stessi sempre al mio fianco, perché io ti amo”, ecco cosa aveva detto, convinta fino in fondo. Di conseguenza, le venne naturale domandarsi “Io amo ancora Camilla?”, e la guardò ancora.

Invece di rimanere a distanza come durante il primissimo attacco all’onsen, volle farsi coraggio e gettarsi nella mischia, per quanto stressante e doloroso potesse essere esporsi allo scherno dell’intera regione di Unima.

In un certo senso, era curiosa di scoprire cosa si sarebbe inventato quello scienziato pazzo per infangare la reputazione della sua cara migliore amica; gli sarebbe servita molta fantasia, questo era sicuro.

Il punto è che Catlina desiderava aiutare la loro leader in qualche modo, fosse ciò il suo ultimo atto da persona libera. A proposito di ciò, prese a riflettere, mentre un leggero cigolio proveniva da sopra di lei, dove avevano deciso di stare le due diciassettenni, abbracciate assieme.

«Io e Camilla non siamo neanche cittadine di Unima però, non possiamo chiedere… come si diceva, adesso? Il principio di espatrio? Di esproprio?»

Il termine che cercava era “extraterritorialità”, ma le era comunque chiaro il concetto; avevano entrambe il passaporto di Sinnoh e mentre il suo visto le garantiva di esercitare una professione sul suolo di Unima (sebbene lei non si avvalesse di tale privilegio) purché lo rinnovasse ogni sei mesi, la Campionessa aveva un semplice visto turistico che scadeva a settembre, fatto apposta per il torneo.

Lasciò perdere comunque, visto che anche Camelia, Anemone e quell’indemoniata di Iris (l’aveva spaventata, cosa le era preso? Le era parsa sempre così gentile, per quanto esuberante) erano innocenti, ma non potevano appoggiarsi a cavilli burocratici.

«A proposito, - i due pensieri non avevano alcuna connessione logica, era solo la noia a portarla su quel sentiero – i nostri Pokémon? Non possono arrestare i nostri Pokémon…

Si può arrestare un Pokémon? Come si fa, boh. Non è che puoi dire “okay, mettiamolo nella Poké Ball per dieci anni finché il suo Allenatore non sconta la sua pena, poi lo tiriamo fuori…?” Nah, impossibile.»

Dunque, potendo giurare sulla propria pelle rovinata dalla deidratazione che le analisi critiche non fossero affatto la sua specialità, si passò le dita fra l’attaccatura della fronte, lanciando un quarto dei capelli dietro la nuca, ormai le radici si erano fortificate sotto il volume della massa bionda e spezzarle era ardua impresa.

Catlina lasciò cadere il torso sul lato, come un corpo morto, avendo esaurito le ragioni per stare a crucciarsi: era stato voluto così dai piani alti e basta, domandare di più era fuori discussione.

Se c’era qualcosa che la sua povera materia grigia lesionata poteva fare era sfruttare le ultime ore di sonno, prima che arrivassero reclute in uniformi dall’odore nauseabondo, magari deliziandole ancora con altre battute in svendita ai discount di comicità riciclata.

E si rimise a dormire, accovacciandosi in posizione fetale, provando a liberare la mente.

«No, aspetta un attimo- Ahia, le gambe, le gambe, ah! Mai più alzarsi di scatto…»

La supposizione che siccome fosse in grado di fare due passi senza appoggiarsi alle compagne adesso scoppiasse di salute era stata presa tanto seriamente che non le era stato concesso di usare la sedia a rotelle (comprata nuova di zecca, tra l’altro, sebbene ne avesse tre o quattro modernissime a casa) o che Gothitelle le reggesse la spina dorsale, come lo stelo floscio di un arbusto legato ad uno stecco.

Liberatasi da quella sferzata ai nervi, riportò l’attenzione su ciò che le era spuntato nella testa, un’idea fastidiosa quasi paragonabile a un tumore per lei, non poteva ignorarla.

«I nostri Pokémon sono in questo edificio, qui da qualche parte, di sicuro non dentro le loro Poké Ball. – La ragione con cui giustificava quest’ultimo particolare – Se non c’è neanche l’aria condizionata, come fanno a trovare una macchina che tenga in vita quindici Pokémon automaticamente? Semplice: non lo fanno.»

Tale fu la sua teoria, tralasciando la manciata di pause per passare da una conseguenza all’altra.

Catlina comunque non poteva fregiarsi d’essere la migliore prima di aver trovato un’applicazione pratica; se non poteva essere la più entusiasta, la più carismatica, la più decisa o la più poliedrica, si sarebbe prodigata in nome del titolo di genio della banda.

Chiuse gli occhi, concentrandosi con tutte le sue forze sul “legame che unisce Allenatore e Pokémon”, in base a come l’avevano istruita dopo che aveva insistito con i suoi genitori di voler ritornare a muoversi con l’aiuto dei suoi partner psichici (lei si immaginava una specie di filo fluorescente di energia che ondeggiava in uno spazio dello stesso colore, era un trucco assai poco poetico da spiegare).

Da lì aveva imparato a comunicare mediante il pensiero: non era un superpotere. Moltissimi maestri specializzati usavano quella tattica, non era raro che alla televisione si parlasse di veri e propri incontri manipolati da questo utile e scorrettissimo incentivo.

A volte, se il destinatario dei messaggi telepatici era abbastanza vicino ed in sintonia con il mittente, si poteva perfino conversare con gli umani: un salvavita, quando non si vuole far trapelare informazioni riservate (per esempio, la strategia usata per sconfiggere le ladre ed ammonire una delle due diciassettenni di risparmiarsi occhiate indiscrete al suo corpo, rivisse l’imbarazzo per un attimo).

«Ti prego, fa’ che non ce li abbiano portati via… ti prego…

Uhm?»

La sensazione che le parole sussurrate nella sua testa stessero vagando a vuoto svanì subito, il riflesso spontaneo di avvicinare il padiglione auricolare fino a toccare il muro, per origliare un sussurro inesistente.

«M-Musharna? Oh, piccolina, fatti sentire…» La ragazza ammorbidì il tono, speranzosa in una risposta.

Nonostante fosse passato abbastanza tempo per crescere un bambino di quinta elementare da quando la biondina aveva acquisito Munna, direttamente da Unima, al venire appellato con quel vezzeggiativo il Pokémon Dormiveglia non riuscì a trattenere un versetto sorpreso.

Catlina non si poteva sbagliare, essa ripeté la sua invocazione, fra la gioia di risentire la sua Allenatrice e la preoccupazione di non poterla vedere, riempiendosi di nostalgia.

«Amore, sono io, sono io… Dimmi che non ti hanno fatto male… - due chiamate piuttosto entusiaste ruppero subito la sua apprensione, strappandole un sorrisetto – Ah, bene, per fortuna.

E gli altri? Sei con tutti gli altri?»

Ancora un riscontro sonoro positivo, per quanto una creatura appartenente ad un diverso regno di autocoscienza potesse intendere il linguaggio umano. Probabilmente, era bastata la semplice voce mentale della sua Allenatrice a mandare il tapiro rosa in euforia.

Intanto che quello continuava a verseggiare, rassicurato e fin troppo impaziente di ricongiungersi, Catlina fece un po’ di spazio ad una linea cognitiva diversa: come farsi dettare le coordinate sulla loro locazione? A quanto ne sapeva, oltre ai Chatot, solo nel Mito dell’Origine e nei cartoni animati esistevano Pokémon parlanti.

Per il momento, doveva accontentarsi di un’approssimazione. Quindi, la sua seconda trovata.

«Musharna, sto per darti un comando. Attenta bene.»

Due anni prima, metà luglio, uguale: dei teppisti non ben identificati avevano scavalcato le recinzioni e, penetrati nel Cantiere dei Sogni, scheletro di un centro politecnico mai completato nel sud, avevano preso a disturbare e perfino attaccare dei poveri esemplari di Munna indifesi.

Tutto questo per ottenere una sostanza gassosa, i giornali non avevano rivelato lo scopo di tale rastrellata, forse per un accordo segreto con i media.

Leggendo quell’orribile notizia, ne era rimasta turbata profondamente e pur avendo espresso vocalmente il suo disconforto ai suoi colleghi Superquattro, gli altri non ci avevano badato troppo, liquidandola con un’accusa di ipocrisia: “ti importa dei Pokémon maltrattati solo quando sono della stessa specie che alleni tu, Cat.”

«Butta fuori tutto il Fumonirico che hai fatto su. Sì, tutto, tutto, riempi pure la stanza e non smettere… per favore, fallo per noi.»

Quei finti paladini della giustizia erano di sicuro stati protetti dalla diffamazione; le reclute che prendevano a calci i Munna sofferenti sul corpo tondo a fiorellini per ottenerne la sostanza prodotta si trovavano là con loro; del resto, Satana non rimpiazzerebbe mai i suoi demonietti più spietati.

Catlina aspettò paziente, finché una zaffata di profumo dolciastro la investì.

Dall’angolo vicino al letto delle due Capopalestra uno spiffero color pesca fuoriusciva dall’attaccatura usurata dei mattoni, lento quale un serpente fuoriuscito dal vaso dell’incantatore.

Altri soffi timidi si disperdevano vicino al soffitto, popolando un po’ la grigia solitudine prima di dileguarsi per la loro fievolezza. Appena uno di essi le passò sotto il naso, l’Allenatrice dai capelli oro s’accorse della pressione con cui erano emessi, Musharna aveva fatto proprio del suo meglio per aiutare lei e le sue compagne.

«Grazie un milione, tesorino. – Gli schioccò un bacio, contenta del risultato – Scommetto che tu e gli altri Pokémon andate molto più d’accordo fra voi di noi altre, ahahah.»

S’auspicò di poter porre fine ad ogni loro bega interpersonale con una scoperta del genere.

Ma ancora, sarebbe stato davvero così immediato? Catlina lanciò le pupille all’angolo dell’occhio, verso la telecamera da meccanismo misterioso.

Secondo Camilla, l’audio era disattivato, non correva rischi a rivelare il tutto prima del processo… e lei, si fidava ciecamente della deduzione della Campionessa?

«Allora ieri come facevano ad avere quel malloppo di informazioni compromettenti su Camelia? Uno non tira fuori a prove così schiaccianti in quindici minuti…»

Il successivo respiro dalla bocca le uscì muto, fu un riflesso incondizionato.

«C-Camilla, io ti voglio ben… Cioè, ti amo, ci hai salvate tante di quelle volte…

Però, mi dispiace. Stavolta ti sbagli di brutto: ci sentono. Ci hanno sempre ascoltato... scusa.»

La stima che serbava non era diminuita affatto, anzi, già anticipava il futuro salvataggio attuato dall’altra ragazza bionda, che fra meno di un’ora avrebbe avuto un palcoscenico intero per esercitare il suo talento graziante, di prelevare le sue quattro predilette da ogni situazione minimamente sgradevole.

Innegabile però, tale imprudenza era costata loro dura, un errore umano che sarebbe stato non diabolico, ma stupido ripetere, perseverando con lo stesso piano d’azione.

Le aspiranti Campionesse erano diventate troppo prevedibili, i loro avversari stavano un passo avanti e peggiore delle ipotesi avrebbero sbattuto i loro Pokémon in un altro carcere lontano dal loro, magari con supplizi e torture inflittegli per punire l’ingenuità delle loro protettrici stesse.

Il Team Plasma e il loro squadrone di avvocati ingiuriosi avevano orecchie pure sui muri.

Purtroppo per loro, pensò lei, non avevano dei muri bilingui.

Catlina scrutò il pavimento ai piedi del letto, reggendosi con i gomiti a pancia in giù: agguantato un pezzo di calcinaccio, sformato come quelli che aveva raccolto per mezza giornata il mese prima, si rimise eretta e voltata verso il muro.

Prendendolo con la mano dominante, ne rilevò il lato maggiormente appuntito e lo strofinò sulla superficie fino a far scorrere la rudimentale grattata con la scioltezza di un gesso da disegno, creando sulla nicchia una piccola nuvola bianca abbastanza compatta.

L’aristocratica aspettò, posando la punta verso il centro del muro adiacente a dove dormiva; ad Unima si usavano due alfabeti sillabici, dov’era cresciuta lei uno solo, formato da ideogrammi.

Per quanto l’incontro faccia a faccia con le due reclute drogate avesse abbassato l’aspettativa sull’acume di esse, la sfera di influenza del Team era abbastanza larga che, metti caso proprio lì, si trovavano ragazze miste, o immigrate da Sinnoh, di seconda o terza generazione, che con un dizionario alla mano avrebbero decifrato tutto, riportandole alla funesta conclusione verificabile anche parlando ad alta voce.

Peccato che questa oblunga prefazione non tratti affatto di una giovane qualunque della regione a nord del mondo dei Pokémon. La signora Haato, in preda all’eccitazione e alla pressione sociale della maternità, prematuramente indaffarata, vagliava una lista delle attività indispensabili alla sana crescita intellettuale della sua bellissima bambina dai riccioli biondi ed una soglia di attenzione piuttosto bassa.

Chiedeva dunque conferma al signor Yamaguchi, se la piccola ce l’avrebbe fatta a seguire i corsi di pianoforte, di lingua straniera e di letteratura classica senza perdere il suo sorriso vivace e luminoso; allora l’uomo rideva, non aveva scelto un nome scritto con i caratteri di “bellezza” e “sogno” perché sua moglie si inventasse certe sciocchezze.

«Se ce la fa la sua compagna di scuola, quella con gli occhietti vispi, la figlia dei Kuroi, ce la fa benissimo anche lei! Anzi, potrebbe benissimo superarla, ne ha tutte le capacità.»

Al tempo di quei discorsi, Catlina aveva quattro anni e troppe bambole nuove a cui trovare un nome per preoccuparsi.

I primi due tratti le vennero un po’ sbilenchi, la calligrafia non era il suo forte e da quando si era trasferita la tastiera completava in maniera automatica i messaggini per i suoi parenti a Memoride; sperava solo fossero un benché minimo leggibili.

Voleva quasi arrendersi, non aveva idea di come scrivere la sillaba “-di” di “audio” senza fare una gaffe smascherabile da un lettore attento. Non si perse d’animo: scrisse “audio” con “a” di “angolo”, “u” di “esistere, stare”, per “di” scelse il carattere di “pulizia” ed “o” era solo una particella interiettiva obsoleta.

Da lì, la mano cominciò a muoversi da sola, tanta foga aveva di trasmettere il messaggio che solo Camilla avrebbe potuto leggere, in effetti. Anche sotto sorveglianza, volle illudersi che solo la leader avrebbe capito il criterio per decifrare le lettere, come avveniva nei romanzi di fantascienza.

La possibilità di rintracciare i loro Pokémon era un grande sollievo, se non un possibile punto debole da sfruttare appieno. Ovviamente, ciò non implicava andare fino in fondo con le sue conseguenze…

Bastava così. Tre frasi per notificare i cambiamenti più importanti, quattro righe in totale, scritte calcando e smorzando il tratto per rendere ogni segno identificabile, non poteva causare confusione alla sua traduttrice, visto che le altre tre giovani avrebbero ricevuto il messaggio dalla sua bocca.

Battendo i rimasugli di polvere via dalle mani, a Catlina tornò una voglia incredibile di quelle labbra. Anche distesa su quei giacigli di spine, riusciva a volare indietro alla nottata di coccole e di baci trascorsa a Spiraria, non aveva mai smesso di pregare per avere altre cento di esse, per lei e Camilla.

Se non erano i traumi fisici, il crepacuore l’avrebbe uccisa, una volta separata dalla sua anima gemella.

«Catlina, che problemi hai?!»

Magari fosse stato il suo subconscio a tuonare così, nessuno dei suoi più alti picchi di realismo avrebbe eguagliato il disagio di vedere Camelia darle il buongiorno con quel suo tono irritante.

«Tanti, grazie per avermelo ricordato.»

Voleva quasi spingerle la faccia lontano dalla sua vista, ma non dimostrarsi immatura e quella comunque si era già ritirata sul suo posto, di sopra.

«Non sei simpatica, sei solo malata di mente.»

Il lamento sgraziato della sua compagna di giaciglio s’intromise in quel battibecco lasciandolo incompiuto.

La coscienza che si trattasse di una nuova sessione di pure e gratuite delusioni le aveva stampato una maschera tribale funebre sul volto, fra i ciuffi spettinati impiastricciati di sudore notturno.

«Si parla di malati di mente, ci sono, presente!»

«Ho bisogno di lavarmi assolutamente, questa divisa mi sta piantando radici in corpo, che schifo.»

Camelia si era sbottonata l’uniforme fino all’ombelico, soffiandosi sullo sterno e sciugandolo con i lembi delle coperte pur di evitare la comparsa di macchie rosse.

Apprese che dormendo accanto ad Anemone si erano trasmesse a vicenda calore, una quantità elevata rispetto a quando avvicinavano i loro futon a casa di Nardo, mentre il climatizzatore soffiava una vera e propria bora nella loro camera.

«Fossi in te, - la trattenne per il braccio, seria – non mi butterei addosso acqua piena di piombo. – Indicò il lavabo – Se tu vuoi il tetano, vai pure… o un’infezione batterica, scegli tu.»

«Grazie di non lasciarmi morire, amore.»

«Prego, tanto, anche ti prendessero da parte, come hanno fatto a me ieri, al massimo ti beccheresti un…»

Non completò la frase, dalla porta partì uno strillo inconcepibile ad ogni ora del giorno, in particolare in quella dimensione spazio-temporale senza nemmeno un orologio ad avere pietà della loro vita che si consumava.

«Hey, hey, hey, siete pronte? Vi vedo bene, Campionesse! Dormito comode, in questa suite 5 stelle?»

All’unisono, sguardi, come quelli di un Allenatore che si vede piazzata una trappola di Fielepunte non appena il suo Pokémon mette l’alluce sul campo di lotta.

«Vi abbiamo portato il rinfresco migliore che vi si poteva offrire e non ci salutate neanche? Villane che non siete altro…»

Chissà se al di fuori dell’ambiente lavorativo (ammesso che ricevessero un compenso monetario o materiale, pur non addette al business come R e Z) erano migliori amiche oppure dovevano solo tenere in piedi una pagliacciata per apparire quantomeno minacciose.

«Comunicazione di servizio: vi spiamo da due mesi ormai…»

«Oddio, e l’acqua è bagnata! O a volte… salata.» Non erano neanche le otto e Camelia aveva già pronta la battuta, un record.

«Poche storie, finta bisex. – E l’altra, che l’assecondava! – Sappiamo che a voialtre piace denudarvi a caso, neanche foste in calore. E nel caso vi venisse voglia di uscirle anche qua dentro perché “che caldo blah blah”, ricordatevi delle nostre amichette telecamerine.»

«Beh, e che ve ne fate dei nostri video, vi ci masturbate sopra?»

La rossa aveva assolutamente messo in rilievo un punto ragionevole: dove finivano tutte quelle ore, intere giornate di video di loro cinque che mangiavano, si vestivano, chiacchieravano e sempre più spesso indulgevano in qualche atto un po’ perverso.

«Bleah, non siamo mica al vostro livello! Dovete sapere, branco di Ditto abbandonati in una pensione, che fra i nostri sponsor ci sono anche clienti che… fanno business con questi video, e noi siamo un’associazione ecologica! Sarebbe un peccato buttare tutte queste cassette, cioè…»

«Quindi ci minacciate di vendere le nostre riprese a proprietari di siti porno. – Catlina si grattò la nuca, senza troppa emozione per un argomento del genere – Wow, che onore vi fa questa causa.»

«Spero che sulle mie clip ci siano almeno due o tre pubblicità, io non lavoro mica gratis.» La modella aveva incrociato le braccia e inarcato le sopracciglia sotto la frangia.

«Cosa possiamo dirvi? Siete praticamente un arsenale di fetish ambulanti!»

«Eh?!» Fecero in coro.

La recluta alta con il dito prese a spiegare alla compagna, la quale annuiva ad ogni parola.

«Guarda: piatta atletica di etnia esotica, rossa con fisico a clessidra e abbronzatura, esibizionista snella ma con le curve, principessina bionda e modesta (conosco gente a cui piacciono le cicatrici), e per finire in bellezza: ex-gotica con istinti da mammina e due tette massive.»

Calò un silenzio imbarazzante. Quelle reclute erano due palle al piede, ma non si può dire non sapessero il fatto loro. Dallo stupore, nessuna domandò nulla. Forse perché ciò di cui parlavano era in parte veritiero.

«Vi diamo dieci minuti.» Squittì la più alta, eseguendo una sgraziata piroetta di inspiegabile gioia.

«Okay, ma noi ci defiliamo, qui puzza di chiuso che si muore.» La riprese l’altra.

«A dopo allora, chi non muore si rivede!» Uscirono.

Se quelle arpie non tiravano in ballo il suicidio in ogni singola loro visita non erano soddisfatte. Appena le ebbero lasciate sole per prepararsi, Iris cacciò un gemito insofferente, soffocare nel cuscino scuoiato pareva più veloce e indolore dell’impiccagione suggeritagli implicitamente.

Per incoraggiarla, Camilla la accarezzò sfregandole il polpaccio, ancora insisteva a seguire le procedure delle aguzzine, sebbene avessero ottenuto ben scarsi risultati in fatto di ricompense.

Percependo le punte sfrangiate del suo ciuffo lacerarle la retina sinistra, provò a sistemarlo prima che uno shampoo (buon partito per il premio summenzionato) potesse salvarla dalla triste ultima spiaggia di doverselo scostare dietro le orecchie, rinunciando al suo stile iconico.

La relativa distensione le permise di organizzare le fasi della propria difesa: non aveva mentito ad Iris, quello stesso giorno lei si sarebbe costituita, qualsiasi reato l’avesse commesso.

«Non mi hai ancora detto cosa ti hanno fatto ieri sera quelle sadiche.»

Origliò da Camelia, di cui cominciava a scorgere la ricrescita bionda sotto il nero lucido come petrolio. La sua ragazza tirò un sospiro addolorato, solo lei poteva tenersi per sé una condizione così aspra e al contempo disprezzare un minimo di sana compassione.

«Mi hanno minacciata di farvi di molto peggio se parlo. Mi disp…»

«Prova a chiedere “scusa” e, ugh, non sai cosa ti faccio. Anemone, ascoltami…»

La modella provò a proseguire la conversazione, ma l’altra era ormai a testa china, alla ricerca delle proprie scarpe lacerate, spazzando via con le mani il nero e le schegge incagliatesi sotto i piedi.

«Oggi mi conviene fare del mio meglio, ah. La situazione sta degenerando sotto ogni punto di vista…»

Dopo un respiro profondo e una revisione della sua coscienza, Camilla incanalò in sé il triplo della pazienza, dell’acume e dell’auto-consapevolezza di cui si armava ogni giorno, non sorrise come ci si aspetterebbe, ma la serietà la rendeva più affidabile, più motivata al provare a tutti di non aver cresciuto sia nella tecnica sia nella morale quattro disadattate.

Prima di uscire però la sua mente si prese un break dal processo et cetera, perché qualcuno aveva scritto il suo nome sul muro come “poesia”, “percorso” e aveva ingenuamente confuso la lettura di “graziosa, delicata” con quella di “Pokémon da traino”.

«Camilla? Scusa se ti chiamo ogni cinque minuti, ma le due zecche Plasma vogliono tu entri in sala per prima. Dicono ci aspetti una “sorpresa”, e già mi sento male… tutto okay, tu?»

Iris si trovava ad alzare gli occhi nocciola per ovviare alla differenza d’altezza, ma a metà strada nella diagonale si era formato un aggregato astratto di quella dipendenza fraterna, la stessa che il corpo fervente della giovane di Boreduopoli le aveva trasmesso adagiandosi sopra il suo quella sera, nell’onsen.

Possibile che essere la leader fosse allo stesso tempo così bello e allo stesso tempo così devastante?

«Tutto a posto, carissima. Ho solo un po’ di mal di schiena…»

A quel punto, una risatina le scappò.

«Un po’?! Solo un po’?!» Iris aveva le mani davanti alla bocca, come se non le fosse nemmeno lecito ridere.

La Campionessa di Sinnoh, oltre alla corazza impenetrabile dalle linee nemiche che sempre aveva addosso, ora sentì che due ulteriori scudi la proteggevano sia la destra che la sinistra. Tuttavia, prima che una sola frecciatina potesse scalfire i due suoi tesori, una spada acuminata avrebbe trafitto il suo prosperoso petto almeno cento volte.

Dalle finestre ad arco proveniva una minima coordinata su cosa succedesse nel mondo esterno nel frattempo ch’erano rinchiuse: il cielo era annuvolato, la pioggia della sera prima aveva macchiato i vetri, lasciando i calchi delle singole gocce.

Da ciò, la sala appariva più scura del giorno precedente, se non per un paio di luci accese: stando alle parole delle due reclute, il Team si stava davvero impegnando nel crearsi un’immagine di amico dell’ambiente.

L’ingresso delle imputate non sortì alcun effetto sorpresa, molti degli spettatori si erano abbonati ad ognuno dei cinque processi e le stesse facce pasciute e indagatrici si riconoscevano, anche quelle di chi non era ancora intervenuto nelle discussioni con la propria ovvietà perbenista.

Camilla non lasciava neanche che la toccassero, camminava da sola ed era quasi come se le reclute stessero seguendo lei, non il contrario: per quanto irrispettose e rudi fossero, la donna le faceva rigare dritto senza nemmeno rispondere alle loro provocazioni.

Quando si mise a sedere davanti al microfono, le bastò uno sguardo torvo per impedirgli di ammanettarla alla sedia.

Prima che qualsiasi fantasma di incertezza si impadronisse di lei, dalla prima fila braccia abbronzate incurvate rappresentavano un cuore, un applauso momentaneo e un “dagliele di brutto, leader!”, poi corretto su istigazione Catlina con un “okay, magari no. Però fagliela pagare per come mi hanno trattato ieri” di rettifica.

L’ingresso si fece d’un tratto affollato, una scorta si fece largo attraverso il corridoio e la folla si fece quieta.

Procedendo svelto, il camice bianco svolazzava a causa del movimento creatosi attorno alla figura alta e gracile. Un sorrisetto la colpì come un proiettile.

«Buongiorno, Cam…» Lo interruppe dal principio: non avrebbe accettato una conversazione in termini non egualitari.

«Campionessa Kuroi. – Ricambiò la formalità, con nonchalance - Buongiorno a lei.»

Tenne il mento alto, osservandolo dissipare il brusio della folla come un prestigiatore fa sparire uno stormo di colombe sotto il mantello. Acromio non le avrebbe mai rivolto la spalla fredda all’inizio, ma la donna era poco intenzionata a lasciarli in mano le redini dell’udienza come aveva fatto Camelia, a un ingresso caloroso preferiva di gran lunga arrivare alla sostanza il prima possibile.

«Mi scusi professore, ma se per favore potesse far iniziare subito il processo…»

«Aspetti un attimo, prima devo spiegarvi per benino una cosuccia. Ve l’hanno accennata, le nostre ragazze?»

Le sue iridi perlacee volarono più in alto del soffitto, si sarebbero potute capovolgere e sbirciare dentro il suo cervello. L’uomo si era avvicinato alla platea con una lentezza a dir poco snervante.

«Buongiorno. Forse, sarà capitato a tutti i presenti di accorgersi di una piccola mancanza di correttezza da parte degli organizzatori della scorsa seduta… - c’era davvero bisogno di tutti quei pleonasmi, vista la trepidanza degli spettatori? – Le più sentite scuse da tutto il comitato della giustizia di Unima.»

Se il rimorso di aver letteralmente manipolato l’esito del primo processo li aveva colpiti solo una volta conclusosi, le aspettative in riguardo alla compensazione per tale errore si fecero ancora basse per le ragazze. Nonostante ciò, gli era stata preannunciata una sconosciuta novità e una moderata curiosità nel sapere come essa avrebbe influito da quel momento in poi assalì tutte quante.

«Ovviamente, - nessuno aveva la più pallida idea di cosa si sarebbe inventato, quell’avverbio serviva solo a occupare spazio nella spiegazione – stiamo parlando della minoranza numerica dalla parte dell’accusa.»

«Ehm?»

Le quattro sedute vicine si rivolsero occhiate come sperassero che loro vicina di posto avesse capito qualcosa di diverso, qualcosa che magari avesse un minimo senso.

«Per questo, ottenuta l’approvazione del capo del Neo Team Plasma, abbiamo pensato di introdurre un nuovo organo di legislatura nella procedura penale regionale: signore e signori, date il benvenuto al primissimo pubblico ministero della storia della regione!»

Le porte in quercia pesante le aprirono sempre una coppia di incappucciate, tenendole spalancate per far entrare una pletora di individui, ma nessuno di essi somigliava neanche vagamente a un giurista o a un avvocato.

«Oddio, quella tizia!»

Camelia puntò un’unghia scorticata con qualche rimasuglio di smalto contro una signora di colore robusta, dai capelli spessi e ricci, della sfumatura verde della malachite; le altre le si accostarono per sentire quali succosi pettegolezzi avesse da svelare.

«Quando abbiamo fatto la riunione per la Lega dell’anno scorso, mi ricorderò sempre, mi guarda dall’alto al basso e mi dice che come sono vestita e il mio modo di rispondere non si addice ad una Capopalestra… - Poi, come se si stesse rivolgendo ad ella direttamente – Scusa, ma… gli affari tuoi? Chi sei tu per giudicare, boh, io… Secondo me è la menopausa, ammazzatemi appena faccio quarant’anni.»

Pur senza volersela inimicare ulteriormente, Iris espresse estremo disappunto, sbuffando perfino. Camelia credeva fosse colpa degli altri se il suo atteggiamento non veniva considerato il massimo della simpatia.

«Guarda che Aloé è buonissima, parli solo per sentito dire… Quando ero alle elementari ci hanno pure portati a vedere il museo a Zefiropoli… quello dove c’è lo scheletro di Zekrom, dai.»

«Pensa se mi dovevo sforzare di ricordami pure il nome.» La mora si disinteressò.

«Ah, so solo quello. Non conosco tutti, l’ultima lotta in Palestra l’avrò fatta un anno fa…»

«Ma voi Capipalestra non vi parlate neanche per sbaglio? – Catlina si intromise, non nascondendo la sua delusione: a Sinnoh questi si trovavano al bar per bere assieme, da quanto si trovavano in buoni termini – Se lo avessi saputo anch’io mi sarei risparmiata di provare a socializzare con gli altri Superquattro, tutto di guadagnato.»

Fosse stata scorretta tale teoria, Camelia ed Anemone avrebbero quantomeno accelerato il loro travaglio per conoscersi e approfondire il loro legame. A proposito della rossa, ebbe solo un commento da fare.

«Visto quanto è utile essere una reclusa asociale? Vivi benissimo lo stesso. – S’accorse anche di altri volti incontrati alle cerimonie di premiazione, quelle poche volte in cui le toccava partecipare, quando suo nonno smascherava i suoi finti infortuni sul lavoro - Sono proprio tutti qua, oh.»

I Capipalestra si accomodarono in una tribuna su gradoni, munita di sedie di feltro rosso e calici accompagnati da bottigliette di Acqua Fresca della marca meno costosa.

Come la minaccia della tirannia di Ghecis li aveva uniti per combattere ai piedi delle rovine della Lega Pokémon e nel castello eretto per il suo figlioccio, il burattino delle sue aspirazioni da megalomane, allo stesso modo lo stesso uomo li aveva radunati assieme nello stesso posto, un edificio egualmente simbolo del teatro di marionette di cui aveva retto i fili da dietro le quinte sin da subito dopo la sconfitta.

«Che figura da sceme che ci facciamo, se ne usciamo vive io mollo la carica, il lavoro e me vado a piantare Bacche a Johto per il resto dei miei giorni, eh.»

«”Che ci fate”, non parlate al plurale per favore: Superquattro maggiore Capopalestra.»

«Questo vuol dire che il mio processo è stato giocato in modalità facile?! Giuro che se Camilla riesce a pararsi pure davanti a questi trogloditi e mi fa fare la figura dell’idiota glielo brucio, questo “ministero”».

«Ma voi tre non vi domandate perché nessuno è mai gentile con voi?»

La fierezza di Iris nello stare per battere il suo record di considerazione da parte delle compagne durante una rottura della loro armonia, contato in secondi, l’unità di tempo più lunga che si sarebbe mai riuscita a permettere, non superò nemmeno quella del suo mezzo-addio sul sedile della jeep ad Austropoli.

Anemone aveva puntato dietro le sue spalle e come se il riflesso automatico di voltarsi le fosse venuto meno, Camelia le ruotò le spalle, cogliendole il mento fra il pollice e l’indice in modo che si affacciasse sulla torma di esperti di lotta.

«Nonno?»

Senza suono, le consonanti batterono sul suo palato.

Come non si poteva compatire la giovane nipotina del Capopalestra più anziano, il Domadraghi più esperto e di cui perfino i suoi coetanei temevano il nome, perfino se inserito in contesti casuali come “devo tornare a casa, o mio nonno mi uccide”?

Aristide infatti non aveva mai avuto occhi per altri nella sala orpellata, per i suoi colleghi, per tutti quegli spettatori che lo elogiavano come uomo imparziale e baldo foriero di giustizia sin dal principio del suo incarico.

Come non si poteva compatire il vecchio Capopalestra, mentre la giovane che aveva cresciuto come parte del suo sangue veniva marchiata criminale dall’uniforme arancione, incatenata come una bestia pericolosa, quando aveva lasciato la loro casa nel nord con lo stesso identico viso caramellato colmo di dolcezza?

Si ripeteva che quella era un’altra, non la conosceva, non aveva nulla a che fare con una scapestrata privata di sonno ed igiene.

La disperazione di lui la raggiunse: anche lei voleva dimostrargli che si trattava di un malinteso, che una nottata burrascosa ed un coro di malelingue in completo formale non gli avrebbero strappato dalle ginocchia la bambina persa ad ascoltare le storie antiche sui miti della Fondazione e della Guerra fra le casate.

Ma quella non era la sua battaglia. Camilla e l’esordio della sua arringa s’intromisero nel dolore dell’uomo.

«Prima di iniziare…»

Acromio accennò un goffo inchino verso i Capipalestra, non che avesse ragioni per manifestargli il suo rispetto; ma di nuovo la Campionessa gli tagliò la lingua: avendo la voce più profonda fra i due, poteva andare avanti indisturbata, come sottofondo allo stridio bambinesco dell’accusatore.

«Spero che per qualsiasi cosa mi giudichiate, prenderete come punto di partenza le mie azioni, - appariva severa, tuttavia non riversava alcuna avversione in questa sincerità – e non le mie opinioni personali sul Neo Team Plasma o su Ghecis Harmonia.»

Dal professore uscì un sospiro condiscendente, inclinò il capo per non infuriarsi a tale sconsideratezza.

«Campionessa, cosa le fa pensare di essere superiore a tutti gli altri cittadini e a poter evitare un interrogatorio ufficiale?»

«La… - lo disse rallentando, per poi sparare a velocità supersonica la banalità che a malapena le usciva senza l’impulso di battersi forte la fronte - prima parola della frase.»

Acromio si immobilizzò, come se il cervello dovesse risparmiare l’energia per muovere gli arti e dedicarla a pensarci su per qualche imbarazzante secondo.

«…cosa?» Non era sicuro della risposta, ma almeno serio nel tentativo.

«Ho detto la prima!»

Nessuno si preoccupò troppo dell’insolenza, piuttosto di quanto potesse essere controproducente sbattere un tablet di ultima generazione sul ripiano di legno rovinando lo schermo retina, tutto solo per un leggero scatto di rabbia.

«Molto… - alla ricerca dell’aggettivo, la voce dell’uomo si stringeva nelle mandibole: avesse perso il soave tono, il contenuto sarebbe passato automaticamente in primo piano e nessuno desiderava ciò, tanto meno Acromio stesso – audace, direi. Soprattutto vista la sua posizione…»

«Senta, se il vostro unico capo d’accusa è andare a ripescare fuori contesto post controversi in qualche mio blog abbandonato anni fa, - Camilla si girò lontana dal microfono, in preda all’imbarazzo – anche se, per favore, non fatelo, non credo di aver scritto cose molto lucide, a quindici anni…»

Non per nulla, quando vedeva Iris o Anemone o Camelia cliccare il tasto di condivisione per una qualche loro foto scattata per scherzo, un brutto sentore si risvegliava nel suo stomaco.

E si riprometteva di cancellare le foto fatte con il suo primo telefonino nel bagno di casa dei suoi a Memoride, in pessima qualità sgranata, con il rossetto e lo smalto nero, le code dell’eyeliner lunghe fino alle tempie per assomigliare più che potesse ad un’occidentale e gli immancabili piercing finti: il desiderio sfrenato di ricevere complimenti da degli estranei era bilanciato dalla paura dell’essere scoperta da mamma, mediante una qualche spifferata di sua sorella minore.

«Tsk, sarebbe bello potersela cavare così. Anche se, a pensarci bene, sequestrare i registri delle sue attività online… Ha presente, la cronologia delle ricerche? Ci potrebbe fornire ulteriori prove! Ultimamente ha per caso interagito con altre ragazze minorenni in maniera predatoria?»

«Cos…!?» Sentire la voce della Campionessa salire di qualche ottava lasciò tutti un po’ sconvolti.

«Se non lo ha ancora capito, ha sulle sue spalle un bel macigno da cui discolparsi, qui leggo… leggo… e che leggo? Manipolazione, abuso sessuale e inclinazione alla pedofilia.»

«Pff! – Quella risata esplose e nessuno la trovò appropriata, ma per Camelia quello era il colmo – S-Scusa leader, io l’avevo detto solo per scherzare, non volermi male per questo, ahah…»

Invece di rammaricarsi dell’essere stata appellata “vergine ventenne” ingiustamente a inizio luglio (nonostante grazie alla coincidenza del reggiseno nell’onsen fosse nata la storia d’amore più interessante dell’intera stagione) parole ben diverse le risuonarono, stavolta come un monito per il futuro che le era appena scorso davanti senza che si fosse potuta arrangiare in anticipo.

«Ma corre anche voce che la Campionessa di Sinnoh sia una lesbica ninfomane pedofila che intrattiene relazioni non consensuali con ragazzine più piccole di lei...»

Si ritenne una sciocca. Il timore che le reclute d’élite del Neo Team Plasma fossero davvero venute a uccidere le sue compagne l’aveva acciecata e lei non aveva letto fra le righe, nemmeno intuito che ci fosse stato un piano b nel caso non ci fossero riuscite.

«Questa è pura diffamazione. - Appoggiò la testa sui polpastrelli, deformando il sopracciglio per l’indignazione – Non ho mai toccato una ragazza con queste intenzioni in vita mia, in una regione con un briciolo di dignità sarei io a doverla denunciare, lei e tutti quelli che…»

«Quindi ha presente di cosa stiamo parlando, in minima parte. Accuse relativamente recenti.»

Camilla era stata l’unica a non condannare Iris per la sua reazione alla primissima volta in cui l’insopportabile capo del partito aveva messo in bocca loro sentenze non veritiere, tanto che si resse in piedi pur di non rimanere passiva davanti ad un tale affronto.

«Non ci provi neppure, a insinuare che io abbia violentato qualcuno! Soprattutto, visto che è stato Nardo a darmi questo incarico. – Da lì s’impadronirono di lei sentimenti più grandi, considerazioni che si portava dentro come un testamento della sua esperienza da mentore – Quanto privo di… amore, fiducia ed empatia deve essere il vostro mondo per non riuscire nemmeno a metabolizzare la stima e l’ammirazione che un leader possa dimostrare nei confronti delle proprie… compagne di viaggio?»

L’ultima definizione la lasciò leggermente titubante, ma subito fece l’accorgimento di annuire e riconferirle convinzione. Perché in realtà la Campionessa avrebbe voluto usare altre denominazioni per le carissime, irriverenti e a suo parere inimitabili Allenatrici la cui silhouette non vedeva l’ora di vedere inondata dalla luce dei riflettori, stagliata contro i banner pubblicitari e l’oceano di bacchette fluorescenti colorate.

Sul momento avrebbe confutato questa tesi. A due settimane da quando erano state invitate alla convivenza, lei si sentiva ancora “leader”. Già meno però, quando le toccava raccogliere dal campo di lotta le Pozioni vuote e gli asciugamani bagnati dimenticati puntualmente, quando il suo subconscio la tentava di andare a farsi per prima la doccia, finché c’era ancora acqua calda.

La sua ipotetica etichetta era ormai sbiadita poco a poco, per ogni alba passata a leggere e rileggere gli appunti e le strategie ideate dalle quattro, ancora accoccolate nei loro futon; stritolava la penna rossa e mangiandosi a malapena un “questi errori non li facevo neanche a otto anni” e per resistere, li confrontava con i fogli di due, tre giorni, della settimana prima, per ricordare a se stessa quanto fosse bella la definizione di “fare del proprio meglio”. E anche tre o quattro tazze di milk tea, in aggiunta.

Odiava pure sgridarle, dimostrarsi pedante sui punti critici e richiamarle quando tentavano di ribellarsi.

Ma si rivedeva nei loro sbagli e nelle loro lacrime, avrebbe rimediato ad ogni costo per qualsiasi cosa impedisse loro di essere ragazze felici, oneste e lottatrici provette.

Non ci credeva neppure lei a quanta strada le mancasse prima di diventare “perfetta”, come molti s’azzardavano ad appellarla. Il cammino era comunque una cosa incredibile, le sue amiche si appoggiavano a lei per sostenersi nei declivi e allo stesso tempo la sorreggevano quando si sentiva affaticata dal peso della responsabilità da leader.

«Quello che nel nostro mondo importa è la salvaguardia di minori da offese da parte di persone moralmente degenerate.»

«Vostro onore, se mi permettete…»

Acromio roteò il polso, offrendo il palco ad uno dei Capipalestra. L’uomo parlò, appoggiando il cappello bianco e sbattendo il tacco sulla gamba del tavolo, in segno di irritazione.

«Non vorrei rovinarti il monologo, prof. Ma ti serve almeno uno straccio di prova che questa bella bionda si sia… – incastrò e agitò per un paio di volte indice e medio di ogni mano aperti: si trattava sempre e comunque di un luogo rispettabile – una di quelle sue amichette vispe. Altrimenti lei è pulita e sei tu l’unico a farci brutta figura.»

«Le rispondo subito: uno degli espedienti più usati dai molestatori seriali è quello della manipolazione. Far fare alle vittime cose che normalmente non farebbero mai: le considererebbero sbagliate, folli o non-da-loro. Capisce? Comincia tutto da dettagli minimi…»

«Poche chiacchiere, saltimbanco.»

Il professore tornò a parlare con l’imputata, assicurandosi di catturare del tutto il suo sguardo.

«Campionessa Kuroi. Cosa stava pensando esattamente, quando ha trascinato quattro ragazze sotto la sua guida a farsi massacrare, rischiando quasi la vita, combattendo contro i dissidenti del vecchio Team Plasma, alla Lega Pokémon? Quale giustificazione ha? Sentiamo.»

«Quale giustificazione ho? Quale giustificazione ho?!

Ghecis vuole umiliare il Campione e devastare il simbolo della collaborazione millenaria fra umani e Pokémon, mettendo a ferro e fuoco la regione di Unima e a noi non sta bene.

Le va bene questo, come giustificazione?»

«Tsk. Quel messaggio trasmesso in televisione era chiaramente finto! Queste maledette teorie della cospirazione! Lo ha smentito il giorno seguente, Ghecis Harmonia in persona.»

L’uomo si sistemò gli occhiali sporchi ed impolverati, per focalizzarsi sulle iridi cineree della giovane donna.

«E la prego… “a noi non sta bene”? A lei non sta bene! Ecco qui l’esempio perfetto: queste ragazze obbediscono ai suoi ordini, ai suoi desideri efferati come burattini. Come se delle adolescenti sane di mente se la sentissero davvero di combattere fino alla morte di loro spontanea volontà. No, anzi: ciò che ha fatto lei è stato approfittare della loro debolezza psicologica per propugnare le sue deviazioni! Ribadisco: abbiamo una manipolatrice e bugiarda compulsiva qui.»

Non detestava Acromio e le sue tattiche sofiste, ma la contraddizione insita in esso: aveva permesso lei che i Pokémon drogati delle reclute infilassero gli artigli nella loro carne e le ferissero con zanne, proiettili, addirittura con la forza telecinetica? Camilla rappresentava la probabile chiave di quell’effetto Nora.

«Sto prendendola troppo sul serio. Non può essere colpa mia… No? Ovvio che no! Se solo non mi sentissi così male, perché? Non è colpa mia, però… Se siamo così patetiche, deboli, incapaci, inaffidabili…

No, non sono loro. Sono io.»

«Mi scusi. Vorrei fare un’obiezione, - una ragazza si alzò in piedi, non appena la sua richiesta fu accolta; non avrebbe lasciato la sua migliore amica e amante sola a combattere come durante il primo attacco all’onsen – In qualità di sub-leader.»

«Bene, adesso come minimo il prof mi insulta perché sono bionda, stupida e disabile.» Si disse Catlina, attendendo di parlare.

«Signorina! Con che genere di saggezza ci vuole deliziare oggi? Sempre che si senta abbastanza lucida, che non le vengano capogiri… ma vada pure! E alzi la testa quando parla con un superiore, qui non siamo dipendenti suoi o degli Yamaguchi.»

La giovane respirò forte per la seccatura. Ma non si sarebbe concessa di incassare un altro colpo basso per via della propria personalità docile.

«Volevo dire che noi siamo venute alla Lega, a combattere il Team Plasma, di nostra spontanea volontà, non perché Camilla ce lo ha imposto. Non ci ha manipolate nessuno.

E, mi scusi, ovviamente su di noi c’è riflesso qualche cambiamento del tempo che abbiamo trascorso qui… S-Sono la prima a dirlo: prima avevo paura perfino di parlare con altre persone, di esprimere i miei sentimenti perché… boh, nessuna ragione in particolare; ero viziata, paranoica e direi anche un po’ stupida.

Camilla non ci controlla, fossimo così influenzabili… fosse così non ci avrebbero neppure scelte per partecipare al torneo regionale. Aiutarci e darci indicazioni su come sfruttare al meglio il nostro potenziale è il suo compito, e noi ci fidiamo di lei. A-Almeno, io sì.»

«Questo non è proprio quello che uno si aspetterebbe di sentire dopo un lavaggio del cervello eseguito da una maestra dell’arte?»

Inutile che Acromio cercasse di vittimizzarla quando neppure lei aveva interesse in ciò; si era nascosta dietro ad una marea di scuse, dietro al proprio corpo infermo e alla visione distorta dei propri sogni troppe volte e lo scudo di menzogne che pensava potesse tenerla al sicuro per sempre accumulava falle, finché non s’era sbriciolato nell’incubo che la vedeva sola, in un mondo bianco senza speranza e senza futuro.

Avrebbe preso in pieno il proiettile, catturandolo come una mosca mediante il solo palmo della mano, lo avrebbe guardato puntare al suo viso, per poi scagliarlo contro il suo nemico, specchiandosi nei suoi occhi.

«Sono sopravvissuta ad un elettroshock, ad un colpo di pistola, al mio primo cuore spezzato, ad una contorsione fatale, a un coma di tre giorni…»

«Signorina, il pubblico ha capito…» Gli parlò sopra, mai lo aveva fatto fino a quel momento.

«…ad un intervento a cervello aperto e ad un’overdose di stupefacenti, grazie a Camilla.

Credo che adesso… – lo enfatizzò di prepotenza, arruffando ancora le piume al pollo – adesso…»

La Campionessa si spostò le chiome dietro le orecchie con le mani libere, come se le stesse fibre potessero distoglierla dall’avvertire un rumore sospetto: non che non ne fosse a conoscenza; aveva sistemato il suo futon (lo usava raramente per dormirci, purtroppo per lei) a fianco di Catlina per almeno due settimane, per controllare non stesse male durante il sonno.

«S-Scusate… - le uscì dal fondo dell’esofago, nessuno a parte lei lo sentì - N-Non… Io… Non mi sento bene…»

Il respiro affannoso, le pupille dilatate, la mascella rigida, le mani tremanti. Sul lato delle labbra su cui aveva riversato calore, passione e incontenibile vitalità, un rivolo schiumoso sembrava una secrezione mortifera, un rimasuglio di un’anima infettata.

Camilla girò la testa; rimpianse i pochi secondi sprecati in quell’azione e si mosse immediatamente, abbandonando la sedia e precipitandosi verso la fila di banchi.

«Spegnete quella luce dietro, subito! Quella che continua a spegnersi e riaccendersi…»

Cinque reclute scelte per la corporatura tozza, barricarono la giovane donna, neanche volesse compiere qualche efferatezza, neanche volesse altro se non aiutare la sua compagna sofferente sul pavimento laccato, nel mezzo di una delle sue crisi.

«Era dietro di me, era dietro di me quella trappola mortale, accesa… in tutto questo tempo, Io…»

Che il tutto fosse stato architettato per mettere fuori gioco la sua migliore difesa, avrebbe potuto considerarlo un proprio errore di calcolo. Un errore maledetto, che la sua amica d’infanzia stava pagando contorcendosi e annaspando disperatamente. Alla fine, sempre un errore suo.

«Come non detto… - la punta luccicante del mocassino sfiorò da così vicino alla guancia della giovane Superquattro da quasi calciarla – Chi ha permesso che una degente in condizioni di fotosensibilità così elevate sia stata dimessa in meno di un mese? Chiamate un’ambulanza, fatemi un piacere.»

Ma il fatto che Acromio stesse attivamente prendendo in giro la fiducia che aveva rimesso in piedi Catlina dopo tutte quelle sventure, per lei era come costui bestemmiasse il nome della divinità che faceva sorgere il sole per lei ogni mattina.

Camilla provò a dimenarsi ancora, cercando di ignorare il dolore provocatole dalla stretta delle reclute; l’ultima cosa che vide prima che una di esse s’arraffasse ai suoi capelli per riportarla al suo posto fu il tentativo delle altre tre Allenatrici di sciogliere le manette, a causa delle quali la biondina rischiava di rompersi un braccio a causa di qualche malaugurata manovra impulsiva.

«Non vogliamo ulteriori distrazioni per tutta la durata del processo, nessun intrigo da commedia. Voglio che questo concetto sia cristallino.»

Camilla udì Catlina tossire, l’unica cosa che era in suo potere era pregare che i soccorsi arrivassero alla svelta, prima che ella si strozzasse con la saliva o qualche microfrattura si riaprisse, dopo che aveva faticato tanto per rigenerarsi fuori e dentro di sé.

«Prossima domanda.»

Il segretario del partito sventolava la penna elettronica come una turbina, il suo ghigno beota ancora intoccato si frammentava in un caleidoscopio sullo schermo crepato.

«La ringrazio. Buongiorno, Campionessa. - Esordì un giovane uomo dai capelli castani mossi, la deliziosa sciarpa in cotone rosso si azzuffava con la camicia verde veronese, ma dai suoi occhi non traspariva alcuna malizia – Innanzitutto, sono dalla sua parte, per ora, a meno che non venga fuori altrimenti.»

Normalmente, Camilla avrebbe ringraziato anche il minimo complimento o un vago supporto; tuttavia, il posto vuoto nella prima riga le pareva enorme, quasi quanto una voragine dopo un cataclisma.

«La parte sull’alterazione mentale, quella lì, penso abbia un peso importante, almeno quanto le accuse di molestia sessuale. Quello che voglio chiederle è: vi sono dei precedenti? Non è possibile che una figura così eminente abbia macchie tanto grandi da passare inosservate…»

«Davvero vi è così difficile credermi? Sono nata a Sinnoh in un piccolo paese sul Monte Corona, da una famiglia normalissima di quattro persone. Sono andata a scuola, ho ricevuto un Pokédex e ho partecipato al torneo della Lega come tantissimi altri Allenatori. Ho fatto queste… “cose da Campione” per cinque anni oramai, starei cercando di vivere la mia vita e fare quello che mi piace: volevo viaggiare all’estero e venire a studiare la mitologia di Unima da un sacco e ce l’ho fatta.

Non capisco cosa ci sia da demonizzare se una persona ha una vita tranquilla e felice, per una volta.»

La giovane si accorse di aver inconsciamente capovolto la strategia usata da Camelia per sollevarsi dai guai per la gola: forse era giunta al limite delle forze e voleva solo terminare la seduta, nonostante avesse premuto lei stessa per velocizzarne l’andatura.

Oppure, riuscire a spegnere ogni focolaio di sospetto e curiosità nei confronti del suo passato, avrebbe distolto l’attenzione dall’etichettare lei e le sue associate come vittime e carnefice, essendo del tutto esente dal classico background travagliato e disturbante dei personaggi moralmente grigi.

Si dispiacque di poter dare l’idea sbagliata, quella della dea delle lotte bella e perfetta che non conosce l’amarezza o la sconfitta, quell’ologramma in cui troppe persone erano rimase intrappolate fino a provare autentica delusione scoprendolo consistente come l’aria rarefatta di un picco desolato.

Contò ancora sulla bontà delle sue ragazze: lei non aveva creduto un secondo che Camelia fosse solo un’antipatica sputasentenze, che Anemone agisse solo per amor altrui, che Catlina fosse distante e dimentica di tutta la loro gloria passata. Finora avevano sempre ricambiato le speranze che lei serbava per loro, le dimostravano in tal modo di vederla come una persona umana e ciò non poteva che scioglierla nell’animo.

«Per quanto riguarda le relazioni interpersonali? Compagno, fidanzato, marito?»

«Non ne sento il bisogno, grazie. Il prossimo.»

Davvero non riusciva a digerire certe domande, se non dopo essersi scolata otto coppe di sake alla prugna.

Se si diceva che la Campionessa Camilla fosse abbastanza resiliente da affrontare Allenatori su Allenatori in match giornalieri senza pause per ricaricarsi e curare la sua squadra, un cuore spezzato non poteva aver mai avuto un impatto tale da invogliarla a predare ignare ragazze, le quali avrebbero comunque dato poco da farsi a prescindere: non ci erano voluti mesi, addirittura anni prima che la modella uscisse da circolo vizioso delle relazioni casuali con uomini più voltagabbana di lei?

Come è perfettamente impossibile amare senza conoscere l’amore di persona, pensava la bionda, il non essersi mai impegnata in una relazione nemmeno una volta la rendeva inesperta, certo, molto cauta e a volte anche impaurita; ma arrivare a considerare tale mancanza d’esperienza terreno adatto ai germogli di semi d’odio…

L’idea che la teoria degli opposti sempre in movimento, che definire “la sua”, come se ne fosse appropriata, sarebbe un po’ da ipocrita, s’accoccolò al suo stomaco. A meno che non la rinnegasse, in mezzo al mare di amore in cui s’immergeva e si purificava per e con le sue adorate, carissime compagne, una goccia d’odio si nascondeva fra i flutti e con crudeltà inaudita inquinava il suo cuore.

«Il bisogno, dice?»

Ma Acromio s’era impuntato su una storia inventata. Dopotutto, neppure il cuore della donna era stato davvero pronto a quella confessione affettuosa che la più piccola del gruppo aveva mormorato fra le sue braccia, al tramonto, non trovando momento più adatto.

«Più che una leader…»

«Quanto la rende virtuosa, questa storia del celibato volontario, signorina Campionessa! Ah, ah, ah! – Il professore mimò una risata sgangherata, ipotizzando l’essere impazzito a causa della contraddittorietà delle azioni della donna, come se fosse lui stesso a star recitando un’esagerazione – In che modo strano gira il mondo, in questi tempi!»

Lasciò calare un proiettore, di qualità decisamente superiore di quello disponibile per loro sintonizzato sul canale dei messaggi snervanti ma importanti, nella loro cella.

Se le sue orecchie fossero state marchingegni collegati ad una qualche scheda madre che controllava le sue razioni, voleva ogni singolo cavo reciso, un ictus alla propria coscienza messa in una posizione così scomoda; si stavano surriscaldando e lei perdeva la voglia di stare a sentire il professore ancora.

Ed ancora era grata che qualcuna non smettesse mai di darle una distrazione.

«…per noi sei...»

«”Adamante” nelle sue posizioni è dire poco. Magari è vero: davvero non ne è cosciente. Davvero pensa che tutto questo sia assolutamente normale. Una cosa tipica da ragazza normale, da una famiglia normale, che fa un lavoro normale, passatempi normali – non sapeva se interromperlo e ricordargli di aver insultato la sua compagna per aver usato un’anafora come effetto retorico poco meno di un’ora prima - con una vita sessuale… normale!»

Aveva pigiato una combinazione dal tablet senza nemmeno distogliere lo sguardo da lei: era prevedibile che Acromio non si fosse gettato nella disputa a mani vuote. Camilla credeva di aver sprecato i suoi fendenti migliori per un omuncolo disarmato, all’inizio.

«Campionessa, le chiedo solo una cosa: non pensa mai a come si sentirebbero i suoi genitori, sapessero di queste cose?»

«”Queste cose”, cosa?!»

Come nel mito di Orfeo e Euridice, una voce dentro di lei la scongiurava di non cedere alla tentazione di girarsi a vedere la propria nobiltà d’animo sfigurata sul grande schermo, la sua dedizione resa spregevole ossessione; ma lei cedette, perché in fondo avevano ragione.

Lei una debolezza ce l’aveva.

«…Come una sorella maggiore.»

Nessuno ci fa mai caso al fatto che dopo grandi ribaltamenti, dopo ogni catastrofe, ciò che rimane sulla terra è lo stesso per tutti, ma ciò che si sedimenta in ognuno dei superstiti varia sotto quasi ogni aspetto.

D’altronde, non si può costringere uno ad identificare il tipo di fiori sbocciati sul colle fertile dopo un’eruzione vulcanica, dopo che il fuoco e la cenere hanno inghiottito tutta la vegetazione passata. Quanti saranno i granelli di sabbia che la risacca appoggia sulle spiagge delle regioni? I frammenti taglienti delle conchiglie rotte lasciano un’impressione, almeno.

Il bagliore dei fuochi d’artificio che si pone innanzi alla luna, intimidita dalla prepotenza umana di segnare pure il regno celeste con i suoi fumi e i suoi colori, nonostante non gli pertenga. La voglia di zucchero e dolci, di eccitare il palato per poi finire inevitabilmente a morire di sete. Il telefonino che pregava di aver pietà del poco spazio rimasto nella memoria d’archiviazione, con un insistente notifica per ogni fotografia scattata ad un artista di strada, ad un Pokémon raro proveniente dall’estero, al volto sorridente della giovane donna che stava al suo fianco, perfetta anche senza l’ausilio delle applicazioni di bellezza.

Iris si rese conto di starsi stringendo la mano da sola, pur di replicare il calore di quella della sua compagna più grande, di come l’aveva catturata la prima volta che erano uscite assieme, di quanti sentimenti l’avesse fatta provare quel gesto e fra tutti quelli che il buonsenso le avrebbe voluto rinfacciare come monito alla sua scarsa consapevolezza… felicità, ricordava solo inspiegabile felicità associata al vibrante pattern dei loro yukata, all’odore di olio e alla bellezza di essere all’aperto, sotto gli occhi di tutti, mano nella mano.

«Nonno, ti prego, non arrabbiarti… Non è successo niente, ti giuro su…»

Tuttavia le sue dita erano gelide, come toccare le falangi scabre di uno scheletro.

Oltre il vetro, spesso abbastanza da farle percepire la distanza per cui nemmeno allungando il braccio avrebbe potuto sfiorare, la barba bianca e gli occhi vigilanti sui suoi progressi e i suoi difetti da sempre, le apparivano così truci, così terrificanti, fauci incupite e digrignanti pronte a morderla.

Aristide non era arrabbiato con sua nipote. L’uomo era estremamente deluso, mortificato era dir poco.

Questo perché della stupenda serata che aveva condiviso con la Campionessa di Sinnoh non era rimasto nulla, il rogo di Alessandria aveva colpito i ricordi di tutti. Eccetto, nonostante non fosse neppure presente quel dì, quelli del Team Plasma.

Ad essi spettava la versione più equamente oggettiva e dolorosamente neutra che potessero usare per rappresentare cosa succedesse nella casa del Campione, dove si consumavano i segreti delle ragazze; non c’erano suoni, una visuale dall’alto, la nitidezza delle immagini riprese rispecchiava quanto in superficie si fossero fermati per interpretare i fatti di quel giorno.

Le era stato detto chiaro e tondo che lo spionaggio procedeva “da giorni”, ma né lei né Camilla si erano preoccupate di incolparsi, di pentirsi o di nascondere il loro, di segreto.

«Eddai, per quanto ciò che è stato catturato dalle nostre telecamere sia indubbiamente degenerato e di cattivissimo gusto, non c’è bisogno di coprirsi gli occhi! – Acromio invitò i presenti – Il Partito si è preso la briga di censurare quelle parti non proprio adatte alla trasmissione in prima serata!»

Se lo shock non l’avesse immobilizzata, avrebbe dovuto fare come minimo i complimenti al Team: erano riusciti ad estrapolare dal contesto originario uno dei momenti più significativi per la sua crescita, farglielo rivivere mostrandoglielo integralmente e a farla quasi vomitare dal disgusto.

Il suo sogno di una notte di mezza estate di una quindicenne era diventato un incubo, un trauma, un qualcosa di cui si sarebbe dovuta vergognare per tutta la vita.

«…Cosa mi devi giurare, Iris?»

Tutte le volte che si trovava da sola con il suo vecchio non aveva mai lasciato intercorrere alcun silenzio imbarazzante, ed il venir chiamata improvvisamente per nome dopo il verificarsi di uno stesso la fece rabbrividire.

«Ti giuro, ti giuro… - Le mancò il respiro - Camilla non mi ha fatto niente, nell’onsen...»

L’anziano abbassò la testa prendendosela con la mano, esalando addolorato; la ragazzina lo udì con i nervi.

«Quando mai, quando mi ti è stato insegnato di farti violare da un’estranea! – la riprese e la voce si fece come un tamburo rituale, scuotendo ogni mollezza nel suo corpo, con una pausa – Come aggravante…»

«No, non mi ha neanche toccata, noi stavamo solo parlando!» Ribatté e il suo tono da bambina eruppe, nonostante lei volesse nasconderlo almeno per quella diatriba.

«Che ti sei messa in testa di fare? A farti vedere nuda da una donna adulta...»

«Camilla mi ha spiegato che è una cosa normale a Sinnoh, serve a conoscersi meglio e, ti ripeto, non mi ha toccata né niente! Sei solo paranoico…»

«Ti sembra una cosa che io e tua nonna… – non riuscì neppure a completare la frase, si macchiò di anacoluto da quanto era sconvolto – ecco, pensa! Pensa alle conseguenze, una volta tanto: a quanto ci aspettavamo da te.»

Iris avrebbe voluto fingere di non sentire tutto il discorso, ma in particolare l’ultima frase. Perché così sembrava che lei la galera se la meritasse, che fosse conseguenza naturale per le sue malefatte.

E che aveva fatto di male? Certo che lo sapeva. Aveva vissuto isolata dal proprio passato e dal proprio futuro troppo a lungo, si credeva un libro aperto e si portava alle spalle strappi alla coscienza grandi quanto un canyon.

Aveva obbligato a suon di suppliche suo nonno a farle mollare la scuola, dimostrando subito di non essere sociale, di non avere attitudini, di non saper seguire una procedura sicura e basilare, di aver bisogno di sforare dalle regole per sentirsi orgogliosa.

Alla Sala del Governo, Aristide avrebbe risposto alle sue proteste contro il governo degli Harmonia come aveva fatto il professore, chiedendole dove fosse il suo diploma, se fosse sotto quella lingua lunga che si ritrovava.

E da lì, rifiutando la strada battuta dell’istruzione superiore, la sua bambina si era incamminata in mezzo ai rovi, sui sentieri tortuosi, tutta sola, nella convinzione di trovare se stessa fra gli spettri dei sognatori disillusi nel tentativo prima di lei.

Infatti, eccola lì, dove l’aveva trovata? Senza vestiti, a farsi sbranare viva da belve feroci, senza nemmeno battere ciglio.

«Beh, cosa ti aspettavi? Che mi facessi odiare, non posso nemmeno avere delle amiche? Dovevo fagli vedere io che sono la più forte solo perché sono la nipote di un Capopalestra?»

Non lo chiese ironicamente. Desiderava sapere davvero cosa nascondesse suo nonno dietro alla sua bontà condiscendente, che figlia s’immaginava che la sua “Iris” fosse. Lei non la vedeva da nessuna parte.

Il vecchio Domadraghi le manifestò il suo compunto, rifiutando tali scuse degne di una reietta con disturbi mentali, incapace di capire la realtà. Sperava di far risuonare della ragionevolezza in lei, per riportarla al suo stesso livello. Eppure la giovane Allenatrice sembrava averlo abbandonato, come una scapigliata che fugge con il suo amante, la testa persa in chissà quali fantasie idiote.

Il fatto era che lì non c’era nessun primo amore a sviarla… No, non c’entrava nessun ragazzo in quella faccenda.

«Questa in cui ti sei tirata in ballo non è “amicizia”. – La guardò dritta negli occhi marroni – Non me ne frega niente delle altre quattro e dei loro problemi. Possono fare tutte le schifezze che vogliono, fra di loro.

Ma che tu, tu ti vada a far stuprare da donne adulte… Dov’è la tua dignità? Oh? Chi te le ha insegnate queste cose? Ce l’hai un po’ di rispetto per chi ti ha tirato su?»

«Ancora! Basta! Sono io che ho detto a Camilla di sì nell’onsen! Non mi ha stuprato nessuna, io ho fatto la mia scelta e le ho detto di sì, non c’è niente di sbagliato qua! Acromio l’ha incastrata perché vuole toglierci dalla competizione… - un singulto rallentò il suo fervore e ritornò languida, come all’inizio – Nonno, ti prego, ti prego… Cerca di capirmi.»

Quando la cintura del kimono era caduta, aveva indugiato, lo ricordava. Ma appena Camilla si era esposta a lei, alla sua apprendista Campionessa che aveva salvato dall’attacco di un Pokémon selvatico e da uno del Team Plasma. A lei, prima che ad ogni altro amore della sua vita.

Anche se la sua carne non era sviluppata, le sue curve non erano ancora abbastanza mature per reggere un confronto equo, senza riservare nemmeno la minima dose di amore che il suo minuto petto conservava per un momento del genere, come avrebbe potuto innescare il meccanismo su larga scala?

Se non sapeva amare una persona tanto dolce, gentile, coraggiosa e sensibile nei suoi confronti, come avrebbe potuto una Campionessa diffondere l’amore nella regione di Unima, nel mondo intero?

Qualora avesse voluto semplicemente baciarla in bocca, strizzarle il seno o toccarle le gambe e il sedere, avrebbe potuto farlo: le circostanze erano a suo favore. In teoria l’avrebbero ugualmente criticata, cambiava solo che così c’erano prove concrete per la sua colpevolezza.

Ma c’era stato un qualcosa in aggiunta. E le due, pur non sapendolo ancora definire a parole loro, avevano capito che proprio grazie a questo qualcosa il loro bagno insieme aveva avuto un senso.

Una volta uscite dall’acqua e asciugatesi la pelle bagnata al sole, sia Iris che Camilla, entrambe erano cresciute un po’.

«E tu, cerca di raddrizzarti e torna a farti piacere i maschi, ti conviene.»

La ragazzina allontanò lentamente la cornetta da davanti alla bocca, sebbene non si sentisse nemmeno la vibrazione del fiato; se fosse stato un vero telefono a filo, avrebbe lasciato cadere la linea con un tubare perturbante.

Ormai le sue orecchie si erano riempite di insulti e a suo malgrado, la loro cattiveria andava in crescendo dall’inizio della stagione. La fiducia che aveva in sé, la sua identità ci aveva fatto un callo a tal punto da trovargli un senso: credeva che ci fosse dietro una progressione, che appena lei veniva ingiuriata con qualcosa di nuovo o originale aveva il bisogno di pensare “forse non avrei dovuto prendermela per la volta scorsa, non era poi così male”.

Anche a furia di sforzarsi di nuotare in quel fiume di chiodi, perché la punta più affilata e con la ruggine più tossica doveva avergliela spuntata colui che doveva invece farle da zattera di salvezza?

«Se anche io avessi voti alti in matematica, storia, scienze, se fossi la rappresentante di classe, se facessi i corsi aggiuntivi per entrare alla lega d’oro delle università mentre lavoro al Pokémart nel finesettimana e ha comunque tempo di leggere i libri di economia e di politica prima di andare a letto senza affaticarsi troppo a suonare uno strumento o a far pratica di lingue straniere o a scrivere poesie per i concorsi…»

Neanche Camilla avrebbe retto il confronto. Nemmeno lei, nonostante possedesse tutta la sua ammirazione.

Non credeva che gli anni e l’anzianità fossero tanto inclementi sul giudizio del Capopalestra. Lei stessa era grata per i traguardi raggiunti dai suoi predecessori, le capitava perfino di puntare il dito contro la sua generazione all’insegna della passività e della frivolezza.

Gli aveva dimostrato già dalla tenera età di non aver paura di ferirsi per offrire dal suo palmo una Bacca ad uno Zweilous affamato, di essere disposta a rovistare aiuole piene di erbacce alla ricerca di una campanula che dicesse “ti voglio bene” con la sua tenera bellezza al suo vecchio. Non aveva guadagnato rispetto neppure in tal modo.

«…Lo dici solo perché Camilla e le altre sono femmine?»

Un silenzio ed Iris si morsicò le labbra, senza perdere la risolutezza.

«Allora sei un infame.»

Non ci fossero stati venti centimetri di vetro a schermarla, avrebbe finalmente sentito cosa doveva aver provato all’epoca Camelia, che non giustificava comunque in base a ciò, ma dopo un ceffone in pieno viso anche a lei sarebbe venuto istintivo lasciare Boreduopoli e cancellare le proprie ignobili origini.

«Da chi hai preso queste parole?! Parli così a tuo nonno, da quando? Lo hai preso dalla spazzatura umana che frequenti? Oh!?»

«Non le conosci neanche…»

«Deficiente. Per fortuna, per fortuna, guarda, che ti hanno ripreso! Così impari a crescere: sei quasi un’adulta e ancora ti serve vedere le conseguenze delle tue stupidaggini in prima persona!»

La giovane dai capelli violetto stava per mollare la presa. Del resto, c’era il suo bene, in ballo. Se Aristide s’era infiammato fino ad insultare la sua intelligenza, un motivo valido doveva esserci. Non poteva essere in una posizione più opposta: i loro punti di vista si stavano scontrando e fra le scintille e i clangori si consumavano sia la pietà filiale, sia l’affetto paterno.

Tuttavia, l’uomo si toccò la barba ed aggiunse, in tono sarcasticamente critico.

«Non voglio neanche che le tiri fuori in un discorso, idee del genere…»

«…Perché? - Gli chiese, esasperata - …Perché, se fosse stato un ragazzo ti sarebbe andato bene?! Ragioni come il Team Plasma, io… non ci voglio ragionare con te.»

«Che maleducata, strafottente, ingrata sei diventata in mezzo mese!»

«Sono tutte queste cose solo per aver fatto un bagno insieme con una mia amica?»

«Iris, non sei nella condizione di dire niente. Dopo questa, tu sei come morta per me. Allora…»

L’anziano stava proseguendo a parlare, ma qualsiasi altro rimprovero avesse in serbo, non lo poté udire: la cornetta si trovava ora distante dal padiglione auricolare, sospesa a mezz’aria come gli ostaggi sul ponte delle navi pirata.

Alzando le sopracciglia sottili, l’Allenatrice e accusata si trovò entrambe le mani vuote, un tonfo fece intuire che il microfono avesse catturato l’urto della plastica contro il pavimento e pure il successivo dondolarsi al cavo che lo collegava alla centralina.

Aristide osservò sua nipote girarsi di novanta gradi, verso destra, mettendo le mani a mo’ di altoparlante: immediatamente due reclute si portarono ai lati del suo seggio. Invece di strattonarla, lei gli pose gli avanbracci e dopo averla ammanettata e bendata agli occhi, la condussero via, in silenzio.

Non poteva neppure udire i suoi passi. Le conseguenze, su cui la stava istruendo poco prima, stavano affliggendo lui, che non aveva colpa, che aveva provato ad instaurare un codice di condotta nell’essere che più aveva a cuore, ed ora vedeva la sua missione di genitore fallita e ciò lo avrebbe in eterno perseguitato.

Era sicurissimo che Nardo non approvava nulla di quanto era successo. L’ormai destituito ex-Campione le aveva per primo consegnate alle autorità, secondo la sua teoria.

All’anziano e distrutto Capopalestra del Nord non rimaneva che aspettare la sentenza per sua nipote; forse due, forse tre, forse dieci anni di carcere minorile ed un bel programma severo di riorientamento sessuale, che le avrebbe giovato di sicuro.

Non avrebbe permesso che una forza al di fuori delle leggi della natura e della sua etica ferrea gli strappasse via la sua piccola, innocente e perfetta nipotina.

«Allora, se dopo “questa” io sono “morta” per te...»

E tale forza non aveva uno, bensì quattro nomi diversi.

Mentre dietro quei nomi c’erano visi angelici, corpi divini, maniere accattivanti, potenza e carisma allo stato puro. Con quali mezzi avrebbe costui potuto arrestare le inarrestabili pulsioni dell’adolescenza?

«…allora forse non dovevi nemmeno adottarmi, infame.»

Nella totale afonia della prigione sgusciarono fuori i rumori che nella loro quotidianità scomparivano in mezzo a risate, musica e chiacchiere varie. Ancora con lo stomaco mezzo vuoto ed un caldo pazzesco, le quattro Allenatrici provavano a risparmiare il poco carburante che avevano in riserva cercando di muoversi il meno possibile e ad auto-ibernarsi in un bagno di sudore disgustoso.

Camelia aveva addirittura proposto di tagliare la testa al toro e levarsi di dosso le uniformi, giusto per evitare di andare in iperventilazione. Quando con civiltà tentarono di distoglierla dall’idea, ribatté che presto o tardi nei suoi anni di carriera qualcuno tanto le avrebbe hackerato il suo cellulare e pubblicato tutti i selfie che si faceva davanti allo specchio, le versioni originali che non sarebbero finite in nessuna delle sue pagine ufficiali.

Non capirono se stesse vaneggiando o fosse seria, ad ogni modo non glielo permisero; gli costò solo un paio di unghie finte spezzate abbandonate lì sul pavimento e un grumo di capelli biondi lavato via con l’acqua salata, a quell’ora calda quanto zuppa.

Le ragazze quindi non avevano ragione per non godersi quei minuti di degradante siesta dal valore immisurabile, sebbene i passatempi disponibili fossero limitati dal non arrecare disturbi alle sventurate complici.

La mora era distesa su un letto in basso, accarezzando continuamente i graffi di Iris sul petto e trovando il rialzamento sulla pelle stranamente piacevole al tatto, non che glielo avrebbe mai perdonato, pensava. Con il labiale percorreva una delle sue playlist senza le cuffie e senza far passare nemmeno un filo di voce, spaventata da quella mancanza di spazio personale nonostante non si facesse mai problemi di introversione.

In contemporanea, le dita di Camilla, assorta sull’ingiustizia della sua condanna e angustiata da che genere di terapia avrebbero scelto per curarla dalla sua ossessione inesistente, correvano fra i capelli della nobile dormiente sulle sue ginocchia; Catlina non aveva proferito parola dalla potenza degli antidolorifici somministrategli dopo l’attacco. La Campionessa lo reputò un bene per lei, l’avrebbero interrogata il mattino seguente e la donna giurò di fornirle mutua assistenza per qualsiasi causa le rivoltassero contro.

«Ohi, bentornata. Che t’ha detto tuo nonno? Per la storia del bagno, intendo…»

La bionda accolse Iris ancor prima che la porta si chiudesse. I ciuffi lilla bagnati ma non puliti fuggivano in tutti i modi dalla presa dell’elastico, il quale avrebbe richiesto un paio di forbici per venir scardinato dai nodi accumulati in mezza settimana. Oppure una mano forte, ma l’unica che sarebbe riuscita a spezzare la stoffa con l’uso della bruta forza appariva impegnata a fare altro, nel mezzo della propria concentrazione autistica.

«Guarda che faccia, come minimo avrà chiamato uno a farle un esorcismo! - la modella si rivolse alla donna – Leader, sai che ti capisco? Quell’onsen, mamma mia, è il sesso assoluto! Se esistesse un afrodisiaco fatto piscina…»

«Camelia, ti ringrazio dell’interesse, ma lo scopo per cui tu lo hai usato è totalmente diverso dal nostro.»

«Pfff, sai quanto me ne frega di che cosa ci devi fare nell’onsen… Te la sei presa? È perché ho preso io il meglio e tu ti sei dovuta accontentare? O aspetta, non sei davvero pedofila, hai solo gusti da plebea.»

«…mi stai seriamente dando della squattrinata?»

La Superquattro dischiuse mezza palpebra, non sia mai che qualcuno presumesse che il conglomerato di lotta dei suoi potesse competere con le tre-quattro borse di marca o gli orologi di zirconi che lo stipendio di un vip regionale. Voleva proprio farle vedere, si sarebbe comprata l’intera manifattura solo per farla tacere.

«Vogliono fare un’altra udienza fra poco.»

Questo è essere ostaggi: non avere la libertà di poter procrastinare le proprie inquietudini.

«Hanno detto che entro domani sera devono finire tutti i processi per avere il verdetto finale.»

La più piccola non si sentiva all’altezza di quell’annuncio. Non poteva rispondere a nessun loro dubbio, né chiarire la ragione per cui il Team avesse deciso di cambiare i loro piani senza preavviso, lasciandole alle mercé del loro pugno di ferro. Dai loro volti trasudava già tutta la frustrazione, tutto lo sconforto della sconfitta imminente.

A quel punto, stavano guardando le carte sul tavolo da gioco ribaltarsi e finire automaticamente nel mazzo degli Harmonia, non aveva neppure senso aspettare il loro turno e cercare di rispondere al poker di assi che Ghecis gli avrebbe piazzato, non che se ne sorprendessero più di tanto adesso.

«Ragazze, che facciamo…»

Catlina si sforzò di sollevare la testa ma ripiombò sul materasso dalle vertigini causatele ancora dalle medicine.

«Vado io, tanto non ci perdo niente.»

L’aspirante Allenatrice di Tipo Drago si rigirò le maniche, l’intestino si smosse nonostante fosse vuoto, spiazzato quanto la sua mente dallo stress e dalla stanchezza. Non aveva altra scelta.

Acromio l’avrebbe ridicolizzata come solo lui sapeva fare, la folla avrebbe provato imbarazzo trasversale finché suo nonno, il cui giudizio contava quanto tutti i Capipalestra della regione messi insieme, le avrebbe dato il colpo di grazia.

«No, scordatelo.» Solo con la punta delle dita la sfiorò Camilla ed il muscolo del collo le fece un male assurdo.

«Sì, ma, scusa…»

Malissimo. Pareva insicura, pure. Del suo alibi, il giudice avrebbe ridotto uno straccio e ci si sarebbe pulito le suole.

«Iris, stai battendo i denti. Hai freddo?»

Credeva di star guardando la compagna, eppure non stava focalizzando nulla, pur vedendoci perfettamente non discerneva alcuna forma, ogni oggetto sembrava piatto e privo di senso come in un quadro astratto. I pochi lampi di visioni oniriche, talmente transienti da non avere neppure la lunghezza per chiamarsi “sogni” delle tre ore circa in cui alla stessa maniera non poteva dire di aver “dormito”, irrompevano nel suo campo visivo.

Iris aveva rimandato tale considerazione, troppo presa a badare ai propri tormenti emotivi che spuntavano come bambini malformi, urlanti, usciti da chissà quale bolgia e che si moltiplicavano per mitosi.

Con il suo spirito sfiduciato e il suo aspetto miserevole stava obbligando Camilla a fare esattamente quello che le aveva proibito, l’unica cosa che voleva da lei; aveva violato il loro accordo privato. Ieri si era offerta per provare la propria superiorità, oggi per assoluta mancanza di amor proprio.

C’erano quaranta gradi lì dentro. C’era una ragazza con un cuore pieno di bontà ed una reputazione immacolata, rovinata dall’affezione per la sua zazzera viola e le sue promesse fatte in un tempo troppo felice per essere lucide.

Dopo il video di Acromio, la sgridata di Aristide e la tortura del Team Plasma, lei aveva ancora freddo?

Iris si odiò come mai in vita sua. Aveva ufficialmente abbassato la testa e detto “sì”, buttando via il suo orgoglio personale. Abbassò la voce, non perché non ci credesse abbastanza, ma affinché le spie con le cuffiette non sentissero una bella scossa sui timpani e poca soddisfazione nelle loro tattiche autoritarie.

Del resto, la sua non era più tortura per estrapolarle informazioni: era una vera e propria punizione. La sua riconversione sponsorizzata dallo Stato era cominciata in quella mezz’ora.

«Nessuno ti obbliga, se non te la senti. - Camilla si era già girata – Anemone, so che è brutto da chiederti, ma…»

Si trattenne dal piantare un pugnale nella bara, non rimproverare la rossa per quello che avrebbe definito un comportamento infantile in qualsiasi occasione le dimostrò che la sua soglia di tolleranza si era notevolmente abbassata.

Dopo aver attirato l’attenzione di tutte gettandosi sul lato con un guaito gutturale, la giovane aviatrice stette immobile per qualche secondo, abbandonando i graffiti incomprensibili aggiunti da lei sul muro: erano leggermente più comprensibili di quelli della bionda, ma il fatto che alle lettere latine si aggiungessero pure i numeri aggiungeva un nuovo strato di complessità all’enigma per decriptarli.

«No, Camilla, vai avanti. – La sua voce rimbombò all’interno dei palmi con cui si copriva la faccia e la bocca – Sai che io vivo per essere uno scudo umano, non aspettavo altro…»

«Per favore, comportati da adulta. Nessuno ci guadagna niente qui. Non essere egoista e…»

«Camilla, non la provocare, fai un piacere. – La riprese la sub-leader – Quella ti stacca un braccio se le gira male.»

«Per favore. – La Campionessa si passò le unghie fra i capelli, uno strato di forfora finì per annidarsi sotto di esse. L’ultimo bicchiere davvero digeribile che la sua gola ricordasse risaliva a due giorni prima, quindi apparve più stanca di quanto qualsiasi sessione di allenamento prolungato l’avesse mai resa – Arrivare a minacciarmi con la violenza…»

Con un salto dal dislivello di circa un metro e mezzo dal letto superiore, la ragazza affrontò direttamente la leader, non la sfiorò neppure ma la mise al corrente di possedere almeno il doppio della sua massa muscolare, in caso il suo piedistallo dorato l’avesse abbagliata a tal punto da usare lei come diversivo temporaneo.

Innanzitutto, lei non era una Poke-bambola da tirare al nemico per fuggire.

«Però ti farebbe bene, vista la situazione, leader.»

«Puoi anche non rubare le frasi fatte alla tua ragazza, che ha già dato per te, in caso non te ne fossi accorta.»

In aggiunta, Camilla poteva anche smetterla di fingere di avere la situazione sotto controllo, quando non aveva neppure i sotto controllo suoi panni sporchi esposti a quattro, non centomila, non duecento, quattro persone.

«…almeno io rubo da una persona sola, tu quado hai intenzione di dire alla tua amante narcolettica che la tradisci con la tua piccola cotta al limite della legalità, ah?»

A parte Camelia, che stava gridando le proprie risate fino a sentir male alle narici (un po’ si dispiaceva di non averci pensato per prima a questa imperdonabile gaffe, però era così dannatamente azzeccata! Per essere i due giorni peggiori della sua vita stava ridendo fin troppo, non era una cosa da persone sane), le altre assunsero facce di piombo ed aspettarono mute il prossimo processo.

Tanto cinque minuti dopo essersi sganasciata, l’isteria aveva esaurito le ultime risorse di energia rimastele in corpo; e la mora svenne per un calo di zuccheri. Quando provarono a rianimarla le insultò pure.

Sperando il tempo dell’attesa fosse abbastanza lungo da permetterle di schiacciare un pisolino prima di dover stare a sentire la rossa blaterare per un’ora e mezza qualcosa riguardo alle ingiustizie economiche della regione o qualche altro tema di cui a lei non poteva importar di meno, strinse il naso cercando sussidio nella poca lucidità mentale rimastale.

«Eeeeh…? No, aspetta… no, cosa, cosa… Cos…

Boh, capito niente.»

Reclinando il capo all’indietro e abbandonando la testa alla gravità, Iris emanò un sospiro smorzato, il coccige non lo sentiva più passando dallo star distesa sul letto coriaceo allo star seduta sul legno duro.

Neppure lei aveva mai così tanta ansia da palcoscenico: com’è che Anemone prendeva sempre il massimo dei voti alle interrogazioni? A cena, suo nonno aveva raccontato loro questo e ci aveva messo in gioco il suo orgoglio.

«Dovrebbe essere grata al nostro lavoro, signorina.»

La rossa strinse le labbra, da dietro i ciuffi appiccicati in punte carminio contorse tutti gli oltre cento muscoli facciali per riprodurre l’espressione più rilassata ed insospettabile che le riuscisse; per fortuna al team non era venuto in mente di adoperarla, perché la macchina della verità l’avrebbe smascherata immediatamente.

«Lo stiamo facendo per il tuo bene, sappilo.»

Se davvero gliene importava tanto da crearci un portfolio strabordante di carta lucida con firme di esperti del settore, fra cui logopedisti, fisiologi e, non osò crederci, assistenti sociali, come mai glielo mostravano solo adesso? Quanti soldi risparmiati, al posto di farsi in giro per le sale di psicoterapeuti in tutto l’ovest della regione! La giovane pensò ciò mentre si grattava il padiglione auricolare.

«…è stata dura, eh? Venir tirata su prima in orfanotrofio, poi in condizioni di difficoltà economica.»

Subito riconobbe la tattica di adescamento, ossia il fingere di compatirla. Non glielo disse nemmeno con sincera pietà.

«Sì… - La rossa aveva girato la testa e la sua voce non raggiungeva nemmeno il microfono - …dura.»

«Tutto questo bagaglio che ti trascini dietro… - Acromio puntò al fascicolo – Disturbi dell’umore, difficoltà a relazionarsi con gli altri, il continuo desiderio di distaccarsi dal mondo: hai mai pensato di chiedere aiuto? Ovviamente, non parlo solo di te. L’uomo che ti ha cresciuto, non si è mai chiesto cosa ci fosse che non andava?»

Assecondando l’ingenuità di quell’affermazione, ne estrapolò che il suo vecchio si fosse semplicemente arreso all’idea di sostituire tutte le componenti malfunzionanti di lei, che forse sarebbe stato meglio buttare via direttamente l’intero prodotto. Peccato che la sua adozione non fosse venuta con una garanzia di qualità.

Si sgranchì le spalle, guardandosi circospetta intorno: le occhiate dei presenti la intimorivano senza motivo, conosceva bene quel sentore di disagio, come se ogni persona del mondo non vedesse l’ora di raccontare al proprio vicino “ehi, l’hai vista quella?”. Era la ragione per cui non comprava mai manga in edizione cartacea se non su internet e pure quando li leggeva in pubblico li nascondeva dietro i manuali dei corsi d’aggiornamento.

«…non lo so.»

Nessuno la mandò giù, una risposta deprimente come un rigore mancato per la squadra in svantaggio.

Nel mentre, al professore scappò di nuovo quella risatina effemminata, quella che alle donne viene nei momenti in cui la situazione prende la piega desiderata e tale risultato sembra loro un colpo di fortuna, quando si tratta invece di una forzatura prevedibilissima, frutto di macchinazioni puntigliose con un risultato biunivoco.

«Bene, dai. Direi che è il momento di leggere un attimino le prove forniteci dal contributo prezioso dal nostro gruppo di Sondaggio Periscopico di Interni Anti-Rivolta di Emergenza.»

«…S.P.I.A.R.E?»

La giovane voltò la prima pagina, non riconoscendo nemmeno la stessa carta usata nelle udienze delle compagne. Le appariva più che altro come un report sulle loro attività quotidiane: c’erano orari, indirizzi con tanto di coordinate geografiche e perfino aggiornamenti sui loro movimenti virtuali quali telefonate, messaggi ed operazioni bancarie.

«Il dato su cui vorrei lei concentrasse la sua attenzione si trova nella dodicesima colonna della prima sezione, sotto i registri con la voce “R.A.”. Segua attentamente, per favore. Le nostre telecamere a calore hanno rilevato attività anomale nell’arco temporale che va dalle ore undici quarantotto della sera del trentuno giugno alle ore tre e diciassette dell’uno luglio. Quello che è stato riportato è un’alterazione al solito programma di spostamenti, visto che è abbastanza improbabile che mentre tutte le compagne stessero dormendo lei si stesse…»

«Oddio, basta! Perché devo sempre essere io quella a cui va peggio? Mettetemi in galera e fatela finita… Tanto non ho niente da perderci, okay? – Anemone affondò il naso sul tessuto dell’uniforme e respirò l’odore di tre giorni senza lavarsi - No, niente è okay.»

«…e ciò potrebbe essere relativo a molte delle implicazioni emerse anche nelle sedute precedenti! Il consumo di droga, per esempio. Oppure, si potrebbe intuire che ci fosse dietro un’attività di prestito di denaro e i debiti registrati siano inerenti a degli interessi molto alti…»

Le avevano sempre insegnato che non si interrompono gli adulti, che i dati numerici fossero la cosa più vicina ad un’approssimazione della realtà dei fatti e di tenere sempre conto della posizione sociale dell’interlocutore. Ma chi le aveva imposto quelle regole non stava a fare altro, se non portare acqua al proprio mulino. Era dunque suo dovere riconfermare le istituzioni ed i luoghi comuni?

Oppure c’era l’altra faccia della medaglia: quando perdeva il controllo, la rabbia si impossessava di lei e pur spostandosi dall’altro estremo dello spettro i dibattiti non riusciva a vincerli.

Non aveva mai provato a rimanere al centro, magari l’equilibrio e la via mediana erano lì ad aspettarla e a domandarsi come mai non avesse mai cercato nella moderatezza tutte le soluzioni ai suoi problemi, perché al posto di cercare le chiavi per aprirsi più porte si fosse affidata tanto spesso ai pugni e ai calci per abbatterle.

«…signorina, il suo alibi?»

Il professore si appoggiò al banco dove Anemone sedeva con il mento sul dorso delle mani, come se non si aspettasse un riscontro verbale ma un dolcetto o, cosa che la gentilezza della giovane gli avrebbe offerto volentieri, una spinta per portarsi quel visetto pallido e glabro il più lontano possibile dal suo sguardo.

Acromio era l’uomo meno mascolino che avesse mai visto, eppure trovava comunque repulsivo quel calo di testosterone. Non capiva come potesse varcare, in fatto di aspetto e atteggiamenti, la soglia del genere ed infastidirla in entrambe i suoi attributi. Perfino lei non sopportava quel livello di ambiguità eccessiva.

«…il mio alibi?»

S’accorse che la leader schioccava le dita davanti a lei, per risveglierà dalla sua trance.

Il lampo di genio che l’aveva illuminata nella battaglia contro gli stessi emissari del Team Plasma non poteva giungere in un momento migliore. O forse era, appunto, soltanto graziata dal fato e voleva in qualche modo un riconoscimento alla persona, un premio di consolazione per il suo ritardo intuitivo.

Non le venne così di getto, in modo simile alla formula imparata durante la lezione di fisica, giusto perché a quell’ora era l’unica studentessa attenta in classe e sperava che qualche sua compagna carina le domandasse gli appunti e lei avesse almeno una chance per fare amicizia con qualcuno che vivesse meno di cento chilometri da Ponentopoli.

La morale della storia fu che in vista dei test di fine semestre la più carina della classe (gli standard di Anemone ai tempi delle superiori non puntavano a nulla di più arrivabile di qualcuna che sapesse dell’esistenza di almeno cinque serie che piacevano anche a lei) le chiese indubbiamente di copiare da lei per arrivare alla sufficienza e passare l’anno, all’inizio delle vacanze invernali voleva pure invitarla al cinema con il suo gruppetto di amiche popolari.

E la rossa aveva ormai consegnato i moduli per ritirarsi dall’istituto tecnico statale.

«Alla fine avrà invitato un'altra ragazza con le calze fino a metà ginocchio, le lentiggini e gli occhiali rotondi. Lo sapevo, ci sarei dovuta andare comunque… se fossi venuta, non sarei qui a farmi arrestare per spaccio di stupefacenti.»

Non l’aveva più rivista, ma se lo sentiva dentro.

«Aspetta, cosa stanno dicendo?! Io non spaccio droga! - si sovvenne di quel piccolo particolare, aggrottando la fronte travolta dal dubbio – Ma se lo facessi, sai quanti soldi potrei far su… il mio fondo “concerti e goods annessi” ne gioverebbe immensamente, potrei perfino pagarmi l’iscrizione al fanclub!

Oppure cambiare finalmente le pale delle turbine laterali… Che staranno senza olio per un bel po’…»

«Signorina Reyez!»

«Giusto, giusto! Alibi, alibi…»

Tornò sui suoi passi: si concesse di dargli un altro po’ l’impressione di essere un’idiota, giusto per guadagnare tempo.

«Sa che cosa significa la parola “alibi”, almeno?»

La ragazza si portò i fogli davanti agli occhi, ma rialzò li subito non appena individuarono l’informazione che le serviva.

Si sentì leggermente in colpa. Tale dato non era una cosa che doveva ricordarle il segretario di un’organizzazione criminale, era qualcosa che si sarebbe dovuta tatuare sul braccio, far incidere su un anello o quantomeno segnarsi sull’agenda del cellulare, se proprio la memoria non voleva adiuvarla.

«Anche che io spacciassi… di sicuro non lo farei la sera fra l’ultimo di giugno e il primo di luglio.»

Nei numeri c’era per davvero la chiave per risolvere quell’intrigo, dopotutto.

«Mi scusi, ma è impossibile che io mi fossi immessa in questi affari loschi, nel tempo da lei citato.»

«Ah, dice?» Acromio la incalzò.

L’aviatrice diede segno d’esser pronta deglutendo, osservando nessuno in particolare nella platea: vendere stupefacenti, guardare una nuova serie appena sottotitolata, volare intorno al mondo su un tappeto magico, per queste e molte altre attività strabilianti non avrebbe mai rinunciato al luogo e l’atmosfera di quella notte.

«…io ero a limonare con Camelia quella sera.»

Si dispiacque di aver formulato il proprio pensiero in maniera così poco elaborata. Sembrava che le fosse importato di quella serata solo dal momento in cui fra di loro ci fosse stato un contatto fisico. Invece, anche le avessero dato il potere di viaggiare nel tempo, non avrebbe alterato un singolo dettaglio di come lei (o la sua ragazza?) aveva confessato il suo amore.

La top model più famosa di Unima aveva scavato a mani nude sotto la crosta di scuse e di bugie sotto cui Anemone si nascondeva, aveva dissotterrato il suo vero io e, mostrandoglielo dai suoi palmi bianchi ed eterei, che non c’era nulla di cui avere paura; era tutto a posto, era solo il suo primo amore.

Le aveva gridato contro, l’aveva odiata sentendosi rinfacciare la propria ipocrisia e le aveva somministrato la pillola decisiva. Quando le due si erano rivestite, tornando nei loro letti, la Capopalestra si era stretta nelle coperte, come se quel magnifico momento potesse sfuggirle dalle mani. Era valso la pena ferirsi, avevano vinto entrambi quella battaglia; la tensione sessuale aveva messo k.o. tutte e due, la bellezza insormontabile l’una dell’altra.

«Quella sera ero impegnata con…»

Non avrebbe mai sovrascritto al loro approccio nell’onsen altri spaccati dalla loro relazione neonata. Finiti gli allenamenti, quando lei e la mora si appartavano e quella le proponeva di riprovare a baciarsi, Camelia le perdonava a malapena errori come il morderle un labbro per sbaglio o il liquefarle il rossetto con la saliva.

Come pensava, il periodo di prova era finito. La versione completa di una storia d’amore richiede impegno. In quel processo, aveva carta bianca per dimostrare di aver padroneggiato ciò che serve per una relazione matura.

Ma una saetta, proveniente da sotto gli occhiali del giudice e massima autorità civile e morale della regione, la abbagliò; strinse gli occhi azzurri e la sua ambizione le si rovesciò dolorosamente nel fegato.

«…quella sera ero con…

Un… uhm… eeeh….

…partner.»

Ad un Capopalestra andò l’acqua di traverso e la tosse rumorosa rese il tutto il triplo dell’imbarazzo generale.

Ma del resto, che cos’altro poteva fare, la giovane sfortunata? Se fosse stata in grado di reggerne il peso, avrebbe come sempre tenuto a cuore l’amicizia, e anche quel qualcosa in più, che la legava non solo al suo “partner”, ma alle sue compagne. In quella seduta tuttavia, non riusciva a trasmetterla, per via della cieca follia egoista procuratale da troppi fattori.

Anemone avrebbe voluto rimangiarsi tutto, fare un reset completo.

Quindi era questo il suo disturbo della personalità, in tutto il suo intricato e disastroso fascino? Voleva farsi vedere da Acromio, dalla Lega e dal mondo come una brava ragazza, finché lei aveva la certezza di esserlo, perché? Perché di sì, lei era la nipote prediletta, la studentessa modello, l’instancabile lavoratrice, l’amica incorruttibile.

Ma l’idea di subire del male a costo di difendere quel titolo non la allettava da un bel pezzo. Il Team Plasma l’aveva praticamente già molestata una volta, non le serviva il bis della stessa orribile sensazione.

Aveva imparato il concetto di rispetto da piccola. Si era ormai abbandonata, lasciata andare al proprio perfezionismo.

«Ah, capito, capito, capito! – il professore disse – E da quanto state insieme?»

«Due mesi.»

«Voglio andare via da qui...»

Non erano esattamente sessantuno giorni su sessantuno, ma non si sentì tanto male per quell’approssimazione: almeno non avrebbe dovuto passare il suo mesiversario in un centro di riabilitazione e riorientamento, come invece sentiva sarebbe successo ad Iris, purtroppo per lei.

«E come mai nessuna delle altre Allenatrici sapeva di questo affare?»

«Abbiamo una regola nostra, che non si parla delle nostre relazioni, per non distrarci dagli allenamenti del torneo.»

«Uh, lasciami in pace… lo so che lo sai, prof.»

Aveva previsto un esito terribile per il proprio processo, ma di venire incastrata dalle sue stesse parole le sembrava un trucchetto troppo scontato: non solo ci faceva la figura della bugiarda, ma pure dell’idiota.

Dieci anni da quel processo, il suo caso sarebbe andato a finire in un manuale di pedagogia infantile nella sezione sullo sviluppo ormonale corretto. O peggio, nei volantini di propaganda ultra-conservatrice, un esempio di redenzione all’ultimo minuto di un’anima perduta nel peccato di lussuria e sodomia.

«Beh, allora ci siamo preoccupati per niente! Che gran sollievo, dico bene?»

Segno di gratitudine a chissà quale idolo falso il professore venerasse, un battito di mani riecheggiò nella sala e la colla che sigillava la bocca dei presenti si sciolse, facendoli ingaggiare nelle loro solite ciance, fuoriuscenti imperterrite come un rigurgito. Solo nella primissima fila ci fu un silenzio mortificante.

«…sì.» Gli rispose l’accusata.

«L’ho giudicata male, devo ammetterlo. – L’uomo si grattò il mento glabro – L’apparenza, sa? Tutta colpa di quei capelli rossi… un nero, una tinta chiara chiara, pensaci su un attimo se hai tempo, magari. Sottotono è sempre il meglio, secondo me.»

«Ha ragione.»

Per quanto il suo cervello fosse in fase di rifiuto più totale, qualche cellula malfunzionante le fece immaginare una scena momentanea in cui le sue ciocche scarlatte si spegnevano sotto uno strato corvino, finché l’ultimo pelo naturale che le rimaneva veniva alterato e allo specchio si rifletteva un’altra ragazza, non lei.

Forse costei sarebbe stata la nipote prediletta, la studentessa modello, l’instancabile lavoratrice, l’amica incorruttibile.

«Ricominciamo da capo, allora? Hai delle cose interessanti da dire, ne sono sicuro.»

«O-Okay.»

«Sai, visto che ti dimostri collaborativa, a differenza di altre, potrai avere vantaggi anche a partire da oggi! Suppongo che anche alle tue amiche piacerebbe farsi una doccia calda, un pasto più sostanzioso o un cuscino più morbido… ma si sono giocate la loro chance, peggio per loro.

E poi, c’è sempre la possibilità di una riduzione della pena…

Ah, e lo sapeva che il Team Plasma implementerà un sistema di aiuti economici per le famiglie in difficoltà? Bonus per la cultura, opportunità di reintegrazione nella società, eccetera eccetera…»

«La ringrazio.»

Anemone si sentì quasi di gridare, tant’era sotto pressione. Preferiva quando le imponevano dall’alto di fare le cose, era meno faticoso che scegliere da sola e doversi addossare i contraccolpi.

Voleva scegliere la via più semplice, per quello doveva farsi forte. Voleva soltanto sapere quanto ancora doveva farsi forte pur di essere felice.

Fu sorpresa nello scoprire di aver migliorato la sua posticcia faccia contenta. Pareva davvero che le parole del giudice, invece di instillarle puro panico avessero avuto un effetto placebo su di lei, ora che gli aveva detto cosa volevano sentirsi dire.

Ma che per favore, non le chiedessero di ripetere quanto aveva detto.

Poteva invece raccontargli delle altre buone azioni che aveva svolto in quegli ultimi due mesi; e fra le novantanove che in media si sarebbe inventata, alla centesima si sarebbe potuta sentire una totale traditrice.

«Appena finito gli chiedo di mandarmi in una prigione solo femminile e se è vero quello che si dice delle prigioni, io ho ufficialmente vinto il jackpot. Camilla? Ritirati, per favor… ah, no, non ce n’è bisogno. – Le venne un déjà-vu, non che se ne accorse o ne esplorasse il contenuto - Visto cosa succede a specializzarsi nelle materie umanistiche, tipo archeologia, mitologia… quello che è, e non in quelle scientifiche: niente soldi, niente lavoro e niente fidanz…

Partner, giusto.»

«Obiezione, vostro onore!»

Il suo monologo interiore, che avrebbe visto benissimo in bocca al cattivo di una campagna scadente di un gioco di ruolo che prova troppo a farsi notare dagli altri paladini, non riuscì a toccare nessuna delle fantasie a cui si sarebbe voluta abbandonare prima che il tremendo sentore tornasse a infastidirla.

Acromio fulminò il primo banco come se dalle pupille gli fosse uscito non un Braciere, un Incendio.

«Signorina Calfuray!»

Intanto anche lei percepì come d’aver già vissuto quella situazione, in qualche modo.

«Anemone sta mentendo! - La ragazzina era balzata in piedi subito come suo solito, ma già si era chinata per chiedere un consiglio tattico alla leader – Eh?! ”Vostro onore” è sbagliato? – E mentre quella annuiva in apprensione – Okay, ma allora perché non correggono i film? Mica è colpa mia se imparo sbagliato.»

«Fosse quello! Andare ad obiettare la tua stessa parte… - L’uomo si girò dalla parte dei Capipalestra – Aristide. Lei è un uomo santo, santo, dico. Uh… non è servita la lezione dell’ultima volta? Incorreggibile…»

La più giovane fu per una seconda volta parzialmente d’accordo con il prof. Non ne sapeva nulla di politica, di finanza e di legge.

Ma una frase del genere “a me non interessano i ragazzi” poteva venir pronunciata solo da un tipo di persona: una che di sicuro non ha trovato un fidanzato a distanza di tre settimane dall’averla pronunciata. Tale menzogna la riempì di rabbia.

«Anemone è lesbica fino al midollo. Non si metterebbe con un maschio neanche pagata, glielo posso assicurare.»

«Signorina… questo non è il momenti per scherzare su queste cose.»

Non che al Team importasse granché delle preferenze amorose dei suoi nemici: almeno su quello non stavano zuccherando la loro policy. Uno può desiderare quello che vuole nel suo cuore, a patto che lasciasse un cantuccio speciale per Ghecis Harmonia e i suoi adorabili progetti riguardanti il togliere potere alle persone comuni. Poi costui si spostava dal suo spazietto ridotto direttamente nell’epicentro.

In realtà, occultare le prove concrete non stava aiutando la giovane pilota. Nonostante avesse svariate volte dubitato della stabilità del legame fra le due Capopalestra, Iris non voleva vedere la sua migliore amica distruggere le sottili radici sorte sul terreno del suo primo vero innamoramento. Fare ciò equivaleva ad autodistruggersi.

«Non scherzo, lei vi sta dando corda solo perché le mettete pressione. – Incrociò le braccia e guardò la rossa negli occhi – Pure suo nonno lo sa! – E si girò verso l’anziano Domadraghi – Quando glielo abbiamo detto le ha fatto i complimenti e ci ha offerto il gelato. E un coupon per spedizioni al di sopra dei 5 chili.»

«Puoi provarlo in qualche modo?»

«N-No, come si fa a provare che una persona è gay…»

«Allora ti conviene tacere. – Il professore credeva di aver mandato in porto un’altra argomentazione, ma la ragazzina rimaneva più allibita dalla mancanza di tatto nei confronti dell’argomento per prenderla sul personale. Quello poi si rivolse alla sua imputata preferita – Anemone, cara mia, questo blaterare non ti concerne affatto, vero?»

«Ecco, l’ha detto! Hai sentito? L’ha chiamata “cara”. – Catlina stava sussurrando all’orecchio della leader - Adesso lei si alza e lo pesta di botte. Gli spacca gli occhiali sul naso e poi glieli fa ingoiare.»

«Ti piacerebbe succedesse, vero?»

La Superquattro annuì compiaciuta. La violenza fisica la odiava, ma perfino i pochi neuroni rimasti accesi le suggerivano che Anemone, onesta e buona qual era, avrebbe posto fine alla sua sceneggiata in quel momento.

La rossa si sgranchì le spalle, con uno scrocchio rumoroso si rimise seduta in posizione eretta.

«Non ho idea di che cosa stia dicendo, professore.»

Quando si reclinò indietro, presa dal rimorso, la platea si mise a parlottare, ma da davanti a lei venivano le voci più dilanianti.

«Iris, scusami.»

Camilla guardò le altre, confusa ma allo stesso tempo disgustata. Più di quando avevano tentato di trascinarla via a forza, si sentiva estranea al gruppo.

Non ci credeva che in tre mesi si sarebbe potuta costruire una solida amicizia fra di loro, ma dopo già un mese ecco solide fondamenta, da lì avrebbero soltanto potuto puntare al cielo e raggiungere le nuvole tutte assieme.

Ma la sua falsità, avevano inghiottito il loro mondo come sabbie mobili. Ora lei era fuori dal gruppo, il cinque era quattro, forse tre, andando avanti così.

«Dopo tutto quello che abbiamo passato… Ho fatto anche il tifo per te quando stavi per andartene! Perché? Perché? Tu eri la prescelta! Dovevamo combattere il Neo Team Plasma, non allearci con loro…»

«Ragazze… scusatemi. Sono una codarda. Ancora.

Forse lo sarò per sempre.»

«Silenzio! Silenzio! Ah, che dura gestire questo circo… Direi che qui abbiamo quasi finito! Siamo stati velocissimi oggi. I signori Capipalestra hanno qualcosa da ridire?»

In realtà molti di essi non avevano mai visto la rossa prima d’ora o qualora l’avessero mai scorta, non dava loro altro che soddisfazione di non conoscerla affatto: almeno una su due interrogate quel giorno pareva una ragazza a posto.

«In tal caso, Anemone. – Acromio estrasse uno stilo elettronico dalla tasca del camice e lo porse alla giovane insieme al suo tablet malandato – Prima di lasciarti andare, perché sì – apostrofò implicitamente le Allenatrici – è più che possibile evitare una sgradevole figura e l’umiliazione di fronte a tutta la regione, con un po’ di educazione.»

«Vi sta mentendo! Quella ragazza è gay, le piacciono le femmine, è palese…»

«Non starò ad ascoltare oltre. Tornando a noi: questo modulo richiede una firma elettronica. Tutto qui! Poi ti lasciamo andare. Si tratta di burocrazia, è per riabilitarla ad allenare Pokémon, ovviamente in armonia con le nuove regolamentazioni stabilite dal nostro ufficio.»

Scorrendo il contratto, lungo diverse pagine per non invogliare a farsi leggere, la ragazza notò varie cose.

«”Divito dell’utilizzo di Strumenti artificiali durante la lotta”, “divieto di conferire le Medaglie a chi ha un credito sociale basso”, “divieto di tenere i Pokémon dentro le Poké Ball al di fuori della lotta”?»

Ma più di quelle clausole ridicole, pensate ad hoc per rendere la professione di Allenatore un risibile passatempo, la coscienza che prima di lei tutti e otto gli altri Capipalestra avessero ciecamente dato la loro approvazione… e lei si stava unendo a loro, come uno zombie si stava facendo aggiungere alle file dell’armata di burattini Harmonia.

Eppure, per quanto illogico tutto ciò fosse aveva già ingrandito la sezione della firma, per evitare pure una brutta calligrafia. Tutto questo, solo poiché non aveva avuto il coraggio di ammettere l’ovvio, quello che Iris e le sue compagne sapevano ma che lei ancora era indugiante a rivelare al pubblico.

Sebbene la sua farsa le avrebbe permesso di essere l’unica a rivedere la luce del sole estivo, si sentiva già in gabbia, in una cella buia in cui nemmeno la sua ombra poteva darle idea di cosa avesse lasciato morire con le sue stesse parole.

Intanto che inseriva i suoi dati personali, Acromio s’appropinquò all’orecchio di lei e tentò di bisbigliare qualcosa, se non fosse stato che il microfono era ancora acceso e la sua voce acuta non era facile da ignorare.

«Ma senta… questo “partner”… - e si eccitò fin troppo perché fosse decoroso per un uomo adulto – è un po’ vaga come definizione… Non vorrei mai mettere il carro davanti ai buoi, ma Arceus solo sa quella sua fastidiosissima amichetta dalla testolina bucata mi ha messo una pulce nell’orecchio.»

«Professore, le chiedo per favore – La Campionessa di Sinnoh seguì lo stesso rituale di chi voleva esprimersi, come quando la chiamavano a leggere un brano di antologia in classe – mi dia una possibilità per capire un po’ cosa c’è sotto questo “partner”. Ho un’idea che vorrei provare.»

«Ah… E chi le ferma più adesso… A questo punto, non che tu possa farci molto, signorina Camilla…»

«Campionessa Kuroi!»

«…la scena è tutta sua.»

E si fece da parte. La donna sorrise per la sua piccola conquista ed iniziò.

«Buongiorno, di nuovo. – Fece un inchino, ricordando di essere ormai condannata ed odiata pressocché da tutti là dentro – Volevo capire meglio, questa cosa del partner, no? Riprendo quello che ha detto Iris, e allora, ciò che volevo chiederti è:

se dovessi scegliere una ragazza fra di noi quattro, chi sceglieresti?»

Acromio si prese la tempia e scosse la testa, ma con una placida costernazione, quale si manifesta sentendo una battuta pessima o assistendo alla figuraccia di un compare. La rossa aveva manifestato un certo disagio, non da lei visto quanto fremeva indicando tutte le idol o le perfino le passanti per la strada.

«Camilla, cosa stai dicendo? – Fece la finta tonta, atteggiamento che non le si addiceva per nulla, visto come mostrava i denti in quel sorriso terrorizzato – Io sono, ehm, eterosessuale, come sai benissimo.»

«Infatti, - la prese in contropiede, psicologia inversa – ho detto “se dovessi”… Pensa ipoteticamente, se proprio ti costringessero. Fai finta di essere quello che non sei, ossia gay, in questa situazione.»

Dalla platea si manifestò un ululo di interesse; una dimostrazione per assurdo nell’aula di tribunale li avrebbe tenuti sulle spine, dovevano scervellarsi pure loro. Il gioco stava diventando interattivo.

«Okay, se proprio mi tocca… - rifletté giusto il tempo di preparare la battuta - Di sicuro, non te, Camilla.»

Qualcuno si era già messo a ridacchiare, ma l’inquisitrice non demorse e la prese con sportività.

«Perché? Su, vogliamo sapere.»

«Perché? Sei perfetta, di viso, di corpo e di aspetto in generale, ma non sai impegnarti seriamente… - le venne in mente l’accusa di infedeltà lanciatale un’ora prima – E sei troppo accondiscendente. Ah, e hai dei gusti musicali schifosi: ti credi alternativa, ad ascoltare heavy e black metal a vent’anni?»

«Capito, okay. – L’indifferenza della bionda le permise di proseguire con la sua tattica – E Catlina?»

La potenziale candidata si guardò intorno spaventata, come se si fosse svegliata e ritrovata in sala come in un brutto sogno, quelli dove ci si trova in mutande in uno spazio pubblico della propria quotidianità.

«Eh, più o meno la stessa storia… Ha stile e poi, diciamocelo, è piena di soldi. Ma cosa faremmo insieme? Non abbiamo interessi in comune. Non posso neppure portarla in aereo con me, rischia di svenirmi addosso o di crepare, come minimo e io i danni non glieli risarcisco.»

«Anche io ti voglio bene.» Le sussurrò la giovane aristocratica, facendo il segno tondo di concordo con pollice e indice.

Ormai, avendo capito le regole, Anemone si portò al punto successivo, precedendo la leader nell’esposizione.

«No, neanche morta! N-Nel senso, è la persona più dolce, simpatica e la migliore compagna di dance cover che esista sul suolo di Unima… Ma a quindici anni sei ancora una bambina! Dai, è troppo presto, ma magari se passassero un po’ di anni, e-e se fosse un maschio…»

«Va bene, okay, chiaro.»

La rossa, che aveva finora avanzato in maniera così brillantemente neutrale fra l’appagare la sete di approvazione del prof e il mantenere uno stato di fredda distanza dalle sue ex-compagne, si resse al bracciolo della sedia, le mancò il pavimento sotto ai piedi.

No.

Camilla non poteva odiarla fino a quel punto.

Certo, le aveva promesso botte assicurate in un futuro non troppo imminente, ma se stava davvero per toccare quel tasto, almeno poteva smetterla di sorriderle in maniera così innocentemente sadica.

«Ma… - stette un paio di secondi a trascinarsi la vocale e la addolcì di veleno caramellato – Camelia? Eh? Neppure lei ti piacerebbe, giusto?»

«Niente panico, sono arrivata fin qui con le mie cavolate, possiamo anche toccare il fondo, scavare fino ad arrivare al centro della Terra e farci un bagno di magma.»

«Esattamente.»

«Woah. – Quando l’aviatrice non le rispose la incalzò con ancora più veemenza – E cosa non ti piace di lei? Tutto, immagino.»

«Ovviamente! – Catlina comprese al volo, e non chiese nemmeno il permesso di intervenire da quanto moriva dalla voglia di vedere dove le avrebbe trascinate quella catastrofe di un processo – Sono opposti totali, loro due. Quando si sono incontrate per la primissima volta si stavano già per linciare vive a vicenda.»

«Dai, buttaci un po’ le “dieci ragioni per cui non mi metterei con Camelia Taylor nemmeno se mi puntassero un Iper Raggio alla testa”! Non so voi, ma io sono super-curiosa.»

Iris si mise a sedere a gambe incrociate sul banco, come se le stessero per versare nella tazza il gossip più succoso della stagione, un tè bollente e ricco di sapore nella già torrida estate di quell’anno.

«Se mi date l’onore di iniziare, suggerirei di partire con le sue brutte intenzioni, la maleducazione e la brutta figura di ieri sera…»

Acromio si sfregò le mani per l’entusiasmo. Se si trattava di seminare zizzania, non poteva mancare alla festa, doveva addirittura aprire le danze.

Un terremoto, un tuono, un incendio, una lavata di testa alle sei del mattino da parte del suo capo, quali di questi faceva più terrore alla rossa? In realtà la più tremenda era lei. Poteva ancora tirare il freno a mano ed evitare il crescendo di assurdità che stava accumulando fino a crearci una scala dritta dritta verso l’Olimpo delle stupidità.

Comunque lei sapeva di non star dicendo il vero e lo sapevano le sue compagne e soprattutto lo sapeva la sua ragazza, che come suo solito non si stava facendo per nulla trasportare, salda nel suo stoicismo, dalle pagliacciate delle altre. Stava semplicemente lì a guardarla e negli occhi poteva leggerle così tanti segnali da non riuscire nemmeno ad interpretarli, come quando l’avevano intrappolata nel loro vortice di emozioni nel garage e aveva dovuto aspettare di giungere sull’orlo del precipizio per scioglierne l’enigma.

«Camelia, amore mio, scusami… Scusami, scusami, scusami, scusami, scusami, scusami, ah, no, dire “scusa” la fa imbestialire, non so essere una brava fidanzata nemmeno nei miei filmini mentali, uh…»

Alla fine, senza alcun preavviso, qualcosa la colpì.

La lasciò stordita, visto che la fece riemergere con la testa dalla foce di insanità nella quale stava raschiando il fondale, aspettando di venire spiaccicata da metri cubi di idiozie, prese una boccata di buon senso ma col risultato di uscirne ancora più fradicia di quando s’era tuffata.

Questo per dire che se a venirle contro fosse stata un’altra ideona o un nobile sentimento, non si sarebbe immediatamente chinata in preda al dolore. Bastoni e pietre potevano spezzarle le ossa, ma le parole, le opinioni e le voci di corridoio non le avrebbero mai fatto nulla.

E non le avrebbero nemmeno fatto sanguinare una narice, costringendola a pulirsi con la mano il sangue colante fino al labbro superiore, perché quello che le era stato lanciato contro, con ovvio intento di colpirla fra l’altro, era una scarpa mezza rattoppata dalla suola dura e pure incrostata di minuscoli sassolini, andatisi a stampare sul volto della giovane aviatrice.

Tirò su con il naso, il liquido ematico misto al muco le bloccò il flusso d’aria e tutto le si riversò nella bocca, facendole assaggiare quanto schifo facessero le sue affermazioni, e dopo aver coinvolto gusto, odorato e la vista udì il cielo sbragarsi, lo stesso fulmine che l’aveva incenerita ricordandole di essere un’ipocrita, perlopiù con addosso vestiti di seconda mano.

«Che bastarda che sei.»

Perfino indossando la stessa uniforme di Camelia, la sua pareva un pezzo di alta moda, quei capi che vedeva nelle sfilate o nelle riviste dei duty free e si arrendeva a capirne il fascino; le stava stretta sui fianchi e scendeva in stile baggy, senza nessun ritocco di sartoria.

La mora si alzò con la sua calma, mentre tutti si erano già prevenuti con le mani sopra la testa, il giudice era balzato all’indietro gridando come una cortigiana dell’Ottocento che vede un ratto, dal grido strizzato dal bustino.

Come se l’intero auditorio fosse scomparso e nell’intero universo fossero rimaste solo loro due: l’esercito di mostri che la più giovane delle due Capopalestra non solo appariva di troppo, intorpidendo il loro spazio sacro, l’essere in sovrannumero con così tanti peccati le ricordò come l’altra si fosse fatta arrestare ufficialmente, ma appariva pulita ed innocente. Lei, a differenza sua, aveva l’anima nera, o verde, dopo i versamenti promessi dal partito per comprarsi le sue menzogne.

«Una bastarda bugiarda. – Si passò la mano sulla frangia, sospirò delusa e la sentirono tutti – Ti ricordi cosa mi avevi promesso, il primo di luglio?»

Dietro quei profondi occhi blu c’era la verità più dolce. Come un incantesimo purificatore, avrebbe potuto cancellare tutto l’odio e il risentimento semplicemente recitandolo.

Anemone si morse il labbro ancora arrossato dall’epistassi, le stava per scivolare dalla lingua.

«A prossimo intervento senza pertinenza mi vedrò costretto a…»

Acromio cominciò a battere furiosamente il martelletto, non suscitando molta autorità.

La modella gli lanciò un sorriso di quando aveva qualcosa in mente e avrebbe usato ogni mezzo a lei disponibile per togliersi quello sfizio.

«Hey, prof. Quest processo andrà in diretta live, vero?»

«Certo che sì. – Mostrò con il palmo un’ingombrante cinepresa proprio sul retro della stanza, nessuno vi aveva prestato attenzione, quindi il cameraman, un individuo alto, dal delizioso ciuffo mielato e due occhi esperti su cosa piace agli spettatori più insoddisfabili, le fece “ciao” con la mano – Con gli ascolti di ieri, sarebbe uno spreco…»

«Beh, allora slegami un attimo. – L’assistente alla regia sganciò le manette – Ho un enorme annuncio da fare.»

La ragazza salì in piedi sul banco, già slanciata di statura com’era il resto della gente da quell’altezza poteva calpestarlo con il piede nudo, dalle unghie ancora miracolosamente intatte.

«Ciao, Unima. Vi sono mancata?»

Regalò il suo profilo migliore alla videocamera, che i suoi occhi seguivano come solo un’esperta del settore del commercio della propria immagine sa fare, e riprese.

«Questa ragazza è lesbica marcia.» Abbassò il microfono a cono.

«Oh!» La folla echeggiò.

«E anche una bugiarda, meschina senza un minimo di ritegno. – Scagliò una folgore con lo sguardo alla sua “partner”, dall’alto verso il basso la squadrò come quando ancora la sola idea di essere in sua presenza la disgustava – Basta, fra noi è finita.

Trovati un’altra che stia dietro al tuo fondoschiena represso, io ho chiuso con te.»

Le tre compagne sedute dietro le caviglie della giovane erano a metà fra lo scoppiare a ridere per lo spasso di quel colpo di scena o se piangere di aver visto non la più appassionante, ma l’unica love story dell’estate morire in prima persona. E Nardo, che diceva loro di non fare i tira-e-molla come nei reality show!

Intanto, altri ottanta milioni di cittadini quella sera avrebbero acceso la tv, aspettandosi il telegiornale delle sei, i resoconti dei fatti di cronaca seria e invece si ritrovavano due adolescenti ed il segretario del Partito in teoria più autorevole a stabilire se una delle due fosse eterosessuale o no.

«Camelia, cosa vuoi “rompere”? Noi due non siamo mai state insieme come una coppia seria.»

Incrociando le mani sotto il petto, Anemone volle prendersi gioco di se stessa.

Se lo meritava: adesso aveva perso tutto. La faccia, la sua integrità, le natiche bianche della ragazza più sexy del mondo su cui non aveva ancora avuto occasione di sprofondare con il viso, come aveva visto fare nei fumetti di dubbio gusto che leggeva quando si sentiva ribelle, a mezzanotte.

Non si sentiva un clown, lei era l’incarnazione di un intero circo.

«Questo perché tu non ti sforzi nemmeno di prenderla seriamente: ti ricordi tutti quei codici e quelle formule inutili a memoria ma… il nostro anniversario? Di portarmi a cena fuori? Di andare a vedere una sfilata assieme?»

«Che cose noiose, se tu ti diverti così… ma aspetta! - La ragazza fece riverberare le mani, voleva difendersi almeno da quello che sapeva benissimo essere irreale – ma quando mi hai mai chiesto cose del genere? – e fece una risatina nasale - Sono delle conversazioni speciali? A che livello le sblocco?»

«Vedi? Non mi ascolti mai, - enfatizzò, lettera per lettera – mai. Per te è tutto un “io, io, io!” Sei regredita all’infanzia, cosa vuoi saperne di organizzare un appuntamento…»

Avrebbero potuto chiuderla lì, mettendoci una pietra sopra che doveva pesare quanto pesava alla loro coscienza di essere in procinto di venir sbattute in prigione, entrambe.

Ma anche Anemone si alzò in piedi sul tavolo, con una sferzata azione riuscì a rompere la catenella delle manette; portatasi all’altezza della sua avversaria l’avrebbe affrontata a parole.

Non le era mai capitato prima d’ora, non che lo trovasse alcunché divertente.

«Credo che per te non conti nulla come “appuntamento”, se per lo meno non finisci a limonare con cinque uomini diversi nel bagno di una discoteca per ricconi mentre un sesto tizio, che tra l’altro era il tuo vecchio stilista e “migliore amico”, ti fa il video!»

«Tu come sai queste cose!? Di solito sei più disconnessa di un Interpoké in Modalità Aereo.»

Anche se si era liberata e con un bel balzo con propulsione delle sue gambe lunghe avrebbe potuto giungere davanti a lei e attaccarla con un pugno o un calcio, la mora non si scompose. Quel dibattito stava eviscerando le sue freddure migliori e la faccia scombussolata della sua ex la spingeva ad andare avanti con sempre meno peli sulla lingua.

«Io mi informo sulle cose di cui mi importa! Invece tu non sai nemmeno che gusto di Conostropoli mi piaccia o qual è la mia serie preferita …»

Provò a giocare sulle piccole gocce che avevano fatto traboccare la loro urna d’amore, Iris le aveva fatto da maestra in questo.

«Certo che la so! Si chiama “preferisco dei personaggi immaginari alla mia relazione attuale perché sono una seccatura vivente che non si accontenta di nulla”.»

«Sai cosa?» Anemone le urlò fortissimo, stanca di usare esempi concreti.

«Eh?» Disprezzava seriamente quell’atteggiamento di menefreghismo della modella, l’occhio che aveva chiuso su di esso si era aperto come quello di un deva illuminato.

«Mi dai così sui nervi quando fai così!»

«Specchio riflesso… te ne servirà uno nuovo, penso che tutti gli specchi che hai a casa si creperanno se non ti ricordo che colore di fondotinta devi usare o di metterti la crema idratante ogni sera. Veramente, chi me lo ha fatto fare…»

«R-Ragazze, p-per favore… - Acromio provò a dividere le due, ponendosi fra i due banchi, ma notando quanto la sua interruzione stesse arruffando le penne alle innervosite litiganti, si coprì la testa con il tablet, non che ora gli importasse molto se avessero fracassato l’aggeggio. Solo, non mirassero alla sua biondissima, affusolata, brillante e soprattutto preziosa capoccia! - I vostri problemi personali non sono affare che…»

«Professore, stia zitto.»

«Campionessa Kuroi!»

«Queste ragazze stanno avendo il loro primo litigio! Le lasci fare. Stanno imparando a conoscersi a vicenda.»

«Camilla, ora che ci penso, neanche tu mi hai mai portata fuori a bere un tè o a fare shopping…»

«Catlina, non è il momento ora, non si sta parlando di te.»

La biondina fece il muso, intanto che la tempesta infuriava.

«Per fortuna doveva essere destino! Mi hai risparmiato la fatica, ci vediamo all’inferno!»

«Ah, e smettila di parlare come se fossi in uno dei tuoi anime da disadattati sociali, sei imbarazzante…»

«Lo farò quando mi tornerà voglia di venire insultata, umiliata in diretta regionale e comandata a bacchetta dalla mia ragazza!»

«Oh?!»

La sala intera risuonò di stupore, la sottile linea che separava la giovane aviatrice dalla pazzia era stata valicata con un carpiato. Subito quella provò a ricomporsi. Ma ormai la bomba era già esplosa.

«S-Scusate, intendevo… la mia migliore amica!»

«Sei patetica, dai.» Le arrivò dalla piccola del loro gruppo, ormai cosciente che le acque si fossero calmate.

Anemone si rese conto di non aver scampo, le relazioni interpersonali non erano il suo forte: come un filo capriccioso si intorcolavano intorno ai suoi piedi, la facevano camminare in punta e piroettare intorno ad un asse che non comprendeva nessuna delle cose in cui credeva.

Suo nonno sarebbe stato amareggiato. Non avrebbe voluto la carità dai tecnocrati dei sentimenti.

Avrebbe voluto invece vedere sua nipote levarsi le sue magliette oversize sgualcite, in favore di un bel vestito a balze ed una collana di perle, mentre accompagnava la sua amata per le stradine silenziose di Ponentopoli, dopo una bella cenetta a lume di candela.

Gli avrebbe offerto il suo divano, potevano stare accoccolate sotto le coperte nelle serate invernali a guardare film paurosi, per avere una scusa dopo per dormire nello stesso letto e consolare la prima fra le due a fare un brutto sogno.

«S-Sono etero…»

«Ieri non lo eri.»

Nessun genitore vorrebbe vedere la propria figlia soffrire, ogni genitore vorrebbe estirpare la radice del male dal cuore di lei e farla vivere felice, anche a costo di farle versare qualche fredda lacrima in aggiunta.

La rossa ripensò a ciò che oltre ogni materialità, lei riteneva davvero importante.

«…di amarci sempre, di non tradirci l’un l’altra, non mentire e non abbandonare l’altra, di volerci bene anche quando nessuno te ne vorrà e non dubitare mai della fedeltà dell’altra…» Sussurrò.

Senza nemmeno sbattere le ciglia, gli angoli delle palpebre si fecero pesanti e due ruscelli cristallini, per nulla dolorosi, discesero sulle sue guance ambrate; non si passò nemmeno una mano per asciugarli, la stavano purificando.

Se quella realizzazione, prima avvenuta nel privato della conversazione con Fedio ed ora alla luce del sole, le avesse causato soltanto male, era sicura che il sorriso dolce di Camelia e le sue braccia aperte, pronte per reggerla in un abbraccio, non sarebbero state lì come ultimo raggio di speranza negli istanti precedenti al venire incarcerata insieme a lei.

Sarebbero state separate da sbarre, muri e telecamere di sicurezza, ma l’aver amato veramente almeno una volta nella loro breve adolescenza avrebbe attenuato ogni futuro patimento.

«Okay, va bene, sono lesbica.»

«Yay!»

E si gettò a capofitto in braccio alla sua fidanzata, mentre le loro tre compagne le fecero un applauso sentito.

Quella sfuriata era stata un capro espiatorio geniale. La rossa si continuava a sfocare sulla spalla dell’altra, che le batteva la testa affettuosamente. Aveva bisogno che quei demoni uscissero, anche se le avrebbero inumidito l’uniforme già sozza non le importava. Se ne sarebbe fatta peso per lei.

Camelia aveva vissuto senza badare alle malelingue altrui, era il momento che anche la sua ragazza imparasse a non sopravvalutare il potere di individui troppo sbilanciati dall’odio per decidere il meglio per lei.

C’era di peggio del venire discriminata per il proprio orientamento sessuale, pensava la modella, La sua compagna però non ci era ancora arrivata, perché portava quel peso da sola e una volta che glielo aveva urlato contro, ancora, era il suo turno di portare in mano il suo fragile cuore, finché il Team Plasma non glielo avrebbe fatto deporre fra le sue memorie più belle, anche se non le sarebbe tornato indietro mai più.

«Siete dei codardi e degli omofobi.»

Camelia parlò con tutto il disgusto che il suo tono serpentino potesse incanalare, incurante della reazione del prof, ormai volenteroso di non indire ulteriori sedute, non prima di essersi fatto una tisana ed una manicure.»

«Avete fatto piangere una povera ragazza sensibile…»

«Grazie… ti amo.» Sentì un dolce sussurro.

È un anno a caso della prima metà del ventunesimo secolo, verso fine luglio.

Non sai esattamente che giorno o che ora sia, questo perché le autorità possedenti una visione completa della storia tacciono questi dettagli volutamente: Non ci sono finestre né orologi, qui dentro. Potrebbero essere passate tre ore come venti minuti, ma anche si trovasse un rudimentale metodo di calcolo in frazione della stanchezza su impazienza, non è stato comunque dettato alcun time up all’attesa nel limbo.

Il pasto arriverà quando arriverà… fra tre ore o venti ore, giù di lì.

In secondo luogo, qua dentro fa caldo. Il caldo delle ramen’ya senza il riciclo dell’aria, del vapore fitto e odoroso che riempie i polmoni senza però mai lasciarli abituarsi; il caldo delle fonderie in una fabbrica di forni; Il caldo del bagno bollente che lascia le grinze sulle dita, e anche dentro la trachea e ai bronchi, tutto si fa stantio, respirare diventa difficile.

Peggio di respirare è solo trasportare il poco ossigeno al cervello per formulare pensieri coerenti. Agire senza dover sentire odore di sudore, di chiuso, di uova marce era di gran lunga meno impegnativo.

Ci si annoia un sacco, senza ragionare. Non si riesce a conversare o ad intrattenersi. Ovviamente, una buona distrazione è rimembrare il passato, episodi imbarazzanti, delusioni amorose, scene della vita da cancellare e che invece si ammucchiano lì, impuzzando ancor più l’aria.

Come mantieni la lucidità mentale? Ogni suono dà fastidio. Il contatto è sgradito a tutti.

Sopravvivi. Piano piano. Con il decoro che bere da un secchio senza bicchiere uno può ambire a mantenere.

«Ferma lì, cosa stai facendo?!»

Anemone saltò dalla sua metà di letto, le altre tre ragazze la udirono con prevenuto timore.

«Sto morendo di sete. – Non seppero come leggere il rifiuto di contatto visivo della biondina, poteva starla provocando o voleva forse solo fare l’insofferente – Mi fa male la gola, ho parlato troppo.»

«Cat, hai detto tre frasi in croce.»

La rossa provò ad alzarla dal braccio e solamente l’arto si sollevava. Non capiva se quella non volesse allontanarsi da terra o le gambe le fossero venute meno e avrebbe dovuto lasciarla sul pavimento tutta la notte, quindi insistette.

«Starò benone. Non mi fa differenza il sale. Sopporto tranquillamente.»

«Sei finita in ambulanza per una lampadina bruciata, non contarci troppo.»

Colei che era seduta a terra mise le mani a coppa e non fece in tempo a portarsi alla bocca mezzo sorso che la rossa aveva calciato con forza il secchio, facendolo volare contro il muro, sortendo l’effetto di non dare momento alla compagna di recuperare il contenitore prima che tutto il liquido non fosse finito in una pozzanghera nera come il catrame sull’asfalto diroccato.

«E tu sei finita in carcere per evasione fiscale.»

Il reato di negligenza è sempre un reato. Certo, se non si fosse ritirata dal liceo prima di cominciare il corso di economia, Anemone avrebbe avuto da discuterne con il giudice con più veemenza; non essere una cima in contabilità era meno logorante per la sua reputazione.

Alla fine, aveva combinato soltanto di rinforzare lo stereotipo che le lesbiche non sanno fare la matematica.

«Ah!»

«Cami, tutto okay?»

«Non so, un’unghia strappata conta come “okay”? – La mora non aveva preservato affatto la morbidezza concessale al processo – Mi esce anche sangue… io non ci arrivo viva alla fine di questa cosa.»

Si lamentò e lasciò trapelare lo stesso tono arrendevole e isterico uscitole solo la volta della crisi in garage. Ma almeno in quel caso su dieci dita ogni french era al suo posto, la frangia non le graffiava le ciglia e le radici bionde erano state coperte per bene da uno dei parrucchieri migliori della sua città.

Ma piuttosto che il suo aspetto increscioso, il fallimento dell’impresa in cui si stava impegnando da non si sa quanto esattamente l’aveva lasciata con la bocca amara (non salata, almeno): la serratura non si poteva forzare. Aveva provato con cocci di vetro, bastoncini di metallo a mo’ di piede di porco, finché per disperazione aveva sacrificato l’unghia infilandola fra le intercapedini per far slittare il cardine. E ora aveva il pollice rosso e bruciante.

«Pensate che forse – Catlina fece, dal pavimento – quando sconteremo la nostra pena, un giorno ci ri-incontreremo?»

Anticipare quella domanda, destinata agli ultimi tramonti d’agosto le fece male al cuore.

«Perché no? – La rossa riprese ingenuamente, dimostrando quanto i suoi cambi d’umore adesso fossero assimilabili a vera e propria bipolarità – Io e la mia ragazza vi accoglieremmo a braccia aperte!»

«…sotto il ponte in cui ci ritroveremo a vivere, sempre se non ci ammazzano prima.» La completò la modella, o meglio, futura disoccupata senza molte skill con cui rimettersi sul mercato.

«Dimmi di no! Ho letto su internet che nelle prigioni statali una ragazza su due viene stuprata!»

Senza neanche storcere il naso a quel dato poco empirico, continuarono a discutere.

«Dite che ci manderanno tutte in una prigione diversa? A parte per Iris, visto che suo nonno vuole riconvertirla…»

«Sinceramente, io non farei scambio con nessuna e di dover darla vinta a quel rachitico di Acro-coso non mi va, ma… “terapia di riconversione”? – fece una pausa – Poverina, mi ha fatto troppa pena. Non è una cosa umana, questa.»

«Nel senso: noi quattro siamo ormai perdute, delle catastrofi ambulanti, delle perdenti patentate, delle zavorre umane… - e sorrisero in coro, dando tale affermazione per vera senza nessuna lamentela – ma lei aveva ancora tutta la vita davanti…»

«Forse avrei dovuto essere più gentile con lei in questi mesi…»

«Camelia, hai detto qualcosa?»

«C-Chi? Io? N-No…» Alzò le sopracciglia e le guance si imporporarono leggermente.

Ella si sedette dando la schiena alla porta, la sua fidanzata al suo fianco abbandonò la testa sulla sua spalla, per quanto i capelli unti era sicura non erano la cosa più romantica del mondo.

Stettero in silenzio, stavolta riempiendolo di un niente terapeutico. Erano già entrate nel Samsara, la vita terrena, i loro patimenti individuali rimanevano come giocattoli rotti, involuti.

Si avvicinava la fine. Mancava un giorno, dopotutto.

Chissà quante nuove canzoni sarebbero state rilasciate, quante news arretrate, quante partite, quanti volti non avrebbero nemmeno potuto immaginare di incontrare. E mentre il mondo girava, loro avrebbero perso la loro giovinezza: ogni anno, anche dopo la loro scarcerazione avrebbe intravisto una su quattro delle stagioni, un lungo, freddo, sterile inverno.

Inverno eterno nel cuore delle Allenatrici, come nel cuore di tutta la regione di Unima.

«Non è meglio così?»

Camilla sentiva la mancanza della brezza che aveva trasportato i suoi pensieri espressi con voce, sulla terrazza della Lega, il primo giorno d’estate. Ora la claustrofobia della sua testa, piena di pessimismo da un lato e dalla paura della paura stessa, dal trattenersi dalla psicosi dall’altra, la stava facendo parlare ancora con sé, di malavoglia.

Le tre la stettero ad ascoltare, come se quello fosse un lamento funebre: per essere flebile come un sussurro, risuonò nella tomba dei loro corpi, come una campana asettica.

«Un’intera regione che si inchina di fronte a un despota… dove non esiste diversità di pensiero, di opinione, dove non esiste proprio libertà… non voglio vedere nemmeno l’ombra di una società del genere. O un domani del genere.

Che bene può fare, Ghecis Harmonia? Unire il popolo sotto il suo vessillo di ipocrisia e menzogne… Non voglio neanche sapere cosa succederà, mi viene la nausea solo a pensarlo! Le persone non in grazia del Partito perderanno i loro Pokémon, non ci sarà più equa competizione, la gestione delle Palestre e dei tornei sarà un’oligarchia di fedeli al Team Plasma, le altre regioni ci vedranno come una dittatura arretrata e miserabile!

Come pensavo, passare il resto della vita in carcere a questo punto… è molto meglio, no?»

Finito il suo monologo, con le sue apprendiste immobilizzate dal cinismo insopportabile di quelle parole, la Campionessa si accovacciò ai piedi del suo letto, raggiungendo le altre derelitte sul fondo dell’oceano di disillusione in cui lasciavano arrugginire le loro anime.

Calò il silenzio per, serve o non serve dirlo, un ammontare indefinito di tempo.

La sconfitta vera e propria stava quindi nella serenità con cui stavano accettando, inesorabilmente, che il loro prezioso tempo si consumasse con inclemenza.

Missione compiuta per il Neo Team Plasma, guidato e rifondato dagli Harmonia, tenuto in piedi dal loro esercito di reclute giovanissime.

Niente più “presto”.

Niente più “ragazze”.

Niente più “estate”.

«R-Ragazze… R-Ragazze… ragazze?»

«Uh? Va de retro, recluta ics, ipsilon, zeta-al-quadrato-tutto-sotto-radice-che-si-semplifica!»

«M-Ma quale recluta al quadrato, sono io, Iris! Perché state già dormendo?»

«Non l’ho deciso io… Comunque, perché parli così strana?»

«S-Strana come? Io sto bene.»

«S-S-Sembri un balbuziente! Come ha detto prima la leader, hai freddo? Cosa ti hanno fatto quelle reclute? Hanno già iniziato a farti la riconversione sessuale?»

«N-Non mi dici di stare zitta? M-Mi manca un sacco, c-come ai vecchi tempi…»

«Iris, non scherzare su queste cose, per favore!»

«N-Non sto scherzandoci… Possiamo parlarne quando usciamo di qui?»

«Senti, nano da giardino con doppia funzione da teglia per grigliare: se io ti dico di stare zitta ti stai zitta, e questo è già un progresso, ma se ti dico di dirmi se quelle bestie ti hanno fatto del male tu me lo sei obbligata a dire! Guarda se ti devo spiegare io, come funziona il bullismo qui…

Aspetta, cosa vuol dire “quando usciamo da qui”?!»

«Te lo spiego subito. Ma prima mi prometti una cosa?»

«Spara.»

«Q-Questa volta mi ascolterete tutte. E p-poi farete esattamente tutto quello c-che vi dico io. Tutto. Senza eccezioni, p-per quanto vi faccia t-terrore o vi faccia schifo. D-Dovete fidarvi di me, stavolta. Posso tirarci fuori tutte. M-Ma ci serve un piano.»

«Okay. Hai il mio appoggio, cento per cento. Sveglio le altre.»

«G-Grazie per il supporto, Camelia. Lo apprezzo un sacco.
N-Non voglio davvero che non ci vediamo mai più, o che tu finisca in carcere. Scusa.»

«…okay. Allora, che vuoi fare, come prima cosa?»

«M-Mi servono tutte le vostre coperte, i cuscini e i copri materassi, più un’oretta di tempo.
Ah, e i vostri reggiseni e le vostre mutande! Tutta la vostra biancheria intima, datela a me.»

«…uh, hey, voi altre. Svegliatevi, ora! Ho scelto di dare ascolto a questa idiota con il cervello congelato, sbrigatevi a fare lo stesso, così non mi sento un’idiota da sola!»

Behind the Summery Scenery #21

1. Ragazzi, sapete che ora è? Ora che mamma Momo riversi un po' della sua immensa canoscienza da skrittrice su di voi, poveri sempliciotti. Del resto, sappiamo tutti che avete aperto una storia che parla di Pokémon e tette apposta per espandere la vostra sete di virtute e canoscienza, per citare Dante sudante su Dante sudante.

Il codice che usa Catlina per comunicare con Camilla si dice man'yogana (sì, quell'apostrofo non vi cambia niente, sono solo perfettina io), più precisamente, l'utilizzo che lei ne fa è quello della lettura degli ongana. Questo sistema di scrittura del quinto secolo implica caratteri usati per il loro suono e non il loro significato. Cat ha scritto il nome giapponese di Camilla, "Shirona" (che ricordiamo trascrivibile 白 奈、ossia "bianco" come il suo yukata puzzolente e "rigoglioso", come le sue tette doloranti) come 詩路騈

In riguardo all'uso degli alfabeti nel mondo Pokémon, vi indico questo delizioso studio fatto dal club di Pokémon di un'uiversità giapponese.

Edit: so benissimo che i nomi giapponesi in Pokémon sono scritti tutti in katakana, perché i bambini non sanno leggere. Preps (e giappiminkia) stop flaming.

2. Munna, Musharna e il Fumonirico. Che ricordi! Spero di ispirare qualcuno a rivisitare Pokémon Nero e Bianco. Quest'anno è il loro decimo anniversario.

3. L'esordio delle reclute con "Hey, hey, hey!" è riconducibile a due citazioni: Don't stop me now dei Queen e Icy delle ITZY.

4. Headcanon quali il passato di Camilla da emo-goth su MySpace e il gruppo di dance cover di Iris e Anemone sono forniti al pubblico da me e la mia lettrice preferita, che lascerò anonima così non potrete cercarla e bullizzarla perché Momo fa le preferenze, come la vostra prof più odiata del liceo. 

5. Non potete convincermi che l'infamata di Morgan non sia stato il più alto momento della televisione italiana degli ultimi 21 anni. La cit. se l'è meritata eccome.

6. Ebbene sì. Lo hanno fatto Mystic Messenger, Yuri on Ice ed un sacco di altre serie: questa è la versione a'la Momo di Gay or European, direttamente dal musical Legally Blonde. Abbiamo Iris nel ruolo di Ellie, Acromio fa l'avvocato, Anmone Architacos(?) fa Mikos e Camelia Carlos. Mi sono divertita un sacco a scrivere quesa scenetta comica, all'inizio non volevo neppure inserirla, ma Daisuke-kun mi ha fatta cambiare idea.

7. Sempre parlando di musical: questi capitoli sono difficili da scrivere, specie senza il mood adatto. Come avevo già specificato: ambienti chiusi da claustrofobia, rivalità amplificate, la pazzia che incombe lentamente. Delle ragazze chiuse in una stanza da una forza misteriosa più grande di loro, pronte a sacrificare la loro amicizia pur di rimanere in piedi, le ultime sopravvissute.

Non solo l'opera in sé, l'atmosfera perfetta per questa prigionia sinistra e macabra è offerta anche dalla colonna sonora di WEEK END SURVIVOR, musical del 2015, con protagoniste i membri (ed ex-membri) delle Kobushi Factory e Sudo Maasa. Cosa? Volevate forse un link aggratis? No, ragazzi miei. Imparate a supportare i release fisici e compratevi il cd e il dvd. (Tuttavia dovrei avvisarvi che viene un pochini di soldini ed è solo in giapponese...) I'm sure y'all can handle this.

 

  
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