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Autore: MaxB    22/03/2020    4 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed eccoci al secondo... non lo chiamerei capitolo. Più che altro tema. Il secondo tema che ho deciso di trattare: Thorn.
Pensavo fossero passati 3 giorni da quando ho postato la storia, invece sono passati 10 giorni...
Senza dilungarmi: la storia è tratta dalle pagine 467-470 del primo libro, Fidanzati dell'inverno, quando Ofelia si addormenta con il cappotto di Thorn addosso e nel sonno, a causa di un buco nel guanto, sul mignolo, tocca i dadi che sono stati con lui per tutta la sua crescita, sognando letteralmente la sua vita a ritroso, fino al momento in cui ha stretto in mano quei dadi per la prima volta.
Non avevo dato molta importanza al fatto, la prima volta che ho letto il libro, ma quando mi sono messa a rileggere tutte le loro interazioni mi sono profondamente commossa. Ho percepito Thorn come un bambino indifeso e sereno, perfettamente normale, in grado di ridere e giocare come chiunque altro piccolo della sua età, ma costretto dalle circostanze a cambiare atteggiamento. Bistrattato da tutti, è arrivato al punto da provare solo rancore, disprezzo e distacco per qualsiasi cosa. Come una protezione per i continui rifiuti.
Doveva essere un capitolo breve, ma è venuto più lungo del previsto.
Chiedo scusa, spero tanto che vi piaccia perché mi è sgorgato dalle dita con un processo di lettura inversa, e mi auguro tanto che  non sia noioso e che la vostra idea di Thorn si rispecchi in quella che ho percepito io.
Con tutti i miei ossequi alla grandissima Dabos, spero di aver trattato bene la sua creatura. Sono disposta ad accettare qualsiasi eventuale critica, chissà che magari non abbia totalmente sbagliato ad interpretarlo (vi prego, ditemi di no).
Buona lettura^^



2. Thorn


Thorn si alzò dalla scrivania, sentendo le sue stesse ossa scricchiolare a causa della postura rigida che aveva assunto. Che assumeva sempre. Del resto, tutto gli andava piccolo. Aveva giurato che non avrebbe mai adattato la sua stazza agli altri, ma gli oggetti e i mobili di sicuro non si sarebbero adeguati a lui. Le persone non meritavano comprensione, compassione e tutta quella gamma di emozioni umana legata a pietà e altruismo. Nessuno le meritava. Tutti dovevano avere ciò che spettava loro, sulla base di oggettivi calcoli. Pochi erano gli esseri umani degni di attenzione. Nessuno, nemmeno sua zia, era degno della sua stima.
Si avvicinò all’oblò della sua cabina per vedere fuori: il mare di nuvole, il nulla tra le arche. Quel dirigibile lo stava portando dritto dalla sua fidanzata lettrice. Non aveva una grande opinione dell’intelligenza di sua zia Berenilde, però le sue conoscenze e la sua fama e socialità l’avevano portata a trovargli la moglie ideale.
Ideale per i suoi scopi, ovviamente.
Dopo tutti i suoi anni di vita, l’esperienza accumulata e le ignominie che aveva visto e vissuto, non si illudeva certo che la sua fidanzata potesse innamorarsi di lui. Così come lui non si sarebbe mai innamorato di lei, chiunque essa fosse. Non aveva stima per l’intelligenza di Berenilde, quello no, ma era l’unica persona per la quale provasse un sincero e vivo affetto. Lo aveva cresciuto. Lo aveva accolto. Lo aveva trattato come un figlio, contro tutto e tutti, società, famiglia e decoro. L’avrebbe sempre protetta e riguardata. Ma era l’unica.
Non ci sarebbe stato nessun altro nel suo cuore. Ne aveva passate troppe per cadere di nuovo nello stesso errore.
Nel giro di mezzo secondo, grazie alla sua mente calcolatrice e laboriosa, rivide tutta la sua infanzia, adolescenza ed entrata nell’età adulta. Vide di nuovo il mondo tingersi di nero, nonostante la partenza fiduciosa e spensierata.
Il mondo non gli aveva regalato nulla.
Lui non aveva niente da regalare a nessuno.
 
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La Memoria, il dono familiare più potente in lui. Aveva ereditato anche gli artigli, certo, ma non li esercitava inconsciamente come il primo potere familiare. La Memoria era intrinseca, non potevi accenderla e spegnerla. C’era, era parte di lui, dalla nascita. Gli artigli invece li attivava e disattivava. E lo disgustavano.
Chissà se avrebbe fatto qualcosa a sua nonna, la sua adorabile e gentile nonna, che aveva provato a soffocarlo quando era in fasce, se già all’epoca avesse avuto il controllo di quell’arma concessagli dal padre sprovveduto. Non lo sapeva. L’unica cosa di cui era consapevole era che sua nonna gli aveva fatto una cosa brutta, una cosa che lo aveva fatto piangere a dirotto, con singhiozzi agonizzanti, con le piccole mani strette a pugno che si agitavano con poca forza. Solo molto dopo avrebbe capito cosa significava quel gesto. Molto dopo, quando tanto ormai aveva perso del tutto la fiducia in chiunque.
 
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Aveva tre anni ed era in braccio alla mamma. Lei lo aveva vestito in fretta, lo aveva preso ed era uscita di casa. Aveva camminato per un periodo molto lungo secondo la sua piccola mente di bambino, ancora incapace di dare un senso a quella cosa chiamata tempo che poi lo avrebbe ossessionato.
Tempo, tempo, tempo… ne avrebbe voluto di più con sua mamma. Ne avrebbe voluto con suo papà. Sarebbe voluto tornare indietro e cambiare molte cose. Magari non nascere nemmeno. Tempo, tempo, tempo…
La mamma lo portò da zia Berenilde. Gli piaceva la zia, lo coccolava, lo riempiva di attenzioni, gli parlava con una voce stridula che lo faceva sorridere. Era bella, la zia, ed era bello quando c’era anche lei.
La mamma entrò nel graaande castello della zia, che era seduta sul divano immersa in una nuvola di fumo che spesso faceva tossire Thorn. Infatti fu preso da un attacco di tosse e nascose il viso tra i capelli della mamma.
Non capì molto di ciò che successe dopo. Le voci si alzarono, Berenilde la supplicò, Thorn fu posato per terra e messo di fronte a dei giocattoli per distrarlo. Ma la sua attenzione era calamitata dalle due donne infervorate, che parlavano, e parlavano, e la mamma era arrabbiata e la zia disperata.
Thorn comprese solo che la mamma, dopo aver varcato la soglia di casa senza nemmeno salutarlo, non sarebbe tornata. La sua memoria non funzionava in senso inverso. Ricordava tutto, tutto il passato, tutto ciò che era avvenuto, ma non poteva sapere ciò che sarebbe avvenuto. Però sapeva che era andata via per sempre. Lo sapeva.
La zia lo prese in braccio e lo cullò, mentre lui la fissava con gli occhi vitrei, chiari e acquosi. Tossì ancora.
- Mi prenderò cura io di te, piccolo Thorn. Ora curiamo questa brutta bronchite e poi starai meglio. Vedrai, crescerai sano e forte. E poi ti prenderai cura te della zia, che ne dici?
Il bimbo nascose la testa nella spalla della zia e annuì, stanco.
- Io mi occupo di te, tu ti occupi di me. Bravo bambino. Andremo d’accordo, vedrai. Ti piace la zia?
Annuì ancora prima di addormentarsi.
Non aveva un padre. Sua madre se n’era andata. Rimaneva solo la zia Berenilde.
Si aggrappò alla sua veste nel sonno.
 
Aveva sei anni ed era bravissimo in matematica.
A scuola era il bambino con i voti più alti ed era una spanna sopra tutti gli altri, nonostante avesse appena imparato a scrivere e contare. La sua salute era un po’ migliorata, non si ammalava più così spesso anche se la zia continuava a riempirlo di vitamine amare e disgustose. Diceva che facevano bene, e lui obbediva senza fiatare. Lo zio lo ignorava, per lo più, ma non era cattivo. Nemmeno Freya e Godefroy erano cattivi. Erano i suoi fratellastri, anche se non capiva cosa significasse. Mezzo fratello. Thorn non se ne curava. Nemmeno loro erano cattivi.
Tutto sommato era una vita serena, la sua. Andava a scuola, mangiava le medicine che la zia gli propinava, faceva il bravo. Ogni tanto Freya e Godefroy giocavano con lui.
Era estate e giocavano fuori all’aperto, perché era abbastanza caldo e la zia Berenilde diceva che la luce naturale del sole gli faceva bene. Era come se prendesse le medicine via pelle invece che via bocca. Thorn non capiva, ma obbediva lo stesso e giocava sui bastioni con i fratelli. Fu la prima volta in cui si sentì orgoglioso, capace e bravo.
Godefroy tirò fuori dalla tasca dei dadi che aveva intagliato lui stesso.
- Con gli artigli – rivelò al fratello più piccolo, chinandosi su di lui e sussurrando.
Godefroy era grande e grosso, più vecchio di lui. Per Thorn era un gigante. Ma non era ancora così grande da capire come girava quel mondo di adulti di cui un giorno avrebbe fatto parte.
Thorn ammirava il lavoro del fratello. Voleva essere come lui, preciso e sveglio. Si inventarono un gioco di matematica per far passare la noia. Quando si resero conto che lui, il più giovane, era particolarmente bravo, invece di fare dei test individuali, Freya e Godefroy lo misero alla prova. Gli fecero fare calcoli di ogni genere, anche se Thorn li considerava abbastanza semplici ed elementari.
Era bravo. Loro lo guardavano come se fosse bravo. Erano stupiti. Erano felici. Lui era felice. Sorridevano tutti e tre. Sulla via del ritorno suo fratello, anche se era mezzo fratello, gli scompigliò i capelli.
- Continua così – gli disse, mettendogli in mano i dadi. – Tienili, te li sei meritati.
Freya lo guardava con affetto e rispetto. Era uno di loro. Era come loro. Non era solo.
Ed era bravo in qualcosa.
 
Aveva otto o nove anni e correva a casa di Berenilde.
Poteva farlo perché la sua cuginetta era sveglia. La zia non voleva che ci fosse rumore quando la piccola dormiva, perché rischiava di svegliarsi. Voleva bene alla cugina, assomigliava alla zia.
Quando sentì un rumore al piano di sopra, corse su per le scale e si buttò tra le gambe di Godefroy, rischiando di farlo inciampare. Risero. Suo fratello, mezzo fratello, si era alzato ancora. Era così alto e imponente! Invece Thorn cresceva poco. A lui non importava molto, ma la zia era preoccupata. Credeva che non mangiasse abbastanza, così gli ricordava sempre di mangiare e portarsi qualche merendina dietro per non stare a stomaco vuoto. Però non era preoccupatissima, come un tempo, perché si ammalava molto raramente. Era diventato forte.
 Ormai Godefroy era quasi adulto, un adolescente, così l’aveva definito la zia, ma ogni tanto giocava ancora con lui e Freya. Si divertiva così tanto! Si rincorsero per la casa, Thorn ridendo e cadendo qua e là, Godefroy scappando e facendogli gli sgambetti. Gli sbatté addosso quando arrivarono nel salotto, dove la zia Berenilde, Freya e la mamma di Godefroy stavano prendendo il tè. Thorn si spostò da dietro Godefroy e salutò Freya, contento. Voleva invitarla a giocare con loro. Ma Freya non lo guardava. Era zitta e non sorrideva. Godefroy e la zia Berenilde erano immobili. Anche la mamma di Godegroy era immobile, ma lo guardava.
Lo guarda molto male. Lo odiava.
Thorn aveva sentito quella parola dalla zia Berenilde, che aveva detto di odiare una donna che pensava fosse sua amica. Da quel momento non aveva più visto l’amica della zia che lei odiava. Forse nemmeno la mamma di Godefroy non voleva più vederlo. Thorn non sapeva spiegarsene il motivo, ma i suoi occhi non gli piacevano.
I suoi fratelli, mezzi fratelli, giocarono con lui molto di meno dopo quella volta. C’era sempre la loro mamma in mezzo, e Thorn sapeva che era colpa sua se non potevano più divertirsi. Se lei lo odiava, allora lui odiava lei, perché non voleva più vederla.
Che visione edulcorata del mondo, aveva! Da grande avrebbe capito cosa fosse l’odio, che di certo non era il sentimento di antipatia infantile provava il Thorn di quasi nove anni nel salotto della zia.
Thorn sputava nella tazza della mamma di Godefroy senza che lei se ne accorgesse. Lei lo ignorava. I suoi fratelli, mezzi fratelli, non giocavano più con lui, e quando lo facevano, Thorn non si divertiva più come una volta. Quando si rincorrevano usavano gli artigli, e lui si sentiva pungere qua e là da tanti aghi. Ridendo chiedeva loro di smettere, e allora loro smettevano ridendo, ma dopo poco ricominciavano. Quando andava a dormire dopo aver giocato con loro, aveva male ovunque. Non era più tanto bello giocare con loro.
Ora voleva tanto bene alla zia Berenilde e alla piccola cugina. Un po’ meno bene Freya e Godefroy. Nemmeno un po’ di bene alla loro mamma.
Odiò la loro mamma quando iniziò a lacerargli la testa con la sola forza di uno sguardo. Lei lo odiava, lui pensava di odiarla, ma non capiva.
Iniziò a stare in camera sua quando venivano i suoi mezzi fratelli e la loro mamma, perché era stanco di avere sempre male.
 
Aveva dodici anni quando la zia gli fece un bel regalo.
Ormai non giocava più con nessuno, né coi suoi mezzi fratelli, né con la sua cuginetta, perché non c’era più. La zia era stata molto triste, ma ora aspettava un altro bambino, ed era più serena. Non pioveva più a dirotto fuori dal castello, lei non piangeva più tutto il giorno. La presenza di Thorn le era di nuovo gradita e di conforto, e la zia lo considerava di più. Si era anche scusata.
Isolato, con Berenilde sofferente e i suoi mezzi fratelli lontani, Thorn giocava con i dadi intagliati di Godefroy. Era un buon modo per far passare il tempo, e si esercitava nella matematica, che non lo abbandonava mai. Non come Freya e Godefroy, che ascoltavano la loro mamma, che riempiva la loro testa di sciocche bugie. Non era vero che il loro papà, di tutti e tre, era morto per colpa sua. Thorn non aveva fatto nulla! Ma lei diceva di sì e loro ci credevano.
Lanciava i dadi, contava, calcolava, analizzava, e poi si esercitava con le combinazioni e le probabilità. Dopo un certo numero di lanci otteneva un certo risultato. Nessuno diceva a quei dadi che il numero uno era un traditore così che l’uno non uscisse più. Non funzionava così. L’uno continuava ad uscire, perché la statistica non mente. Erano imprevedibili, ma la loro prevedibilità glieli rendeva cari. Non erano influenzati da menzogne esterne, obbedivano alla loro legge intrinseca. Lui doveva essere come loro.
Oggettivo. Obiettivo. Analizzatore. Incontaminato.
La zia gli regalò un bell’orologio d’oro per farlo contento. Era un modello da taschino, con una catenella d’oro, un bel quadrante preciso e nel complesso di buona fattura. Si capiva che era un oggetto prezioso e di classe, costoso. A Thorn però non importava. Poteva anche essere fatto di fango e sabbia, tanto era l’importanza affettiva che gli attribuiva. Era un regalo sincero, onesto, che sgorgava dal cuore della zia. Qualsiasi fosse stato il materiale da cui era tratto, il valore per lui era inestimabile.
- Il tempo scorre, ma la zia ci sarà sempre per te – gli disse, accarezzandogli i folti capelli biondo chiaro, quasi argentei.
Lui strinse l’orologio nel pugno, se l’appuntò sulla camicia, e sorrise alla zia. In silenzio, un sorriso che valeva mille volte più di un ringraziamento, data la rarità con cui compariva.
La zia sorrise ancora di più e iniziò a chiacchierare del cuginetto in arrivo. Diceva che sarebbe stato un maschio. Ma Thorn non la ascoltava. Strinse l’orologio nel pugno tutta la notte, e il giorno successivo, finché il suo peso divenne il peso di Thorn, e i suoi ticchettii i compagni fidati di Thorn, e il suo colore la scintilla di vita di Thorn. Il suo valore, l’orgoglio di Thorn.
Ma non era un gioco, un orologio. Così Thorn continuò a giocare in un angolo con i suoi dadi, serio, in silenzio. Una via di mezzo tra l’infanzia e l’adolescenza, tra l’ingenuità e la consapevolezza, tra l’ignoranza e la comprensione, tra la protezione e la violenza. La zia però non era arrabbiata, perché aveva sempre il suo orologio con sé.
Thorn si stancava presto delle cose di poca importanza. Non dava loro più peso. Non le considerava. Non erano nulla, non valevano il suo tempo.
 Non si staccò mai dall’orologio.
 
Aveva quindici anni quando passò il confine tra infanzia e adolescenza.
Tra male e bene. Il mondo perse i suoi colori, le risate non ebbero più suoni, i sorrisi non ebbero più forma.
Steso sul tappeto di camera sua, agonizzante, odiò per la prima volta.
Odiò tutto. Tutti.
Il fuoco gli scorreva nelle vene. Veleno. La zia non era in casa, ovvio che qualcuno avesse cercato di farlo fuori. Non si illudeva più di una finta bontà inesistente. Le persone erano cattive, egoiste ed egotiste, arroganti e invidiose. E chi non lo era, lo diventava.
Figlio bastardo. Nato da una relazione adulterina, vergognosa. Costretto a vivere con la zia perché ripudiato da una madre ripudiata. Il padre, suo e dei suoi fratellastri, morto. Mai conosciuto. Ora capiva perché la mamma dei suoi fratellastri lo odiava. Ora capiva. E capiva anche cosa fosse l’odio. Capiva perché i suoi fratellastri non giocavano più con lui, non lo consideravano più. Se non per additarlo come bastardo. La cicatrice frastagliata che aveva sul polso non era un caso fortuito. Ora capiva che Freya non si era sbagliata quando gliel’aveva inferta. Non era un malinteso, come aveva cercato di spacciarlo. Era odio anche quello.
Si sentiva morire, ma non voleva farlo. La vita non gli aveva dato nulla, lui non aveva nulla da dare agli altri, ma non voleva morire. Sua zia aveva bisogno di lui. Avrebbe vissuto fintanto che qualcuno avesse avuto bisogno di lui. E poi studiare gli piaceva. C’era un posto nel mondo anche per lui; e se non c’era l’avrebbe trovato. Non era stato desiderato come gli altri figli legittimi, del resto.
Chiuse gli occhi, rallentò la respirazione, smise di rantolare. Strinse i pugni, gli occhi, corrugò la fronte. Sembrarono passare secoli, ma alla fine il dolore scemò. Una domestica lo trovò e lo aiutò ad alzarsi, a mangiare, gli fece bere un filtro calmante. Aveva ancora gli spasmi di dolore, ma poteva controllarlo.
Non aveva il controllo su nulla, tranne sé stesso. Su sé stesso, giurò quel giorno, avrebbe sempre avuto il controllo. Emozioni, espressioni, tutto in regola, tutto ordinato, tutto nella giusta prospettiva.
Da quel giorno non sorrise più. Iniziò a parlare lo stretto necessario.
La patina di colori fittizi che copriva il mondo dei bambini era caduto. Dietro c’era solo marciume.
Da quel giorno la sua fronte e le sue sopracciglia non si rilassarono mai più.
 
Aveva diciassette anni quando imparò a non rispondere alle provocazioni.
Godefroy e Freya lo torturavano lentamente. Aveva già tre possenti artigliate sulla schiena. Avevano impiegato un mese a guarire, la pelle però era ancora sensibile al tocco. Il tocco… lo disgustava il contatto con altre persone. Persino con zia Berenilde. Non voleva essere toccato. Calore umano, gesti gentili, dimostrazioni d’affetto… tutto falso, distorto, vuoto e funesto. La sua Memoria infallibile non gli permetteva di dimenticare il passato, tutto il passato, persino quello strano e incomprensibile passato trasmesso da sua madre, ma gli sembrava che ad aver vissuto la sua infanzia fosse un’altra persona, un altro bambino che non esisteva più.
Era diventato alto, sano, temprato, padrone di sé. Non grosso come Godefroy, purtroppo. La smisurata altezza non può intimorire una persona che è il doppio di te in larghezza. Metà dono familiare non può competere con un detentore di quel pieno dono.
Non doveva rispondere alle provocazioni di Godefroy, in casa della zia per una piccola riunione. Doveva ignorarlo, stare zitto, come se non esistesse. Non serrava nemmeno più i pugni quando si innervosiva. I pugni erano un preludio alla violenza, e lui disprezzava la violenza. Un’arma per i deboli. Lui non voleva essere debole. I forti non cedono alla violenza.
Invece rispose a tono al fratellastro alticcio. Già il fatto che fosse ubriaco avrebbe dovuto farlo desistere. Ma i bollori adolescenziali erano ancora forti in lui, le membra tese, i nervi scattanti.
Dopo le molteplici punzecchiature di artigli e i commenti spregevoli e volgari sul conto di sua madre e del suo destino, scattò in piedi, sovrastandolo.
- Smettila – sibilò con voce di ferro, fredda e inflessibile. – Per quanto mi disprezzi, abbiamo quasi lo stesso sangue, fratello. E io sono un bastardo. Condividi metà del tuo prezioso e altolocato sangue con un bastardo. Questo cosa fa di te? Un mezzo…?
Non concluse. Godefroy sogghignò e la vista di Thorn divenne rossa. Il sangue gli colava a rivoli dal sopracciglio, sull’occhio, a cascata sulla guancia, giù per la camicia. Sentì un altro squarcio aprirglisi sulla guancia, un altro fiume di sangue che procedeva nella discesa. Poi divenne rosso anche l’altro occhio, e sentì la tempia aprirsi come un cratere.
- Che ne dici? – berciò a sua volta Godefroy, che aveva perso del tutto l’ilarità. Vomitava le sue parole addosso a Thorn come fossero sputi. – Ora hai anche tu un marchio, mezzo fratello. Un Clan tutto tuo. Quello dei bastardi. Sarai un mezzo Drago, un mezzo quell’altra cosa che hai preso dalla sgualdrina di tua madre, un mezzo figlio forse, per Berenilde, un mezzo fratello per me e Freya, ma bastardo lo sei tutto intero. In ogni fibra del tuo ridicolo corpo sproporzionato.
Berenilde urlò quando si accorse del viso pesto di Thorn, e subito si precipitò a medicarlo.
Thorn aveva diciassette anni quando gli vennero inferte tre artigliate sulla schiena, come frustate al corpo di un essere indegno di vivere, ma degno di essere punito, e tre al viso, due verticali che gli spezzavano sopracciglio e guancia, e una orizzontale sulla tempia. Più quella di Freya sul polso, un braccialetto pallido e a buon mercato che non si sarebbe mai potuto togliere.
Aveva sette cicatrici a diciassette anni.
Arrivò a ventitré prima di compierne diciotto.
Raggiunse le quaranta quando finì gli studi.
E quando divenne cancelliere il numero cinquantasei era marchiato a fuoco e sangue sulla sua pelle.
Cinquantasei tatuaggi d’odio.
Cinquantasei motivi per non guardarsi indietro e non fidarsi di nessuno, se non di sua zia.
Cinquantasei evidenze del suo stato di bastardo inutile e abominevole.
Cinquantasei.
 
Aveva vent’anni quando capì di non essere abbastanza.
Per quanto affetto sua zia nutrisse nei suoi confronti, lui non sarebbe mai stato suo figlio. Non le sarebbe mai bastato.
Dopo la morte dell’ultimo figlio e del marito, tutto ciò che le rimaneva erano sua mamma, quella calunniatrice falsa ed egoista, e Thorn, il nipote bastardo. Sua madre non poteva sicuramente lenire il dolore del lutto, ma forse Thorn sì, dal momento che era stato cresciuto da lei, che era stato allevato come la sua prole, senza differenze.
Ma la zia non lo guardava più. Non gli parlava più. Quasi non mangiava più.
La zia non voleva essere malvagia, non ce l’aveva con lui. Semplicemente, l’unica cosa presente per lei in quel momento, importante, era il suo dolore. I figli morti. Assassinati. Il marito anche. E senza lui, come avrebbe potuto provare a continuare a generare una discendenza? Non era nemmeno più così giovane, ormai. Le sue possibilità si stavano dissolvendo, così come le sue speranze. La matematica, del resto, non mente.
Lui aveva sopportato i suoi cugini. Non amati, quello no. Non capiva i bambini piccoli, e non capiva la zia che li amava. I marmocchi facevano cose inconsuete, sfidavano le leggi, non comprendevano il mondo. Per la società erano… abbastanza inutili. Se non addirittura deleteri. In che modo contribuivano alla miglior gestione della vita comune? Alla creazione di profitto? Alla vendita, all’amministrazione, all’espletazione delle pratiche? Non facevano nulla di vantaggioso. Assorbivano solo attenzione, energie, tempo.
Utilità inversa.
 
Era un giovane adulto quando bruciò tutte le tappe per diventare intendente.
Divenne il cancelliere più giovane nella storia del Polo e affiancò l’intendente in carica per un periodo di prova che avrebbe dovuto concludersi con il passaggio di grado e il pensionamento del suo mentore. Non era solo merito dei suoi ottimi voti, lo sapeva. Era pur sempre un bastardo senza diritti. Lo zampino di sua zia aveva fatto il grosso del lavoro, ma lui era pronto a dimostrare il suo valore. La vita non gli aveva regalato nulla, quello di Berenilde era solo un trampolino di lancio, non un lasciapassare.
Thorn era emozionato quando varcò la soglia dell’Intendenza per l’inizio del suo apprendistato. Gli sembrava di essere al suo primo giorno di scuola. Fresco di promozione, con i voti più alti che uno studente potesse ricevere, una buona istruzione alle spalle e la sua Memoria pronta per essere sfruttata e collaudata per il bene della società, si sentiva fremere di eccitazione in tutto il corpo. La sua emozione si traduceva fisicamente in uno sguardo impassibile e freddo, un controllo assoluto della propria rigidità e una loquacità ancor più stentata del solito. Non aveva salutato nemmeno la zia quella mattina, che gli saltellava attorno come una bambina in attesa di un regalo. Non lo aveva baciato, accarezzato o toccato per incoraggiarlo, come avrebbe fatto qualsiasi zia, qualsiasi mamma, orgogliosa, ma per Thorn la sua presenza aveva significato moltissimo.
L’intendente lo accolse freddamente. Parlava poco come lui. Dopo un’ora capì che quell’uomo piccolo ed energico gli piaceva. O meglio, non lo disprezzava. Era pragmatico ed efficiente, svolgeva il suo lavoro in modo sussiegoso, asciutto e diretto, e si rivolgeva ai cittadini con imparzialità, senza ossequi o distinzioni di genere e ceto. La legge era uguale per tutti, e lui li trattava allo stesso modo. Lui era la legge.
Thorn imparò più da quel piccolo ometto tarchiato in un giorno che dai membri della sua nefasta famiglia in un’intera vita. All’intendente lui era pressoché indifferente. Gli dava ordini, lo trattava come se già sapesse tutto, come se non fosse lì per imparare il mestiere. Thorn capì che non era antipatia nei suoi confronti, era solo il modo che aveva di trattare chiunque. Per sua fortuna, lui imparava in fretta, merito della spiccata intelligenza e del senso del lavoro, della volontà che aveva di rendersi utile, di trovare il suo posto nel mondo. Non per ultima, fu grazie alla sua Memoria proverbiale che nel giro di poco tempo divenne competente quanto l’intendente in carica, senza mai sbagliare un colpo, confondersi o ritardare. A volte lo anticipava persino. Questo non gli piacque.
Thorn credeva di renderlo orgoglioso a lavorare duramente. Del resto era lui il suo mentore e addestratore, era merito suo se aveva imparato tutte quelle cose ed ora sapeva svolgere la sua mansione al meglio delle sue capacità. Ma la sua freddezza, silenziosità, compostezza e alacrità spinsero l’intendente a fraintenderlo. Cominciò a vederlo come un insetto che voleva fregargli il posto e mandarlo in pensione prima del previsto. Che voleva farsi bello agli occhi dei ministri, primeggiare e scalzarlo dal suo ruolo prestigioso.
Iniziò così a trattarlo come tutti gli altri: con malcelato disgusto, con disprezzo, cercando di attaccargli addosso il senso di inferiorità che derivava dal suo stato di bastardo. Thorn cambiò atteggiamento di conseguenza. Non si chiuse in se stesso come al solito. Suo malgrado, comprendeva la paura dell’uomo, perché era un tipo di timore che aveva già a suo tempo interiorizzato e accantonato: il terrore di non essere abbastanza, di essere sostituito, di non essere indispensabile.
Cercò di emularlo per mostrargli che lo ammirava. Sì, che proprio lui, ammirava qualcuno. Non aveva mai prestato attenzione al suo aspetto fisico e al modo in cui si presentava. Si pettinava e riordinava, era sempre preparato di tutto punto, ma non lo faceva per apparire attraente per le dame di corte o per mostrarsi. Il suo stato di bastardo bastava a tenere lontano qualsiasi tentativo di flirt da parte delle donne della buona società, che non lo vedevano nemmeno, e i gentili omaggi di Godefroy al suo viso avevano fatto il resto. Nessuno lo guardava. Se accadeva, era un errore, e la persona distoglieva subito lo sguardo. Se era fatto intenzionalmente, era perché l’interlocutore lo vedeva per la prima volta; e dopo averlo fatto, sussultava, spesso inorridiva, e distoglieva lo sguardo. Per quel che lo riguardava, avrebbe anche potuto evitare di sbarbarsi, pettinarsi, curarsi, tanto nessuno prestava attenzione a lui. Nemmeno lui stesso. Non gli interessava granché come appariva, si disgustava da solo, ma rendersi presentabile trasmetteva un messaggio. Un messaggio che Godefroy, Freya e tutti dovevano percepire: niente lo avrebbe abbattuto. Non gli interessavano i giudizi altrui.
Così imitò l’intendente. Un giorno si presentò al lavoro con un pizzetto curato, a cui diede la forma di un’àncora nel giro di poco tempo. Il suo mentore portava così la barba, e Thorn sperava che recepisse il messaggio: l’imitazione è la più grande dimostrazione di ammirazione.
Sortì l’effetto opposto. Ogni giorno sentiva l’intendente brontolare che ora stava persino cercando di assomigliargli, che era un copione, un impostore, che lo irritava. Thorn se ne dispiacque. Nessuno gli aveva mai insegnato quelle cose da uomo, come farsi la barba, come tagliarla. Nessuno gli aveva insegnato nulla da uomo, a dire il vero; come cambia il corpo, come si cresce, come ci si pone con le signore. Vedeva Archibald ogni tanto, che faceva il galante con chiunque respirasse, e che dispensava occhiolini e ammiccamenti come se fossero semplici saluti. Un giorno aveva strizzato l’occhio persino a lui, che lo aveva incendiato con lo sguardo. Thorn non aveva avuto un mentore di vita. Non aveva avuto un padre e lo zio aveva convissuto pacificamente con lui fino alla sua morte, ma non l’aveva mai considerato suo figlio.
Thorn era un giovane uomo solo e senza guida.
Smise di imitare l’intendente, smise di parlare se non per questioni necessarie, smise di considerare il mondo. Se veniva trattato così, forse anche lui doveva trattare in quel modo gli altri.
Dopo alcuni mesi la situazione si stabilizzò. Lavoravano in silenzio, ognuno nei propri spazi, interagivano poco, ma Thorn era un buon osservatore. Scoprì tutto di lui. Era un vedovo senza figli. Lui e la moglie non avevano potuto averne, e si erano rassegnati. La moglie era morta da un paio di anni, lasciandolo completamente solo. Ma lui l’aveva amata. Amata davvero. Erano tante le signore che si presentavano all’intendenza, giovane donne a volte disperate, che chiedevano un’udienza da sole con lui, lanciando occhiate insistenti a Thorn. Ma l’intendente, cogliendo l’antifona, non le guardava nemmeno più in volto, chinava la testa e diceva con la sua profonda e burbera voce che se avevano qualcosa da dire potevano farlo solo e soprattutto in presenza del suo allievo.
Thorn non capiva granché di amore, se non che lui non avrebbe mai provato quel sentimento incomprensibile, ma seppe con certezza che l’intendente, per riuscire a rifiutare con tanta forza d’animo le velate proposte di belle signore, doveva aver amato di cuore, profondamente, indissolubilmente.
Thorn imparò da lui la fedeltà, la lealtà, la coerenza, la professionalità. Imparò a provare affetto per lui.
E l’intendente lo percepì. Non cambiò radicalmente atteggiamento, la vedovanza lo aveva reso effettivamente coriaceo e silenzioso, laconico, ma non odiava più Thorn. Lo aveva accettato come un naturale proseguimento delle cose. Non se lo dissero mai, ma l’intendente si abituò a lui, e furono entrambi grati della loro silenziosa compagnia.
Il giorno prima di morire per infarto arrivò a dirgli: - Sai, non ho mai trovato nessuno rapido ed efficiente come te. Sei un gran lavoratore. Credo che sarai migliore anche di me.
Thorn non aveva lasciato trasparire nessuna emozione, si era limitato ad osservarlo in silenzio, non sapendo come rispondere. Il cuore gli batteva forte. Cosa gli prendeva?
Quando si ritrovò da solo all’Intendenza, il giorno successivo, e capì che sarebbe sempre stato solo lì dentro, da quel momento in poi, Thorn pianse. Chiuse le porte, staccò i telefoni, e pianse per la prima volta da quando aveva tre anni e aveva compreso che sua mamma non sarebbe mai tornata a prenderlo, perché non lo voleva.
Avrebbe potuto rispondergli, invece di stare zitto. Avrebbe potuto dirgli: - Il merito è vostro. Siete un ottimo insegnante.
Oppure: - Grazie, mi avete insegnato bene.
Anche solo: - Grazie.
Invece era stato zitto come sempre, e quel vecchio era morto da solo, credendo che l’unica persona che l’avesse mai amato se ne fosse andata due anni prima, e che a quel mondo a nessuno importasse nulla di lui.
Com’era per Thorn.
Al funerale era da solo. Non c’era nessun parente, nessun amico. L’ex intendente viveva per il lavoro, non aveva figli né nipoti. Aveva lasciato qualcosa di sé solo a Thorn, e lui non gli aveva fatto sapere che era stato speciale. Che gli si era affezionato. Che era stato importante, molto importante per lui. Che lo aveva stimato, lui, che non aveva mai stimato nessuno, soprattutto sé stesso.
Quando tornò a casa dopo il funerale, il suo sguardo era cambiato ulteriormente.
Non era freddo. Era gelido. Insensibile. Gli doleva il petto, il cuore non stava calmo, e si promise che non si sarebbe mai più ammorbidito per nessuno. Non avrebbe più voluto bene a nessuno, se non a sua zia.
Non si guardò mai più allo specchio, se non a pezzi: i capelli, per pettinarli. Guance e mento, per rasarli.
Si disgustava da solo.
Si odiava.
 
Era troppo giovane quando cadde nell’oscurità dell’odio totale.
Era ancora più giovane quando quell’odio divenne indifferenza. E l’indifferenza, non se ne accorse nemmeno, è peggiore dell’odio. Perché l’odio tiene vivo, e spesso deriva dall’amore.
L’indifferenza invece è assenza. Vuoto. Mancanza. Morte di qualsiasi cosa. E fa male.
Intendente a tutti gli effetti, svolgeva il suo ruolo senza passione, senza quell’eccitazione iniziale. Non era più così felice di servire quella società disgustante. Non era più così sicuro di poterla migliorare.
I ministri erano solo arrivisti che pensavano al proprio tornaconto, senza rispetto per nessuno. Archibald era compreso tra loro, ed era forse il peggiore. Lui non pensava proprio. Lo aveva visto distruggere matrimoni e rubare il cuore a giovani fanciulle da maritare, ingannandole e abbandonandole. Ultimamente bazzicava persino attorno a sua zia, ma sapeva che Berenilde era troppo furba per farsi incastrare da uno come lui.
Si stufò presto di tutto e tutti. Quando si rese davvero conto di come funzionava la meccanica di ministri e cortigiani, ammirò ancora di più il defunto intendente. Chiedevano più di ciò che era lecito ottenessero, e quando Thorn deliberava negativamente, cercavano di corromperlo. Divenne subito un monotono sistema di negazione, il suo.
La richiesta del cittadino era fondata? No. Delibera negativa. Nemico aggiuntivo.
La richiesta era valida e necessaria? Sì. Delibera positiva. Nessun ringraziamento, nessuna coercizione.
Thorn era quasi divertito nel constatare quanto fosse senza fine l’odio che si poteva provare nei confronti di qualcuno che esercitava le sue funzioni nel rispetto di quelle leggi scritte che tutti erano tenuti a rispettare.
Divenne il cittadino più odiato del Polo. La sua fama lo precedeva. La sua mancanza di tentennamenti lasciava senza fiato. Nemmeno il più piccolo comma di qualsivoglia norma gli sfuggiva.
Lui era la legge. La faceva rispettare nel rispetto del suo lavoro.
E questo alle persone non piaceva.
La corruzione è sempre la scelta più acclamata.
Aveva bisogno di aria, ma non ne aveva il tempo. Non ne aveva nemmeno per vivere.
 
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Thorn respirò a pieni polmoni, interrompendo quel flusso di ricordi. Avvertiva sempre una fitta quando pensava al suo mentore, l’intendente che lo aveva preceduto.
Tirò fuori dal taschino l’orologio e lo guardò nella penombra della cabina, contando automaticamente i secondi, minuti, ore che gli mancavano per raggiungere la fidanzata. Lo strinse forte per calmarsi, poi tornò a fissare il nulla fuori dall’oblò.
Non gli piaceva quella storia. Avrebbe preferito non coinvolgere nessuno nei suoi piani, specialmente una donna.
Specialmente un’animista. Si era documentato su di loro, sui loro doni familiari. La zia aveva giurato di aver trovato la miglior lettrice di Anima, quello che gli serviva. Peccato che avesse già rifiutato due pretendenti. Due cugini. Nella sua arca era un affronto, un rifiuto simile. Se non altro, questo a Thorn piaceva. Ma il suo rifiuto era anche pericoloso. Non gli interessava che la fidanzata fosse servile, ribelle, o qualunque altra cosa. Gli bastava che facesse il suo dovere: gli donasse il suo potere da lettrice.
E gli desse dei figli per continuare la progenie, data la grande fecondità degli animisti. Thorn storceva il naso ogni volta quando la zia glielo ripeteva, circa tre volte ad ogni incontro. Lui avrebbe volentieri saltato quella parte: non amava, per niente, i marmocchi, e il disprezzo che provava per l’umanità era esteso a tutti, donne incluse. La loro intimità sarebbe stata difficile, già lo percepiva. Sperava solo che non fosse una libertina, che non andasse col primo che capitava, dopo averlo visto in volto. Ad esempio con Archibald.
Strinse l’orologio un’ultima volta prima di metterlo via, per evitare di romperlo. Passeggiò per lo spazio angusto e cercò di calmarsi. Avrebbe fatto a meno di una fidanzata. Di una moglie. Non prometteva nulla di buono quella situazione.
Nessuno si sarebbe innamorato di lui, avrebbero avuto un matrimonio vuoto, falso, insignificante.
E lui non era in grado di amare nessuno, specialmente una donna frivola e dedita alla procreazione com’erano le animiste. La lettera della madre della sua fidanzata lo aveva fatto rabbrividire. C’era troppa energia, troppa vitalità, incontenibilità in quelle parole.
Non si sarebbero mai amati. Era matematicamente certo.
 
Ma Ofelia non era matematica. Ofelia distruggeva le certezze.
Aveva una predisposizione naturale alle catastrofi.
Thorn si era aspettato una moglie frivola. O disgustata da lui. Magari elettrizzata dalla possibilità di fuggire dalla sua Arca.
Si era aspettato tutto.
Ma mai che si sarebbe innamorato perdutamente della sua imprevedibile, forte, intelligente, decisa e gentile fidanzata.
Però successe.
Successe come un fulmine a ciel sereno dopo un’ora, un’ora, dal loro incontro.
E ciò che lui fece fu dare il peggio di sé.
Del resto, non gli era rimasto che il vuoto, dentro.
  
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