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Autore: Spoocky    12/03/2020    3 recensioni
[Apocalypse Now ]
[Apocalypse Now ]Il capitano Willard è ostaggio del Colonnello Kurtz, che attraverso un viaggio onirico nella sua mente cerca di impartirgli i suoi insegnamenti.
Genere: Guerra, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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Disclaimer: I personaggi e le ambientazioni appartengono agli aventi diritto, di mio ci sono solo gli interludi.
Nella storia uso dei dialoghi originali del film e la canzone "The End" dei Doors, che ne è il tema conduttore.
Non accampo i diritti di nessuno dei due.


Questa storia partecipa all' "I don't remember driving here" Challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [https://www.facebook.com/groups/534054389951425/?ref=group_header]

Buona lettura ^^
 
Non sapevo da quanto tempo mi trovassi lì, chiuso in quella gabbia, lasciato a macerare nella palude. 
 
Lost in a Roman wilderness of pain
And all the children are insane
All the children are insane
 
 
Giorno e notte si erano confusi in un vortice indistinto mentre la vista mi si faceva sempre più appannata e la testa sempre più pesante. Tutto il mio mondo consisteva di quei pali di legno, quella sorta di filtro tra me e il mondo esterno, era attraverso i loro spiragli che potevo vedere lo svolgersi della vita di quella comunità perversa. 
I miasmi del fiume e della giungla si mescolavano all’odore malsano dei cadaveri in decomposizione mentre cori e danze si susseguivano ininterrotti in un rito orgiastico che non sembrava conoscere fine. In un primo momento riuscivo ancora a distinguere la testa bionda di Lance nel groviglio di membra esagitate, poi persi anche lui.
 
Nemmeno Kurtz si era più fatto vedere, oscuro sacerdote di quel culto osceno osservava il suo popolo dall’alto del suo tempio.
Non so quanti tempo trascorsi in quello stato, sospeso in un limbo tra la coscienza e l'oblio, tentando di impedire a quest ultimo di prendere il sopravvento. Finché fui costretto ad arrendermi e per me fu solo buio. Nemmeno mi accorsi del vietnamita che mi sollevò la testa. Non mi resi conto di nulla finché non avvertii un sapore dolciastro sulle labbra. Mi venne da vomitare ma all'improvviso venni assalito da una sete tremenda e trangugiai tutto.
Non potevo sapere che grave errore avessi commesso.
 
 
 
 
A pochi metri dalla gabbia di Willard, il fotoreporter era intento a rollarsi una sigaretta, che aveva opportunamente tagliato con delle erbe secche che sapeva avere proprietà allucinogene.
Fino a qualche mese prima anche lui aveva avuto un nome, una professione e uno scopo. Ora era semplicemente uno dei tanti. 
Scattava foto e faceva interviste solo perché non avrebbe saputo che altro fare del suo tempo.
Non ricordava nemmeno più per quale testata dovesse scrivere. Però aveva ancora addosso le macchine fotografiche e immaginava che dovessero essere importanti. Faceva domande a chiunque e fotografava qualunque cosa reputasse interessante.
I movimenti dei nativi che andavano a liberare il capitano americano attrassero la sua attenzione.
Sigillò in fretta e furia la sigaretta e corse attraverso il pantano per registrare la scena: “Magnifico! Magnifico! Un vero quadro semovente!”
 
I suoi obiettivi catturarono il viso pallido e sudato di Willard, le sue membra inerti tra le braccia dei nativi, i suoi occhi semichiusi e le labbra tremanti. 
Sovraeccitato dalla novità prese a saltellare intorno al gruppo, incurante delle proteste e degli insulti degli improvvisati barellieri. Alcuni cercarono di calciarlo via, uno addirittura tentò di morderlo ma lui proseguì imperterrito, alla ricerca dello scatto perfetto. 
A nulla servirono tuttavia i suoi schiamazzi: “Voi due, lì davanti, tiratelo su! Voglio che si veda bene il viso. No, no, no, non così! Maledizione! Non avete alcun senso dell’arte!”
 
I nativi non lo capivano o preferivano ignorarlo, perché proseguirono imperterriti nella loro mansione, sordi ai suoi richiami.
Il fotoreporter non aveva idea di cosa stesse succedendo ma immaginava che il Capo avesse in mente qualcosa di grosso, perché stava facendo trasportare l’americano nel suo tempio.
A questo punto era ansioso di scoprire di cosa si sarebbe trattato.
 
 
 
 
Sentii degli schiamazzi all’esterno e capii che presto Willard sarebbe stato di nuovo in mia compagnia.
Avevo fatto preparare per lui un giaciglio dove potesse riposare e dato istruzioni alle mie giovani attendenti perché lo lavassero e gli dessero da mangiare. Doveva rendersi conto di essere tra amici, capire che il vero nemico non ero io ma il tarlo che lo rodeva dall’interno. Presto l’infuso avrebbe fatto effetto e avremmo potuto parlare alla pari. Presto anche lui avrebbe compreso.
 
Mi sciacquai nella bacinella e terminai di radermi.
Il viso che mi scrutava dallo specchio non mi apparteneva più degli stracci che indossavo. Avrei dovuto riconoscere i suoi lineamenti ed il suo sguardo ma in verità mi era del tutto estraneo. Quell’uomo, semmai fosse esistito, aveva cessato di esistere molto tempo fa. 
Presi la ciotola della cenere e la sciolsi nell’acqua, poi v’intinsi tre dita e me le passai sul volto, coprendo gli occhi come forse ero stato addestrato a fare in un’altra vita. Rivedendomi allo specchio mi riconobbi per quello che ero diventato: un figlio della giungla, un uomo i cui occhi avevano finalmente abbracciato la verità e rifiutavano di privarsene. Intorno a me brandelli di uniforme, equipaggiamento militare e medaglie giacevano sparsi sul pavimento di pietra, informi vestigia di un’ identità perduta. Me n’ero spogliato come una falena della crisalide, per liberarmi dal peso del mondo ed accedere ad una realtà superiore. 
Dentro di me però sentivo che le forze mi stavano abbandonando e sapevo di non avere molto tempo. Dovevo trovare qualcuno che sopperisse alla mia mancanza. Dovevo trovare un erede.
Willard, il giovane e forte Willard, era il dono che la giungla mi aveva portato nel momento del bisogno. La sua venuta era un segno degli dei. 
Il momento era giunto.
 
 
 
 
Desperately in need of some stranger's hand
In a desperate land
 
Ripresi lentamente i sensi per ritrovarmi disteso su una stuoia accanto ad una finestra a strapiombo sulla giungla. Dei cuscini mi sorreggevano la schiena e due giovani mi stavano lavando con delle spugne. 
Avevo le vertigini e chiusi gli occhi, lasciando che le loro abili mani mi ripulissero del fango e della lordura incrostatesi sulla mia pelle nei lunghi giorni di prigionia. Con ogni respiro sentivo salire la febbre: sentivo gli occhi caldi e gonfi sotto le palpebre chiuse. Le vene della fronte mi pulsavano ad ogni battito e mi sembrava di avere il cranio stretto in una morsa. Anche i denti mi facevano male e solo sentendoli stridere mi accorsi di averli stretti.
Respiravo a fatica, sentivo sulla pelle il fastidio del sudore appiccicoso, che mi s’incollava addosso non appena le spugne bagnate lasciavano il mio corpo. Non riuscivo a muovere un muscolo e sentivo le membra pesanti, come se fossero fatte di piombo. 
Tentai senza successo di alzare una mano per asciugarmi il sudore dalla fronte ma fallii miseramente. Non riuscii nemmeno a muovere un dito.
Poco dopo accolsi con sollievo la frescura di una pezzuola umida sulla mia fronte rovente mentre qualcuno mi asciugava il sudore ed alleviava il tormento della febbre. 
 
Socchiusi le labbra per ringraziare il mio anonimo benefattore ma dalla mia gola riarsa non uscì che un gemito soffocato, subito seguito da un attacco di tosse secca. Quella mano senza volto abbandonò lo straccio sul mio viso per scivolarmi dietro la nuca e sollevarla con dolce fermezza.
Sentii che mi veniva accostata una ciotola di legno alla bocca e percepii la dolce freschezza dell’acqua,  accompagnata da un sapore sconosciuto, dolce ed invitante. Arso dalla sete e dalla febbre bevvi avidamente, assaporando quel benedetto sollievo.
La mano che mi reggeva la nuca si mosse lentamente sulla mia pelle, come un accenno di carezza, e riconobbi la voce di Kurtz: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori.”
 
Quelle frasi mi suonavano al contempo famigliari e distanti, come l’eco lontana di una vita passata, qualcosa che avrebbe dovuto appartenermi ma non mi rappresentava più.
Le parole che seguirono lasciarono le mie labbra in un sospiro, quasi senza che me ne accorgessi: “Lei mi ricorda qualcuno.”
“Chi, Willard?”
“Qualcuno che aveva promesso ci sarebbe sempre stato.”
Fu così, in un momento di delirio sospeso tra sogno e realtà, che gli raccontai di mio padre.
Quando mi sollevava tra le braccia, da bambino, e mi faceva volare in alto. 
Quando costruivamo insieme barchette di legno per gareggiare nello stagno.
Quando la sera mi prendeva sulle ginocchia e mi raccontava delle storie per farmi dormire. 
Quando partì per la guerra, per non tornare mai più.
Quando finii ero talmente debole da essere scosso dai brividi e da avere le lacrime agli occhi. Kurtz mi asciugò le palpebre con la pezzuola umida e, dopo averla bagnata di nuovo, riprese a passarmela sulla fronte con una dedizione che avrei potuto scambiare per affetto in un’altra persona.
 
Qualcuno mi stese addosso una coperta leggera, per proteggere il mio corpo nudo dal freddo umido della notte e dagli insetti. Mi abbandonai al dormiveglia mentre il mio infermiere mi raccontava una favola della buonanotte: “In una radura nel cuore della giungla c’è un baule e in quel baule c’è lei, Willard, e non ha la chiave. Sente un fruscio provenire dall’esterno e si avvicina alla serratura per guardare fuori. Dal buco per la chiave vede un coniglio bianco che bruca nel prato. Pensa di essere nascosto, che lui non la veda ma lui in qualche modo si accorge di lei: tende le orecchie, smette di mangiare e la guarda fisso negli occhi. Poi inclina la testa di lato e le volta le spalle, girandosi indietro per invitarla a seguirlo. A quel punto si rende conto che il baule è solo una sua prigione mentale e che in realtà è stato libero tutto il tempo perché esce passando dalla serratura come il cammello dalla cruna dell’ago. Ed è così che si ritrova in mezzo alla foresta, il baule abbandonato alle sue spalle non è che un vuoto relitto. Allora il coniglio s’incammina verso il cuore della giungla, fermandosi ogni tre passi ad aspettare che lei lo raggiunga. Segua il coniglio bianco, Willard! Sprofondi nel cuore della giungla e apra la mente. Solo così sarà veramente libero.”
 
Non appena Kurtz terminò il suo discorso le membra mi si fecero ancora più pesanti e la testa prese a girarmi in un vortice sempre più rapido. 
Da qualche parte del mio cervello una fugace scintilla di razionalità mi fece sorgere il dubbio di essere stato drogato ma non avevo le forze né la coerenza per ragionarci, in quel momento. 
Di nuovo, il mio mondo sprofondò nel buio.
 
 
 
 
Osservai Willard cedere al sonno e venni sopraffatto da un’inesorabile ondata di compassione, nel vederlo prostrato ai miei piedi, debole e vulnerabile.
Aveva il viso madido di sudore ed inumidii di nuovo la pezza nella soluzione di acqua ed aloe prima di stendergliela sulla fronte. Pur incosciente, emise un gemito per il sollievo che quel misero brandello di stoffa gli aveva apportato. 
Nel profondo del cuore provai una fitta di dispiacere nel vederlo così fragile, soprattutto perché mi rendevo conto di essere stato io a ridurlo in quelle condizioni. 
Scacciai però immediatamente quel pensiero, ricordando a me stesso che il mio erede avrebbe dovuto essere temprato dalla sofferenza: il suo corpo avrebbe dovuto essere mortificato perché la sua mente potesse elevarsi. Del resto anch’io avevo raggiunto l’illuminazione in conseguenza delle febbri notturne.
 
L’infuso che gli avevo somministrato lo avrebbe aiutato a raggiungere lo stato ottimale per iniziare il suo processo di rinascita e presto avrebbe iniziato a fare effetto.
Era passata forse un’ora dall’ultima dose ma già cominciava a manifestare i primi sintomi.
Tutto il suo corpo s’inarcò in violenti spasmi e venne scosso da brividi profondi, tanto forti da fargli battere i denti. 
A quel punto gli si contrassero i muscoli del torace ed iniziò respirare affannosamente. Iniziai dunque a bruciare delle foglie di stramonio e mi assicurai che ne inalasse i vapori schermando il braciere con uno straccio: oltre a dilatargli i bronchi avrebbero aumentato l’efficacia dell’infuso.
Lentamente i miasmi delle erbe fecero il loro lavoro e Willard prese a tossire violentemente, per poi accasciarsi tremante sui cuscini.
 
Sopraffatto dalla mistica sacralità del momento, acuita dai tamburi e dai fuochi delle danze, mi ritirai in meditazione mentre attendevo che l’infuso compisse il suo dovere fino in fondo.
Rallentando il respiro chiusi gli occhi per concentrare il mio sguardo spirituale sul cuore della giungla.
Il battito dei tamburi riecheggiava il pulsare del mio cuore e a poco a poco diventai un tutt’uno con il fuoco che illuminava la notte.
Diventai uno con il fiume, che scorreva inesorabile nel suo letto secolare.
Fui uno con gli alberi e la brezza che riverberava tra le loro foglie. 
Fui ognuno dei miei seguaci e al contempo nessuno.
Fui tutto e fui nulla allo stesso tempo, respirando la giungla e con la giungla. Esistendo in sincrono con ogni albero, ogni foglia, ogni creatura che la popolava. 
Lottai disperatamente per soffocare in me lo spirito della Madre per evitare che mi pervadesse. Lo spirito della giungla è lo spirito della madre Gaia, una primordiale ed inarrestabile forza generatrice.
Essa mi rafforzava nell’animo e rinvigoriva la mia forza vitale ma andava dominata perché non prendesse il sopravvento. Doveva essere sottomessa perché io potessi essere Padre per il mio erede, perché avessi la forza di assistere alla rinascita della sua anima senza diventarne la nutrice.
Willard aveva bisogno di una guida nel suo viaggio, non di una madre. 
Gli dei avevano previsto anche la mia lotta interiore e, nel momento esatto in cui fui pronto un rumore mi richiamò alla coscienza.
 
In un primo istante pensai che Willard si stesse rigirando tra le coperte in preda all’estasi mistica, ma aprendo gli occhi mi accorsi che era in piedi sul cornicione. Al suo fianco era inciso l’altorilievo di un uomo che stava curvo sopra un altro per proteggerlo dalle frecce dei nemici, che si erano conficcate sulla sua schiena anziché nella carne del compagno che giaceva a terra.
Quell’incisione, illuminata dal fuoco proprio nel momento in cui Willard si piegava in avanti, giù, sempre più giù, fu il segno che stavo aspettando: avrei dovuto salvarlo dalla morte perché lui era davvero il mio erede. La sua venuta era stata predetta anche dalle antiche sculture del tempio.
Balzai dunque in avanti, i miei muscoli concentrati nell’unico sforzo che erano stati concepiti per sostenere, e mi avventai su di lui.
Lo spirito vitale della giungla scorreva potente nelle mie membra e afferrai Willard nel momento esatto in cui stava per precipitare di sotto. Con una forza che non mi apparteneva affondai le dita nelle sue carni e lo sollevai nonostante tentasse disperatamente di divincolarsi. Vidi le nostre ombre proiettate sul muro e ricordai di una statua che avevo visto a Firenze: una giovane sabina si contorceva nel vano tentativo di liberarsi dalla presa ferrea di un soldato latino. 
Una statua del Rinascimento, anch’essa simbolo della rinascita di Willard.
Un passo indietro e allontanai il mio erede dal pericolo immediato. Reggendolo tra le braccia arretrai fino al suo giaciglio, dove lo avvolsi con la coperta e me lo posi sulle ginocchia, tergendo la sua fronte madida con la pezzuola per rassicurarlo. Una scena di Pietà, anch’essa indispensabile per il compimento della rinascita.
Inconsciamente, quel giovane disperato si strinse a me e io lo lasciai fare, comprendendo il suo bisogno di rassicurazione e conforto.
 
Cullandolo sul mio petto lasciai scorrere lo sguardo verso il cuore della giungla, nel suo intimo più profondo, dove nemmeno il fuoco dei miei seguaci riusciva a rischiarare le tenebre.
Era giunto il momento di spiegare il mio ruolo a quel giovane, di come avendo raggiunto l’illuminazione lo avrei guidato fuori dalla caverna e lo avrei liberato da quelle catene che lo costringevano ad osservare ciò che lui riteneva essere la verità, inconsapevole di stare vedendo solo ombre fugaci, proiettate sul muro del suo sguardo da un burattinaio perverso.
 
 
 
 
Ride the king's highway, baby
Weird scenes inside the gold mine
 
Davanti ai miei occhi apparve una figura misteriosa, che in un primo momento faticai a mettere a fuoco. 
Quando vi riuscii rimasi senza fiato: era una donna bellissima. Si presentò a me completamente nuda, la sua pelle d’avorio riluceva in contrasto con la sua folta capigliatura rossastra. Aveva fiori nei capelli e altri sembravano generarsi dalla sua pelle. Sembrava del tutto indifferente al mio sguardo, assorbita com’era dai due infanti dai capelli scuri che si stringeva al petto.
Sul viso e sul corpo erano assenti i segni della gravidanza e del parto ed ella sembrava riposare serena con i suoi piccoli, intenta anche nel riposo a generare la vita. 
Qualcosa al contempo dentro e fuori di me mi disse che stavo osservando Gaia, la Madre primordiale e la Fonte della Vita. La Madre della giungla a cui noi apparteniamo.
All’improvviso mi resi conto che quella che stavo vedendo non era altro che un’ombra proiettata su un muro di creta, che avevo polsi e caviglie intrappolati da pesanti catene.
Tentai di divincolarmi ma non vi riuscii finché non vidi una figura avanzare verso di me e tendermi una mano. Il suo volto avrebbe dovuto essermi famigliare e forse una parte di me ricordava di aver attraversato il Vietnam per trovarlo, ma non riuscivo a ricordare il perché.
 
L’uomo venne alla luce e mi accorsi che all’altezza degli occhi il suo volto era coperto da una tintura mimetica, che nascondeva i suoi lineamenti come una maschera. Allora capii: quell’uomo, il Re-Sacerdote, era stato trasfigurato dalla verità ed era venuto per liberarmi dalle mie catene. 
 
Accolsi il suo arrivo con sollievo e lui mi prese le mani, sciogliendo le mie catene come neve al sole prima di guidarmi verso l’uscita della caverna.
Rimasi accecato dalla luce che si trovava all’esterno e per un momento mi parve di scorgere qualcosa.
Poi precipitai di nuovo nel buio.
  
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