Videogiochi > League of Legends
Segui la storia  |       
Autore: Black Swallowtail    24/03/2020    1 recensioni
“Jhin,” aveva chiesto, “ho una domanda.”
Jhin ne era rimasto deliziato.
“Quando una falena esce dalla sua crisalide, ricorda ancora la sua vita da bruco?”
Jhin si era fermato. La musica era cessata ed aveva riflettuto. Aveva ripreso a suonare con una mezza risata. L’aveva guardata danzare e i suoi occhi sembravano non riuscire a staccarsi da lei.
“Non posso risponderti, mia Orianna. Io sono ancora un bruco. Ma spero che tu, un giorno, possa trovarmi e darmi la risposta.”
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Caitlyn, Vi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

DUE: essere giustizia.

C’era fermento nel commissariato e la tensione negli ultimi giorni era palpabile. I motivi, ipotizzava, erano tre: uno, le notizie della guerra in Ionia parlavano dell’impiego di armi chemtech da parte dei mercenari Zauniti, una pratica disumana, la mossa di chi sembrava non avere riguardo per la vita umana; due, Jayce, l’eroe di Piltover, era sparito al di là dei confini della città e non aveva ancora fatto ritorno. Aveva provato a contattarlo, ma senza successo, e in lei cresceva il timore divorante che potesse essergli accaduto qualcosa; Jayce, d’altra parte, non era più lo stesso da quando aveva ingaggiato uno scontro con Urgot — o quel poco di umano che restava di lui.

Ma il terzo elemento di disturbo era quello che più la convinceva, che più le dava da pensare, e in quel momento aspettava annidato all’interno della sua cassaforte personale, alla sua destra, appena dietro alla rastrelliera dei fucili da cecchino. In mezzo ai documenti segreti e di massima importanza, scritti su ruvida carta di Demacia o bianca e perfetta di Piltover, c’era un altro messaggio; o meglio, una pergamena, un capolavoro di calligrafia adornato di sghiribizzi e ghirigori. Sarebbe bastata una sola occhiata per riconoscerla immediatamente come una missiva proveniente da Ionia; era stata chiusa con il sigillo di ceralacca di Demacia, qualche loro spia che si era premurata di avvertire la città e le sue forze dell’ordine del pericolo imminente.

Khada Jhin, si mossero le labbra, l’artista omicida venuto da Ionia.

Non era la prima volta che gestivano terrorismo. Piltover portava ancora i segni del passaggio di altri elementi turbolenti o corpi di rivoltosi e bande criminali che avevano fatto del sacrificio di innocenti la loro arma. Tuttavia, questo caso era particolare, al di fuori di ogni schema, di ogni movente o linea d’azione: non era follia, voglia di distruzione, denaro, ricatto o potere che muovevano questo enorme punto interrogativo. Il suo documento descrittivo era stato chiaro: Jhin era un artista; un artista che aveva immolato la sua esistenza sull’altare della bellezza e aveva deciso di trasformare la propria vita, ed il mondo con essa, in un atto di edonismo.

Nato a Ionia, vissuto a Ionia. Età sconosciuta, giovane, non più di quaranta, non meno di trenta. Diversi anni come attore in una compagnia teatrale itinerante per la provincia di Zhyun. Secondo lavoro, assassino efferato, imprendibile e misterioso. Lo avevano chiamato Il Demone d’Oro, si era creato una leggenda attorno, e poteva immaginarsi quanto ne fosse compiaciuto. I tipi come lui, aveva imparato a proprie spese, sono degli egomaniaci squilibrati.

Allievi del Wuju, soldataglia, cacciatori di demoni, nessuno lo aveva scovato; finché l’Ordine dell’Equilibrio non si era mosso ed il Gran Maestro lo aveva scoperto e catturato. Invece di essere giustiziato, il Gran Maestro aveva ottenuto che fosse imprigionato in un monastero per riuscire a riformarlo. Personalmente, non sapeva cosa pensare di quella scelta, una parte di lei era d’accordo — non erano loro i carnefici e la legge, si ripeteva, divide gli uomini dalle bestie. D’altra parte, il rapporto descriveva Jhin come troppo al di là del limite per essere raddrizzato.

Nel monastero di Tuula, Jhin aveva dato prova di maestria in diverse branche dell’arte, tra cui poesia, musica, recitazione, pittura, calligrafia e forgiatura. Un genio a trecentosessanta gradi. Poi, qualcuno lo aveva liberato per utilizzarlo come arma contro Noxus.

Il resto, ovviamente, è storia.

Aveva imparato a memoria quel rapporto, a forza di leggerlo negli ultimi giorni. Era inequivocabile, Khada Jhin era arrivato a Piltover e non aveva fatto grossi sforzi per nascondersi. Aveva passeggiato tranquillamente per le strade, ma nessuno era riuscito ad arrestarlo; e quando lei e Vi erano state avvertite, era sparito. Ora si trovava con un mandato di arresto per il serial killer più pericoloso del continente tra le mani e il disperato incarico di rintracciarlo. Aveva dedicato ogni goccia del suo sangue e tante ore del suo sonno a coordinare le operazioni di setaccio, senza grande successo.

Una settimana era scivolata e l’uomo mascherato non aveva fatto la sua mossa. Aveva quasi sperato, ingenuamente, che avesse raccolto le sue cose e si fosse dileguato, stanco di Piltover e della sua tecnologia. Un desiderio che, ovviamente, non era stato esaudito.

La porta del suo ufficio si aprì appena, lasciando solo uno spiraglio e la luce vi filtrò attraverso; il buio della stanza si allontanò e rischiarò la sua figura abbandonata contro la poltrona, il fucile abbandonato contro la scrivania, il mento poggiato contro il palmo della mano.

“Posso entrare?”

Una domanda insolita, da parte sua. In un’altra occasione, avrebbe sbattuto la porta e non si sarebbe fatta problemi ad interromperla. Si diede un colpo al viso, un leggero schiaffo contro la guancia, si schiarì la voce.

“Entra pure.” Il tono della sua voce suonò artificioso alle sue stesse orecchie. Avrebbe voluto mandarla via e rimanere immersa nel buio, con i suoi pensieri, ancora un po’. Ma in quanto sceriffo di Piltover non poteva semplicemente chiudere il mondo fuori dalla porta. Sapeva che sarebbe venuto a bussare, con due grossi guantoni Hextech.

Vi non si era cambiata, per cui il paio di guanti da battaglia brillavano tenui nella semioscurità della stanza. La tenuta da pattuglia era spenta, segno che lo scudo era stato disattivato, e che quindi era rientrata di urgenza.

Si aspettava qualche notizia su Jhin, qualche indicazione, qualunque cosa che la scuotesse, la costringesse a rimettersi in piedi e ad affrontare la realtà, quanto meno di tornare a fingere che tutto andasse per il verso giusto.

Invece, Vi fu molto cauta e si sedette di fronte a lei senza fretta. La osservò togliersi i guanti, quelle due poderose armi hextech spegnersi e cadere sul pavimento con un tonfo metallico: un’azione che conosceva alla perfezione, tante volte si era ripetuta davanti ai suoi occhi. Il rumore indicava che le mani di Vi erano libere, che potevano torcersi, cercare di tenersi buone tra di loro; lo vedeva il nervosismo nei suoi occhi, nei suoi atteggiamenti, in quelle situazioni.

Nell’ultimo periodo la tensione si era accumulata tra di loro e, se ne era resa conto, non riuscivano nemmeno più a sfiorarsi con gli occhi. Vi la cercava, lei fuggiva; lei la guardava di sottecchi, Vi si voltava, faceva finta di nulla. Non le dava la colpa di nulla, lei cercava di fare quel che poteva; e d’altra parte, non era mai stata brava con queste cose. La sua specialità, lo diceva lei stessa, era sferrare pugni. Essere diretta. L’unica con cui sembrava non riuscirci più era…

“Cait.”

“Mh?” si scosse di colpo, le mani che tormentavano il cappello sulle ginocchia, gli occhi seguivano la linea delle spalle, il collo, si fermavano al mento e alle labbra. Gli occhi erano zona al di là della sua giurisdizione, almeno da due settimane a quella parte.

“Ho detto, come mai sei al buio? Perché non accendi la luce?”

La risposta automatica ingranò e arrivò alle sue labbra, “Sono stanca,” una risposta meccanica, una perfetta copertura, uno scudo contro le scomodità e la verità che la teneva alla gola, “per questa faccenda di Jhin. Del terrorista. Non abbiamo indizi, vero?”

Vi sospirò. Le sue spalle si alzarono, divorò l’aria, la sputò fuori rassegnata. Frustrata. Non riusciva a parlare come avrebbe voluto, lo sapeva. Vedeva la distanza che le stava separando, il banco di nebbia che si infittiva tra di loro, avrebbe voluto alzarsi e vomitarle addosso tutto il fango che aveva nello stomaco, che risaliva acido fino alla bocca e la soffocava.

Il fango le aveva preso la gola e la faceva respirare a fatica, Vi lo sapeva; ed avrebbe voluto estrarlo con la forza, farla parlare anche a suon di pugni, Caitlyn ne era consapevole. Ma c’era qualcosa che le fermava entrambe. Per cui, non facevano altro che guardarsi di nascosto; per cui, tenevano le labbra strette ed i denti serrati; per cui, continuavano ad annegare.

“Abbiamo una pista. È solo una testimonianza, ma potrebbe aiutarci.” Avrebbe dovuto esultare per quella notizia, invece il tono pesante e soffocato con cui l’aveva comunicata strinse il cuore a Cait. Si poggiò il cappello in testa, lo calò sugli occhi, per nasconderle il viso che si increspava; cosa sto facendo, si disse silenziosa, cosa diavolo sto facendo. Guardò Vi da sotto la visiera, la osservò mentre se ne stava rigida e con il viso contratto, i pugni serrati, le labbra chiuse. In tensione, come se dovesse scattare di colpo, come se da un momento all’altro dovesse prenderla per la collottola e sbatterla contro il muro. Era già successo. Non era stato piacevole… ma lo ricordava con calore.

Stava spezzando la donna più forte che avesse mai conosciuto?

“Una testimonianza? Chi?”

“Una dei nostri. Oggi era al Piazzale d’Ingresso Est ed è stata avvicinata da un automa funzionante e senziente, non…” si affrettò ad aggiungere, “…del tipo di Viktor, sembra. Sembrava smarrita e sperduta. Aveva chiesto qualche indicazione confusa, poi si era allontanata; ed è stata avvicinata da…”

“Da Jhin,” la anticipò, “Cosa vuole un assassino fuggiasco di Ionia da un automa?”

Era una domanda retorica. Nessuna delle due poteva saperlo, nessuna delle due aveva anche solo un’idea su cosa potesse partorire una mente distorta come la sua.

“Sappiamo qualcosa di… di C?”

Vi alzò le spalle. Non era un argomento che affrontavano con piacere. Era uno dei pesi sulla coscienza di entrambe, seppure per motivi diversi. C, per quanto ne sapevano, poteva già essere sulle tracce di Jhin, pronta ad aggredirlo con una squadra e catturarlo per risolvere il problema a modo suo. Cosa che, ovviamente, rendeva ancora più imperativo agire in fretta.

“Abbiamo delle telecamere di sorveglianza sulla piazza?”

“Qualcuna di quelle sperimentali. Dovremmo controllarle.”

Serviva il suo permesso, certo. Nessuno poteva accedere agli archivi dei nastri senza il permesso dello sceriffo. Guardò Vi per qualche secondo, la scrutò, cerco qualcosa al di sotto di quell’espressione contratta. Si morse il labbro, le dita giocherellavano colme d’ansia, esattamente come le sue, senza guanti, che tentavano di non contrarsi, di non muoversi d’istinto.

Spostò gli occhi verso l’alto. Quello era stato un territorio difficile da esplorare, negli ultimi tempi, lo aveva evitato inconsciamente. Ed ora, con uno sforzo che le fece torcere lo stomaco, sfiorò gli occhi di Vi.

“Hai il mio permesso.”

Silenzio. Si odiò per quella risposta, si odiò per aver girato la poltrona, si odiò per aver affondato i denti nelle labbra. Non riusciva a guardarla in faccia, non riusciva a guardarla negli occhi. Quello che aveva visto era abbastanza. Avrebbe voluto strapparselo dalla testa, avrebbe voluto cacciarla via dalla stanza e sperare di essersi immaginata tutto.

Sentì la sedia che veniva spinta all’indietro.

Trattenne il fiato. Vattene, sussurrò, vai via. Vattene, vattene, vattene.

Il pugno si abbatté sulla scrivania senza preavviso. Il rumore del legno che si incrinava rimbalzò per la stanza, risuonò violento fuori dall’ufficio. Qualcuno si avvicinò alla porta, provò ad aprirla, ma Vi si voltò di scatto. Aveva la voce roca.

Aveva la voce incrinata.

“Lasciateci sole.”

Una voce che assomigliava ad una palude torbida, una fanghiglia di impulsi incontrollabili, di rabbia ed esasperazione.

Cait si ritrovò a pensare che se l’avesse presa a pugni, se le avesse spaccato la faccia, lo avrebbe accettato. Avrebbero smesso di parlarsi, lei si sarebbe allontanata e la distanza si sarebbe allungata di miglia. Forse, in quel caso, Vi sarebbe stata meglio.

La porta si chiuse, uno scalpiccio al di là rimase sospeso per un momento nella stanza buia, ancora vibrante di quel colpo sferrato con rabbia, no, con frustrazione. Cait era rigida, con le spalle contro lo schienale della sedia che non sembravano volersi muovere, l’intero corpo in tensione. Gli occhi cercavano qualcosa, al di là della finestra che dava su Piltover, qualcosa che potesse darle una via di fuga.

Ogni respiro era una boccata d’aria che sputava subito dopo. Come se stesse annegando ed annaspando, cercava di ingurgitare l’aria attraverso la fessura delle labbra. Si chiese se anche Vi potesse sentire il suo petto che urlava e si divincolava, d’istinto si portò la mano al petto, come se cercasse un modo per soffocare quel rumore, il battere incessante, più assordante del suo fucile.

Non osava voltarsi, non ci riusciva, una parte di lei si rifiutava di guardare in viso il suo braccio destro. Se lo avesse fatto, ne era sicura, si sarebbe incrinata; e non avrebbe mai permesso a qualcuno di vederla spezzarsi, non una volta di più. In silenzio, sospesa, in bilico, in attesa.

Vi, dietro di lei, aveva poggiato entrambe le mani sulla scrivania, i denti tanto serrati da stridere gli uni contro gli altri; la vista annebbiata le restituiva l’immagine della scrivania spaccata, gli oggetti, i documenti, tutto scagliato via; la sua mano destra si era spaccata all’impatto, le nocche spellate e sanguinolente, grosse schegge che le trapassavano la pelle. La sentiva pulsare ritmicamente, seguiva il flusso del suo sangue, il suo respiro mozzato.

“Cosa sta succedendo?” il suo tono di voce tremava. Era un tifone, ricolmo di un miscuglio indecifrabile, un rigurgito del turbinio che aveva dentro. “Vuoi dirmi cosa ti prende?! Perché non mi guardi in faccia, perché non mi parli quasi più?! Perché sembri un dannato fantasma, perché sembri sempre sul punto di scoppiare?!” Controllare le emozioni non era il suo forte. Era questo che le aveva permesso di tirare avanti. Era questo che le era piaciuto di lei. Ed era questo che metteva in ogni pugno che sferrava.

“Sto bene. Non sta succedendo nulla,” la risposta suonò falsa ed artificiosa perfino a se stessa e dovette sopprimere l’impulso di vomitare la bile acida che risaliva con ogni parola, “sono solo stanca.”

“Non ci provare!” un nuovo colpo al tavolo, questa volta senza tutta quella forza bruta istintiva, abbastanza da farlo tremare e minacciare di cedere, “Non provare a mentirmi in questo modo, hai capito? Ti conosco, qualcosa non va. Puoi darla a bere agli altri, ma non a me.”

“Da quando ti interessa come sto?”

“Cosa hai detto?”

Si portò una mano alla bocca. Le parole erano uscite istintive, un meccanismo di difesa violento che la spezzò di colpo, la azzannò alle viscere, mentre ancora la sua bocca si apriva, rispondeva, “Se secondo te qualcosa non va, perché non me lo hai chiesto prima? Perché non hai fatto nulla?”

Era un colpo basso. Era meschino, mostruoso, orrendo. Non lo pensava davvero… giusto? Scosse la testa. Una parte di lei, quella spaventata, braccata, le diceva che se a Vi fosse davvero importato qualcosa, sarebbe venuta da lei prima. Avrebbe fatto qualcosa, invece di guardarla e basta, di girare la testa o abbassare gli occhi quando veniva scoperta ad osservarla.

Ma sapeva benissimo che lei aveva provato a raggiungerla. Non ci era riuscita, perché era spaventata, perché non sapeva come comportarsi. Perché c’era una barriera, tra di loro, uno strato di sottile vetro che le divideva, che le teneva lontane e impediva loro di toccarsi. E Vi, che sfondava i muri di cemento a pugni, non riusciva a distruggere quella lastra.

“Non importa, dimentica quello che ho detto.”

Vi calciò la sedia su cui si era seduta, la mandò a sbattere contro il muro, qualche crepa, il legno e l’acciaio che sbattono e si deformano, “Dannazione, Cait, dannazione!” La voce rauca, la gola che fa male perché deve trattenere con le unghie e con i denti le lacrime, “Non so cosa fare, non so come devo comportarmi! Te ne stai lì in silenzio, senza dire nulla a nessuno, senza dire nulla nemmeno a me! A me, Cait, che sono il tuo…”

Si bloccò.

“Il mio cosa?”

Rifiutava quel titolo. La faceva sentire inadeguata, parte di un sistema troppo grande che non capiva, che la spaventava, proprio come allora.

Poteva quasi vederla contrarsi, i suoi occhi chiudersi, il viso accartocciarsi per mantenere l’impeto che la assaliva. Sentì che si avvicinava e ancora Cait non si mosse; lasciò che lei afferrasse le spalle e, con un movimento brusco, voltasse la sedia così che si trovassero faccia a faccia. La guardava dall’alto in basso, torreggiava su di lei, il viso che era una maschera spezzettata e multiforme che combatteva contro se stessa. Orgoglio contro sentimento, le mozzò il respiro, proprio come lei. No, per lei era diverso — per lei era il dovere.

“Vi…” iniziò, allungò la mano verso la sua. Non lo avrebbe mai detto, certo. Ed andava bene così, perché aveva accettato che c’era una sorta di barriera invisibile tra loro ed il mondo, che avevano preparato per se stesse. Non aveva la presunzione di infrangerla, perché l’avrebbe lasciata esposta. Vulnerabile. Vi aveva giurato che non sarebbe mai stata vulnerabile, mai più.

“Il tuo braccio destro, Cait! Il tuo dannato braccio destro!” le afferrò le spalle, mentre urlava, la voce rotta, che andava in mille pezzi, mille respiri strappati dalla bocca, “Cosa ti succede?” sussurrò, mettendosi in ginocchio di fronte a lei, il viso nascosto, verso terra, la voce poco più che un mugugno, “Perché non vuoi parlarmene?”

Caitlyn abbassò la testa a sua volta. Entrambe, se ne rese conto, continuavano a sfuggirsi. Entrambe continuavano a nascondersi. Cosa avrebbe dovuto dirle? Avrebbe dovuto prenderle la mano, la mano che si era distrutta e spaccata in un impeto di rabbia, stringerla, ricacciare indietro le lacrime. Avrebbe dovuto prendere un respiro, cercare le parole giuste, cercare di riuscire a mettere insieme e a dare forma alla sua torma viscida e ai suoi spettri. Sarebbe dovuta tornare indietro, con la memoria, avrebbe visitato di nuovo il magazzino dove aveva trovato i suoi genitori rapiti; o avrebbe rivisto gli esperimenti chemtech sui bambini, o gli sfigurati dalle bombe della terrorista con il lanciarazzi, avrebbe dovuto ricordare i visi distrutti di chi era sopravvissuto mentre la ringraziavano, ben sapendo che avrebbe potuto fare di più, che non era bastato.

Si sentiva piccola, inadeguata. Sentiva le spalle curve sotto il peso di una città enorme e famelica. Sentiva la schiena che scricchiolava, che si avvicinava al punto di rottura. Sentiva gli sguardi degli altri, sentiva l’aspettativa, il giudizio; sentiva di sbagliare, di commettere errori, sentiva di aver ucciso più persone di quanto potesse contare solo perché aveva dormito, solo perché non aveva disinnescato prima una bomba, solo perché aveva permesso ad Urgot di infiltrarsi nella città, perché non riusciva a catturare l’uomo con la maschera, perché aveva esitato a sparare il colpo letale su Jinx.

Si sentiva insignificante. Impotente. Si sentiva di nuovo una bambina con il cappello troppo grande e la pistola giocattolo. Non era eroica come Jayce, incrollabile come Vi. Lei era, semplicemente, una donna che aveva una stella sul petto.

Ed era spaventata, come la notte in cui aveva trovato la sua casa distrutta ed i suoi genitori rapiti da quell’essere mostruoso chiamato C. Ed ora che C. si avvicinava, ora che C. stava per incrociare la sua strada…

“…perché non sono mai abbastanza, Vi?”

Con il viso affondato nella spalla di Vi, Caitlyn fece una cosa che avrebbe voluto molto tempo fa: pianse, senza che Piltover la guardasse.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > League of Legends / Vai alla pagina dell'autore: Black Swallowtail