Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
Seguiteci su instagram: @esg_offical_ig
Early
Summer Girls
Capitolo 21
Le figlie degli altri
Aprire la
scatola della notte, infilarci dentro il buio e poi
richiuderla. Metafore di “nulla”.
Catlina
dischiuse le palpebre secche, come se gliele avessero scolpite
nella creta e si stessero sgretolando. A vedere tutto quel cemento e
quella
polvere intorno a lei e alle altre, il verde acquamarina dei suoi occhi
avrebbe
finito per sbiadire; le sembrò subito che qualche particella
vi fosse entrata
ma resistette allo strofinarseli con le mani.
Una lunga notte
senza sogni era appena passata ed adesso le
pareva di stare in una cella mortuaria, le sue compagne addormentate
non si
accorsero neppure di lei. Stessa sensazione di quando
l’avevano svegliata dal
coma.
Si mise seduta,
le punte dei piedi intorpiditi incurvate
sull’orlo del materasso da dei tanto odiato. Le erano rimasti
i calchi delle
pieghe della tenuta carceraria sulle braccia e sul collo, quando
provò a
sfregarli via dall’epidermide si sollevò uno
strato grigio di sporcizia mista a
cellule morte.
Ora aveva capito
perché le reclute volevano tagliare a tutte
loro i capelli: le avevano infilate in un forno, senza ricambio
d’aria, perfino
il semplice respirare faceva aumentare la temperatura interna di
qualche grado.
Non aveva idea
di come lei, che aveva il sonno più pesante,
non riuscisse già più a sopportarla e le altre
quattro invece sì, quando ogni
giorno alle sette si mettevano a scuoterle le spalle, soffiarle sulla
faccia e
urlandole di smetterla di essere pigra, ridendo a squarciagola.
Tuttavia, le
mancava l’ondata di energia che, per quanto lei
si dimostrasse riluttante, la colpiva sempre.
Afferrando le
caviglie del pantalone per sistemarsi con le
gambe immobilizzate parallela al letto, gettò lo sguardo
verso la ragazza che
dormiva di fronte a lei, dandole le spalle; subito presa
dall’angoscia, Catlina
s’addossò in anticipo tutte le preoccupazioni che
le quattro avevano riposto da
parte almeno per concedersi un po’ di riposo tranquillo.
«Oggi
a chi tocca? Non a Iris o Anemone di certo…
Quindi siamo o io, o… No…»
Non poteva
essere altrimenti. Poteva quasi vedere Camilla
alzarsi tutta scomposta, sistemarsi magari il suo ciuffo senza neanche
l’ausilio di una spazzola, nelle condizioni in cui erano. Poi
quella le
rivolgeva un sorriso gentile, le chiedeva come stesse e se avesse
dormito
(perché il suo benessere, anche da prima del tempo della
frattura cranica
procuratale dal Team Plasma, aveva la priorità su tutto).
E alla fine, con
il fatidico “non preoccuparti, andrà tutto
bene”, Camilla si sarebbe lasciata interrogare al suo posto,
sebbene
condividessero lo stesso status e quindi le stesse
responsabilità.
“Vorrei
che stessi
sempre al mio fianco, perché io ti amo”, ecco cosa
aveva detto, convinta fino
in fondo. Di conseguenza, le venne naturale domandarsi “Io
amo ancora Camilla?”,
e la guardò ancora.
Invece di
rimanere a distanza come durante il primissimo
attacco all’onsen, volle farsi coraggio e gettarsi nella
mischia, per quanto
stressante e doloroso potesse essere esporsi allo scherno
dell’intera regione
di Unima.
In un certo
senso, era curiosa di scoprire cosa si sarebbe
inventato quello scienziato pazzo per infangare la reputazione della
sua cara
migliore amica; gli sarebbe servita molta fantasia, questo era sicuro.
Il punto
è che Catlina desiderava aiutare la loro leader in
qualche modo, fosse ciò il suo ultimo atto da persona
libera. A proposito di
ciò, prese a riflettere, mentre un leggero cigolio proveniva
da sopra di lei,
dove avevano deciso di stare le due diciassettenni, abbracciate assieme.
«Io e
Camilla non siamo neanche cittadine di Unima
però, non possiamo chiedere… come si diceva,
adesso? Il principio di espatrio?
Di esproprio?»
Il termine che
cercava era “extraterritorialità”, ma le
era
comunque chiaro il concetto; avevano entrambe il passaporto di Sinnoh e
mentre
il suo visto le garantiva di esercitare una professione sul suolo di
Unima
(sebbene lei non si avvalesse di tale privilegio) purché lo
rinnovasse ogni sei
mesi, la Campionessa aveva un semplice visto turistico che scadeva a
settembre,
fatto apposta per il torneo.
Lasciò
perdere comunque, visto che anche Camelia, Anemone e
quell’indemoniata di Iris (l’aveva spaventata, cosa
le era preso? Le era parsa
sempre così gentile, per quanto esuberante) erano innocenti,
ma non potevano
appoggiarsi a cavilli burocratici.
«A
proposito, - i due pensieri
non avevano
alcuna connessione logica, era solo la noia a portarla su quel sentiero
– i
nostri Pokémon? Non possono arrestare i nostri
Pokémon…
Si
può arrestare un Pokémon? Come si fa, boh. Non
è che puoi dire “okay, mettiamolo nella
Poké Ball per dieci anni finché il suo
Allenatore non sconta la sua pena, poi lo tiriamo
fuori…?” Nah, impossibile.»
Dunque, potendo
giurare sulla propria pelle rovinata dalla
deidratazione che le analisi critiche non fossero affatto la sua
specialità, si
passò le dita fra l’attaccatura della fronte,
lanciando un quarto dei capelli dietro
la nuca, ormai le radici si erano fortificate sotto il volume della
massa
bionda e spezzarle era ardua impresa.
Catlina
lasciò cadere il torso sul lato, come un corpo morto,
avendo esaurito le ragioni per stare a crucciarsi: era stato voluto
così dai
piani alti e basta, domandare di più era fuori discussione.
Se
c’era qualcosa che la sua povera materia grigia lesionata
poteva fare era sfruttare le ultime ore di sonno, prima che arrivassero
reclute
in uniformi dall’odore nauseabondo, magari deliziandole
ancora con altre
battute in svendita ai discount di comicità riciclata.
E si rimise a
dormire, accovacciandosi in posizione fetale,
provando a liberare la mente.
«No,
aspetta un attimo- Ahia, le gambe, le gambe,
ah! Mai più alzarsi di scatto…»
La supposizione
che siccome fosse in grado di fare due passi
senza appoggiarsi alle compagne adesso scoppiasse di salute era stata
presa
tanto seriamente che non le era stato concesso di usare la sedia a
rotelle
(comprata nuova di zecca, tra l’altro, sebbene ne avesse tre
o quattro
modernissime a casa) o che Gothitelle le reggesse la spina dorsale,
come lo
stelo floscio di un arbusto legato ad uno stecco.
Liberatasi da
quella sferzata ai nervi, riportò l’attenzione
su ciò che le era spuntato nella testa, un’idea
fastidiosa quasi paragonabile a
un tumore per lei, non poteva ignorarla.
«I
nostri Pokémon sono in questo edificio, qui da
qualche parte, di sicuro non dentro le loro Poké Ball. – La
ragione con cui giustificava quest’ultimo particolare
– Se non c’è neanche
l’aria condizionata, come fanno a trovare una macchina che
tenga in vita
quindici Pokémon automaticamente? Semplice: non lo
fanno.»
Tale fu la sua
teoria, tralasciando la manciata di pause per
passare da una conseguenza all’altra.
Catlina comunque
non poteva fregiarsi d’essere la migliore
prima di aver trovato un’applicazione pratica; se non poteva
essere la più entusiasta,
la più carismatica, la più decisa o la
più poliedrica, si sarebbe prodigata in
nome del titolo di genio della banda.
Chiuse gli
occhi, concentrandosi con tutte le sue forze sul
“legame che unisce Allenatore e
Pokémon”, in base a come l’avevano
istruita
dopo che aveva insistito con i suoi genitori di voler ritornare a
muoversi con
l’aiuto dei suoi partner psichici (lei si immaginava una
specie di filo
fluorescente di energia che ondeggiava in uno spazio dello stesso
colore, era
un trucco assai poco poetico da spiegare).
Da lì
aveva imparato a comunicare mediante il pensiero: non
era un superpotere. Moltissimi maestri specializzati usavano quella
tattica,
non era raro che alla televisione si parlasse di veri e propri incontri
manipolati da questo utile e scorrettissimo incentivo.
A volte, se il
destinatario dei messaggi telepatici era
abbastanza vicino ed in sintonia con il mittente, si poteva perfino
conversare
con gli umani: un salvavita, quando non si vuole far trapelare
informazioni
riservate (per esempio, la strategia usata per sconfiggere le ladre ed
ammonire
una delle due diciassettenni di risparmiarsi occhiate indiscrete al suo
corpo,
rivisse l’imbarazzo per un attimo).
«Ti
prego, fa’ che non ce li abbiano portati via…
ti prego…
Uhm?»
La sensazione
che le parole sussurrate nella sua testa
stessero vagando a vuoto svanì subito, il riflesso spontaneo
di avvicinare il
padiglione auricolare fino a toccare il muro, per origliare un sussurro
inesistente.
«M-Musharna?
Oh, piccolina, fatti sentire…» La
ragazza
ammorbidì il tono, speranzosa in una risposta.
Nonostante fosse
passato abbastanza tempo per crescere un
bambino di quinta elementare da quando la biondina aveva acquisito
Munna,
direttamente da Unima, al venire appellato con quel vezzeggiativo il
Pokémon
Dormiveglia non riuscì a trattenere un versetto sorpreso.
Catlina non si
poteva sbagliare, essa ripeté la sua
invocazione, fra la gioia di risentire la sua Allenatrice e la
preoccupazione
di non poterla vedere, riempiendosi di nostalgia.
«Amore,
sono io, sono io… Dimmi che non ti hanno
fatto male… - due chiamate
piuttosto entusiaste ruppero subito
la sua apprensione, strappandole un sorrisetto – Ah,
bene, per fortuna.
E gli altri? Sei
con tutti gli altri?»
Ancora un
riscontro sonoro positivo, per quanto una creatura
appartenente ad un diverso regno di autocoscienza potesse intendere il
linguaggio umano. Probabilmente, era bastata la semplice voce mentale
della sua
Allenatrice a mandare il tapiro rosa in euforia.
Intanto che
quello continuava a verseggiare, rassicurato e fin
troppo impaziente di ricongiungersi, Catlina fece un po’ di
spazio ad una linea
cognitiva diversa: come farsi dettare le coordinate sulla loro
locazione? A
quanto ne sapeva, oltre ai Chatot, solo nel Mito dell’Origine
e nei cartoni
animati esistevano Pokémon parlanti.
Per il momento,
doveva accontentarsi di un’approssimazione.
Quindi, la sua seconda trovata.
«Musharna,
sto per darti un comando. Attenta
bene.»
Due anni prima,
metà luglio, uguale: dei teppisti non ben
identificati avevano scavalcato le recinzioni e, penetrati nel Cantiere
dei
Sogni, scheletro di un centro politecnico mai completato nel sud,
avevano preso
a disturbare e perfino attaccare dei poveri esemplari di Munna indifesi.
Tutto questo per
ottenere una sostanza gassosa, i giornali non
avevano rivelato lo scopo di tale rastrellata, forse per un accordo
segreto con
i media.
Leggendo
quell’orribile notizia, ne era rimasta turbata
profondamente e pur avendo espresso vocalmente il suo disconforto ai
suoi
colleghi Superquattro, gli altri non ci avevano badato troppo,
liquidandola con
un’accusa di ipocrisia: “ti importa dei
Pokémon maltrattati solo quando sono
della stessa specie che alleni tu, Cat.”
«Butta
fuori tutto il Fumonirico che hai fatto su.
Sì, tutto, tutto, riempi pure la stanza e non
smettere… per favore, fallo per
noi.»
Quei finti
paladini della giustizia erano di sicuro stati
protetti dalla diffamazione; le reclute che prendevano a calci i Munna
sofferenti sul corpo tondo a fiorellini per ottenerne la sostanza
prodotta si
trovavano là con loro; del resto, Satana non rimpiazzerebbe
mai i suoi
demonietti più spietati.
Catlina
aspettò paziente, finché una zaffata di profumo
dolciastro la investì.
Dall’angolo
vicino al letto delle due Capopalestra uno
spiffero color pesca fuoriusciva dall’attaccatura usurata dei
mattoni, lento
quale un serpente fuoriuscito dal vaso dell’incantatore.
Altri soffi
timidi si disperdevano vicino al soffitto,
popolando un po’ la grigia solitudine prima di dileguarsi per
la loro
fievolezza. Appena uno di essi le passò sotto il naso,
l’Allenatrice dai
capelli oro s’accorse della pressione con cui erano emessi,
Musharna aveva
fatto proprio del suo meglio per aiutare lei e le sue compagne.
«Grazie
un milione, tesorino. –
Gli schioccò
un bacio, contenta del risultato – Scommetto che tu
e gli altri Pokémon
andate molto più d’accordo fra voi di noi altre,
ahahah.»
S’auspicò
di poter porre fine ad ogni loro bega interpersonale
con una scoperta del genere.
Ma ancora,
sarebbe stato davvero così immediato? Catlina
lanciò le pupille all’angolo
dell’occhio, verso la telecamera da meccanismo
misterioso.
Secondo Camilla,
l’audio era disattivato, non correva rischi a
rivelare il tutto prima del processo… e lei, si fidava
ciecamente della deduzione
della Campionessa?
«Allora
ieri come facevano ad avere quel malloppo
di informazioni compromettenti su Camelia? Uno non tira fuori a prove
così schiaccianti
in quindici minuti…»
Il successivo
respiro dalla bocca le uscì muto, fu un riflesso
incondizionato.
«C-Camilla,
io ti voglio ben… Cioè, ti amo, ci hai
salvate tante di quelle volte…
Però,
mi dispiace. Stavolta ti sbagli di brutto:
ci sentono. Ci hanno sempre ascoltato... scusa.»
La stima che
serbava non era diminuita affatto, anzi, già anticipava
il futuro salvataggio attuato dall’altra ragazza bionda, che
fra meno di un’ora
avrebbe avuto un palcoscenico intero per esercitare il suo talento
graziante,
di prelevare le sue quattro predilette da ogni situazione minimamente
sgradevole.
Innegabile
però, tale imprudenza era costata loro dura, un
errore umano che sarebbe stato non diabolico, ma stupido ripetere,
perseverando
con lo stesso piano d’azione.
Le aspiranti
Campionesse erano diventate troppo prevedibili, i
loro avversari stavano un passo avanti e peggiore delle ipotesi
avrebbero
sbattuto i loro Pokémon in un altro carcere lontano dal
loro, magari con
supplizi e torture inflittegli per punire
l’ingenuità delle loro protettrici
stesse.
Il Team Plasma e
il loro squadrone di avvocati ingiuriosi
avevano orecchie pure sui muri.
Purtroppo per
loro, pensò lei, non avevano dei muri bilingui.
Catlina
scrutò il pavimento ai piedi del letto, reggendosi con
i gomiti a pancia in giù: agguantato un pezzo di
calcinaccio, sformato come
quelli che aveva raccolto per mezza giornata il mese prima, si rimise
eretta e
voltata verso il muro.
Prendendolo con
la mano dominante, ne rilevò il lato
maggiormente appuntito e lo strofinò sulla superficie fino a
far scorrere la
rudimentale grattata con la scioltezza di un gesso da disegno, creando
sulla
nicchia una piccola nuvola bianca abbastanza compatta.
L’aristocratica
aspettò, posando la punta verso il centro del
muro adiacente a dove dormiva; ad Unima si usavano due alfabeti
sillabici,
dov’era cresciuta lei uno solo, formato da ideogrammi.
Per quanto
l’incontro faccia a faccia con le due reclute
drogate avesse abbassato l’aspettativa sull’acume
di esse, la sfera di
influenza del Team era abbastanza larga che, metti caso proprio
lì, si
trovavano ragazze miste, o immigrate da Sinnoh, di seconda o terza
generazione,
che con un dizionario alla mano avrebbero decifrato tutto, riportandole
alla
funesta conclusione verificabile anche parlando ad alta voce.
Peccato che
questa oblunga prefazione non tratti affatto di
una giovane qualunque della regione a nord del mondo dei
Pokémon. La signora Haato,
in preda all’eccitazione e alla pressione sociale della
maternità,
prematuramente indaffarata, vagliava una lista delle
attività indispensabili
alla sana crescita intellettuale della sua bellissima bambina dai
riccioli
biondi ed una soglia di attenzione piuttosto bassa.
Chiedeva dunque
conferma al signor Yamaguchi, se la piccola ce
l’avrebbe fatta a seguire i corsi di pianoforte, di lingua
straniera e di
letteratura classica senza perdere il suo sorriso vivace e luminoso;
allora
l’uomo rideva, non aveva scelto un nome scritto con i
caratteri di “bellezza” e
“sogno” perché sua moglie si inventasse
certe sciocchezze.
«Se ce
la fa la sua compagna di scuola, quella con
gli occhietti vispi, la figlia dei Kuroi, ce la fa benissimo anche lei!
Anzi,
potrebbe benissimo superarla, ne ha tutte le
capacità.»
Al tempo di quei
discorsi, Catlina aveva quattro anni e troppe
bambole nuove a cui trovare un nome per preoccuparsi.
I primi due
tratti le vennero un po’ sbilenchi, la calligrafia
non era il suo forte e da quando si era trasferita la tastiera
completava in
maniera automatica i messaggini per i suoi parenti a Memoride; sperava
solo
fossero un benché minimo leggibili.
Voleva
quasi arrendersi, non aveva idea di come scrivere la
sillaba “-di” di “audio” senza
fare una gaffe
smascherabile da un lettore
attento. Non si perse d’animo: scrisse
“audio” con
“a” di “angolo”,
“u” di
“esistere,
stare”, per “di” scelse il carattere di
“pulizia” ed “o” era solo una
particella interiettiva obsoleta.
Da
lì, la mano cominciò a muoversi da sola, tanta
foga aveva
di trasmettere il messaggio che solo Camilla avrebbe potuto leggere, in
effetti. Anche sotto sorveglianza, volle illudersi che solo la leader
avrebbe
capito il criterio per decifrare le lettere, come avveniva nei romanzi
di
fantascienza.
La
possibilità di rintracciare i loro Pokémon era un
grande
sollievo, se non un possibile punto debole da sfruttare appieno.
Ovviamente,
ciò non implicava andare fino in fondo con le sue
conseguenze…
Bastava
così. Tre frasi per notificare i cambiamenti più
importanti, quattro righe in totale, scritte calcando e smorzando il
tratto per
rendere ogni segno identificabile, non poteva causare confusione alla
sua
traduttrice, visto che le altre tre giovani avrebbero ricevuto il
messaggio
dalla sua bocca.
Battendo i
rimasugli di polvere via dalle mani, a Catlina
tornò una voglia incredibile di quelle labbra. Anche distesa
su quei giacigli
di spine, riusciva a volare indietro alla nottata di coccole e di baci
trascorsa a Spiraria, non aveva mai smesso di pregare per avere altre
cento di
esse, per lei e Camilla.
Se non erano i
traumi fisici, il crepacuore l’avrebbe uccisa,
una volta separata dalla sua anima gemella.
«Catlina,
che problemi hai?!»
Magari fosse
stato il suo subconscio a tuonare così, nessuno
dei suoi più alti picchi di realismo avrebbe eguagliato il
disagio di vedere
Camelia darle il buongiorno con quel suo tono irritante.
«Tanti,
grazie per avermelo ricordato.»
Voleva quasi
spingerle la faccia lontano dalla sua vista, ma non
dimostrarsi immatura e quella comunque si era già ritirata
sul suo posto, di
sopra.
«Non
sei simpatica, sei solo malata di mente.»
Il lamento
sgraziato della sua compagna di giaciglio
s’intromise in quel battibecco lasciandolo incompiuto.
La coscienza che
si trattasse di una nuova sessione di pure e
gratuite delusioni le aveva stampato una maschera tribale funebre sul
volto,
fra i ciuffi spettinati impiastricciati di sudore notturno.
«Si
parla di malati di mente, ci sono, presente!»
«Ho
bisogno di lavarmi assolutamente, questa divisa mi sta
piantando radici in corpo, che schifo.»
Camelia si era
sbottonata l’uniforme fino all’ombelico,
soffiandosi sullo sterno e sciugandolo con i lembi delle coperte pur di
evitare
la comparsa di macchie rosse.
Apprese che
dormendo accanto ad Anemone si erano trasmesse a
vicenda calore, una quantità elevata rispetto a quando
avvicinavano i loro
futon a casa di Nardo, mentre il climatizzatore soffiava una vera e
propria
bora nella loro camera.
«Fossi
in te, - la trattenne per il braccio, seria – non mi
butterei addosso acqua piena di piombo. – Indicò
il lavabo – Se tu vuoi il
tetano, vai pure… o un’infezione batterica, scegli
tu.»
«Grazie
di non lasciarmi morire, amore.»
«Prego,
tanto, anche ti prendessero da parte, come hanno fatto
a me ieri, al massimo ti beccheresti un…»
Non
completò la frase, dalla porta partì uno strillo
inconcepibile ad ogni ora del giorno, in particolare in quella
dimensione
spazio-temporale senza nemmeno un orologio ad avere pietà
della loro vita che
si consumava.
«Hey,
hey, hey, siete
pronte? Vi
vedo bene, Campionesse! Dormito comode, in questa suite 5
stelle?»
All’unisono,
sguardi, come quelli di un Allenatore che si vede
piazzata una trappola di Fielepunte non appena il suo
Pokémon mette l’alluce
sul campo di lotta.
«Vi
abbiamo portato il rinfresco migliore che vi si poteva
offrire e non ci salutate neanche? Villane che non siete
altro…»
Chissà
se al di fuori dell’ambiente lavorativo (ammesso che
ricevessero un compenso monetario o materiale, pur non addette al
business come
R e Z) erano migliori amiche oppure dovevano solo tenere in piedi una
pagliacciata per apparire quantomeno minacciose.
«Comunicazione
di servizio: vi spiamo da due mesi ormai…»
«Oddio,
e l’acqua è bagnata! O a volte…
salata.» Non erano
neanche le otto e Camelia aveva già pronta la battuta, un
record.
«Poche
storie, finta bisex. – E l’altra, che
l’assecondava! – Sappiamo
che a voialtre piace denudarvi a caso, neanche foste in calore. E nel
caso vi
venisse voglia di uscirle anche qua dentro perché
“che caldo blah blah”,
ricordatevi delle nostre amichette telecamerine.»
«Beh,
e che ve ne fate dei nostri video, vi ci masturbate
sopra?»
La rossa aveva
assolutamente messo in rilievo un punto
ragionevole: dove finivano tutte quelle ore, intere giornate di video
di loro
cinque che mangiavano, si vestivano, chiacchieravano e sempre
più spesso
indulgevano in qualche atto un po’ perverso.
«Bleah,
non siamo mica al vostro livello! Dovete sapere,
branco di Ditto abbandonati in una pensione, che fra i nostri sponsor
ci sono
anche clienti che… fanno business con questi video, e noi
siamo un’associazione
ecologica! Sarebbe un peccato buttare tutte queste cassette,
cioè…»
«Quindi
ci minacciate di vendere le nostre riprese a
proprietari di siti porno. – Catlina si grattò la
nuca, senza troppa emozione
per un argomento del genere – Wow, che onore vi fa questa
causa.»
«Spero
che sulle mie clip ci siano almeno due o tre
pubblicità, io non lavoro mica gratis.» La modella
aveva incrociato le braccia
e inarcato le sopracciglia sotto la frangia.
«Cosa
possiamo dirvi? Siete praticamente un arsenale di fetish
ambulanti!»
«Eh?!»
Fecero in coro.
La recluta alta
con il dito prese a spiegare alla compagna, la
quale annuiva ad ogni parola.
«Guarda:
piatta atletica di etnia esotica, rossa con fisico a
clessidra e abbronzatura, esibizionista snella ma con le curve,
principessina bionda
e modesta (conosco gente a cui piacciono le cicatrici), e per finire in
bellezza: ex-gotica con istinti da mammina e due tette
massive.»
Calò
un silenzio imbarazzante. Quelle reclute erano due palle
al piede, ma non si può dire non sapessero il fatto loro.
Dallo stupore,
nessuna domandò nulla. Forse perché
ciò di cui parlavano era in parte
veritiero.
«Vi
diamo dieci minuti.» Squittì la più
alta, eseguendo una
sgraziata piroetta di inspiegabile gioia.
«Okay,
ma noi ci defiliamo, qui puzza di chiuso che si muore.»
La riprese l’altra.
«A
dopo allora, chi non muore si rivede!» Uscirono.
Se quelle arpie
non tiravano in ballo il suicidio in ogni
singola loro visita non erano soddisfatte. Appena le ebbero lasciate
sole per
prepararsi, Iris cacciò un gemito insofferente, soffocare
nel cuscino scuoiato
pareva più veloce e indolore dell’impiccagione
suggeritagli implicitamente.
Per
incoraggiarla, Camilla la accarezzò sfregandole il
polpaccio, ancora insisteva a seguire le procedure delle aguzzine,
sebbene
avessero ottenuto ben scarsi risultati in fatto di ricompense.
Percependo le
punte sfrangiate del suo ciuffo lacerarle la
retina sinistra, provò a sistemarlo prima che uno shampoo
(buon partito per il
premio summenzionato) potesse salvarla dalla triste ultima spiaggia di
doverselo scostare dietro le orecchie, rinunciando al suo stile iconico.
La relativa
distensione le permise di organizzare le fasi
della propria difesa: non aveva mentito ad Iris, quello stesso giorno
lei si
sarebbe costituita, qualsiasi reato l’avesse commesso.
«Non
mi hai ancora detto cosa ti hanno fatto ieri sera quelle
sadiche.»
Origliò
da Camelia, di cui cominciava a scorgere la ricrescita
bionda sotto il nero lucido come petrolio. La sua ragazza
tirò un sospiro
addolorato, solo lei poteva tenersi per sé una condizione
così aspra e al
contempo disprezzare un minimo di sana compassione.
«Mi
hanno minacciata di farvi di molto peggio se parlo. Mi
disp…»
«Prova
a chiedere “scusa” e, ugh, non sai cosa ti faccio.
Anemone, ascoltami…»
La modella
provò a proseguire la conversazione, ma l’altra
era
ormai a testa china, alla ricerca delle proprie scarpe lacerate,
spazzando via
con le mani il nero e le schegge incagliatesi sotto i piedi.
«Oggi
mi conviene fare del mio meglio, ah. La
situazione sta degenerando sotto ogni punto di
vista…»
Dopo un respiro
profondo e una revisione della sua coscienza,
Camilla incanalò in sé il triplo della pazienza,
dell’acume e
dell’auto-consapevolezza di cui si armava ogni giorno, non
sorrise come ci si
aspetterebbe, ma la serietà la rendeva più
affidabile, più motivata al provare
a tutti di non aver cresciuto sia nella tecnica sia nella morale
quattro
disadattate.
Prima di uscire
però la sua mente si prese un break dal
processo et cetera, perché qualcuno aveva scritto il suo
nome sul muro come
“poesia”, “percorso” e aveva
ingenuamente confuso la lettura di “graziosa,
delicata” con quella di “Pokémon
da traino”.
«Camilla?
Scusa se ti chiamo ogni cinque
minuti, ma le due zecche Plasma vogliono tu entri in sala per prima.
Dicono ci
aspetti una “sorpresa”, e già mi sento
male… tutto okay, tu?»
Iris si trovava
ad alzare gli occhi
nocciola per ovviare alla differenza d’altezza, ma a
metà strada nella
diagonale si era formato un aggregato astratto di quella dipendenza
fraterna,
la stessa che il corpo fervente della giovane di Boreduopoli le aveva
trasmesso
adagiandosi sopra il suo quella sera, nell’onsen.
Possibile che
essere la leader fosse
allo stesso tempo così bello e allo stesso tempo
così devastante?
«Tutto
a posto, carissima. Ho solo un
po’ di mal di schiena…»
A quel punto,
una risatina le scappò.
«Un
po’?! Solo un po’?!» Iris aveva le
mani davanti alla bocca, come se non le fosse nemmeno lecito ridere.
La Campionessa
di Sinnoh, oltre alla
corazza impenetrabile dalle linee nemiche che sempre aveva addosso, ora
sentì
che due ulteriori scudi la proteggevano sia la destra che la sinistra.
Tuttavia, prima che una sola frecciatina potesse scalfire i due suoi
tesori,
una spada acuminata avrebbe trafitto il suo prosperoso petto almeno
cento
volte.
❁
Dalle finestre
ad arco proveniva una minima coordinata su cosa succedesse
nel mondo esterno nel frattempo ch’erano rinchiuse: il cielo
era annuvolato, la
pioggia della sera prima aveva macchiato i vetri, lasciando i calchi
delle
singole gocce.
Da
ciò, la sala appariva più scura del giorno
precedente, se non per un paio
di luci accese: stando alle parole delle due reclute, il Team si stava
davvero
impegnando nel crearsi un’immagine di amico
dell’ambiente.
L’ingresso
delle imputate non sortì alcun effetto sorpresa, molti degli
spettatori si erano abbonati ad ognuno dei cinque processi e le stesse
facce
pasciute e indagatrici si riconoscevano, anche quelle di chi non era
ancora
intervenuto nelle discussioni con la propria ovvietà
perbenista.
Camilla non
lasciava neanche che la toccassero, camminava da sola ed era
quasi come se le reclute stessero seguendo lei, non il contrario: per
quanto
irrispettose e rudi fossero, la donna le faceva rigare dritto senza
nemmeno
rispondere alle loro provocazioni.
Quando si mise a
sedere davanti al microfono, le bastò uno sguardo torvo
per impedirgli di ammanettarla alla sedia.
Prima che
qualsiasi fantasma di incertezza si impadronisse di lei, dalla
prima fila braccia abbronzate incurvate rappresentavano un cuore, un
applauso
momentaneo e un “dagliele di brutto, leader!”, poi
corretto su istigazione
Catlina con un “okay, magari no. Però fagliela
pagare per come mi hanno trattato
ieri” di rettifica.
L’ingresso
si fece d’un tratto affollato, una scorta si fece largo
attraverso il corridoio e la folla si fece quieta.
Procedendo
svelto, il camice bianco svolazzava a causa del movimento
creatosi attorno alla figura alta e gracile. Un sorrisetto la
colpì come un
proiettile.
«Buongiorno,
Cam…» Lo interruppe dal principio: non avrebbe
accettato una
conversazione in termini non egualitari.
«Campionessa
Kuroi. – Ricambiò la formalità, con
nonchalance - Buongiorno a
lei.»
Tenne il mento
alto, osservandolo dissipare il brusio della folla come un
prestigiatore fa sparire uno stormo di colombe sotto il mantello.
Acromio non
le avrebbe mai rivolto la spalla fredda all’inizio, ma la
donna era poco
intenzionata a lasciarli in mano le redini dell’udienza come
aveva fatto
Camelia, a un ingresso caloroso preferiva di gran lunga arrivare alla
sostanza
il prima possibile.
«Mi
scusi professore, ma se per favore potesse far iniziare subito il
processo…»
«Aspetti
un attimo, prima devo spiegarvi per benino una cosuccia. Ve
l’hanno accennata, le nostre ragazze?»
Le sue iridi
perlacee volarono più in alto del soffitto, si sarebbero
potute capovolgere e sbirciare dentro il suo cervello. L’uomo
si era avvicinato
alla platea con una lentezza a dir poco snervante.
«Buongiorno.
Forse, sarà capitato a tutti i presenti di accorgersi di una
piccola mancanza di correttezza da parte degli organizzatori della
scorsa
seduta… - c’era davvero bisogno di tutti quei
pleonasmi, vista la trepidanza degli
spettatori? – Le più sentite scuse da tutto il
comitato della giustizia di
Unima.»
Se il rimorso di
aver letteralmente manipolato l’esito del primo processo
li aveva colpiti solo una volta conclusosi, le aspettative in riguardo
alla
compensazione per tale errore si fecero ancora basse per le ragazze.
Nonostante
ciò, gli era stata preannunciata una sconosciuta
novità e una moderata
curiosità nel sapere come essa avrebbe influito da quel
momento in poi assalì
tutte quante.
«Ovviamente,
- nessuno aveva la più pallida idea di cosa si
sarebbe inventato, quell’avverbio serviva solo a occupare
spazio nella
spiegazione – stiamo parlando della minoranza numerica dalla
parte
dell’accusa.»
«Ehm?»
Le quattro
sedute vicine si rivolsero occhiate come sperassero
che loro vicina di posto avesse capito qualcosa di diverso, qualcosa
che magari
avesse un minimo senso.
«Per
questo, ottenuta l’approvazione del capo del Neo Team
Plasma, abbiamo pensato di introdurre un nuovo organo di legislatura
nella
procedura penale regionale: signore e signori, date il benvenuto al
primissimo
pubblico ministero della storia della regione!»
Le porte in
quercia pesante le aprirono sempre una coppia di
incappucciate, tenendole spalancate per far entrare una pletora di
individui,
ma nessuno di essi somigliava neanche vagamente a un giurista o a un
avvocato.
«Oddio,
quella tizia!»
Camelia
puntò un’unghia scorticata con qualche rimasuglio
di
smalto contro una signora di colore robusta, dai capelli spessi e
ricci, della
sfumatura verde della malachite; le altre le si accostarono per sentire
quali
succosi pettegolezzi avesse da svelare.
«Quando
abbiamo fatto la riunione per la Lega dell’anno
scorso, mi ricorderò sempre, mi guarda dall’alto
al basso e mi dice che come
sono vestita e il mio modo di rispondere non si addice ad una
Capopalestra… -
Poi, come se si stesse rivolgendo ad ella direttamente –
Scusa, ma… gli affari
tuoi? Chi sei tu per giudicare, boh, io… Secondo me
è la menopausa, ammazzatemi
appena faccio quarant’anni.»
Pur senza
volersela inimicare ulteriormente, Iris espresse
estremo disappunto, sbuffando perfino. Camelia credeva fosse colpa
degli altri
se il suo atteggiamento non veniva considerato il massimo della
simpatia.
«Guarda
che Aloé è buonissima, parli solo per sentito
dire…
Quando ero alle elementari ci hanno pure portati a vedere il museo a
Zefiropoli…
quello dove c’è lo scheletro di Zekrom,
dai.»
«Pensa
se mi dovevo sforzare di ricordami pure il nome.» La
mora si disinteressò.
«Ah,
so solo quello. Non conosco tutti, l’ultima lotta in
Palestra l’avrò fatta un anno
fa…»
«Ma
voi Capipalestra non vi parlate neanche per sbaglio? –
Catlina si intromise, non nascondendo la sua delusione: a Sinnoh questi
si
trovavano al bar per bere assieme, da quanto si trovavano in buoni
termini – Se
lo avessi saputo anch’io mi sarei risparmiata di provare a
socializzare con gli
altri Superquattro, tutto di guadagnato.»
Fosse stata
scorretta tale teoria, Camelia ed Anemone
avrebbero quantomeno accelerato il loro travaglio per conoscersi e
approfondire
il loro legame. A proposito della rossa, ebbe solo un commento da fare.
«Visto
quanto è utile essere una reclusa asociale? Vivi
benissimo lo stesso. – S’accorse anche di altri
volti incontrati alle cerimonie
di premiazione, quelle poche volte in cui le toccava partecipare,
quando suo
nonno smascherava i suoi finti infortuni sul lavoro - Sono proprio
tutti qua,
oh.»
I Capipalestra
si accomodarono in una tribuna su gradoni,
munita di sedie di feltro rosso e calici accompagnati da bottigliette
di Acqua
Fresca della marca meno costosa.
Come la minaccia
della tirannia di Ghecis li aveva uniti per
combattere ai piedi delle rovine della Lega Pokémon e nel
castello eretto per il
suo figlioccio, il burattino delle sue aspirazioni da megalomane, allo
stesso
modo lo stesso uomo li aveva radunati assieme nello stesso posto, un
edificio
egualmente simbolo del teatro di marionette di cui aveva retto i fili
da dietro
le quinte sin da subito dopo la sconfitta.
«Che
figura da sceme che ci facciamo, se ne usciamo vive io
mollo la carica, il lavoro e me vado a piantare Bacche a Johto per il
resto dei
miei giorni, eh.»
«”Che
ci fate”, non parlate al plurale per favore:
Superquattro maggiore Capopalestra.»
«Questo
vuol dire che il mio processo è stato giocato in
modalità facile?! Giuro che se Camilla riesce a pararsi pure
davanti a questi
trogloditi e mi fa fare la figura dell’idiota glielo brucio,
questo
“ministero”».
«Ma
voi tre non vi domandate perché nessuno è mai
gentile con
voi?»
La fierezza di
Iris nello stare per battere il suo record di considerazione
da parte delle compagne durante una rottura della loro armonia, contato
in
secondi, l’unità di tempo più lunga che
si sarebbe mai riuscita a permettere,
non superò nemmeno quella del suo mezzo-addio sul sedile
della jeep ad
Austropoli.
Anemone aveva
puntato dietro le sue spalle e come se il
riflesso automatico di voltarsi le fosse venuto meno, Camelia le
ruotò le
spalle, cogliendole il mento fra il pollice e l’indice in
modo che si
affacciasse sulla torma di esperti di lotta.
«Nonno?»
Senza suono, le
consonanti batterono sul suo palato.
Come non si
poteva compatire la
giovane nipotina del Capopalestra più anziano, il Domadraghi
più esperto e di
cui perfino i suoi coetanei temevano il nome, perfino se inserito in
contesti
casuali come “devo tornare a casa, o mio nonno mi
uccide”?
Aristide infatti
non aveva mai avuto occhi per altri nella
sala orpellata, per i suoi colleghi, per tutti quegli spettatori che lo
elogiavano come uomo imparziale e baldo foriero di giustizia sin dal
principio
del suo incarico.
Come non si
poteva compatire il vecchio Capopalestra, mentre
la giovane che aveva cresciuto come parte del suo sangue veniva
marchiata criminale
dall’uniforme arancione, incatenata come una bestia
pericolosa, quando aveva
lasciato la loro casa nel nord con lo stesso identico viso caramellato
colmo di
dolcezza?
Si ripeteva che
quella era un’altra, non la conosceva, non aveva
nulla a che fare con una scapestrata privata di sonno ed igiene.
La disperazione
di lui la raggiunse: anche lei voleva dimostrargli
che si trattava di un malinteso, che una nottata burrascosa ed un coro
di
malelingue in completo formale non gli avrebbero strappato dalle
ginocchia la
bambina persa ad ascoltare le storie antiche sui miti della Fondazione
e della
Guerra fra le casate.
Ma quella non
era la sua battaglia. Camilla e l’esordio della
sua arringa s’intromisero nel dolore dell’uomo.
«Prima
di iniziare…»
Acromio
accennò un goffo inchino verso i Capipalestra, non che
avesse ragioni per manifestargli il suo rispetto; ma di nuovo la
Campionessa
gli tagliò la lingua: avendo la voce più profonda
fra i due, poteva andare
avanti indisturbata, come sottofondo allo stridio bambinesco
dell’accusatore.
«Spero
che per qualsiasi cosa mi giudichiate, prenderete come
punto di partenza le mie azioni, - appariva severa, tuttavia non
riversava
alcuna avversione in questa sincerità – e non le
mie opinioni personali sul Neo
Team Plasma o su Ghecis Harmonia.»
Dal professore
uscì un sospiro condiscendente, inclinò il capo
per non infuriarsi a tale sconsideratezza.
«Campionessa,
cosa le fa pensare di essere superiore a tutti
gli altri cittadini e a poter evitare un interrogatorio
ufficiale?»
«La…
- lo disse rallentando, per poi sparare a velocità
supersonica la banalità che a malapena le usciva senza
l’impulso di battersi
forte la fronte - prima parola della frase.»
Acromio si
immobilizzò, come se il cervello dovesse
risparmiare l’energia per muovere gli arti e dedicarla a
pensarci su per
qualche imbarazzante secondo.
«…cosa?»
Non era sicuro della risposta, ma almeno serio nel
tentativo.
«Ho
detto la prima!»
Nessuno si
preoccupò troppo dell’insolenza, piuttosto di
quanto potesse essere controproducente sbattere un tablet di ultima
generazione
sul ripiano di legno rovinando lo schermo retina, tutto solo per un
leggero
scatto di rabbia.
«Molto…
- alla ricerca dell’aggettivo, la voce dell’uomo si
stringeva nelle mandibole: avesse perso il soave tono, il contenuto
sarebbe
passato automaticamente in primo piano e nessuno desiderava
ciò, tanto meno Acromio
stesso – audace, direi. Soprattutto vista la sua
posizione…»
«Senta,
se il vostro unico capo d’accusa è andare a
ripescare
fuori contesto post controversi in qualche mio blog abbandonato anni
fa, -
Camilla si girò lontana dal microfono, in preda
all’imbarazzo – anche se, per
favore, non fatelo, non credo di aver scritto cose molto lucide, a
quindici
anni…»
Non per nulla,
quando vedeva Iris o Anemone o Camelia cliccare
il tasto di condivisione per una qualche loro foto scattata per
scherzo, un
brutto sentore si risvegliava nel suo stomaco.
E si
riprometteva di cancellare le foto fatte con il suo primo
telefonino nel bagno di casa dei suoi a Memoride, in pessima
qualità sgranata,
con il rossetto e lo smalto nero, le code dell’eyeliner
lunghe fino alle tempie
per assomigliare più che potesse ad un’occidentale
e gli immancabili piercing
finti: il desiderio sfrenato di ricevere complimenti da degli estranei
era
bilanciato dalla paura dell’essere scoperta da mamma,
mediante una qualche spifferata
di sua sorella minore.
«Tsk,
sarebbe bello potersela cavare così. Anche se, a
pensarci bene, sequestrare i registri delle sue attività
online… Ha presente,
la cronologia delle ricerche? Ci potrebbe fornire ulteriori prove!
Ultimamente ha
per caso interagito con altre ragazze minorenni in maniera
predatoria?»
«Cos…!?»
Sentire la voce della Campionessa salire di qualche
ottava lasciò tutti un po’ sconvolti.
«Se
non lo ha ancora capito, ha sulle sue spalle un bel
macigno da cui discolparsi, qui leggo… leggo… e
che leggo? Manipolazione, abuso
sessuale e inclinazione alla pedofilia.»
«Pff!
– Quella risata esplose e nessuno la trovò
appropriata,
ma per Camelia quello era il colmo – S-Scusa leader, io
l’avevo detto solo per
scherzare, non volermi male per questo, ahah…»
Invece di
rammaricarsi dell’essere stata appellata “vergine
ventenne” ingiustamente a inizio luglio (nonostante grazie
alla coincidenza del
reggiseno nell’onsen fosse nata la storia d’amore
più interessante dell’intera
stagione) parole ben diverse le risuonarono, stavolta come un monito
per il
futuro che le era appena scorso davanti senza che si fosse potuta
arrangiare in
anticipo.
«Ma
corre anche voce che la Campionessa di Sinnoh
sia una lesbica ninfomane pedofila che intrattiene relazioni non
consensuali
con ragazzine più piccole di lei...»
Si ritenne una
sciocca. Il timore che le reclute d’élite del
Neo Team Plasma fossero davvero venute a uccidere le sue compagne
l’aveva
acciecata e lei non aveva letto fra le righe, nemmeno intuito che ci
fosse
stato un piano b nel caso non ci fossero riuscite.
«Questa
è pura diffamazione. - Appoggiò la testa sui
polpastrelli, deformando il sopracciglio per l’indignazione
– Non ho mai
toccato una ragazza con queste intenzioni in vita mia, in una regione
con un
briciolo di dignità sarei io a doverla denunciare, lei e
tutti quelli che…»
«Quindi
ha presente di cosa stiamo parlando, in minima parte.
Accuse relativamente recenti.»
Camilla era
stata l’unica a non condannare Iris per la sua
reazione alla primissima volta in cui l’insopportabile capo
del partito aveva
messo in bocca loro sentenze non veritiere, tanto che si resse in piedi
pur di
non rimanere passiva davanti ad un tale affronto.
«Non
ci provi neppure, a insinuare che io abbia violentato
qualcuno! Soprattutto, visto che è stato Nardo a darmi
questo incarico. – Da lì
s’impadronirono di lei sentimenti più grandi,
considerazioni che si portava
dentro come un testamento della sua esperienza da mentore –
Quanto privo di…
amore, fiducia ed empatia deve essere il vostro mondo per non riuscire
nemmeno
a metabolizzare la stima e l’ammirazione che un leader possa
dimostrare nei
confronti delle proprie… compagne di viaggio?»
L’ultima
definizione la lasciò leggermente titubante, ma
subito fece l’accorgimento di annuire e riconferirle
convinzione. Perché in
realtà la Campionessa avrebbe voluto usare altre
denominazioni per le
carissime, irriverenti e a suo parere inimitabili Allenatrici la cui
silhouette
non vedeva l’ora di vedere inondata dalla luce dei
riflettori, stagliata contro
i banner pubblicitari e l’oceano di bacchette fluorescenti
colorate.
Sul momento
avrebbe confutato questa tesi. A due settimane da
quando erano state invitate alla convivenza, lei si sentiva ancora
“leader”.
Già meno però, quando le toccava raccogliere dal
campo di lotta le Pozioni
vuote e gli asciugamani bagnati dimenticati puntualmente, quando il suo
subconscio la tentava di andare a farsi per prima la doccia,
finché c’era
ancora acqua calda.
La sua ipotetica
etichetta era ormai sbiadita poco a poco, per
ogni alba passata a leggere e rileggere gli appunti e le strategie
ideate dalle
quattro, ancora accoccolate nei loro futon; stritolava la penna rossa e
mangiandosi a malapena un “questi errori non li facevo
neanche a otto anni” e
per resistere, li confrontava con i fogli di due, tre giorni, della
settimana prima,
per ricordare a se stessa quanto fosse bella la definizione di
“fare del
proprio meglio”. E anche tre o quattro tazze di milk tea, in
aggiunta.
Odiava pure
sgridarle, dimostrarsi pedante sui punti critici e
richiamarle quando tentavano di ribellarsi.
Ma si rivedeva
nei loro sbagli e nelle loro lacrime, avrebbe
rimediato ad ogni costo per qualsiasi cosa impedisse loro di essere
ragazze
felici, oneste e lottatrici provette.
Non ci credeva
neppure lei a quanta strada le mancasse prima
di diventare “perfetta”, come molti
s’azzardavano ad appellarla. Il cammino era
comunque una cosa incredibile, le sue amiche si appoggiavano a lei per
sostenersi nei declivi e allo stesso tempo la sorreggevano quando si
sentiva
affaticata dal peso della responsabilità da leader.
«Quello
che nel nostro mondo importa è la salvaguardia di
minori da offese da parte di persone moralmente degenerate.»
«Vostro
onore, se mi permettete…»
Acromio
roteò il polso, offrendo il palco ad uno dei Capipalestra.
L’uomo parlò, appoggiando il cappello bianco e
sbattendo il tacco sulla gamba
del tavolo, in segno di irritazione.
«Non
vorrei rovinarti il monologo, prof. Ma ti serve almeno
uno straccio di prova che questa bella bionda si sia…
– incastrò e agitò per un
paio di volte indice e medio di ogni mano aperti: si trattava sempre e
comunque
di un luogo rispettabile – una di quelle sue amichette vispe.
Altrimenti lei è
pulita e sei tu l’unico a farci brutta figura.»
«Le
rispondo subito: uno degli espedienti più usati dai
molestatori seriali è quello della manipolazione. Far fare
alle vittime cose
che normalmente non farebbero mai: le considererebbero sbagliate, folli
o
non-da-loro. Capisce? Comincia tutto da dettagli
minimi…»
«Poche
chiacchiere, saltimbanco.»
Il professore
tornò a parlare con l’imputata, assicurandosi di
catturare del tutto il suo sguardo.
«Campionessa
Kuroi. Cosa stava pensando esattamente, quando ha
trascinato quattro ragazze sotto la sua guida a farsi massacrare,
rischiando
quasi la vita, combattendo contro i dissidenti del vecchio Team Plasma,
alla
Lega Pokémon? Quale giustificazione ha? Sentiamo.»
«Quale
giustificazione ho? Quale giustificazione ho?!
Ghecis vuole
umiliare il Campione e devastare il simbolo della
collaborazione millenaria fra umani e Pokémon, mettendo a
ferro e fuoco la
regione di Unima e a noi non sta bene.
Le va bene
questo, come giustificazione?»
«Tsk.
Quel messaggio trasmesso in televisione era chiaramente
finto! Queste maledette teorie della cospirazione! Lo ha smentito il
giorno
seguente, Ghecis Harmonia in persona.»
L’uomo
si sistemò gli occhiali sporchi ed impolverati, per
focalizzarsi sulle iridi cineree della giovane donna.
«E la
prego… “a noi non sta bene”? A lei non
sta bene! Ecco
qui l’esempio perfetto: queste ragazze obbediscono ai suoi
ordini, ai suoi
desideri efferati come burattini. Come se delle adolescenti sane di
mente se la
sentissero davvero di combattere fino alla morte di loro spontanea
volontà. No,
anzi: ciò che ha fatto lei è stato approfittare
della loro debolezza
psicologica per propugnare le sue deviazioni! Ribadisco: abbiamo una
manipolatrice e bugiarda compulsiva qui.»
Non detestava
Acromio e le sue tattiche sofiste, ma la
contraddizione insita in esso: aveva permesso lei che i
Pokémon drogati delle
reclute infilassero gli artigli nella loro carne e le ferissero con
zanne,
proiettili, addirittura con la forza telecinetica? Camilla
rappresentava la
probabile chiave di quell’effetto Nora.
«Sto
prendendola troppo sul serio. Non può essere
colpa mia… No? Ovvio che no! Se solo non mi sentissi
così male, perché? Non è
colpa mia, però… Se siamo così
patetiche, deboli, incapaci, inaffidabili…
No, non sono
loro. Sono io.»
«Mi
scusi. Vorrei fare un’obiezione, - una ragazza si
alzò in
piedi, non appena la sua richiesta fu accolta; non avrebbe lasciato la
sua
migliore amica e amante sola a combattere come durante il primo attacco
all’onsen – In qualità di
sub-leader.»
«Bene, adesso come minimo
il prof mi
insulta perché sono bionda, stupida e disabile.» Si disse Catlina,
attendendo di parlare.
«Signorina! Con che
genere di saggezza ci vuole
deliziare oggi? Sempre che si senta abbastanza lucida, che non le
vengano capogiri…
ma vada pure! E alzi la testa quando parla con un superiore, qui non
siamo
dipendenti suoi o degli Yamaguchi.»
La giovane respirò forte
per la seccatura. Ma non
si sarebbe concessa di incassare un altro colpo basso per via della
propria
personalità docile.
«Volevo dire che noi
siamo venute alla Lega, a
combattere il Team Plasma, di nostra spontanea volontà, non
perché Camilla ce
lo ha imposto. Non ci ha manipolate nessuno.
E, mi scusi, ovviamente su di noi
c’è riflesso
qualche cambiamento del tempo che abbiamo trascorso qui…
S-Sono la prima a
dirlo: prima avevo paura perfino di parlare con altre persone, di
esprimere i
miei sentimenti perché… boh, nessuna ragione in
particolare; ero viziata,
paranoica e direi anche un po’ stupida.
Camilla non ci controlla, fossimo
così
influenzabili… fosse così non ci avrebbero
neppure scelte per partecipare al
torneo regionale. Aiutarci e darci indicazioni su come sfruttare al
meglio il
nostro potenziale è il suo compito, e noi ci fidiamo di lei.
A-Almeno, io sì.»
«Questo non è
proprio quello che uno si
aspetterebbe di sentire dopo un lavaggio del cervello eseguito da una
maestra
dell’arte?»
Inutile che Acromio cercasse di
vittimizzarla
quando neppure lei aveva interesse in ciò; si era nascosta
dietro ad una marea
di scuse, dietro al proprio corpo infermo e alla visione distorta dei
propri
sogni troppe volte e lo scudo di menzogne che pensava potesse tenerla
al sicuro
per sempre accumulava falle, finché non s’era
sbriciolato nell’incubo che la
vedeva sola, in un mondo bianco senza speranza e senza futuro.
Avrebbe preso in pieno il
proiettile, catturandolo
come una mosca mediante il solo palmo della mano, lo avrebbe guardato
puntare
al suo viso, per poi scagliarlo contro il suo nemico, specchiandosi nei
suoi
occhi.
«Sono sopravvissuta ad un
elettroshock, ad un
colpo di pistola, al mio primo cuore spezzato, ad una contorsione
fatale, a un
coma di tre giorni…»
«Signorina, il pubblico
ha capito…» Gli parlò
sopra, mai lo aveva fatto fino a quel momento.
«…ad
un intervento a cervello aperto e ad un’overdose di
stupefacenti, grazie a
Camilla.
Credo che adesso…
– lo enfatizzò di prepotenza,
arruffando ancora le piume al pollo –
adesso…»
La Campionessa si spostò
le chiome dietro le
orecchie con le mani libere, come se le stesse fibre potessero
distoglierla dall’avvertire
un rumore sospetto: non che non ne fosse a conoscenza; aveva sistemato
il suo
futon (lo usava raramente per dormirci, purtroppo per lei) a fianco di
Catlina
per almeno due settimane, per controllare non stesse male durante il
sonno.
«S-Scusate… -
le uscì dal fondo dell’esofago,
nessuno a parte lei lo sentì - N-Non…
Io… Non mi sento bene…»
Il respiro affannoso, le pupille
dilatate, la
mascella rigida, le mani tremanti. Sul lato delle labbra su cui aveva
riversato
calore, passione e incontenibile vitalità, un rivolo
schiumoso sembrava una
secrezione mortifera, un rimasuglio di un’anima infettata.
Camilla girò la testa;
rimpianse i pochi secondi
sprecati in quell’azione e si mosse immediatamente,
abbandonando la sedia e
precipitandosi verso la fila di banchi.
«Spegnete quella luce
dietro, subito! Quella che continua
a spegnersi e riaccendersi…»
Cinque reclute scelte per la
corporatura tozza,
barricarono la giovane donna, neanche volesse compiere qualche
efferatezza,
neanche volesse altro se non aiutare la sua compagna sofferente sul
pavimento
laccato, nel mezzo di una delle sue crisi.
«Era dietro di me, era
dietro di me quella
trappola mortale, accesa… in tutto questo tempo,
Io…»
Che il tutto fosse stato
architettato per mettere
fuori gioco la sua migliore difesa, avrebbe potuto considerarlo un
proprio
errore di calcolo. Un errore maledetto, che la sua amica
d’infanzia stava
pagando contorcendosi e annaspando disperatamente. Alla fine, sempre un
errore
suo.
«Come non
detto… - la punta luccicante del
mocassino sfiorò da così vicino alla guancia
della giovane Superquattro da
quasi calciarla – Chi ha permesso che una degente in
condizioni di
fotosensibilità così elevate sia stata dimessa in
meno di un mese? Chiamate
un’ambulanza, fatemi un piacere.»
Ma il fatto che Acromio stesse
attivamente
prendendo in giro la fiducia che aveva rimesso in piedi Catlina dopo
tutte
quelle sventure, per lei era come costui bestemmiasse il nome della
divinità
che faceva sorgere il sole per lei ogni mattina.
Camilla provò a
dimenarsi ancora, cercando di
ignorare il dolore provocatole dalla stretta delle reclute;
l’ultima cosa che
vide prima che una di esse s’arraffasse ai suoi capelli per
riportarla al suo
posto fu il tentativo delle altre tre Allenatrici di sciogliere le
manette, a
causa delle quali la biondina rischiava di rompersi un braccio a causa
di
qualche malaugurata manovra impulsiva.
«Non vogliamo ulteriori
distrazioni per tutta la
durata del processo, nessun intrigo da commedia. Voglio che questo
concetto sia
cristallino.»
Camilla udì Catlina
tossire, l’unica cosa che era
in suo potere era pregare che i soccorsi arrivassero alla svelta, prima
che
ella si strozzasse con la saliva o qualche microfrattura si riaprisse,
dopo che
aveva faticato tanto per rigenerarsi fuori e dentro di sé.
❁
«Prossima
domanda.»
Il segretario
del partito sventolava la penna elettronica come una turbina,
il suo ghigno beota ancora intoccato si frammentava in un caleidoscopio
sullo
schermo crepato.
«La
ringrazio. Buongiorno, Campionessa. - Esordì un giovane uomo
dai
capelli castani mossi, la deliziosa sciarpa in cotone rosso si
azzuffava con la
camicia verde veronese, ma dai suoi occhi non traspariva alcuna malizia
–
Innanzitutto, sono dalla sua parte, per ora, a meno che non venga fuori
altrimenti.»
Normalmente,
Camilla avrebbe ringraziato anche il minimo complimento o un
vago supporto; tuttavia, il posto vuoto nella prima riga le pareva
enorme,
quasi quanto una voragine dopo un cataclisma.
«La
parte sull’alterazione mentale, quella lì, penso
abbia un peso
importante, almeno quanto le accuse di molestia sessuale. Quello che
voglio
chiederle è: vi sono dei precedenti? Non è
possibile che una figura così
eminente abbia macchie tanto grandi da passare
inosservate…»
«Davvero
vi è così difficile credermi? Sono nata a Sinnoh
in un piccolo
paese sul Monte Corona, da una famiglia normalissima di quattro
persone. Sono
andata a scuola, ho ricevuto un Pokédex e ho partecipato al
torneo della Lega
come tantissimi altri Allenatori. Ho fatto queste…
“cose da Campione” per
cinque anni oramai, starei cercando di vivere la mia vita e fare quello
che mi
piace: volevo viaggiare all’estero e venire a studiare la
mitologia di Unima da
un sacco e ce l’ho fatta.
Non capisco cosa
ci sia da demonizzare se una persona ha una vita
tranquilla e felice, per una volta.»
La giovane si
accorse di aver inconsciamente capovolto la strategia usata
da Camelia per sollevarsi dai guai per la gola: forse era giunta al
limite
delle forze e voleva solo terminare la seduta, nonostante avesse
premuto lei
stessa per velocizzarne l’andatura.
Oppure, riuscire
a spegnere ogni focolaio di sospetto e curiosità nei
confronti del suo passato, avrebbe distolto l’attenzione
dall’etichettare lei e
le sue associate come vittime e carnefice, essendo del tutto esente dal
classico background travagliato e disturbante dei personaggi moralmente
grigi.
Si dispiacque di
poter dare l’idea sbagliata, quella della dea delle lotte
bella e perfetta che non conosce l’amarezza o la sconfitta,
quell’ologramma in
cui troppe persone erano rimase intrappolate fino a provare autentica
delusione
scoprendolo consistente come l’aria rarefatta di un picco
desolato.
Contò
ancora sulla bontà delle sue ragazze: lei non aveva creduto
un secondo
che Camelia fosse solo un’antipatica sputasentenze, che
Anemone agisse solo per
amor altrui, che Catlina fosse distante e dimentica di tutta la loro
gloria
passata. Finora avevano sempre ricambiato le speranze che lei serbava
per loro,
le dimostravano in tal modo di vederla come una persona umana e
ciò non poteva
che scioglierla nell’animo.
«Per
quanto riguarda le relazioni interpersonali? Compagno, fidanzato,
marito?»
«Non
ne sento il bisogno, grazie. Il prossimo.»
Davvero non
riusciva a digerire certe domande, se non dopo essersi scolata
otto coppe di sake alla prugna.
Se si diceva che
la Campionessa Camilla fosse abbastanza resiliente da
affrontare Allenatori su Allenatori in match giornalieri senza pause
per
ricaricarsi e curare la sua squadra, un cuore spezzato non poteva aver
mai
avuto un impatto tale da invogliarla a predare ignare ragazze, le quali
avrebbero comunque dato poco da farsi a prescindere: non ci erano
voluti mesi,
addirittura anni prima che la modella uscisse da circolo vizioso delle
relazioni
casuali con uomini più voltagabbana di lei?
Come
è perfettamente impossibile amare senza conoscere
l’amore di persona,
pensava la bionda, il non essersi mai impegnata in una relazione
nemmeno una
volta la rendeva inesperta, certo, molto cauta e a volte anche
impaurita; ma
arrivare a considerare tale mancanza d’esperienza terreno
adatto ai germogli di
semi d’odio…
L’idea
che la teoria degli opposti sempre in movimento, che definire
“la
sua”, come se ne fosse appropriata, sarebbe un po’
da ipocrita, s’accoccolò al
suo stomaco. A meno che non la rinnegasse, in mezzo al mare di amore in
cui
s’immergeva e si purificava per e con le sue adorate,
carissime compagne, una
goccia d’odio si nascondeva fra i flutti e con
crudeltà inaudita inquinava il
suo cuore.
«Il
bisogno, dice?»
Ma Acromio
s’era impuntato su una storia inventata. Dopotutto,
neppure il cuore della donna era stato davvero pronto a quella
confessione
affettuosa che la più piccola del gruppo aveva mormorato fra
le sue braccia, al
tramonto, non trovando momento più adatto.
«Più
che una leader…»
«Quanto
la rende virtuosa, questa storia del celibato volontario,
signorina Campionessa! Ah, ah, ah! – Il professore
mimò una risata sgangherata,
ipotizzando l’essere impazzito a causa della
contraddittorietà delle azioni
della donna, come se fosse lui stesso a star recitando
un’esagerazione – In che
modo strano gira il mondo, in questi tempi!»
Lasciò
calare un proiettore, di qualità decisamente superiore
di quello disponibile per loro sintonizzato sul canale dei messaggi
snervanti
ma importanti, nella loro cella.
Se le sue
orecchie fossero state marchingegni collegati ad una
qualche scheda madre che controllava le sue razioni, voleva ogni
singolo cavo
reciso, un ictus alla propria coscienza messa in una posizione
così scomoda; si
stavano surriscaldando e lei perdeva la voglia di stare a sentire il
professore
ancora.
Ed ancora era
grata che qualcuna non smettesse mai di darle
una distrazione.
«…per
noi sei...»
«”Adamante”
nelle sue posizioni è dire poco. Magari è vero:
davvero non ne è cosciente. Davvero pensa che tutto questo
sia assolutamente
normale. Una cosa tipica da ragazza normale, da una famiglia normale,
che fa un
lavoro normale, passatempi normali – non sapeva se
interromperlo e ricordargli
di aver insultato la sua compagna per aver usato un’anafora
come effetto
retorico poco meno di un’ora prima - con una vita
sessuale… normale!»
Aveva pigiato
una combinazione dal tablet senza nemmeno
distogliere lo sguardo da lei: era prevedibile che Acromio non si fosse
gettato
nella disputa a mani vuote. Camilla credeva di aver sprecato i suoi
fendenti
migliori per un omuncolo disarmato, all’inizio.
«Campionessa,
le chiedo solo una cosa: non pensa mai a come si
sentirebbero i suoi genitori, sapessero di queste cose?»
«”Queste
cose”, cosa?!»
Come nel mito di
Orfeo e Euridice, una voce dentro di lei la
scongiurava di non cedere alla tentazione di girarsi a vedere la
propria
nobiltà d’animo sfigurata sul grande schermo, la
sua dedizione resa spregevole
ossessione; ma lei cedette, perché in fondo avevano ragione.
Lei una
debolezza ce l’aveva.
«…Come
una sorella maggiore.»
Nessuno ci fa
mai caso al fatto che dopo grandi ribaltamenti, dopo ogni
catastrofe, ciò che rimane sulla terra è lo
stesso per tutti, ma ciò che si
sedimenta in ognuno dei superstiti varia sotto quasi ogni aspetto.
D’altronde,
non si può costringere uno ad identificare il tipo di fiori
sbocciati sul colle fertile dopo un’eruzione vulcanica, dopo
che il fuoco e la
cenere hanno inghiottito tutta la vegetazione passata. Quanti saranno i
granelli di sabbia che la risacca appoggia sulle spiagge delle regioni?
I
frammenti taglienti delle conchiglie rotte lasciano
un’impressione, almeno.
Il bagliore dei
fuochi d’artificio che si pone innanzi alla luna,
intimidita dalla prepotenza umana di segnare pure il regno celeste con
i suoi
fumi e i suoi colori, nonostante non gli pertenga. La voglia di
zucchero e
dolci, di eccitare il palato per poi finire inevitabilmente a morire di
sete.
Il telefonino che pregava di aver pietà del poco spazio
rimasto nella memoria
d’archiviazione, con un insistente notifica per ogni
fotografia scattata ad un
artista di strada, ad un Pokémon raro proveniente
dall’estero, al volto
sorridente della giovane donna che stava al suo fianco, perfetta anche
senza
l’ausilio delle applicazioni di bellezza.
Iris si rese
conto di starsi stringendo la mano da sola, pur di replicare
il calore di quella della sua compagna più grande, di come
l’aveva catturata la
prima volta che erano uscite assieme, di quanti sentimenti
l’avesse fatta
provare quel gesto e fra tutti quelli che il buonsenso le avrebbe
voluto
rinfacciare come monito alla sua scarsa consapevolezza…
felicità, ricordava
solo inspiegabile felicità associata al vibrante pattern dei
loro yukata,
all’odore di olio e alla bellezza di essere
all’aperto, sotto gli occhi di
tutti, mano nella mano.
«Nonno,
ti prego, non arrabbiarti… Non è successo niente,
ti giuro su…»
Tuttavia le sue
dita erano gelide, come toccare le falangi scabre di uno
scheletro.
Oltre il vetro,
spesso abbastanza da farle percepire la distanza per cui
nemmeno allungando il braccio avrebbe potuto sfiorare, la barba bianca
e gli
occhi vigilanti sui suoi progressi e i suoi difetti da sempre, le
apparivano
così truci, così terrificanti, fauci incupite e
digrignanti pronte a morderla.
Aristide non era
arrabbiato con sua nipote. L’uomo era estremamente deluso,
mortificato era dir poco.
Questo
perché della stupenda serata che aveva condiviso con la
Campionessa
di Sinnoh non era rimasto nulla, il rogo di Alessandria aveva colpito i
ricordi
di tutti. Eccetto, nonostante non fosse neppure presente quel
dì, quelli del
Team Plasma.
Ad essi spettava
la versione più equamente oggettiva e dolorosamente neutra
che potessero usare per rappresentare cosa succedesse nella casa del
Campione,
dove si consumavano i segreti delle ragazze; non c’erano
suoni, una visuale
dall’alto, la nitidezza delle immagini riprese rispecchiava
quanto in
superficie si fossero fermati per interpretare i fatti di quel giorno.
Le era stato
detto chiaro e tondo che lo spionaggio procedeva “da
giorni”,
ma né lei né Camilla si erano preoccupate di
incolparsi, di pentirsi o di
nascondere il loro, di segreto.
«Eddai,
per quanto ciò che è stato catturato dalle nostre
telecamere sia
indubbiamente degenerato e di cattivissimo gusto, non
c’è bisogno di coprirsi
gli occhi! – Acromio invitò i presenti –
Il Partito si è preso la briga di
censurare quelle parti non proprio adatte alla trasmissione in prima
serata!»
Se lo shock non l’avesse
immobilizzata, avrebbe dovuto fare come minimo i complimenti al Team:
erano
riusciti ad estrapolare dal contesto originario uno dei momenti
più
significativi per la sua crescita, farglielo rivivere mostrandoglielo
integralmente e a farla quasi vomitare dal disgusto.
Il suo sogno di una notte
di mezza estate di una quindicenne era diventato un incubo, un trauma,
un
qualcosa di cui si sarebbe dovuta vergognare per tutta la vita.
«…Cosa mi devi
giurare,
Iris?»
Tutte le volte che si
trovava da sola con il suo vecchio non aveva mai lasciato intercorrere
alcun
silenzio imbarazzante, ed il venir chiamata improvvisamente per nome
dopo il
verificarsi di uno stesso la fece rabbrividire.
«Ti giuro, ti
giuro… - Le
mancò il respiro - Camilla non mi ha fatto niente,
nell’onsen...»
L’anziano
abbassò la testa
prendendosela con la mano, esalando addolorato; la ragazzina lo
udì con i
nervi.
«Quando mai, quando mi ti
è stato insegnato di farti violare da un’estranea!
– la riprese e la voce si
fece come un tamburo rituale, scuotendo ogni mollezza nel suo corpo,
con una
pausa – Come aggravante…»
«No, non mi ha neanche
toccata, noi stavamo solo parlando!» Ribatté e il
suo tono da bambina eruppe,
nonostante lei volesse nasconderlo almeno per quella diatriba.
«Che ti sei messa in
testa
di fare? A farti vedere nuda da una donna adulta...»
«Camilla mi ha spiegato
che è una cosa normale a Sinnoh, serve a conoscersi meglio
e, ti ripeto, non mi
ha toccata né niente! Sei solo
paranoico…»
«Ti sembra una cosa che
io
e tua nonna… – non riuscì neppure a
completare la frase, si macchiò di
anacoluto da quanto era sconvolto – ecco, pensa! Pensa alle
conseguenze, una
volta tanto: a quanto ci aspettavamo da te.»
Iris avrebbe voluto
fingere di non sentire tutto il discorso, ma in particolare
l’ultima frase.
Perché così sembrava che lei la galera se la
meritasse, che fosse conseguenza
naturale per le sue malefatte.
E che aveva fatto di male?
Certo che lo sapeva. Aveva vissuto isolata dal proprio passato e dal
proprio
futuro troppo a lungo, si credeva un libro aperto e si portava alle
spalle
strappi alla coscienza grandi quanto un canyon.
Aveva obbligato a suon di
suppliche suo nonno a farle mollare la scuola, dimostrando subito di
non essere
sociale, di non avere attitudini, di non saper seguire una procedura
sicura e
basilare, di aver bisogno di sforare dalle regole per sentirsi
orgogliosa.
Alla Sala del Governo,
Aristide avrebbe risposto alle sue proteste contro il governo degli
Harmonia
come aveva fatto il professore, chiedendole dove fosse il suo diploma,
se fosse
sotto quella lingua lunga che si ritrovava.
E da lì, rifiutando la
strada battuta dell’istruzione superiore, la sua bambina si
era incamminata in
mezzo ai rovi, sui sentieri tortuosi, tutta sola, nella convinzione di
trovare
se stessa fra gli spettri dei sognatori disillusi nel tentativo prima
di lei.
Infatti, eccola lì, dove
l’aveva trovata? Senza vestiti, a farsi sbranare viva da
belve feroci, senza nemmeno
battere ciglio.
«Beh, cosa ti aspettavi?
Che mi facessi odiare, non posso nemmeno avere delle amiche? Dovevo
fagli
vedere io che sono la più forte solo perché sono
la nipote di un Capopalestra?»
Non lo chiese
ironicamente. Desiderava sapere davvero cosa nascondesse suo nonno
dietro alla
sua bontà condiscendente, che figlia s’immaginava
che la sua “Iris” fosse. Lei
non la vedeva da nessuna parte.
Il vecchio Domadraghi le
manifestò il suo compunto, rifiutando tali scuse degne di
una reietta con
disturbi mentali, incapace di capire la realtà. Sperava di
far risuonare della
ragionevolezza in lei, per riportarla al suo stesso livello. Eppure la
giovane
Allenatrice sembrava averlo abbandonato, come una scapigliata che fugge
con il
suo amante, la testa persa in chissà quali fantasie idiote.
Il fatto era che lì non
c’era nessun primo amore a sviarla… No, non
c’entrava nessun ragazzo in quella
faccenda.
«Questa in cui ti sei
tirata in ballo non è “amicizia”.
– La guardò dritta negli occhi marroni –
Non
me ne frega niente delle altre quattro e dei loro problemi. Possono
fare tutte
le schifezze che vogliono, fra di loro.
Ma che tu, tu ti vada a
far stuprare da donne adulte… Dov’è la
tua dignità? Oh? Chi te le ha insegnate
queste cose? Ce l’hai un po’ di rispetto per chi ti
ha tirato su?»
«Ancora! Basta! Sono io
che ho detto a Camilla di sì nell’onsen! Non mi ha
stuprato nessuna, io ho
fatto la mia scelta e le ho detto di sì, non
c’è niente di sbagliato qua!
Acromio l’ha incastrata perché vuole toglierci
dalla competizione… - un
singulto rallentò il suo fervore e ritornò
languida, come all’inizio – Nonno,
ti prego, ti prego… Cerca di capirmi.»
Quando la cintura del
kimono era caduta, aveva indugiato, lo ricordava. Ma appena Camilla si
era
esposta a lei, alla sua apprendista Campionessa che aveva salvato
dall’attacco
di un Pokémon selvatico e da uno del Team Plasma. A lei,
prima che ad ogni
altro amore della sua vita.
Anche se la sua carne non
era sviluppata, le sue curve non erano ancora abbastanza mature per
reggere un
confronto equo, senza riservare nemmeno la minima dose di amore che il
suo
minuto petto conservava per un momento del genere, come avrebbe potuto
innescare il meccanismo su larga scala?
Se non sapeva amare una
persona tanto dolce, gentile, coraggiosa e sensibile nei suoi
confronti, come
avrebbe potuto una Campionessa diffondere l’amore nella
regione di Unima, nel
mondo intero?
Qualora avesse voluto
semplicemente baciarla in bocca, strizzarle il seno o toccarle le gambe
e il
sedere, avrebbe potuto farlo: le circostanze erano a suo favore. In
teoria
l’avrebbero ugualmente criticata, cambiava solo che
così c’erano prove concrete
per la sua colpevolezza.
Ma c’era stato un
qualcosa
in aggiunta. E le due, pur non sapendolo ancora definire a parole loro,
avevano
capito che proprio grazie a questo qualcosa il loro bagno insieme aveva
avuto
un senso.
Una volta uscite
dall’acqua e asciugatesi la pelle bagnata al sole, sia Iris
che Camilla,
entrambe erano cresciute un po’.
«E tu, cerca di
raddrizzarti e torna a farti piacere i maschi, ti conviene.»
La ragazzina allontanò
lentamente la cornetta da davanti alla bocca, sebbene non si sentisse
nemmeno
la vibrazione del fiato; se fosse stato un vero telefono a filo,
avrebbe
lasciato cadere la linea con un tubare perturbante.
Ormai le sue orecchie si
erano riempite di insulti e a suo malgrado, la loro cattiveria andava
in
crescendo dall’inizio della stagione. La fiducia che aveva in
sé, la sua
identità ci aveva fatto un callo a tal punto da trovargli un
senso: credeva che
ci fosse dietro una progressione, che appena lei veniva ingiuriata con
qualcosa
di nuovo o originale aveva il bisogno di pensare “forse non
avrei dovuto
prendermela per la volta scorsa, non era poi così
male”.
Anche a furia di sforzarsi
di nuotare in quel fiume di chiodi, perché la punta
più affilata e con la
ruggine più tossica doveva avergliela spuntata colui che
doveva invece farle da
zattera di salvezza?
«Se anche io avessi
voti alti in matematica, storia, scienze, se fossi la rappresentante di
classe,
se facessi i corsi aggiuntivi per entrare alla lega d’oro
delle università
mentre lavoro al Pokémart nel finesettimana e ha comunque
tempo di leggere i libri
di economia e di politica prima di andare a letto senza affaticarsi
troppo a
suonare uno strumento o a far pratica di lingue straniere o a scrivere
poesie
per i concorsi…»
Neanche Camilla avrebbe
retto il confronto. Nemmeno lei, nonostante possedesse tutta la sua
ammirazione.
Non credeva che gli anni e
l’anzianità fossero tanto inclementi sul giudizio
del Capopalestra. Lei stessa
era grata per i traguardi raggiunti dai suoi predecessori, le capitava
perfino
di puntare il dito contro la sua generazione all’insegna
della passività e
della frivolezza.
Gli aveva dimostrato già
dalla tenera età di non aver paura di ferirsi per offrire
dal suo palmo una
Bacca ad uno Zweilous affamato, di essere disposta a rovistare aiuole
piene di
erbacce alla ricerca di una campanula che dicesse “ti voglio
bene” con la sua
tenera bellezza al suo vecchio. Non aveva guadagnato rispetto neppure
in tal
modo.
«…Lo dici solo
perché
Camilla e le altre sono femmine?»
Un silenzio ed Iris si
morsicò
le labbra, senza perdere la risolutezza.
«Allora sei un
infame.»
Non ci fossero stati venti
centimetri di vetro a schermarla, avrebbe finalmente sentito cosa
doveva aver
provato all’epoca Camelia, che non giustificava comunque in
base a ciò, ma dopo
un ceffone in pieno viso anche a lei sarebbe venuto istintivo lasciare
Boreduopoli e cancellare le proprie ignobili origini.
«Da chi hai preso queste
parole?! Parli così a tuo nonno, da quando? Lo hai preso
dalla spazzatura umana
che frequenti? Oh!?»
«Non le conosci
neanche…»
«Deficiente. Per fortuna,
per fortuna, guarda, che ti hanno ripreso! Così impari a
crescere: sei quasi
un’adulta e ancora ti serve vedere le conseguenze delle tue
stupidaggini in
prima persona!»
La giovane dai capelli
violetto stava per mollare la presa. Del resto, c’era il suo
bene, in ballo. Se
Aristide s’era infiammato fino ad insultare la sua
intelligenza, un motivo
valido doveva esserci. Non poteva essere in una posizione
più opposta: i loro
punti di vista si stavano scontrando e fra le scintille e i clangori si
consumavano sia la pietà filiale, sia l’affetto
paterno.
Tuttavia, l’uomo si
toccò
la barba ed aggiunse, in tono sarcasticamente critico.
«Non voglio neanche che
le
tiri fuori in un discorso, idee del genere…»
«…Perché?
- Gli chiese,
esasperata - …Perché, se fosse stato un ragazzo
ti sarebbe andato bene?!
Ragioni come il Team Plasma, io… non ci voglio ragionare con
te.»
«Che maleducata,
strafottente, ingrata sei diventata in mezzo mese!»
«Sono tutte queste cose
solo per aver fatto un bagno insieme con una mia amica?»
«Iris, non sei nella
condizione di dire niente. Dopo questa, tu sei come morta per me.
Allora…»
L’anziano stava
proseguendo a parlare, ma qualsiasi altro rimprovero avesse in serbo,
non lo
poté udire: la cornetta si trovava ora distante dal
padiglione auricolare,
sospesa a mezz’aria come gli ostaggi sul ponte delle navi
pirata.
Alzando le sopracciglia
sottili, l’Allenatrice e accusata si trovò
entrambe le mani vuote, un tonfo
fece intuire che il microfono avesse catturato l’urto della
plastica contro il
pavimento e pure il successivo dondolarsi al cavo che lo collegava alla
centralina.
Aristide osservò sua
nipote girarsi di novanta gradi, verso destra, mettendo le mani a
mo’ di
altoparlante: immediatamente due reclute si portarono ai lati del suo
seggio.
Invece di strattonarla, lei gli pose gli avanbracci e dopo averla
ammanettata e
bendata agli occhi, la condussero via, in silenzio.
Non poteva neppure udire i
suoi passi. Le conseguenze, su cui la stava istruendo poco prima,
stavano affliggendo
lui, che non aveva colpa, che aveva provato ad instaurare un codice di
condotta
nell’essere che più aveva a cuore, ed ora vedeva
la sua missione di genitore
fallita e ciò lo avrebbe in eterno perseguitato.
Era sicurissimo che Nardo
non approvava nulla di quanto era successo. L’ormai
destituito ex-Campione le
aveva per primo consegnate alle autorità, secondo la sua
teoria.
All’anziano e distrutto
Capopalestra del Nord non rimaneva che aspettare la sentenza per sua
nipote;
forse due, forse tre, forse dieci anni di carcere minorile ed un bel
programma
severo di riorientamento sessuale, che le avrebbe giovato di sicuro.
Non avrebbe permesso che
una forza al di fuori delle leggi della natura e della sua etica ferrea
gli
strappasse via la sua piccola, innocente e perfetta nipotina.
«Allora, se dopo
“questa” io sono “morta” per
te...»
E tale forza non aveva
uno, bensì quattro nomi diversi.
Mentre dietro quei nomi
c’erano visi angelici, corpi divini, maniere accattivanti,
potenza e carisma
allo stato puro. Con quali mezzi avrebbe costui potuto arrestare le
inarrestabili pulsioni dell’adolescenza?
«…allora forse
non dovevi nemmeno
adottarmi, infame.»
Nella totale
afonia della prigione sgusciarono fuori i rumori che nella
loro quotidianità scomparivano in mezzo a risate, musica e
chiacchiere varie.
Ancora con lo stomaco mezzo vuoto ed un caldo pazzesco, le quattro
Allenatrici provavano
a risparmiare il poco carburante che avevano in riserva cercando di
muoversi il
meno possibile e ad auto-ibernarsi in un bagno di sudore disgustoso.
Camelia aveva
addirittura proposto di tagliare la testa al toro e levarsi
di dosso le uniformi, giusto per evitare di andare in iperventilazione.
Quando
con civiltà tentarono di distoglierla dall’idea,
ribatté che presto o tardi nei
suoi anni di carriera qualcuno tanto le avrebbe hackerato il suo
cellulare e
pubblicato tutti i selfie che si faceva davanti allo specchio, le
versioni
originali che non sarebbero finite in nessuna delle sue pagine
ufficiali.
Non capirono se
stesse vaneggiando o fosse seria, ad ogni modo non glielo
permisero; gli costò solo un paio di unghie finte spezzate
abbandonate lì sul
pavimento e un grumo di capelli biondi lavato via con l’acqua
salata, a
quell’ora calda quanto zuppa.
Le ragazze
quindi non avevano ragione per non godersi quei minuti di
degradante siesta dal valore immisurabile, sebbene i passatempi
disponibili
fossero limitati dal non arrecare disturbi alle sventurate complici.
La mora era
distesa su un letto in basso, accarezzando continuamente i
graffi di Iris sul petto e trovando il rialzamento sulla pelle
stranamente
piacevole al tatto, non che glielo avrebbe mai perdonato, pensava. Con
il
labiale percorreva una delle sue playlist senza le cuffie e senza far
passare
nemmeno un filo di voce, spaventata da quella mancanza di spazio
personale
nonostante non si facesse mai problemi di introversione.
In
contemporanea, le dita di Camilla, assorta sull’ingiustizia
della sua
condanna e angustiata da che genere di terapia avrebbero scelto per
curarla
dalla sua ossessione inesistente, correvano fra i capelli della nobile
dormiente sulle sue ginocchia; Catlina non aveva proferito parola dalla
potenza
degli antidolorifici somministrategli dopo l’attacco. La
Campionessa lo reputò
un bene per lei, l’avrebbero interrogata il mattino seguente
e la donna giurò
di fornirle mutua assistenza per qualsiasi causa le rivoltassero contro.
«Ohi,
bentornata. Che t’ha detto tuo nonno? Per la storia del
bagno,
intendo…»
La bionda
accolse Iris ancor prima che la porta si chiudesse. I ciuffi
lilla bagnati ma non puliti fuggivano in tutti i modi dalla presa
dell’elastico, il quale avrebbe richiesto un paio di forbici
per venir
scardinato dai nodi accumulati in mezza settimana. Oppure una mano
forte, ma l’unica
che sarebbe riuscita a spezzare la stoffa con l’uso della
bruta forza appariva
impegnata a fare altro, nel mezzo della propria concentrazione
autistica.
«Guarda
che faccia, come minimo avrà chiamato uno a farle un
esorcismo! - la
modella si rivolse alla donna – Leader, sai che ti capisco?
Quell’onsen, mamma
mia, è il sesso assoluto! Se esistesse un afrodisiaco fatto
piscina…»
«Camelia,
ti ringrazio dell’interesse, ma lo scopo per cui tu lo hai
usato
è totalmente diverso dal nostro.»
«Pfff,
sai quanto me ne frega di che cosa ci devi fare
nell’onsen… Te la
sei presa? È
perché ho preso io il meglio e tu ti sei dovuta
accontentare? O aspetta,
non sei davvero pedofila, hai solo gusti da plebea.»
«…mi
stai seriamente dando della squattrinata?»
La Superquattro
dischiuse mezza palpebra, non sia mai che qualcuno
presumesse che il conglomerato di lotta dei suoi potesse competere con
le
tre-quattro borse di marca o gli orologi di zirconi che lo stipendio di
un vip
regionale. Voleva proprio farle vedere, si sarebbe comprata
l’intera
manifattura solo per farla tacere.
«Vogliono
fare un’altra udienza fra poco.»
Questo
è essere ostaggi: non avere la libertà di poter
procrastinare le
proprie inquietudini.
«Hanno
detto che entro domani sera devono finire tutti i processi per avere
il verdetto finale.»
La
più piccola non si sentiva all’altezza di
quell’annuncio. Non poteva
rispondere a nessun loro dubbio, né chiarire la ragione per
cui il Team avesse
deciso di cambiare i loro piani senza preavviso, lasciandole alle
mercé del
loro pugno di ferro. Dai loro volti trasudava già tutta la
frustrazione, tutto
lo sconforto della sconfitta imminente.
A quel punto,
stavano guardando le carte sul tavolo da gioco ribaltarsi e
finire automaticamente nel mazzo degli Harmonia, non aveva neppure
senso
aspettare il loro turno e cercare di rispondere al poker di assi che
Ghecis gli
avrebbe piazzato, non che se ne sorprendessero più di tanto
adesso.
«Ragazze,
che facciamo…»
Catlina si
sforzò di sollevare la testa ma ripiombò sul
materasso dalle
vertigini causatele ancora dalle medicine.
«Vado
io, tanto non ci perdo niente.»
L’aspirante
Allenatrice di Tipo Drago si rigirò le maniche,
l’intestino si
smosse nonostante fosse vuoto, spiazzato quanto la sua mente dallo
stress e
dalla stanchezza. Non aveva altra scelta.
Acromio
l’avrebbe ridicolizzata come solo lui sapeva fare, la folla
avrebbe
provato imbarazzo trasversale finché suo nonno, il cui
giudizio contava quanto
tutti i Capipalestra della regione messi insieme, le avrebbe dato il
colpo di
grazia.
«No,
scordatelo.» Solo con la punta delle dita la
sfiorò Camilla ed il
muscolo del collo le fece un male assurdo.
«Sì,
ma, scusa…»
Malissimo.
Pareva insicura, pure. Del suo alibi, il giudice avrebbe ridotto
uno straccio e ci si sarebbe pulito le suole.
«Iris,
stai battendo i denti. Hai freddo?»
Credeva di star
guardando la compagna, eppure non stava focalizzando nulla,
pur vedendoci perfettamente non discerneva alcuna forma, ogni oggetto
sembrava
piatto e privo di senso come in un quadro astratto. I pochi lampi di
visioni
oniriche, talmente transienti da non avere neppure la lunghezza per
chiamarsi “sogni”
delle tre ore circa in cui alla stessa maniera non poteva dire di aver
“dormito”, irrompevano nel suo campo visivo.
Iris aveva
rimandato tale considerazione, troppo presa a badare ai propri
tormenti emotivi che spuntavano come bambini malformi, urlanti, usciti
da
chissà quale bolgia e che si moltiplicavano per mitosi.
Con il suo
spirito sfiduciato e il suo aspetto miserevole stava obbligando
Camilla a fare esattamente quello che le aveva proibito,
l’unica cosa che
voleva da lei; aveva violato il loro accordo privato. Ieri si era
offerta per
provare la propria superiorità, oggi per assoluta mancanza
di amor proprio.
C’erano
quaranta gradi lì dentro. C’era una ragazza con un
cuore pieno di
bontà ed una reputazione immacolata, rovinata
dall’affezione per la sua zazzera
viola e le sue promesse fatte in un tempo troppo felice per essere
lucide.
Dopo il video di
Acromio, la sgridata di Aristide e la tortura del Team
Plasma, lei aveva ancora freddo?
Iris si
odiò come mai in vita sua. Aveva ufficialmente abbassato la
testa e
detto “sì”, buttando via il suo orgoglio
personale. Abbassò la voce, non perché
non ci credesse abbastanza, ma affinché le spie con le
cuffiette non sentissero
una bella scossa sui timpani e poca soddisfazione nelle loro tattiche
autoritarie.
Del resto, la
sua non era più tortura per estrapolarle informazioni: era
una vera e propria punizione. La sua riconversione sponsorizzata dallo
Stato
era cominciata in quella mezz’ora.
«Nessuno
ti obbliga, se non te la senti. - Camilla si era già girata
–
Anemone, so che è brutto da chiederti,
ma…»
Si trattenne dal
piantare un pugnale nella bara, non rimproverare la rossa
per quello che avrebbe definito un comportamento infantile in qualsiasi
occasione le dimostrò che la sua soglia di tolleranza si era
notevolmente
abbassata.
Dopo aver
attirato l’attenzione di tutte gettandosi sul lato con un
guaito
gutturale, la giovane aviatrice stette immobile per qualche secondo,
abbandonando i graffiti incomprensibili aggiunti da lei sul muro: erano
leggermente più comprensibili di quelli della bionda, ma il
fatto che alle
lettere latine si aggiungessero pure i numeri aggiungeva un nuovo
strato di
complessità all’enigma per decriptarli.
«No,
Camilla, vai avanti. – La sua voce rimbombò
all’interno dei palmi con
cui si copriva la faccia e la bocca – Sai che io vivo per
essere uno scudo
umano, non aspettavo altro…»
«Per
favore, comportati da adulta. Nessuno ci guadagna niente qui. Non
essere egoista e…»
«Camilla,
non la provocare, fai un piacere. – La riprese la sub-leader
–
Quella ti stacca un braccio se le gira male.»
«Per
favore. – La Campionessa si passò le unghie fra i
capelli, uno strato
di forfora finì per annidarsi sotto di esse.
L’ultimo bicchiere davvero digeribile
che la sua gola ricordasse risaliva a due giorni prima, quindi apparve
più
stanca di quanto qualsiasi sessione di allenamento prolungato
l’avesse mai resa
– Arrivare a minacciarmi con la
violenza…»
Con un salto dal
dislivello di circa un metro e mezzo dal letto superiore,
la ragazza affrontò direttamente la leader, non la
sfiorò neppure ma la mise al
corrente di possedere almeno il doppio della sua massa muscolare, in
caso il
suo piedistallo dorato l’avesse abbagliata a tal punto da
usare lei come
diversivo temporaneo.
Innanzitutto,
lei non era una Poke-bambola da tirare al nemico per fuggire.
«Però
ti farebbe bene, vista la situazione, leader.»
«Puoi
anche non rubare le frasi fatte alla tua ragazza, che ha già
dato per
te, in caso non te ne fossi accorta.»
In aggiunta,
Camilla poteva anche smetterla di fingere di avere la
situazione sotto controllo, quando non aveva neppure i sotto controllo
suoi
panni sporchi esposti a quattro, non centomila, non duecento, quattro
persone.
«…almeno
io rubo da una persona sola, tu quado hai intenzione di dire alla
tua amante narcolettica che la tradisci con la tua piccola cotta al
limite
della legalità, ah?»
A parte Camelia,
che stava gridando le proprie risate fino a sentir male
alle narici (un po’ si dispiaceva di non averci pensato per
prima a questa
imperdonabile gaffe, però era così dannatamente
azzeccata! Per essere i due
giorni peggiori della sua vita stava ridendo fin troppo, non era una
cosa da
persone sane), le altre assunsero facce di piombo ed aspettarono mute
il
prossimo processo.
Tanto cinque
minuti dopo essersi sganasciata, l’isteria aveva esaurito le
ultime risorse di energia rimastele in corpo; e la mora svenne per un
calo di
zuccheri. Quando provarono a rianimarla le insultò pure.
Sperando il
tempo dell’attesa fosse abbastanza lungo da permetterle di
schiacciare un pisolino prima di dover stare a sentire la rossa
blaterare per
un’ora e mezza qualcosa riguardo alle ingiustizie economiche
della regione o
qualche altro tema di cui a lei non poteva importar di meno, strinse il
naso
cercando sussidio nella poca lucidità mentale rimastale.
«Eeeeh…?
No, aspetta… no, cosa, cosa… Cos…
Boh, capito
niente.»
Reclinando il
capo all’indietro e abbandonando la testa alla
gravità, Iris
emanò un sospiro smorzato, il coccige non lo sentiva
più passando dallo star distesa
sul letto coriaceo allo star seduta sul legno duro.
Neppure lei
aveva mai così tanta ansia da palcoscenico:
com’è che Anemone
prendeva sempre il massimo dei voti alle interrogazioni? A cena, suo
nonno
aveva raccontato loro questo e ci aveva messo in gioco il suo orgoglio.
«Dovrebbe
essere grata al nostro lavoro, signorina.»
La rossa strinse
le labbra, da dietro i ciuffi appiccicati in punte
carminio contorse tutti gli oltre cento muscoli facciali per riprodurre
l’espressione più rilassata ed insospettabile che
le riuscisse; per fortuna al
team non era venuto in mente di adoperarla, perché la
macchina della verità
l’avrebbe smascherata immediatamente.
«Lo
stiamo facendo per il tuo bene, sappilo.»
Se davvero
gliene importava tanto da crearci un portfolio strabordante di
carta lucida con firme di esperti del settore, fra cui logopedisti,
fisiologi
e, non osò crederci, assistenti sociali, come mai glielo
mostravano solo
adesso? Quanti soldi risparmiati, al posto di farsi in giro per le sale
di
psicoterapeuti in tutto l’ovest della regione! La giovane
pensò ciò mentre si
grattava il padiglione auricolare.
«…è
stata dura, eh? Venir tirata su prima in orfanotrofio, poi in
condizioni di difficoltà economica.»
Subito riconobbe
la tattica di adescamento, ossia il fingere di compatirla.
Non glielo disse nemmeno con sincera pietà.
«Sì…
- La rossa aveva girato la testa e la sua voce non raggiungeva nemmeno
il microfono - …dura.»
«Tutto
questo bagaglio che ti trascini dietro… - Acromio
puntò al fascicolo
– Disturbi dell’umore, difficoltà a
relazionarsi con gli altri, il continuo desiderio
di distaccarsi dal mondo: hai mai pensato di chiedere aiuto?
Ovviamente, non
parlo solo di te. L’uomo che ti ha cresciuto, non si
è mai chiesto cosa ci
fosse che non andava?»
Assecondando
l’ingenuità di quell’affermazione, ne
estrapolò che il suo
vecchio si fosse semplicemente arreso all’idea di sostituire
tutte le
componenti malfunzionanti di lei, che forse sarebbe stato meglio
buttare via
direttamente l’intero prodotto. Peccato che la sua adozione
non fosse venuta
con una garanzia di qualità.
Si
sgranchì le spalle, guardandosi circospetta intorno: le
occhiate dei
presenti la intimorivano senza motivo, conosceva bene quel sentore di
disagio,
come se ogni persona del mondo non vedesse l’ora di
raccontare al proprio
vicino “ehi, l’hai vista quella?”. Era la
ragione per cui non comprava mai
manga in edizione cartacea se non su internet e pure quando li leggeva
in
pubblico li nascondeva dietro i manuali dei corsi
d’aggiornamento.
«…non
lo so.»
Nessuno la
mandò giù, una risposta deprimente come un rigore
mancato per la
squadra in svantaggio.
Nel mentre, al
professore scappò di nuovo quella risatina effemminata,
quella che alle donne viene nei momenti in cui la situazione prende la
piega
desiderata e tale risultato sembra loro un colpo di fortuna, quando si
tratta
invece di una forzatura prevedibilissima, frutto di macchinazioni
puntigliose
con un risultato biunivoco.
«Bene,
dai. Direi che è il momento di leggere un attimino le prove
forniteci dal contributo prezioso dal nostro gruppo di Sondaggio
Periscopico di
Interni Anti-Rivolta di Emergenza.»
«…S.P.I.A.R.E?»
La giovane
voltò la prima pagina, non riconoscendo nemmeno la stessa
carta
usata nelle udienze delle compagne. Le appariva più che
altro come un report
sulle loro attività quotidiane: c’erano orari,
indirizzi con tanto di
coordinate geografiche e perfino aggiornamenti sui loro movimenti
virtuali
quali telefonate, messaggi ed operazioni bancarie.
«Il
dato su cui vorrei lei concentrasse la sua attenzione si trova nella
dodicesima colonna della prima sezione, sotto i registri con la voce
“R.A.”.
Segua attentamente, per favore. Le nostre telecamere a calore hanno
rilevato
attività anomale nell’arco temporale che va dalle
ore undici quarantotto della
sera del trentuno giugno alle ore tre e diciassette dell’uno
luglio. Quello che
è stato riportato è un’alterazione al
solito programma di spostamenti, visto
che è abbastanza improbabile che mentre tutte le compagne
stessero dormendo lei
si stesse…»
«Oddio,
basta! Perché devo sempre essere io quella a cui va peggio?
Mettetemi in galera e fatela finita… Tanto non ho niente da
perderci, okay? –
Anemone affondò il naso sul tessuto
dell’uniforme e respirò l’odore di tre
giorni senza lavarsi - No, niente è
okay.»
«…e
ciò potrebbe essere relativo a molte delle implicazioni
emerse anche
nelle sedute precedenti! Il consumo di droga, per esempio. Oppure, si
potrebbe
intuire che ci fosse dietro un’attività di
prestito di denaro e i debiti
registrati siano inerenti a degli interessi molto
alti…»
Le avevano
sempre insegnato che non si interrompono gli adulti, che i dati
numerici fossero la cosa più vicina ad
un’approssimazione della realtà dei
fatti e di tenere sempre conto della posizione sociale
dell’interlocutore. Ma
chi le aveva imposto quelle regole non stava a fare altro, se non
portare acqua
al proprio mulino. Era dunque suo dovere riconfermare le istituzioni ed
i
luoghi comuni?
Oppure
c’era l’altra faccia della medaglia: quando perdeva
il controllo, la
rabbia si impossessava di lei e pur spostandosi dall’altro
estremo dello
spettro i dibattiti non riusciva a vincerli.
Non aveva mai
provato a rimanere al centro, magari l’equilibrio e la via
mediana erano lì ad aspettarla e a domandarsi come mai non
avesse mai cercato
nella moderatezza tutte le soluzioni ai suoi problemi,
perché al posto di
cercare le chiavi per aprirsi più porte si fosse affidata
tanto spesso ai pugni
e ai calci per abbatterle.
«…signorina,
il suo alibi?»
Il professore si
appoggiò al banco dove Anemone sedeva con il mento sul
dorso delle mani, come se non si aspettasse un riscontro verbale ma un
dolcetto
o, cosa che la gentilezza della giovane gli avrebbe offerto volentieri,
una
spinta per portarsi quel visetto pallido e glabro il più
lontano possibile dal
suo sguardo.
Acromio era
l’uomo meno mascolino che avesse mai visto, eppure trovava
comunque repulsivo quel calo di testosterone. Non capiva come potesse
varcare,
in fatto di aspetto e atteggiamenti, la soglia del genere ed
infastidirla in
entrambe i suoi attributi. Perfino lei non sopportava quel livello di
ambiguità
eccessiva.
«…il
mio alibi?»
S’accorse
che la leader schioccava le dita davanti a lei, per
risveglierà
dalla sua trance.
Il lampo di
genio che l’aveva illuminata nella battaglia contro gli
stessi emissari
del Team Plasma non poteva giungere in un momento migliore. O forse
era,
appunto, soltanto graziata dal fato e voleva in qualche modo un
riconoscimento
alla persona, un premio di consolazione per il suo ritardo intuitivo.
Non le venne
così di getto, in modo simile alla formula imparata durante
la
lezione di fisica, giusto perché a quell’ora era
l’unica studentessa attenta in
classe e sperava che qualche sua compagna carina le domandasse gli
appunti e
lei avesse almeno una chance per fare amicizia con qualcuno che vivesse
meno di
cento chilometri da Ponentopoli.
La morale della
storia fu che in vista dei test di fine semestre la più
carina della classe (gli standard di Anemone ai tempi delle superiori
non
puntavano a nulla di più arrivabile di qualcuna che sapesse
dell’esistenza di
almeno cinque serie che piacevano anche a lei) le chiese indubbiamente
di
copiare da lei per arrivare alla sufficienza e passare
l’anno, all’inizio delle
vacanze invernali voleva pure invitarla al cinema con il suo gruppetto
di
amiche popolari.
E la rossa aveva
ormai consegnato i moduli per ritirarsi dall’istituto
tecnico statale.
«Alla
fine avrà invitato un'altra ragazza con le calze fino a
metà
ginocchio, le lentiggini e gli occhiali rotondi. Lo sapevo, ci sarei
dovuta
andare comunque… se fossi venuta, non sarei qui a farmi
arrestare per spaccio
di stupefacenti.»
Non
l’aveva più rivista, ma se lo
sentiva dentro.
«Aspetta,
cosa stanno dicendo?! Io non spaccio droga! - si sovvenne di
quel piccolo particolare,
aggrottando la fronte travolta dal dubbio – Ma se
lo facessi, sai quanti
soldi potrei far su… il mio fondo “concerti e
goods annessi” ne gioverebbe
immensamente, potrei perfino pagarmi l’iscrizione al fanclub!
Oppure cambiare
finalmente le pale delle turbine laterali… Che staranno
senza
olio per un bel po’…»
«Signorina
Reyez!»
«Giusto,
giusto! Alibi, alibi…»
Tornò
sui suoi passi: si concesse di dargli un altro po’
l’impressione di
essere un’idiota, giusto per guadagnare tempo.
«Sa
che cosa significa la parola “alibi”,
almeno?»
La ragazza si
portò i fogli davanti agli occhi, ma rialzò li
subito non
appena individuarono l’informazione che le serviva.
Si
sentì leggermente in colpa. Tale dato non era una cosa che
doveva
ricordarle il segretario di un’organizzazione criminale, era
qualcosa che si
sarebbe dovuta tatuare sul braccio, far incidere su un anello o
quantomeno
segnarsi sull’agenda del cellulare, se proprio la memoria non
voleva adiuvarla.
«Anche
che io spacciassi… di sicuro non lo farei la sera fra
l’ultimo di
giugno e il primo di luglio.»
Nei numeri
c’era per davvero la chiave per risolvere
quell’intrigo,
dopotutto.
«Mi
scusi, ma è impossibile che io mi fossi immessa in questi
affari
loschi, nel tempo da lei citato.»
«Ah,
dice?» Acromio la incalzò.
L’aviatrice
diede segno d’esser pronta deglutendo, osservando nessuno in
particolare nella platea: vendere stupefacenti, guardare una nuova
serie appena
sottotitolata, volare intorno al mondo su un tappeto magico, per queste
e molte
altre attività strabilianti non avrebbe mai rinunciato al
luogo e l’atmosfera
di quella notte.
«…io
ero a limonare con Camelia quella sera.»
Si dispiacque di
aver formulato il proprio pensiero in maniera così poco
elaborata. Sembrava che le fosse importato di quella serata solo dal
momento in
cui fra di loro ci fosse stato un contatto fisico. Invece, anche le
avessero
dato il potere di viaggiare nel tempo, non avrebbe alterato un singolo
dettaglio di come lei (o la sua ragazza?) aveva confessato il suo amore.
La top model
più famosa di Unima aveva scavato a mani nude sotto la
crosta
di scuse e di bugie sotto cui Anemone si nascondeva, aveva
dissotterrato il suo
vero io e, mostrandoglielo dai suoi palmi bianchi ed eterei, che non
c’era
nulla di cui avere paura; era tutto a posto, era solo il suo primo
amore.
Le aveva gridato
contro, l’aveva odiata sentendosi rinfacciare la propria
ipocrisia e le aveva somministrato la pillola decisiva. Quando le due
si erano
rivestite, tornando nei loro letti, la Capopalestra si era stretta
nelle
coperte, come se quel magnifico momento potesse sfuggirle dalle mani.
Era valso
la pena ferirsi, avevano vinto entrambi quella battaglia; la tensione
sessuale
aveva messo k.o. tutte e due, la bellezza insormontabile
l’una dell’altra.
«Quella
sera ero impegnata con…»
Non avrebbe mai
sovrascritto al loro approccio nell’onsen altri spaccati
dalla loro relazione neonata. Finiti gli allenamenti, quando lei e la
mora si
appartavano e quella le proponeva di riprovare a baciarsi, Camelia le
perdonava
a malapena errori come il morderle un labbro per sbaglio o il
liquefarle il
rossetto con la saliva.
Come pensava, il
periodo di prova era finito. La versione completa di una
storia d’amore richiede impegno. In quel processo, aveva
carta bianca per
dimostrare di aver padroneggiato ciò che serve per una
relazione matura.
Ma una saetta,
proveniente da sotto gli occhiali del giudice e massima
autorità civile e morale della regione, la
abbagliò; strinse gli occhi azzurri
e la sua ambizione le si rovesciò dolorosamente nel fegato.
«…quella
sera ero con…
Un…
uhm… eeeh….
…partner.»
Ad un
Capopalestra andò l’acqua di traverso e la tosse
rumorosa rese il
tutto il triplo dell’imbarazzo generale.
Ma del resto,
che cos’altro poteva fare, la giovane sfortunata? Se fosse
stata in grado di reggerne il peso, avrebbe come sempre tenuto a cuore
l’amicizia, e anche quel qualcosa in più, che la
legava non solo al suo
“partner”, ma alle sue compagne. In quella seduta
tuttavia, non riusciva a
trasmetterla, per via della cieca follia egoista procuratale da troppi
fattori.
Anemone avrebbe
voluto rimangiarsi tutto, fare un reset completo.
Quindi era
questo il suo disturbo della personalità, in tutto il suo
intricato e disastroso fascino? Voleva farsi vedere da Acromio, dalla
Lega e
dal mondo come una brava ragazza, finché lei aveva la
certezza di esserlo,
perché? Perché di sì, lei era la
nipote prediletta, la studentessa modello,
l’instancabile lavoratrice, l’amica incorruttibile.
Ma
l’idea di subire del male a costo di difendere quel titolo
non la allettava
da un bel pezzo. Il Team Plasma l’aveva praticamente
già molestata una volta,
non le serviva il bis della stessa orribile sensazione.
Aveva imparato
il concetto di rispetto da piccola. Si era ormai
abbandonata, lasciata andare al proprio perfezionismo.
«Ah,
capito, capito, capito! – il professore disse – E
da quanto state
insieme?»
«Due
mesi.»
«Voglio
andare via da qui...»
Non erano
esattamente sessantuno giorni su sessantuno, ma non si sentì
tanto male per quell’approssimazione: almeno non avrebbe
dovuto passare il suo
mesiversario in un centro di riabilitazione e riorientamento, come
invece
sentiva sarebbe successo ad Iris, purtroppo per lei.
«E
come mai nessuna delle altre Allenatrici sapeva di questo
affare?»
«Abbiamo
una regola nostra, che non si parla delle nostre relazioni, per
non distrarci dagli allenamenti del torneo.»
«Uh,
lasciami in pace… lo so che lo sai, prof.»
Aveva previsto
un esito terribile per il proprio processo, ma di venire incastrata
dalle sue stesse parole le sembrava un trucchetto troppo scontato: non
solo ci
faceva la figura della bugiarda, ma pure dell’idiota.
Dieci anni da
quel processo, il suo caso sarebbe andato a finire in un
manuale di pedagogia infantile nella sezione sullo sviluppo ormonale
corretto.
O peggio, nei volantini di propaganda ultra-conservatrice, un esempio
di
redenzione all’ultimo minuto di un’anima perduta
nel peccato di lussuria e
sodomia.
«Beh,
allora ci siamo preoccupati per niente! Che gran sollievo, dico
bene?»
Segno di
gratitudine a chissà quale idolo falso il professore
venerasse, un
battito di mani riecheggiò nella sala e la colla che
sigillava la bocca dei
presenti si sciolse, facendoli ingaggiare nelle loro solite ciance,
fuoriuscenti imperterrite come un rigurgito. Solo nella primissima fila
ci fu
un silenzio mortificante.
«…sì.»
Gli rispose l’accusata.
«L’ho
giudicata male, devo ammetterlo. – L’uomo si
grattò il mento glabro –
L’apparenza, sa? Tutta colpa di quei capelli
rossi… un nero, una tinta chiara
chiara, pensaci su un attimo se hai tempo, magari. Sottotono
è sempre il
meglio, secondo me.»
«Ha
ragione.»
Per quanto il
suo cervello fosse in fase di rifiuto più totale, qualche
cellula malfunzionante le fece immaginare una scena momentanea in cui
le sue
ciocche scarlatte si spegnevano sotto uno strato corvino,
finché l’ultimo pelo
naturale che le rimaneva veniva alterato e allo specchio si rifletteva
un’altra
ragazza, non lei.
Forse costei
sarebbe stata la nipote prediletta, la studentessa modello,
l’instancabile lavoratrice, l’amica incorruttibile.
«Ricominciamo
da capo, allora? Hai delle cose interessanti da dire, ne sono
sicuro.»
«O-Okay.»
«Sai,
visto che ti dimostri collaborativa, a differenza di altre, potrai
avere vantaggi anche a partire da oggi! Suppongo che anche alle tue
amiche
piacerebbe farsi una doccia calda, un pasto più sostanzioso
o un cuscino più
morbido… ma si sono giocate la loro chance, peggio per loro.
E poi,
c’è sempre la possibilità di una
riduzione della pena…
Ah, e lo sapeva
che il Team Plasma implementerà un sistema di aiuti
economici per le famiglie in difficoltà? Bonus per la
cultura, opportunità di
reintegrazione nella società, eccetera
eccetera…»
«La
ringrazio.»
Anemone si
sentì quasi di gridare, tant’era sotto pressione.
Preferiva
quando le imponevano dall’alto di fare le cose, era meno
faticoso che scegliere
da sola e doversi addossare i contraccolpi.
Voleva scegliere
la via più semplice, per quello doveva farsi forte. Voleva
soltanto sapere quanto ancora doveva farsi forte pur di essere felice.
Fu sorpresa
nello scoprire di aver migliorato la sua posticcia faccia
contenta. Pareva davvero che le parole del giudice, invece di
instillarle puro
panico avessero avuto un effetto placebo su di lei, ora che gli aveva
detto
cosa volevano sentirsi dire.
Ma che per
favore, non le chiedessero di ripetere quanto aveva detto.
Poteva invece
raccontargli delle altre buone azioni che aveva svolto in
quegli ultimi due mesi; e fra le novantanove che in media si sarebbe
inventata,
alla centesima si sarebbe potuta sentire una totale traditrice.
«Appena
finito gli chiedo di mandarmi in una prigione solo femminile e se
è
vero quello che si dice delle prigioni, io ho ufficialmente vinto il
jackpot.
Camilla? Ritirati, per favor… ah, no, non ce
n’è bisogno. – Le venne un
déjà-vu, non che se ne accorse
o ne esplorasse il contenuto - Visto cosa succede a
specializzarsi nelle
materie umanistiche, tipo archeologia, mitologia… quello che
è, e non in quelle
scientifiche: niente soldi, niente lavoro e niente fidanz…
Partner,
giusto.»
«Obiezione,
vostro onore!»
Il suo monologo
interiore, che avrebbe visto benissimo in bocca al cattivo
di una campagna scadente di un gioco di ruolo che prova troppo a farsi
notare
dagli altri paladini, non riuscì a toccare nessuna delle
fantasie a cui si
sarebbe voluta abbandonare prima che il tremendo sentore tornasse a
infastidirla.
Acromio
fulminò il primo banco come se dalle pupille gli fosse
uscito non
un Braciere, un Incendio.
«Signorina
Calfuray!»
Intanto anche
lei percepì come d’aver già vissuto
quella situazione, in qualche
modo.
«Anemone
sta mentendo! - La ragazzina era balzata in piedi subito come suo
solito, ma già si era chinata per chiedere un consiglio
tattico alla leader –
Eh?! ”Vostro onore” è sbagliato?
– E mentre quella annuiva in apprensione –
Okay, ma allora perché non correggono i film? Mica
è colpa mia se imparo
sbagliato.»
«Fosse
quello! Andare ad obiettare la tua stessa parte… -
L’uomo si girò
dalla parte dei Capipalestra – Aristide. Lei è un
uomo santo, santo, dico. Uh…
non è servita la lezione dell’ultima volta?
Incorreggibile…»
La
più giovane fu per una seconda volta parzialmente
d’accordo con il prof.
Non ne sapeva nulla di politica, di finanza e di legge.
Ma una frase del
genere “a me non interessano i ragazzi” poteva
venir
pronunciata solo da un tipo di persona: una che di sicuro non ha
trovato un
fidanzato a distanza di tre settimane dall’averla
pronunciata. Tale menzogna la
riempì di rabbia.
«Anemone
è lesbica fino al midollo. Non si metterebbe con un maschio
neanche pagata, glielo posso assicurare.»
«Signorina…
questo non è il momenti per scherzare su queste
cose.»
Non che al Team
importasse granché delle preferenze amorose dei suoi
nemici: almeno su quello non stavano zuccherando la loro policy. Uno
può
desiderare quello che vuole nel suo cuore, a patto che lasciasse un
cantuccio
speciale per Ghecis Harmonia e i suoi adorabili progetti riguardanti il
togliere potere alle persone comuni. Poi costui si spostava dal suo
spazietto
ridotto direttamente nell’epicentro.
In
realtà, occultare le prove concrete non stava aiutando la
giovane
pilota. Nonostante avesse svariate volte dubitato della
stabilità del legame
fra le due Capopalestra, Iris non voleva vedere la sua migliore amica
distruggere
le sottili radici sorte sul terreno del suo primo vero innamoramento.
Fare ciò
equivaleva ad autodistruggersi.
«Non
scherzo, lei vi sta dando corda solo perché le mettete
pressione. –
Incrociò le braccia e guardò la rossa negli occhi
– Pure suo nonno lo sa! – E si
girò verso l’anziano Domadraghi – Quando
glielo abbiamo detto le ha fatto i
complimenti e ci ha offerto il gelato. E un coupon per spedizioni al di
sopra
dei 5 chili.»
«Puoi
provarlo in qualche modo?»
«N-No,
come si fa a provare che una persona è
gay…»
«Allora
ti conviene tacere. – Il professore credeva di aver mandato
in
porto un’altra argomentazione, ma la ragazzina rimaneva
più allibita dalla
mancanza di tatto nei confronti dell’argomento per prenderla
sul personale.
Quello poi si rivolse alla sua imputata preferita – Anemone,
cara mia, questo
blaterare non ti concerne affatto, vero?»
«Ecco,
l’ha detto! Hai sentito? L’ha chiamata
“cara”. – Catlina stava
sussurrando all’orecchio della leader - Adesso lei si alza e
lo pesta di botte.
Gli spacca gli occhiali sul naso e poi glieli fa ingoiare.»
«Ti
piacerebbe succedesse, vero?»
La Superquattro
annuì compiaciuta. La violenza fisica la odiava, ma perfino
i pochi neuroni rimasti accesi le suggerivano che Anemone, onesta e
buona qual
era, avrebbe posto fine alla sua sceneggiata in quel momento.
La rossa si
sgranchì le spalle, con uno scrocchio rumoroso si rimise
seduta
in posizione eretta.
«Non
ho idea di che cosa stia dicendo, professore.»
Quando si
reclinò indietro, presa dal rimorso, la platea si mise a
parlottare, ma da davanti a lei venivano le voci più
dilanianti.
«Iris,
scusami.»
Camilla
guardò le altre, confusa ma allo stesso tempo disgustata.
Più di
quando avevano tentato di trascinarla via a forza, si sentiva estranea
al
gruppo.
Non ci credeva
che in tre mesi si sarebbe potuta costruire una solida
amicizia fra di loro, ma dopo già un mese ecco solide
fondamenta, da lì
avrebbero soltanto potuto puntare al cielo e raggiungere le nuvole
tutte
assieme.
Ma la sua
falsità, avevano inghiottito il loro mondo come sabbie
mobili.
Ora lei era fuori dal gruppo, il cinque era quattro, forse tre, andando
avanti
così.
«Dopo
tutto quello che abbiamo passato… Ho fatto anche il tifo per
te
quando stavi per andartene! Perché? Perché? Tu
eri la prescelta! Dovevamo
combattere il Neo Team Plasma, non allearci con
loro…»
«Ragazze…
scusatemi. Sono una codarda. Ancora.
Forse lo
sarò per sempre.»
«Silenzio!
Silenzio! Ah, che dura gestire questo circo… Direi che qui
abbiamo quasi finito! Siamo stati velocissimi oggi. I signori
Capipalestra
hanno qualcosa da ridire?»
In
realtà molti di essi non avevano mai visto la rossa prima
d’ora o
qualora l’avessero mai scorta, non dava loro altro che
soddisfazione di non
conoscerla affatto: almeno una su due interrogate quel giorno pareva
una
ragazza a posto.
«In
tal caso, Anemone. – Acromio estrasse uno stilo elettronico
dalla tasca
del camice e lo porse alla giovane insieme al suo tablet malandato
– Prima di
lasciarti andare, perché sì –
apostrofò implicitamente le Allenatrici –
è più
che possibile evitare una sgradevole figura e l’umiliazione
di fronte a tutta
la regione, con un po’ di educazione.»
«Vi
sta mentendo! Quella ragazza è gay, le piacciono le femmine,
è palese…»
«Non
starò ad ascoltare oltre. Tornando a noi: questo modulo
richiede una
firma elettronica. Tutto qui! Poi ti lasciamo andare. Si tratta di
burocrazia,
è per riabilitarla ad allenare Pokémon,
ovviamente in armonia con le nuove
regolamentazioni stabilite dal nostro ufficio.»
Scorrendo il
contratto, lungo diverse pagine per non invogliare a farsi
leggere, la ragazza notò varie cose.
«”Divito
dell’utilizzo di Strumenti artificiali durante la
lotta”, “divieto
di conferire le Medaglie a chi ha un credito sociale basso”,
“divieto di tenere
i Pokémon dentro le Poké Ball al di fuori della
lotta”?»
Ma
più di quelle clausole ridicole, pensate ad hoc per rendere
la
professione di Allenatore un risibile passatempo, la coscienza che
prima di lei
tutti e otto gli altri Capipalestra avessero ciecamente dato la loro
approvazione… e lei si stava unendo a loro, come uno zombie
si stava facendo aggiungere
alle file dell’armata di burattini Harmonia.
Eppure, per
quanto illogico tutto ciò fosse aveva già
ingrandito la sezione
della firma, per evitare pure una brutta calligrafia. Tutto questo,
solo poiché
non aveva avuto il coraggio di ammettere l’ovvio, quello che
Iris e le sue
compagne sapevano ma che lei ancora era indugiante a rivelare al
pubblico.
Sebbene la sua
farsa le avrebbe permesso di essere l’unica a rivedere la
luce del sole estivo, si sentiva già in gabbia, in una cella
buia in cui nemmeno
la sua ombra poteva darle idea di cosa avesse lasciato morire con le
sue stesse
parole.
Intanto che
inseriva i suoi dati personali, Acromio
s’appropinquò
all’orecchio di lei e tentò di bisbigliare
qualcosa, se non fosse stato che il
microfono era ancora acceso e la sua voce acuta non era facile da
ignorare.
«Ma
senta… questo “partner”… - e
si eccitò fin troppo perché fosse decoroso
per un uomo adulto – è un po’ vaga come
definizione… Non vorrei mai mettere il
carro davanti ai buoi, ma Arceus solo sa quella sua fastidiosissima
amichetta
dalla testolina bucata mi ha messo una pulce
nell’orecchio.»
«Professore,
le chiedo per favore – La Campionessa di Sinnoh
seguì lo
stesso rituale di chi voleva esprimersi, come quando la chiamavano a
leggere un
brano di antologia in classe – mi dia una
possibilità per capire un po’ cosa
c’è sotto questo “partner”. Ho
un’idea che vorrei provare.»
«Ah…
E chi le ferma più adesso… A questo punto, non
che tu possa farci
molto, signorina Camilla…»
«Campionessa
Kuroi!»
«…la
scena è tutta sua.»
E si fece da
parte. La donna sorrise per la sua piccola conquista ed
iniziò.
«Buongiorno,
di nuovo. – Fece un inchino, ricordando di essere ormai
condannata ed odiata pressocché da tutti là
dentro – Volevo capire meglio,
questa cosa del partner, no? Riprendo quello che ha detto Iris, e
allora, ciò
che volevo chiederti è:
se dovessi
scegliere una ragazza fra di noi quattro, chi sceglieresti?»
Acromio si prese
la tempia e scosse la testa, ma con una placida
costernazione, quale si manifesta sentendo una battuta pessima o
assistendo
alla figuraccia di un compare. La rossa aveva manifestato un certo
disagio, non
da lei visto quanto fremeva indicando tutte le idol o le perfino le
passanti
per la strada.
«Camilla,
cosa stai dicendo? – Fece la finta tonta, atteggiamento che
non
le si addiceva per nulla, visto come mostrava i denti in quel sorriso
terrorizzato – Io sono, ehm, eterosessuale, come sai
benissimo.»
«Infatti,
- la prese in contropiede, psicologia inversa – ho detto
“se
dovessi”… Pensa ipoteticamente, se proprio ti
costringessero. Fai finta di
essere quello che non sei, ossia gay, in questa situazione.»
Dalla platea si
manifestò un ululo di interesse; una dimostrazione per
assurdo nell’aula di tribunale li avrebbe tenuti sulle spine,
dovevano
scervellarsi pure loro. Il gioco stava diventando interattivo.
«Okay,
se proprio mi tocca… - rifletté giusto il tempo
di preparare la
battuta - Di sicuro, non te, Camilla.»
Qualcuno si era
già messo a ridacchiare, ma l’inquisitrice non
demorse e la
prese con sportività.
«Perché?
Su, vogliamo sapere.»
«Perché?
Sei perfetta, di viso, di corpo e di aspetto in generale, ma non
sai impegnarti seriamente… - le venne in mente
l’accusa di infedeltà lanciatale
un’ora prima – E sei troppo accondiscendente. Ah, e
hai dei gusti musicali
schifosi: ti credi alternativa, ad ascoltare heavy e black metal a
vent’anni?»
«Capito,
okay. – L’indifferenza della bionda le permise di
proseguire con
la sua tattica – E Catlina?»
La potenziale
candidata si guardò intorno spaventata, come se si fosse
svegliata e ritrovata in sala come in un brutto sogno, quelli dove ci
si trova
in mutande in uno spazio pubblico della propria quotidianità.
«Eh,
più o meno la stessa storia… Ha stile e poi,
diciamocelo, è piena di
soldi. Ma cosa faremmo insieme? Non abbiamo interessi in comune. Non
posso
neppure portarla in aereo con me, rischia di svenirmi addosso o di
crepare,
come minimo e io i danni non glieli risarcisco.»
«Anche
io ti voglio bene.» Le sussurrò la giovane
aristocratica, facendo il
segno tondo di concordo con pollice e indice.
Ormai, avendo
capito le regole, Anemone si portò al punto successivo,
precedendo la leader nell’esposizione.
«No,
neanche morta! N-Nel senso, è la persona più
dolce, simpatica e la
migliore compagna di dance cover che esista sul suolo di
Unima… Ma a quindici
anni sei ancora una bambina! Dai, è troppo presto, ma magari
se passassero un
po’ di anni, e-e se fosse un maschio…»
«Va
bene, okay, chiaro.»
La rossa, che
aveva finora avanzato in maniera così brillantemente
neutrale
fra l’appagare la sete di approvazione del prof e il
mantenere uno stato di
fredda distanza dalle sue ex-compagne, si resse al bracciolo della
sedia, le
mancò il pavimento sotto ai piedi.
No.
Camilla non
poteva odiarla fino a quel punto.
Certo, le aveva
promesso botte assicurate in un futuro non troppo
imminente, ma se stava davvero per toccare quel tasto, almeno poteva
smetterla
di sorriderle in maniera così innocentemente sadica.
«Ma…
- stette un paio di secondi a trascinarsi la vocale e la
addolcì di
veleno caramellato – Camelia? Eh? Neppure lei ti piacerebbe,
giusto?»
«Niente
panico, sono arrivata fin qui con le mie cavolate, possiamo anche
toccare il fondo, scavare fino ad arrivare al centro della Terra e
farci un
bagno di magma.»
«Esattamente.»
«Woah.
– Quando l’aviatrice non le rispose la
incalzò con ancora più
veemenza – E cosa non ti piace di lei? Tutto,
immagino.»
«Ovviamente!
– Catlina comprese al volo, e non chiese nemmeno il permesso
di intervenire da quanto moriva dalla voglia di vedere dove le avrebbe
trascinate quella catastrofe di un processo – Sono opposti
totali, loro due. Quando
si sono incontrate per la primissima volta si stavano già
per linciare vive a
vicenda.»
«Dai,
buttaci un po’ le “dieci ragioni per cui non mi
metterei con Camelia
Taylor nemmeno se mi puntassero un Iper Raggio alla testa”!
Non so voi, ma io
sono super-curiosa.»
Iris si mise a
sedere a gambe incrociate sul banco, come se le stessero per
versare nella tazza il gossip più succoso della stagione, un
tè bollente e
ricco di sapore nella già torrida estate di
quell’anno.
«Se mi
date l’onore di iniziare, suggerirei di partire con le sue
brutte
intenzioni, la maleducazione e la brutta figura di ieri
sera…»
Acromio si
sfregò le mani per l’entusiasmo. Se si trattava di
seminare
zizzania, non poteva mancare alla festa, doveva addirittura aprire le
danze.
Un terremoto, un
tuono, un incendio, una lavata di testa alle sei del
mattino da parte del suo capo, quali di questi faceva più
terrore alla rossa?
In realtà la più tremenda era lei. Poteva ancora
tirare il freno a mano ed
evitare il crescendo di assurdità che stava accumulando fino
a crearci una
scala dritta dritta verso l’Olimpo delle stupidità.
Comunque lei
sapeva di non star dicendo il vero e lo sapevano le sue
compagne e soprattutto lo sapeva la sua ragazza, che come suo solito
non si
stava facendo per nulla trasportare, salda nel suo stoicismo, dalle
pagliacciate delle altre. Stava semplicemente lì a guardarla
e negli occhi
poteva leggerle così tanti segnali da non riuscire nemmeno
ad interpretarli,
come quando l’avevano intrappolata nel loro vortice di
emozioni nel garage e
aveva dovuto aspettare di giungere sull’orlo del precipizio
per scioglierne
l’enigma.
«Camelia,
amore mio, scusami… Scusami, scusami, scusami, scusami,
scusami, scusami,
ah, no, dire “scusa” la fa imbestialire, non so
essere una brava fidanzata
nemmeno nei miei filmini mentali, uh…»
Alla fine, senza
alcun preavviso, qualcosa la colpì.
La
lasciò stordita, visto che la fece riemergere con la testa
dalla foce di
insanità nella quale stava raschiando il fondale, aspettando
di venire
spiaccicata da metri cubi di idiozie, prese una boccata di buon senso
ma col
risultato di uscirne ancora più fradicia di quando
s’era tuffata.
Questo per dire
che se a venirle contro fosse stata un’altra ideona o un
nobile sentimento, non si sarebbe immediatamente chinata in preda al
dolore.
Bastoni e pietre potevano spezzarle le ossa, ma le parole, le opinioni
e le
voci di corridoio non le avrebbero mai fatto nulla.
E non le
avrebbero nemmeno fatto sanguinare una narice, costringendola a
pulirsi con la mano il sangue colante fino al labbro superiore,
perché quello
che le era stato lanciato contro, con ovvio intento di colpirla fra
l’altro,
era una scarpa mezza rattoppata dalla suola dura e pure incrostata di
minuscoli
sassolini, andatisi a stampare sul volto della giovane aviatrice.
Tirò
su con il naso, il liquido ematico misto al muco le bloccò
il flusso
d’aria e tutto le si riversò nella bocca,
facendole assaggiare quanto schifo
facessero le sue affermazioni, e dopo aver coinvolto gusto, odorato e
la vista
udì il cielo sbragarsi, lo stesso fulmine che
l’aveva incenerita ricordandole
di essere un’ipocrita, perlopiù con addosso
vestiti di seconda mano.
«Che
bastarda che sei.»
Perfino
indossando la stessa uniforme di Camelia, la sua pareva un pezzo di
alta moda, quei capi che vedeva nelle sfilate o nelle riviste dei duty
free e
si arrendeva a capirne il fascino; le stava stretta sui fianchi e
scendeva in
stile baggy, senza nessun ritocco di sartoria.
La mora si
alzò con la sua calma, mentre tutti si erano già
prevenuti con
le mani sopra la testa, il giudice era balzato all’indietro
gridando come una
cortigiana dell’Ottocento che vede un ratto, dal grido
strizzato dal bustino.
Come se
l’intero auditorio fosse scomparso e nell’intero
universo fossero
rimaste solo loro due: l’esercito di mostri che la
più giovane delle due
Capopalestra non solo appariva di troppo, intorpidendo il loro spazio
sacro,
l’essere in sovrannumero con così tanti peccati le
ricordò come l’altra si
fosse fatta arrestare ufficialmente, ma appariva pulita ed innocente.
Lei, a
differenza sua, aveva l’anima nera, o verde, dopo i
versamenti promessi dal
partito per comprarsi le sue menzogne.
«Una
bastarda bugiarda. – Si passò la mano sulla
frangia, sospirò delusa e
la sentirono tutti – Ti ricordi cosa mi avevi promesso, il
primo di luglio?»
Dietro quei
profondi occhi blu c’era la verità più
dolce. Come un
incantesimo purificatore, avrebbe potuto cancellare tutto
l’odio e il
risentimento semplicemente recitandolo.
Anemone
si morse il labbro ancora
arrossato dall’epistassi, le stava per scivolare dalla lingua.
«A
prossimo intervento senza pertinenza mi vedrò costretto
a…»
Acromio
cominciò a battere furiosamente il martelletto, non
suscitando
molta autorità.
La modella gli
lanciò un sorriso di quando aveva qualcosa in mente e
avrebbe usato ogni mezzo a lei disponibile per togliersi quello sfizio.
«Hey,
prof. Quest processo andrà in diretta live, vero?»
«Certo
che sì. – Mostrò con il palmo
un’ingombrante cinepresa proprio sul
retro della stanza, nessuno vi aveva prestato attenzione, quindi il
cameraman,
un individuo alto, dal delizioso ciuffo mielato e due occhi esperti su
cosa
piace agli spettatori più insoddisfabili, le fece
“ciao” con la mano – Con gli
ascolti di ieri, sarebbe uno spreco…»
«Beh,
allora slegami un attimo. – L’assistente alla regia
sganciò le
manette – Ho un enorme annuncio da fare.»
La ragazza
salì in piedi sul banco, già slanciata di statura
com’era il
resto della gente da quell’altezza poteva calpestarlo con il
piede nudo, dalle
unghie ancora miracolosamente intatte.
«Ciao,
Unima. Vi sono mancata?»
Regalò
il suo profilo migliore alla videocamera, che i suoi occhi seguivano
come solo un’esperta del settore del commercio della propria
immagine sa fare,
e riprese.
«Questa
ragazza è lesbica marcia.» Abbassò il
microfono a cono.
«Oh!»
La folla echeggiò.
«E
anche una bugiarda, meschina senza un minimo di ritegno. –
Scagliò una
folgore con lo sguardo alla sua “partner”,
dall’alto verso il basso la squadrò
come quando ancora la sola idea di essere in sua presenza la disgustava
–
Basta, fra noi è finita.
Trovati
un’altra che stia dietro al tuo fondoschiena represso, io ho
chiuso
con te.»
Le tre compagne
sedute dietro le caviglie della giovane erano a metà fra lo
scoppiare a ridere per lo spasso di quel colpo di scena o se piangere
di aver
visto non la più appassionante, ma l’unica love
story dell’estate morire in
prima persona. E Nardo, che diceva loro di non fare i tira-e-molla come
nei
reality show!
Intanto, altri
ottanta milioni di cittadini quella sera avrebbero acceso la
tv, aspettandosi il telegiornale delle sei, i resoconti dei fatti di
cronaca
seria e invece si ritrovavano due adolescenti ed il segretario del
Partito in
teoria più autorevole a stabilire se una delle due fosse
eterosessuale o no.
«Camelia,
cosa vuoi “rompere”? Noi due non siamo mai state
insieme come una
coppia seria.»
Incrociando le
mani sotto il petto, Anemone volle prendersi gioco di se
stessa.
Se lo meritava:
adesso aveva perso tutto. La faccia, la sua integrità, le
natiche
bianche della ragazza più sexy del mondo su cui non aveva
ancora avuto
occasione di sprofondare con il viso, come aveva visto fare nei fumetti
di
dubbio gusto che leggeva quando si sentiva ribelle, a mezzanotte.
Non si sentiva
un clown, lei era l’incarnazione di un intero circo.
«Questo
perché tu non ti sforzi nemmeno di prenderla seriamente: ti
ricordi
tutti quei codici e quelle formule inutili a memoria ma… il
nostro
anniversario? Di portarmi a cena fuori? Di andare a vedere una sfilata
assieme?»
«Che
cose noiose, se tu ti diverti così… ma aspetta! -
La ragazza fece
riverberare le mani, voleva difendersi almeno da quello che sapeva
benissimo
essere irreale – ma quando mi hai mai chiesto cose del
genere? – e fece una
risatina nasale - Sono delle conversazioni speciali? A che livello le
sblocco?»
«Vedi?
Non mi ascolti mai, - enfatizzò, lettera per lettera
– mai. Per te è
tutto un “io, io, io!” Sei regredita
all’infanzia, cosa vuoi saperne di
organizzare un appuntamento…»
Avrebbero potuto
chiuderla lì, mettendoci una pietra sopra che doveva
pesare quanto pesava alla loro coscienza di essere in procinto di venir
sbattute in prigione, entrambe.
Ma anche Anemone
si alzò in piedi sul tavolo, con una sferzata azione
riuscì a rompere la catenella delle manette; portatasi
all’altezza della sua
avversaria l’avrebbe affrontata a parole.
Non le era mai
capitato prima d’ora, non che lo trovasse alcunché
divertente.
«Credo
che per te non conti nulla come “appuntamento”, se
per lo meno non
finisci a limonare con cinque uomini diversi nel bagno di una discoteca
per
ricconi mentre un sesto tizio, che tra l’altro era il tuo
vecchio stilista e
“migliore amico”, ti fa il video!»
«Tu
come sai queste cose!? Di solito sei più disconnessa di un
Interpoké in
Modalità Aereo.»
Anche se si era
liberata e con un bel balzo con propulsione delle sue gambe
lunghe avrebbe potuto giungere davanti a lei e attaccarla con un pugno
o un
calcio, la mora non si scompose. Quel dibattito stava eviscerando le
sue
freddure migliori e la faccia scombussolata della sua ex la spingeva ad
andare
avanti con sempre meno peli sulla lingua.
«Io mi
informo sulle cose di cui mi importa! Invece tu non sai nemmeno che
gusto di Conostropoli mi piaccia o qual è la mia serie
preferita …»
Provò
a giocare sulle piccole gocce che avevano fatto traboccare la loro
urna d’amore, Iris le aveva fatto da maestra in questo.
«Certo
che la so! Si chiama “preferisco dei personaggi immaginari
alla mia
relazione attuale perché sono una seccatura vivente che non
si accontenta di
nulla”.»
«Sai
cosa?» Anemone le urlò fortissimo, stanca di usare
esempi concreti.
«Eh?»
Disprezzava seriamente quell’atteggiamento di menefreghismo
della
modella, l’occhio che aveva chiuso su di esso si era aperto
come quello di un
deva illuminato.
«Mi
dai così sui nervi quando fai così!»
«Specchio
riflesso… te ne servirà uno nuovo, penso che
tutti gli specchi
che hai a casa si creperanno se non ti ricordo che colore di fondotinta
devi
usare o di metterti la crema idratante ogni sera. Veramente, chi me lo
ha fatto
fare…»
«R-Ragazze,
p-per favore… - Acromio provò a dividere le due,
ponendosi fra
i due banchi, ma notando quanto la sua interruzione stesse arruffando
le penne
alle innervosite litiganti, si coprì la testa con il tablet,
non che ora gli
importasse molto se avessero fracassato l’aggeggio. Solo, non
mirassero alla
sua biondissima, affusolata, brillante e soprattutto preziosa capoccia!
- I
vostri problemi personali non sono affare che…»
«Professore,
stia zitto.»
«Campionessa
Kuroi!»
«Queste
ragazze stanno avendo il loro primo litigio! Le lasci fare. Stanno
imparando a conoscersi a vicenda.»
«Camilla,
ora che ci penso, neanche tu mi hai mai portata fuori a bere un
tè o a fare shopping…»
«Catlina,
non è il momento ora, non si sta parlando di te.»
La biondina fece
il muso, intanto che la tempesta infuriava.
«Per
fortuna doveva essere destino! Mi hai risparmiato la fatica, ci
vediamo all’inferno!»
«Ah,
e smettila di parlare come se
fossi in uno dei tuoi anime da disadattati sociali, sei
imbarazzante…»
«Lo
farò quando mi tornerà voglia di venire
insultata, umiliata in diretta
regionale e comandata a bacchetta dalla mia ragazza!»
«Oh?!»
La sala intera
risuonò di stupore, la sottile linea che separava la giovane
aviatrice dalla pazzia era stata valicata con un carpiato. Subito
quella provò
a ricomporsi. Ma ormai la bomba era già esplosa.
«S-Scusate,
intendevo… la mia migliore amica!»
«Sei
patetica, dai.» Le arrivò dalla piccola del loro
gruppo, ormai
cosciente che le acque si fossero calmate.
Anemone si rese
conto di non aver scampo, le relazioni interpersonali non
erano il suo forte: come un filo capriccioso si intorcolavano intorno
ai suoi
piedi, la facevano camminare in punta e piroettare intorno ad un asse
che non
comprendeva nessuna delle cose in cui credeva.
Suo nonno
sarebbe stato amareggiato. Non avrebbe voluto la carità dai
tecnocrati dei sentimenti.
Avrebbe voluto
invece vedere sua nipote levarsi le sue magliette oversize
sgualcite, in favore di un bel vestito a balze ed una collana di perle,
mentre
accompagnava la sua amata per le stradine silenziose di Ponentopoli,
dopo una
bella cenetta a lume di candela.
Gli avrebbe
offerto il suo divano, potevano stare accoccolate sotto le
coperte nelle serate invernali a guardare film paurosi, per avere una
scusa
dopo per dormire nello stesso letto e consolare la prima fra le due a
fare un
brutto sogno.
«S-Sono
etero…»
«Ieri
non lo eri.»
Nessun genitore
vorrebbe vedere la propria figlia soffrire, ogni genitore
vorrebbe estirpare la radice del male dal cuore di lei e farla vivere
felice,
anche a costo di farle versare qualche fredda lacrima in aggiunta.
La rossa
ripensò a ciò che oltre ogni
materialità, lei riteneva davvero
importante.
«…di
amarci sempre, di non tradirci l’un l’altra, non
mentire e non
abbandonare l’altra, di volerci bene anche quando nessuno te
ne vorrà e non
dubitare mai della fedeltà
dell’altra…» Sussurrò.
Senza nemmeno
sbattere le ciglia, gli angoli delle palpebre si fecero
pesanti e due ruscelli cristallini, per nulla dolorosi, discesero sulle
sue
guance ambrate; non si passò nemmeno una mano per
asciugarli, la stavano
purificando.
Se
quella realizzazione, prima
avvenuta nel privato della conversazione con Fedio ed ora alla luce del
sole,
le avesse causato soltanto male, era sicura che il sorriso dolce di
Camelia e
le sue braccia aperte, pronte per reggerla in un abbraccio, non
sarebbero state
lì come ultimo raggio di speranza negli istanti precedenti
al venire
incarcerata insieme a lei.
Sarebbero state
separate da sbarre, muri e telecamere di sicurezza, ma
l’aver amato veramente almeno una volta nella loro breve
adolescenza avrebbe
attenuato ogni futuro patimento.
«Okay,
va bene, sono lesbica.»
«Yay!»
E si
gettò a capofitto in braccio alla sua fidanzata, mentre le
loro tre
compagne le fecero un applauso sentito.
Quella sfuriata
era stata un capro espiatorio geniale. La rossa si
continuava a sfocare sulla spalla dell’altra, che le batteva
la testa affettuosamente.
Aveva bisogno che quei demoni uscissero, anche se le avrebbero
inumidito
l’uniforme già sozza non le importava. Se ne
sarebbe fatta peso per lei.
Camelia aveva
vissuto senza badare alle malelingue altrui, era il momento
che anche la sua ragazza imparasse a non sopravvalutare il potere di
individui
troppo sbilanciati dall’odio per decidere il meglio per lei.
C’era
di peggio del venire discriminata per il proprio orientamento
sessuale, pensava la modella, La sua compagna però non ci
era ancora arrivata,
perché portava quel peso da sola e una volta che glielo
aveva urlato contro,
ancora, era il suo turno di portare in mano il suo fragile cuore,
finché il
Team Plasma non glielo avrebbe fatto deporre fra le sue memorie
più belle,
anche se non le sarebbe tornato indietro mai più.
«Siete
dei codardi e degli omofobi.»
Camelia
parlò con tutto il disgusto che il suo tono serpentino
potesse
incanalare, incurante della reazione del prof, ormai volenteroso di non
indire
ulteriori sedute, non prima di essersi fatto una tisana ed una
manicure.»
«Avete
fatto piangere una povera ragazza sensibile…»
«Grazie…
ti amo.» Sentì un dolce sussurro.
È un
anno a caso della prima metà del ventunesimo secolo, verso
fine
luglio.
Non sai
esattamente che giorno o che ora sia, questo perché le
autorità
possedenti una visione completa della storia tacciono questi dettagli
volutamente: Non ci sono finestre né orologi, qui dentro.
Potrebbero essere
passate tre ore come venti minuti, ma anche si trovasse un rudimentale
metodo
di calcolo in frazione della stanchezza su impazienza, non è
stato comunque
dettato alcun time up all’attesa nel limbo.
Il pasto
arriverà quando arriverà… fra tre ore
o venti ore, giù di lì.
In secondo
luogo, qua dentro fa caldo. Il caldo delle ramen’ya senza il
riciclo dell’aria, del vapore fitto e odoroso che riempie i
polmoni senza però
mai lasciarli abituarsi; il caldo delle fonderie in una fabbrica di
forni; Il
caldo del bagno bollente che lascia le grinze sulle dita, e anche
dentro la
trachea e ai bronchi, tutto si fa stantio, respirare diventa difficile.
Peggio di
respirare è solo trasportare il poco ossigeno al cervello
per
formulare pensieri coerenti. Agire senza dover sentire odore di sudore,
di
chiuso, di uova marce era di gran lunga meno impegnativo.
Ci si annoia un
sacco, senza ragionare. Non si riesce a conversare o ad
intrattenersi. Ovviamente, una buona distrazione è
rimembrare il passato,
episodi imbarazzanti, delusioni amorose, scene della vita da cancellare
e che
invece si ammucchiano lì, impuzzando ancor più
l’aria.
Come mantieni la
lucidità mentale? Ogni suono dà fastidio. Il
contatto è
sgradito a tutti.
Sopravvivi.
Piano piano. Con il decoro che bere da un secchio senza
bicchiere uno può ambire a mantenere.
«Ferma
lì, cosa stai facendo?!»
Anemone
saltò dalla sua metà di letto, le altre tre
ragazze la udirono con
prevenuto timore.
«Sto
morendo di sete. – Non seppero come leggere il rifiuto di
contatto
visivo della biondina, poteva starla provocando o voleva forse solo
fare l’insofferente
– Mi fa male la gola, ho parlato troppo.»
«Cat,
hai detto tre frasi in croce.»
La rossa
provò ad alzarla dal braccio e solamente l’arto si
sollevava. Non
capiva se quella non volesse allontanarsi da terra o le gambe le
fossero venute
meno e avrebbe dovuto lasciarla sul pavimento tutta la notte, quindi
insistette.
«Starò
benone. Non mi fa differenza il sale. Sopporto
tranquillamente.»
«Sei
finita in ambulanza per una lampadina bruciata, non contarci
troppo.»
Colei che era
seduta a terra mise le mani a coppa e non fece in tempo a
portarsi alla bocca mezzo sorso che la rossa aveva calciato con forza
il
secchio, facendolo volare contro il muro, sortendo l’effetto
di non dare
momento alla compagna di recuperare il contenitore prima che tutto il
liquido
non fosse finito in una pozzanghera nera come il catrame
sull’asfalto
diroccato.
«E tu
sei finita in carcere per evasione fiscale.»
Il reato di
negligenza è sempre un reato. Certo, se non si fosse
ritirata
dal liceo prima di cominciare il corso di economia, Anemone avrebbe
avuto da
discuterne con il giudice con più veemenza; non essere una
cima in contabilità
era meno logorante per la sua reputazione.
Alla fine, aveva
combinato soltanto di rinforzare lo stereotipo che le
lesbiche non sanno fare la matematica.
«Ah!»
«Cami,
tutto okay?»
«Non
so, un’unghia strappata conta come
“okay”? – La mora non aveva
preservato affatto la morbidezza concessale al processo – Mi
esce anche sangue…
io non ci arrivo viva alla fine di questa cosa.»
Si
lamentò e lasciò trapelare lo stesso tono
arrendevole e isterico
uscitole solo la volta della crisi in garage. Ma almeno in quel caso su
dieci
dita ogni french era al suo posto, la frangia non le graffiava le
ciglia e le
radici bionde erano state coperte per bene da uno dei parrucchieri
migliori
della sua città.
Ma piuttosto che
il suo aspetto increscioso, il fallimento dell’impresa in
cui si stava impegnando da non si sa quanto esattamente
l’aveva lasciata con la
bocca amara (non salata, almeno): la serratura non si poteva forzare.
Aveva
provato con cocci di vetro, bastoncini di metallo a mo’ di
piede di porco,
finché per disperazione aveva sacrificato l’unghia
infilandola fra le
intercapedini per far slittare il cardine. E ora aveva il pollice rosso
e
bruciante.
«Pensate
che forse – Catlina fece, dal pavimento – quando
sconteremo la
nostra pena, un giorno ci ri-incontreremo?»
Anticipare
quella domanda, destinata agli ultimi tramonti d’agosto le
fece
male al cuore.
«Perché
no? – La rossa riprese ingenuamente, dimostrando quanto i
suoi
cambi d’umore adesso fossero assimilabili a vera e propria
bipolarità – Io e la
mia ragazza vi accoglieremmo a braccia aperte!»
«…sotto
il ponte in cui ci ritroveremo a vivere, sempre se non ci ammazzano
prima.» La completò la modella, o meglio, futura
disoccupata senza molte skill
con cui rimettersi sul mercato.
«Dimmi
di no! Ho letto su internet che nelle prigioni statali una ragazza
su due viene stuprata!»
Senza neanche
storcere il naso a quel dato poco empirico, continuarono a
discutere.
«Dite
che ci manderanno tutte in una prigione diversa? A parte per Iris,
visto che suo nonno vuole riconvertirla…»
«Sinceramente,
io non farei scambio con nessuna e di dover darla vinta a
quel rachitico di Acro-coso non mi va, ma…
“terapia di riconversione”? – fece
una pausa – Poverina, mi ha fatto troppa pena. Non
è una cosa umana, questa.»
«Nel
senso: noi quattro siamo ormai perdute, delle catastrofi ambulanti,
delle perdenti patentate, delle zavorre umane… - e sorrisero
in coro, dando
tale affermazione per vera senza nessuna lamentela – ma lei
aveva ancora tutta
la vita davanti…»
«Forse
avrei dovuto essere più gentile con lei in questi
mesi…»
«Camelia,
hai detto qualcosa?»
«C-Chi?
Io? N-No…» Alzò le sopracciglia e le
guance si imporporarono
leggermente.
Ella si sedette
dando la schiena alla porta, la sua fidanzata al suo fianco
abbandonò la testa sulla sua spalla, per quanto i capelli
unti era sicura non
erano la cosa più romantica del mondo.
Stettero in
silenzio, stavolta riempiendolo di un niente terapeutico. Erano
già entrate nel Samsara, la vita terrena, i loro patimenti
individuali
rimanevano come giocattoli rotti, involuti.
Si avvicinava la
fine. Mancava un giorno, dopotutto.
Chissà
quante nuove canzoni sarebbero state rilasciate, quante news arretrate,
quante partite, quanti volti non avrebbero nemmeno potuto immaginare di
incontrare. E mentre il mondo girava, loro avrebbero perso la loro
giovinezza:
ogni anno, anche dopo la loro scarcerazione avrebbe intravisto una su
quattro
delle stagioni, un lungo, freddo, sterile inverno.
Inverno eterno
nel cuore delle Allenatrici, come nel cuore di tutta la
regione di Unima.
«Non
è meglio così?»
Camilla sentiva
la mancanza della brezza che aveva trasportato i suoi
pensieri espressi con voce, sulla terrazza della Lega, il primo giorno
d’estate. Ora la claustrofobia della sua testa, piena di
pessimismo da un lato
e dalla paura della paura stessa, dal trattenersi dalla psicosi
dall’altra, la
stava facendo parlare ancora con sé, di malavoglia.
Le tre la
stettero ad ascoltare, come se quello fosse un lamento funebre:
per essere flebile come un sussurro, risuonò nella tomba dei
loro corpi, come
una campana asettica.
«Un’intera
regione che si inchina di fronte a un despota… dove non
esiste
diversità di pensiero, di opinione, dove non esiste proprio
libertà… non voglio
vedere nemmeno l’ombra di una società del genere.
O un domani del genere.
Che bene
può fare, Ghecis Harmonia? Unire il popolo sotto il suo
vessillo
di ipocrisia e menzogne… Non voglio neanche sapere cosa
succederà, mi viene la
nausea solo a pensarlo! Le persone non in grazia del Partito perderanno
i loro
Pokémon, non ci sarà più equa
competizione, la gestione delle Palestre e dei
tornei sarà un’oligarchia di fedeli al Team
Plasma, le altre regioni ci
vedranno come una dittatura arretrata e miserabile!
Come pensavo,
passare il resto della vita in carcere a questo punto…
è
molto meglio, no?»
Finito il suo
monologo, con le sue apprendiste immobilizzate dal cinismo
insopportabile
di quelle parole, la Campionessa si accovacciò ai piedi del
suo letto,
raggiungendo le altre derelitte sul fondo dell’oceano di
disillusione in cui
lasciavano arrugginire le loro anime.
Calò
il silenzio per, serve o non serve dirlo, un ammontare indefinito di
tempo.
La sconfitta
vera e propria stava quindi nella serenità con cui stavano
accettando, inesorabilmente, che il loro prezioso tempo si consumasse
con
inclemenza.
Missione
compiuta per il Neo Team Plasma, guidato e rifondato dagli
Harmonia, tenuto in piedi dal loro esercito di reclute giovanissime.
Niente
più “presto”.
Niente
più “ragazze”.
Niente
più “estate”.
❁
«R-Ragazze… R-Ragazze… ragazze?»
«Uh? Va de retro, recluta ics, ipsilon, zeta-al-quadrato-tutto-sotto-radice-che-si-semplifica!»
«M-Ma quale recluta al quadrato, sono io, Iris! Perché state già dormendo?»
«Non l’ho deciso io… Comunque, perché parli così strana?»
«S-Strana come? Io sto bene.»
«S-S-Sembri un balbuziente! Come ha detto prima la leader, hai freddo? Cosa ti hanno fatto quelle reclute? Hanno già iniziato a farti la riconversione sessuale?»
«N-Non mi dici di stare zitta? M-Mi manca un sacco, c-come ai vecchi tempi…»
«Iris, non scherzare su queste cose, per favore!»
«N-Non sto scherzandoci… Possiamo parlarne quando usciamo di qui?»
«Senti, nano da giardino con doppia funzione da teglia per grigliare: se io ti dico di stare zitta ti stai zitta, e questo è già un progresso, ma se ti dico di dirmi se quelle bestie ti hanno fatto del male tu me lo sei obbligata a dire! Guarda se ti devo spiegare io, come funziona il bullismo qui…
Aspetta, cosa vuol dire “quando usciamo da qui”?!»
«Te lo spiego subito. Ma prima mi prometti una cosa?»
«Spara.»
«Q-Questa volta mi ascolterete tutte. E p-poi farete esattamente tutto quello c-che vi dico io. Tutto. Senza eccezioni, p-per quanto vi faccia t-terrore o vi faccia schifo. D-Dovete fidarvi di me, stavolta. Posso tirarci fuori tutte. M-Ma ci serve un piano.»
«Okay. Hai il mio appoggio, cento per cento. Sveglio le altre.»
«G-Grazie per il
supporto, Camelia. Lo apprezzo un sacco.
N-Non voglio davvero che non ci vediamo mai più, o che tu
finisca in carcere. Scusa.»
«…okay. Allora, che vuoi fare, come prima cosa?»
«M-Mi servono tutte le
vostre coperte, i cuscini e i copri materassi, più
un’oretta di tempo.
Ah, e i vostri reggiseni e le vostre mutande! Tutta la vostra
biancheria intima, datela a me.»
«…uh,
hey, voi altre. Svegliatevi, ora! Ho scelto di dare ascolto a questa
idiota con il cervello congelato, sbrigatevi a fare lo stesso,
così non mi sento un’idiota da sola!»
❁
Behind the Summery Scenery #21
Il codice che usa Catlina per comunicare con Camilla si dice man'yogana (sì, quell'apostrofo non vi cambia niente, sono solo perfettina io), più precisamente, l'utilizzo che lei ne fa è quello della lettura degli ongana. Questo sistema di scrittura del quinto secolo implica caratteri usati per il loro suono e non il loro significato. Cat ha scritto il nome giapponese di Camilla, "Shirona" (che ricordiamo trascrivibile 白 奈、ossia "bianco" come il suo yukata puzzolente e "rigoglioso", come le sue tette doloranti) come 詩路騈 。
In riguardo all'uso degli alfabeti nel mondo Pokémon, vi indico questo delizioso studio fatto dal club di Pokémon di un'uiversità giapponese.
Edit: so benissimo che i nomi giapponesi in Pokémon sono scritti tutti in katakana, perché i bambini non sanno leggere. Preps (e giappiminkia) stop flaming.
2. Munna, Musharna e il Fumonirico. Che ricordi! Spero di ispirare qualcuno a rivisitare Pokémon Nero e Bianco. Quest'anno è il loro decimo anniversario.
3. L'esordio delle reclute con "Hey, hey, hey!" è riconducibile a due citazioni: Don't stop me now dei Queen e Icy delle ITZY.
4. Headcanon quali il passato di Camilla da emo-goth su MySpace e il gruppo di dance cover di Iris e Anemone sono forniti al pubblico da me e la mia lettrice preferita, che lascerò anonima così non potrete cercarla e bullizzarla perché Momo fa le preferenze, come la vostra prof più odiata del liceo.
5. Non potete convincermi che l'infamata di Morgan non sia stato il più alto momento della televisione italiana degli ultimi 21 anni. La cit. se l'è meritata eccome.
6. Ebbene sì. Lo hanno fatto Mystic Messenger, Yuri on Ice ed un sacco di altre serie: questa è la versione a'la Momo di Gay or European, direttamente dal musical Legally Blonde. Abbiamo Iris nel ruolo di Ellie, Acromio fa l'avvocato, Anmone Architacos(?) fa Mikos e Camelia Carlos. Mi sono divertita un sacco a scrivere quesa scenetta comica, all'inizio non volevo neppure inserirla, ma Daisuke-kun mi ha fatta cambiare idea.
7. Sempre parlando di musical: questi capitoli sono difficili da scrivere, specie senza il mood adatto. Come avevo già specificato: ambienti chiusi da claustrofobia, rivalità amplificate, la pazzia che incombe lentamente. Delle ragazze chiuse in una stanza da una forza misteriosa più grande di loro, pronte a sacrificare la loro amicizia pur di rimanere in piedi, le ultime sopravvissute.
Non solo l'opera in sé, l'atmosfera perfetta per questa prigionia sinistra e macabra è offerta anche dalla colonna sonora di WEEK END SURVIVOR, musical del 2015, con protagoniste i membri (ed ex-membri) delle Kobushi Factory e Sudo Maasa. Cosa? Volevate forse un link aggratis? No, ragazzi miei. Imparate a supportare i release fisici e compratevi il cd e il dvd. (Tuttavia dovrei avvisarvi che viene un pochini di soldini ed è solo in giapponese...) I'm sure y'all can handle this.