Premessa: Scusate.
Questa è la mia prima fun-fic. Magari può
sembrare noiosa e banale, ma vi assicuro che non lo è,
perciò vi invito a leggere questo primo capitolo,
premettendovi che i seguenti saranno decisamente diversi e
più ricchi di rivelazioni e mistero.
C'è un moticvo per cui questa amicizia è
"cattiva" e sperò vi interessi conoscorlo. O
chissà, magari si tramuterà in buona.
Sono agli inizi e i commenti costruttivi mi farebbero bene,
perciò vi invisti a lasciarmi qualcosa di scritto su cui
migliorarmi.
Chu <3
Primo
♥
L’aria
calda ed umida della perenne estate era palpabile e soffocante. Il poco
vento
che soffiava, rendeva il caldo torrido apparentemente sopportabile,
portandosi
dietro minuscoli granelli di sabbia, luccicanti ai raggi del sole.
Il
cielo era limpido, seppure attraversato da qualche nuvola vaporosa e il
sole
risplendeva illuminando il villaggio di Suna con i suoi teneri baci.
Non
vi erano fiori colorati o acque limpide a decorare quel luogo spoglio.
Il
deserto era il suo unico amico.
Non
era un villaggio particolarmente bello, tutt’altro. Era
spoglio e tetro,
solitario talvolta.
I
bambini erano soliti giocare nel parco. Una piazzola di terra e fango,
ma a
loro bastava. Non vi erano tanti giochi o attrazioni particolari,
perciò,
alcuni di loro si portavano palloni o bambole da casa per poter
divertirsi con
i propri amici. Le loro risate erano piene di giubilo ed allegria,
addolcendo
l’ambiente serio dove erano costretti a crescere. Giocano
tutti assieme,
piccoli, ragazzi.
Tutti
tranne uno.
Un
batuffolo di capelli rossi, avvolto in una stola marroncina, sedeva
sull’altalena, dondolandosi appena con la punta dei sandali.
Dall’incavo di un
braccio, sporgeva la testa di un piccolo orsacchiotto di peluche,
morbido, ma
soffocato.
Il
bambino guardava gli altri giocare, amareggiato e deluso. I suoi occhi
chiari
brillavano del desiderio di poter partecipare, ma stranamente, nulla
nei suoi
gesti evidenziavano questa sua volontà.
Se
ne stava solo, buono, ad osservare come un’ombra. Era serio
per essere un bambino.
Tra
uno schiamazzo e l’altro, un pallone rotolò
accanto ai suoi piedi.
Il
piccolo bambino la osservò avvicinarsi e, saltando agilmente
dallo sgabello di
legno logoro, si chinò a raccogliere l’oggetto
impolverato. Lo alzò, porgendolo
ai bambini che lo guardavano sbigottiti, mentre lui, rassicurante, si
sforzava
di sorridere ed apparire docile e simpatico.
Alcuni
tra i ragazzi più grandi gli si avvicinano cauti, senza
perderlo d’occhio. Lui
contraccambiava l’occhiata, tremando di vergogna.
I
ragazzi si ripreso la palla, senza ringraziare.
Il
bambino li studiò. Quella era la sua occasione di essere
accettato, apprezzato
e magari di stringere qualche amicizia.
Prese
tutto il coraggio che riuscì a racimolare e
domandò a bassa voce abbassando gli
occhi innocenti.
‹
Posso giocare con voi? › la voce pacata, flebile, impaurita.
‹
Cosa hai detto?› chiese uno dei due ragazzi che si stavano
rimescolando al
gruppo.
‹ Ha
chiesto se poteva giocare.› spiegò
l’altra ragazza che lo aveva accompagnato.
Quello
la guardò torvo, per poi guardare il bambino dai capelli
rossi arruffati.
‹
Noi non giochiamo con i mostri!› spiegò,
mostrando una smorfia di disgusto solo
a guardare quel piccolo emarginato.
Il
bambino lo fissò per qualche istante, spiazzato, accettando
il colpo e tornando
alla sua altalena amareggiato, trattenendo le lacrime.
Di
nuovo si dondolò, trasportato da una malinconia perenne e di
nuovo, fissò
invidioso quei bambini che ridevano e scherzavano insieme. Era geloso,
minaccioso e triste al contempo. Li fissava come a volersi convincere
che era
lui che non voleva giocare con loro, non il contrario, ma ogni
tentativo era
vano, sempre.
Ma
lui non era un mostro, perche tutti lo evitavano?
Non
voleva far male a nessuno, mai.
Desiderava
ardentemente essere accettato.
Non
voleva essere un mostro, non era colpa sua, non lo era mai stata.
In
un secondo maledisse la madre, che lo aveva abbandonato con quello
strano
potere che lo marchiava gli occhi degli abitanti di Suna, ma poi come
un
bambino sorpreso a rovistare nel barattolo dei biscotti, si
pentì di aver solo
pensato tutte quelle cattiverie verso l’unica persona che lo
aveva amato al
punto di lasciarlo.
Lui
era piccole, solo, ma non indifeso.
Gridolini
acuti si levarono nuovamente dal gruppo.
Come
ipnotizzato, il piccolo lanciò un’occhiata fugace
nella direzione della voce,
abbastanza lunga per vedere nuovamente la palla sfuggire al controllo
dei ragazzi
volteggiando alta verso un crepaccio, oltre la rete che separava il
parco dal
pericolo.
Gli
bastò desiderarlo. Non dovette neanche distogliere lo
sguardo dall’oggetto o
muovere un muscolo.
La
sabbia fece tutto per lui, come fosse una parte di lui.
Lentamente,
il terriccio intorno all’altalena si alzò, per poi
attaccare come un falco
sulla preda il pallone e riprenderlo, consegnandolo al suo padroncino.
Il
ragazzo dai capelli come il fuoco, raccolse nuovamente
l’oggetto e guardò i
bambini, terrorizzati da quell’inspiegabile magia.
Arretrarono, sotto i suoi
occhi acquamarina, lucidi e pieni della classica ingenuità
infantile.
Il
bambino li vedeva indietreggiare, impauriti. Le facce sorprese e
stupite,smorfie contorcevano le loro labbra.
Il
problema non era lui, il problema era il suo potere.
Lo
sapeva, lo aveva sempre saputo.
Ma
non lo accettava.
D’impulso,
ferito nuovamente nell’animo, come tanti pugnali affilati
infilzati nel
corpicino esile, gli bastò desiderarlo, imprimere nella
mente un desiderio
represso da troppo tempo e nuovamente
quella calda sensazione di onnipotenza gli
attraversò la schiena come un
piacevo scossa elettrica e adrenalina o forse pazzia, gli pompavano
nelle vene
come volessero fargli schizzar via il sangue. Qualcosa di meraviglioso,
caldo e
travolgente gli atterriva i sensi e senza neanche accorgersene,
intravide la
sua sabbia, vorticargli intorno ed attaccare feroce ed instancabile il
piccolo
gruppo, afferrandone i componendi chi per un braccio, chi per le gambe,
tra i
loro urli di terrore.
Forse
era vero.
Forse
lui era davvero un mostro.
Ma
non lo faceva apposta.
Le
labbra continuavano a muoversi, incontrollabili, sussurrando sempre la
stessa
frase con il suo agghiacciante tono gelido.
‹
Non andate via!› li supplicava.
Qualcuno
riuscì a divincolarsi, tentando di scappare, urlando e
dimenandosi come un
forsennato. Ma come un segugio, velocissima, la sabbia assassina, corse
loro
dietro, come per trafiggerli.
Mancava
poco, era sempre più vicina, silenziosa e letale. Gli occhi
sbarrati dal
terrore delle sue vittime, le urla strozzate loro in gola.
Pochi
istanti e un terribile fragore.
L’aria
si riempì di polvere e del ferroso odore del sangue,
pungente.
Silenzio,
pace, quiete.
Qualcosa
di innaturale aleggiava in quei paraggi.
Quando
la coltre di polvere si diradò, il giovane roscio intravide
la familiare figura
dello zio Yashamaru, così simile alla madre e a lui
tremendamente caro.
La
vergogna e il pentimento di quel gesto, così desiderato, ma
allo stesso tempo
tentato di reprimere, gli segnarono le guance sottoforma di luccicanti
lacrime.
Non
sapeva che dire, fare…
Tremava,
indignato di sé stesso.
I
bambini scapparono via, tra le urla generali, mentre lui piangeva,
gemendo nel
suo dolore e nel dolore procurato ad altri.
‹
Tranquillo Gaara.› disse ad un tratto Yashamaru.
‹ Io
non volevo.› si ripeteva Gaara, osservandosi stupefatto le
mani, come fossero
sporche di sangue.
‹ Lo
so Gaara. Lo so!› lo rassicurava lo zio. Il tono simile a
quello di una donna,
effeminato anche nell’aspetto, ma deciso come solo un uomo
poteva essere. Era
calmo e gentile. L’unica persona che apparentemente amava
Gaara, di un amore
semplice e naturale. Gaara gli era molto grato per questo affetto. Lo
zio, era
l’unica persona che lo aveva sempre sostenuto.
‹ Sei
ferito!› osservò il piccolo, tra un singhiozzo e
l’altro. Specchiava i suoi
occhi chiari, in quelli dorati dello zio.
‹ Non
preoccuparti.› gli accarezzò i capelli dolcemente
ed affettuosamente. ‹ Io vado
a farmi medicare. › gli sorrise dolcemente‹ Vieni
Gaara. Appena il dottore mi
ha guarito ti cugina un’ottima cenetta!›
accompagnò con il braccio il piccolo
accanto a sé, scomparendo in una nuvoletta bianca.
Nascosta
dall’illusione, vi era anche la sua smorfia di disgusto verso
il demone che
stava allevando.
‹ Scusami!›
sussurrò piano al vento il bambino. Lo sguardo basso e
mortificato.
Ci
volle poco, neanche un battito di ciglia e l’ambiente
cambiò come per magia.
Un
candido bianco li circondava avvolgendoli nella luce pura delle
lampade. Qua e
là infermieri, pazienti e dottori, chiacchieravano, si
lamentavano e camminava
per i lunghi e stretti corridoi. Tante anime in pena. Le facce a lutto
e una
strana aria di finta sopportazione tutt’intorno.
Yashamaru
non badò troppo al piccolo, limitandosi a fargli strada per
quel labirinto di
camici e cartelline sanitarie. Bussò ad una porta blu,
chiedendo al bambino di
rimanere fuori ad aspettarlo.
‹
Avanti!› rispose una voce calda e profonda
dall’altro lato della porta
misteriosa.
Lo
zio ne scomparve all’interno. Tutto ciò che Gaara
capì mentre gli veniva chiusa
la porta davanti fu un raggiante:
‹Buongiorno
dottore!› per poi essere abbandonato alla solita e noiosa
solitudine.
Prese
posto su una panca imbottita posta schiena a schiena con il muro sporco
e non
più di una tinta brillante.
Si
guardò in torno, per distrarsi e far passare il tempo,
seduto sulla panca. In
braccio l’orsacchiotto, stretto a sé e le gambe a
penzoloni. Nessuno passava.
Sembrava un corridoio fantasma, abbandonato da tutto
e tutti.
C’era
solo lui e quella porta.
All’improvviso,
mentre tentava di far ballare il suo giocattolo, sentì
piccoli tintinnii di
tacchetti. Si girò e trovò di fronte a
sé una piccola ragazzina, su per giù
della sua stessa età, vestita in un modo alquanto innovativo
per le sue
abitudini tanto da sembrare una bambola. La pelle era chiarissima, di
un tenero
rosa pallido e le gote del viso tondo raccese illuminando gli occhi
luccicanti
di due colorazioni, non erano nocciola, ma non erano neanche verde
scuro. Erano
un misto di tutto e nulla, ma erano splendenti ed ombrosi incastrati
nella
cornice della frangetta. I capelli corti e lici in un simpatico
caschetto. Le
labbra piccole e rosse, simili ad una rosa e il naso, era talmente
minuscolo
da mimetizzarsi e
scomparire.
Indossava
un tenero vestitino lilla smanicato che finiva in una pomposa gonna a
palloncino, piena di pizzi e merletti neri. Le punte delle scarpe nere
laccate
si toccavano, evidenziate dalle calze in tono col vestito, lunghe fin
sopra il
ginocchio.
Era
bassa rispetto alla classiche bambine di Suna. Così diversa
che Gaara non
credette nemmeno che potesse essere vera. Immaginazione, futile
immaginazione.
Tra
le braccia, stringeva uno strano coniglietto di peluche giallo e
striato di
nero come una tigre.
Lo
guardava, curiosa ed emozionata, sorridendo vistosamente, ma restando
muta e
sull’attenti.
Il
rosso contraccambiava l’attenzione, infastidito da quello
sguardo forte e
fisso, ma felice di attenzioni che mai nessuno gli aveva serbato.
Era
impietrito, timido nel suo piccolo corpo, mentre la bambine,
più esile di lui,
sembrava una tigre potente e senza paure.
La
bambina gli si avvicinò, tranquilla, saltellando nelle
scarpe rumorose,
sedendoglisi accanto e studiandolo con quella incuranza classica dei
bambini.
‹
Ciao bambino!› squillò raggiante ad una spanna
dal suo volto. Gaara
era allibito. Quando mai un suo
coetaneo gli si era seduto accanto e gli aveva cominciato a parlare?
Non
rispose, shockato da quella improbabile situazione, fissando allarmato
quella
pazza bambina.
‹
Perché non rispondi?› gli domandò lei
non curante della sua reazione. Gaara
tremava dall’eccitazione di vivere il momento tanto atteso,
ma ne aveva così
tanta paura da non sapere come comportarsi.
‹
Ah, ho capito!› aggiunse la piccola, abbassando lo sguardo
mortificata
rispettando il silenzio del compagno ‹ Papà mi ha
detto che ci sono dei bambini
così. Tu non puoi parlare vero?› gli si
avvicinò ancora più come se fosse un
fenomeno da baraccone.
Lì
per lì Gaara non capì. Insicuro di sé
e della figura che avrebbe potuto fare se
avesse in qualche modo reagito.
‹ Mi
dispiace!› sussurrò la ragazza, trattenendo i
singhiozzi, stringendo forte a se
il giocattolo giallo.
Gaara,
vedendo che quella ragazzina, la prima in tutta la sua vita, gli aveva
parlato
e stava piangendo per lui, per una situazione fraintesa, si fece
coraggio e
provò a parlarle evitando di spaventarla.
‹ C-
ciao!› disse impacciato coprendosi il viso con il peluche.
La
ragazza smise di piagnucolare e lo guardò sorpresa.
‹ Ma
allora parli!› esclamò ‹ Sei timido
vero?!› affermò maggiormente a sé che
al
nuovo amichetto.
‹
Come ti chiami?› gli domandò senza lasciargli il
tempo di rispondere alle
precedenti affermazioni. Come per incanto aveva ritrovato la sua aria
raggiante
e piena d’allegria.
‹ Io
sono Marzia.› proseguì zittendolo e proseguendo
la sua affermazione ‹ La figlia
del dottore e tu?› finalmente tacque lasciandolo rispondere.
‹
Gaara.› fu monosillabico, intenerito dall’energia
di quella bambina che gli
ricordava tanto un cagnolino.
‹ Ti
va di diventare mio amico?› aggiunse repentina lei,
frizzante, come se fosse
una domanda sciocca e scontata.
Gaara
rimase stupefatto. Per la prima volta, qualcuno voleva davvero essergli
amico.
Non stava sognando! La bambina che aveva di fronte gli aveva chiesto di
essere
amici. Amici. Avrebbe avuto un’amica con cui giocare.
Singhiozzò
piano, sorridendo come mai aveva fatto rivolto all’unica
persona che lo avesse
mai fatto sentire incredibilmente felice.
Stinse
energicamente l’orsacchiotto, come per soffocarlo,
singhiozzando sempre più
forte e cercando di mantenere un sorriso caloroso, che, a giudicare
l’espressione della suo nuova amichetta, era più
simile ad una smorfia di
disgusto che ad un sorriso.
‹
S-si.› balbettò elettrico. Tono che mai aveva
usato.
‹
Che bello!› canticchiò quella, ma
si
zittì quando il maniglia della porta scattò e un
signore biondo dall’aria
pacata e tranquilla, ne uscì medicato, accompagnato da un
signore spiccante ed
attraente.
Avrà
avuto una quarantina d’anni, brizzolato. La pelle olivastra e
la corporatura
robusta e muscolosa. Il viso sorridente, ma
serio allo stesso tempo, faceva strane raccomandazioni al
curato.
‹
Papà!› esclamò la bambina al dottore.
‹ Ho trovato un amichetto!› squillò
felice.
‹
Tesoro, sto lavorando.› la rimproverò il padre ,
intenerito dall’energia della
figlia.
Yashamaru
rimase qualche istante incredulo, fissando il nipote e posando poi lo
sguardo
sulla bambolina umana.
Si
riprese dopo poco e sorrise al nipotino, rosso in viso ed emozionato.
‹
Gaara, la tua prima amica. Non sei felice?› gli
domandò coprendo lo sdegno del
suo tono.
‹
Si!› esclamò di getto il bambino saltando
giù dalla panca e avvicinandosi allo
zio.
‹ E’
lui, quindi!› disse il dottore guardando fisso e
inespressivo il bambino.
Yashamaru fece
segno di si col capo, sorridendo al
bambino.
‹
Gaara, perché non inviti la tua nuova amica a mangiare da
noi?› gli consigliò
lo zio.
Gaara
guardò lo zio pieno di gaudio ed ammirazione, annuendo
energicamente.
‹
Quindi è questo che hai in mente!›
affermò il medico continuando a studiare il
rosso.
‹ E’
l’unico modo per evitare di ferire qualcuno.›
rispose Yashamaru freddo.
‹
…stai attento a mia figlia!› gli
ordinò il medico, sospirando rassegnato.
‹
Marzia, ti vengo a prendere appena ho finito di lavorare. Obbedisci al
signore,
mi raccomando.› e senza guardare la figlia si rinchiuse
nuovamente nella porta
blu.
La bambina
saltò allegra raggiungendo il nuovo amico,
seguendone lo zio.
Al padre servivano delle informazioni e lei le avrebbe ottenute.