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Autore: Mademoiselle_Anne    06/08/2009    2 recensioni
Gaara è sempre stato solo. Noi lo conosciamo austero e tenebroso per via del suo passato, ma c'è quacosa di questo, che nessuno ha mai raccontato. La storia di un amicizia, la sua prima amicizia, che lo ha trasformato nel guscio vuoto che è diventato.
Lui non è mai stato l'unico "mostro" di Suna. Qualcun'altro ha un segreto impensabile da nascondere e il piccolo Gaara dovrà scegliere se salvare sè o quel nuovo sentimento che lo lega a l'unico essere che gli è così simile e al contempo pericoloso.
[ Prima fun-fiction, aiutatemi a migliorare recensendo]
Genere: Romantico, Avventura, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sabaku no Gaara , Nuovo Personaggio
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Premessa: Scusate. Questa è la mia prima fun-fic. Magari può sembrare noiosa e banale, ma vi assicuro che non lo è, perciò vi invito a leggere questo primo capitolo, premettendovi che i seguenti saranno decisamente diversi e più ricchi di rivelazioni e mistero.
C'è un moticvo per cui questa amicizia è "cattiva" e sperò vi interessi conoscorlo. O chissà, magari si tramuterà in buona.
Sono agli inizi e i commenti costruttivi mi farebbero bene, perciò vi invisti a lasciarmi qualcosa di scritto su cui migliorarmi.
Chu <3

Primo

 

L’aria calda ed umida della perenne estate era palpabile e soffocante. Il poco vento che soffiava, rendeva il caldo torrido apparentemente sopportabile, portandosi dietro minuscoli granelli di sabbia, luccicanti ai raggi del sole.
Il cielo era limpido, seppure attraversato da qualche nuvola vaporosa e il sole risplendeva illuminando il villaggio di Suna con i suoi teneri baci.
Non vi erano fiori colorati o acque limpide a decorare quel luogo spoglio. Il deserto era il suo unico amico.
Non era un villaggio particolarmente bello, tutt’altro. Era spoglio e tetro, solitario talvolta.
I bambini erano soliti giocare nel parco. Una piazzola di terra e fango, ma a loro bastava. Non vi erano tanti giochi o attrazioni particolari, perciò, alcuni di loro si portavano palloni o bambole da casa per poter divertirsi con i propri amici. Le loro risate erano piene di giubilo ed allegria, addolcendo l’ambiente serio dove erano costretti a crescere. Giocano tutti assieme, piccoli, ragazzi.
Tutti tranne uno.
Un batuffolo di capelli rossi, avvolto in una stola marroncina, sedeva sull’altalena, dondolandosi appena con la punta dei sandali. Dall’incavo di un braccio, sporgeva la testa di un piccolo orsacchiotto di peluche, morbido, ma soffocato.
Il bambino guardava gli altri giocare, amareggiato e deluso. I suoi occhi chiari brillavano del desiderio di poter partecipare, ma stranamente, nulla nei suoi gesti evidenziavano questa sua volontà.
Se ne stava solo, buono, ad osservare come un’ombra. Era serio per essere un bambino.
Tra uno schiamazzo e l’altro, un pallone rotolò accanto ai suoi piedi.
Il piccolo bambino la osservò avvicinarsi e, saltando agilmente dallo sgabello di legno logoro, si chinò a raccogliere l’oggetto impolverato. Lo alzò, porgendolo ai bambini che lo guardavano sbigottiti, mentre lui, rassicurante, si sforzava di sorridere ed apparire docile e simpatico.
Alcuni tra i ragazzi più grandi gli si avvicinano cauti, senza perderlo d’occhio. Lui contraccambiava l’occhiata, tremando di vergogna.
I ragazzi si ripreso la palla, senza ringraziare.
Il bambino li studiò. Quella era la sua occasione di essere accettato, apprezzato e magari di stringere qualche amicizia.
Prese tutto il coraggio che riuscì a racimolare e domandò a bassa voce abbassando gli occhi innocenti.
‹ Posso giocare con voi? › la voce pacata, flebile, impaurita.
‹ Cosa hai detto?› chiese uno dei due ragazzi che si stavano rimescolando al gruppo.
‹ Ha chiesto se poteva giocare.› spiegò l’altra ragazza che lo aveva accompagnato.
Quello la guardò torvo, per poi guardare il bambino dai capelli rossi arruffati.
‹ Noi non giochiamo con i mostri!› spiegò, mostrando una smorfia di disgusto solo a guardare quel piccolo emarginato.
Il bambino lo fissò per qualche istante, spiazzato, accettando il colpo e tornando alla sua altalena amareggiato, trattenendo le lacrime.
Di nuovo si dondolò, trasportato da una malinconia perenne e di nuovo, fissò invidioso quei bambini che ridevano e scherzavano insieme. Era geloso, minaccioso e triste al contempo. Li fissava come a volersi convincere che era lui che non voleva giocare con loro, non il contrario, ma ogni tentativo era vano, sempre.
Ma lui non era un mostro, perche tutti lo evitavano?
Non voleva far male a nessuno, mai.
Desiderava ardentemente essere accettato.
Non voleva essere un mostro, non era colpa sua, non lo era mai stata.
In un secondo maledisse la madre, che lo aveva abbandonato con quello strano potere che lo marchiava gli occhi degli abitanti di Suna, ma poi come un bambino sorpreso a rovistare nel barattolo dei biscotti, si pentì di aver solo pensato tutte quelle cattiverie verso l’unica persona che lo aveva amato al punto di lasciarlo.
Lui era piccole, solo, ma non indifeso.
Gridolini acuti si levarono nuovamente dal gruppo.
Come ipnotizzato, il piccolo lanciò un’occhiata fugace nella direzione della voce, abbastanza lunga per vedere nuovamente la palla sfuggire al controllo dei ragazzi volteggiando alta verso un crepaccio, oltre la rete che separava il parco dal pericolo.
Gli bastò desiderarlo. Non dovette neanche distogliere lo sguardo dall’oggetto o muovere un muscolo.
La sabbia fece tutto per lui, come fosse una parte di lui.
Lentamente, il terriccio intorno all’altalena si alzò, per poi attaccare come un falco sulla preda il pallone e riprenderlo, consegnandolo al suo padroncino. Il ragazzo dai capelli come il fuoco, raccolse nuovamente l’oggetto e guardò i bambini, terrorizzati da quell’inspiegabile magia. Arretrarono, sotto i suoi occhi acquamarina, lucidi e pieni della classica ingenuità infantile.
Il bambino li vedeva indietreggiare, impauriti. Le facce sorprese e stupite,smorfie contorcevano le loro labbra.
Il problema non era lui, il problema era il suo potere.
Lo sapeva, lo aveva sempre saputo.
Ma non lo accettava.
D’impulso, ferito nuovamente nell’animo, come tanti pugnali affilati infilzati nel corpicino esile, gli bastò desiderarlo, imprimere nella mente un desiderio represso da troppo tempo e nuovamente  quella calda sensazione di onnipotenza gli attraversò la schiena come un piacevo scossa elettrica e adrenalina o forse pazzia, gli pompavano nelle vene come volessero fargli schizzar via il sangue. Qualcosa di meraviglioso, caldo e travolgente gli atterriva i sensi e senza neanche accorgersene, intravide la sua sabbia, vorticargli intorno ed attaccare feroce ed instancabile il piccolo gruppo, afferrandone i componendi chi per un braccio, chi per le gambe, tra i loro urli di terrore.
Forse era vero.
Forse lui era davvero un mostro.
Ma non lo faceva apposta.
Le labbra continuavano a muoversi, incontrollabili, sussurrando sempre la stessa frase con il suo agghiacciante tono gelido.
‹ Non andate via!› li supplicava.
Qualcuno riuscì a divincolarsi, tentando di scappare, urlando e dimenandosi come un forsennato. Ma come un segugio, velocissima, la sabbia assassina, corse loro dietro, come per trafiggerli.
Mancava poco, era sempre più vicina, silenziosa e letale. Gli occhi sbarrati dal terrore delle sue vittime, le urla strozzate loro in gola.
Pochi istanti e un terribile fragore.
L’aria si riempì di polvere e del ferroso odore del sangue, pungente.
Silenzio, pace, quiete.
Qualcosa di innaturale aleggiava in quei paraggi.
Quando la coltre di polvere si diradò, il giovane roscio intravide la familiare figura dello zio Yashamaru, così simile alla madre e a lui tremendamente caro.
La vergogna e il pentimento di quel gesto, così desiderato, ma allo stesso tempo tentato di reprimere, gli segnarono le guance sottoforma di luccicanti lacrime.
Non sapeva che dire, fare…
Tremava, indignato di sé stesso.
I bambini scapparono via, tra le urla generali, mentre lui piangeva, gemendo nel suo dolore e nel dolore procurato ad altri.
‹ Tranquillo Gaara.› disse ad un tratto Yashamaru.
‹ Io non volevo.› si ripeteva Gaara, osservandosi stupefatto le mani, come fossero sporche di sangue.
‹ Lo so Gaara. Lo so!› lo rassicurava lo zio. Il tono simile a quello di una donna, effeminato anche nell’aspetto, ma deciso come solo un uomo poteva essere. Era calmo e gentile. L’unica persona che apparentemente amava Gaara, di un amore semplice e naturale. Gaara gli era molto grato per questo affetto. Lo zio, era l’unica persona che lo aveva sempre sostenuto.
‹ Sei ferito!› osservò il piccolo, tra un singhiozzo e l’altro. Specchiava i suoi occhi chiari, in quelli dorati dello zio.
‹ Non preoccuparti.› gli accarezzò i capelli dolcemente ed affettuosamente. ‹ Io vado a farmi medicare. › gli sorrise dolcemente‹ Vieni Gaara. Appena il dottore mi ha guarito ti cugina un’ottima cenetta!› accompagnò con il braccio il piccolo accanto a sé, scomparendo in una nuvoletta bianca.
Nascosta dall’illusione, vi era anche la sua smorfia di disgusto verso il demone che stava allevando.
‹ Scusami!› sussurrò piano al vento il bambino. Lo sguardo basso e mortificato.
Ci volle poco, neanche un battito di ciglia e l’ambiente cambiò come per magia.
Un candido bianco li circondava avvolgendoli nella luce pura delle lampade. Qua e là infermieri, pazienti e dottori, chiacchieravano, si lamentavano e camminava per i lunghi e stretti corridoi. Tante anime in pena. Le facce a lutto e una strana aria di finta sopportazione tutt’intorno.
Yashamaru non badò troppo al piccolo, limitandosi a fargli strada per quel labirinto di camici e cartelline sanitarie. Bussò ad una porta blu, chiedendo al bambino di rimanere fuori ad aspettarlo.
‹ Avanti!› rispose una voce calda e profonda dall’altro lato della porta misteriosa.
Lo zio ne scomparve all’interno. Tutto ciò che Gaara capì mentre gli veniva chiusa la porta davanti fu un raggiante:
‹Buongiorno dottore!› per poi essere abbandonato alla solita e noiosa solitudine.
Prese posto su una panca imbottita posta schiena a schiena con il muro sporco e non più di una tinta brillante.
Si guardò in torno, per distrarsi e far passare il tempo, seduto sulla panca. In braccio l’orsacchiotto, stretto a sé e le gambe a penzoloni. Nessuno passava. Sembrava un corridoio fantasma, abbandonato da tutto  e tutti.
C’era solo lui e quella porta.
All’improvviso, mentre tentava di far ballare il suo giocattolo, sentì piccoli tintinnii di tacchetti. Si girò e trovò di fronte a sé una piccola ragazzina, su per giù della sua stessa età, vestita in un modo alquanto innovativo per le sue abitudini tanto da sembrare una bambola. La pelle era chiarissima, di un tenero rosa pallido e le gote del viso tondo raccese illuminando gli occhi luccicanti di due colorazioni, non erano nocciola, ma non erano neanche verde scuro. Erano un misto di tutto e nulla, ma erano splendenti ed ombrosi incastrati nella cornice della frangetta. I capelli corti e lici in un simpatico caschetto. Le labbra piccole e rosse, simili ad una rosa e il naso, era talmente minuscolo da  mimetizzarsi e scomparire.
Indossava un tenero vestitino lilla smanicato che finiva in una pomposa gonna a palloncino, piena di pizzi e merletti neri. Le punte delle scarpe nere laccate si toccavano, evidenziate dalle calze in tono col vestito, lunghe fin sopra il ginocchio.
Era bassa rispetto alla classiche bambine di Suna. Così diversa che Gaara non credette nemmeno che potesse essere vera. Immaginazione, futile immaginazione.
Tra le braccia, stringeva uno strano coniglietto di peluche giallo e striato di nero come una tigre.
Lo guardava, curiosa ed emozionata, sorridendo vistosamente, ma restando muta e sull’attenti.
Il rosso contraccambiava l’attenzione, infastidito da quello sguardo forte e fisso, ma felice di attenzioni che mai nessuno gli aveva serbato.
Era impietrito, timido nel suo piccolo corpo, mentre la bambine, più esile di lui, sembrava una tigre potente e senza paure.
La bambina gli si avvicinò, tranquilla, saltellando nelle scarpe rumorose, sedendoglisi accanto e studiandolo con quella incuranza classica dei bambini.
‹ Ciao bambino!› squillò raggiante ad una spanna dal suo volto.  Gaara era allibito. Quando mai un suo coetaneo gli si era seduto accanto e gli aveva cominciato a parlare?
Non rispose, shockato da quella improbabile situazione, fissando allarmato quella pazza bambina.
‹ Perché non rispondi?› gli domandò lei non curante della sua reazione. Gaara tremava dall’eccitazione di vivere il momento tanto atteso, ma ne aveva così tanta paura da non sapere come comportarsi.
‹ Ah, ho capito!› aggiunse la piccola, abbassando lo sguardo mortificata rispettando il silenzio del compagno ‹ Papà mi ha detto che ci sono dei bambini così. Tu non puoi parlare vero?› gli si avvicinò ancora più come se fosse un fenomeno da baraccone.
Lì per lì Gaara non capì. Insicuro di sé e della figura che avrebbe potuto fare se avesse in qualche modo reagito.
‹ Mi dispiace!› sussurrò la ragazza, trattenendo i singhiozzi, stringendo forte a se il giocattolo giallo.
Gaara, vedendo che quella ragazzina, la prima in tutta la sua vita, gli aveva parlato e stava piangendo per lui, per una situazione fraintesa, si fece coraggio e provò a parlarle evitando di spaventarla.
‹ C- ciao!› disse impacciato coprendosi il viso con il peluche.
La ragazza smise di piagnucolare e lo guardò sorpresa.
‹ Ma allora parli!› esclamò ‹ Sei timido vero?!› affermò maggiormente a sé che al nuovo amichetto.
‹ Come ti chiami?› gli domandò senza lasciargli il tempo di rispondere alle precedenti affermazioni. Come per incanto aveva ritrovato la sua aria raggiante e piena d’allegria.
‹ Io sono Marzia.› proseguì zittendolo e proseguendo la sua affermazione ‹ La figlia del dottore e tu?› finalmente tacque lasciandolo rispondere.
‹ Gaara.› fu monosillabico, intenerito dall’energia di quella bambina che gli ricordava tanto un cagnolino.
‹ Ti va di diventare mio amico?› aggiunse repentina lei, frizzante, come se fosse una domanda sciocca e scontata.
Gaara rimase stupefatto. Per la prima volta, qualcuno voleva davvero essergli amico. Non stava sognando! La bambina che aveva di fronte gli aveva chiesto di essere amici. Amici. Avrebbe avuto un’amica con cui giocare.
Singhiozzò piano, sorridendo come mai aveva fatto rivolto all’unica persona che lo avesse mai fatto sentire incredibilmente felice.
Stinse energicamente l’orsacchiotto, come per soffocarlo, singhiozzando sempre più forte e cercando di mantenere un sorriso caloroso, che, a giudicare l’espressione della suo nuova amichetta, era più simile ad una smorfia di disgusto che ad un sorriso.
‹ S-si.› balbettò elettrico. Tono che mai aveva usato.
‹ Che bello!› canticchiò quella, ma  si zittì quando il maniglia della porta scattò e un signore biondo dall’aria pacata e tranquilla, ne uscì medicato, accompagnato da un signore spiccante ed attraente.
Avrà avuto una quarantina d’anni, brizzolato. La pelle olivastra e la corporatura robusta e muscolosa. Il viso sorridente, ma  serio allo stesso tempo, faceva strane raccomandazioni al curato.
‹ Papà!› esclamò la bambina al dottore. ‹ Ho trovato un amichetto!› squillò felice.
‹ Tesoro, sto lavorando.› la rimproverò il padre , intenerito dall’energia della figlia.
Yashamaru rimase qualche istante incredulo, fissando il nipote e posando poi lo sguardo sulla bambolina umana.
Si riprese dopo poco e sorrise al nipotino, rosso in viso ed emozionato.
‹ Gaara, la tua prima amica. Non sei felice?› gli domandò coprendo lo sdegno del suo tono.
‹ Si!› esclamò di getto il bambino saltando giù dalla panca e avvicinandosi allo zio.
‹ E’ lui, quindi!› disse il dottore guardando fisso e inespressivo il bambino.
Yashamaru  fece segno di si col capo, sorridendo al bambino.
‹ Gaara, perché non inviti la tua nuova amica a mangiare da noi?› gli consigliò lo zio.
Gaara guardò lo zio pieno di gaudio ed ammirazione, annuendo energicamente.
‹ Quindi è questo che hai in mente!› affermò il medico continuando a studiare il rosso.
‹ E’ l’unico modo per evitare di ferire qualcuno.› rispose Yashamaru  freddo.
‹ …stai attento a mia figlia!› gli ordinò il medico, sospirando rassegnato.
‹ Marzia, ti vengo a prendere appena ho finito di lavorare. Obbedisci al signore, mi raccomando.› e senza guardare la figlia si rinchiuse nuovamente nella porta blu.
La bambina saltò allegra raggiungendo il nuovo amico, seguendone lo zio.
Al padre servivano delle informazioni e lei le avrebbe ottenute.


  
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