La
pioggia non le era mai piaciuta. Anna si rigirò nel
letto, allontanando con un calcio le coperte sudate e facendo
sussultare
Cassandra che si era rannicchiata ai suoi piedi, sonnecchiando come suo
solito
sul copriletto. Eppure non è
così caldo… anzi! Notò
la
ragazza, scostandosi dal busto la maglia del pigiama. Era di cotone, ma
in quel
momento le sembrava pesante come piombo.
Sono
meteoropatica,
si disse, ascoltando lo scroscio leggero della pioggia di fine
ottobre. Lentamente, Anna si mise a sedere e sospirò
controllando l’ora sul suo
cellulare: il problema non era solo la scarsa tolleranza nei confronti
del
maltempo. Il display dello smartphone la informava
che erano le due e
cinque, il che significava che erano passate tre ore e cinque minuti
dal
momento in cui era andata a letto.
Maledetta
insonnia,
pensò la giovane, stringendo tra le mani il lenzuolo. Si
sarebbe
dovuta alzare per andare al lavoro dopo meno di cinque ore e, se si
conosceva,
non sarebbe riuscita a prendere sonno prima di
un’ora. Non senza aiuti,
per lo meno.
Si
alzò controvoglia e raggiunse il bagno senza nemmeno
calzare le ciabatte, stringendo i denti quando la superficie fredda
delle
piastrelle le aderì alla pianta dei piedi. Eccoci
qui, pensò,
afferrando la confezione di benzodiazepine che il suo medico di base le
aveva
prescritto più di un anno prima. Non mi
eravate affatto mancate,
pastiglie.
Anna
manovrò brevemente con il blister e poi si rigirò
nel
palmo della mano la piccola compressa bianca. Prenderla
tutta o solo
metà? Questo è il dilemma. La ragazza
chiuse gli occhi per un istante e poi
si guardò allo specchio. Si sentiva stanca. Sembrava anche
stanca. Erano già un
paio di notti che non dormiva bene, che sentiva un filo di ansia
serpeggiare
attorno a lei quando la sera si alzava dal divano e si apprestava a
compiere la
routine per andare a letto. È tutta colpa
della pioggia, si disse
ancora, cercando di trovare una spiegazione al malessere che, dopo un
lungo
periodo di tregua, sembrava essere tornato a tormentarla. Della
pioggia
e della solitudine.
Erano
passati ormai più di sette giorni dalla prima e unica
volta che aveva incontrato Sabrina ed Esther. Avevano avuto intenzione
di
incontrarsi più spesso, ma il mal tempo aveva fatto
naufragare i loro piani:
Sabrina odiava muoversi di casa quando pioveva e Frida aveva accusato
un
principio di raffreddore che aveva fatto precipitare nel panico Esther.
Di
conseguenza, niente uscite in compagnia. Non che quando fosse a
Villanuova Anna
avesse chissà quale vita sociale, ma la nuova routine fatta
di casa, lavoro,
supermercato e ancora casa stava iniziando a lasciare il suo segno
nefasto
nella psiche della giovane.
E
poi, quando stavo a Villanuova avevo Lorenzo.
Il pensiero del suo ex ragazzo e,
di conseguenza, di ciò che aveva perso aprì una
voragine di malinconia nel suo
petto. Non le mancava Lorenzo, no: le mancava il fatto
di stare con
Lorenzo, di scherzare con lui, di preparare una torta insieme, di farsi
un giro
in bici in compagnia e di farsi coccolare acciambellata sul
divano. Mi
sento tanto sola, riconobbe, mentre lacrime trattenute a
stento le
inumidivano gli occhi. Mi manca la mamma, e Paolo e
Francesco e Giulio
ed Enea…
Inspirando
a fondo per reprimere un singhiozzo, Anna si
gettò in bocca la pastiglia di sonnifero e si
chinò per bere un sorso d’acqua
direttamente dal rubinetto. È roba
leggera, questa, si
consolò. Il dottore mi aveva detto di prenderla
ogni volta che ne avessi
avuto bisogno. Non da dipendenza, a queste dosi.
Ma
non era tanto quello, il problema. Estraendo tutto il
contenuto della confezione di cartone, contò il numero delle
pillole residue:
quindici, un blister e mezzo. Ne ho per quindici
giorni o, se sono
brava, per un mese. Se fosse ricaduta nel circolo
vizioso
dell’insonnia, dove la paura di non dormire generava una
tensione che rendeva
effettivamente impossibile prendere sonno, quelle poche compresse
sarebbero
sparite rapidamente, e allora le sarebbe toccato recarsi dal suo nuovo
medico
di base per chiederne delle altre. Che bella
presentazione: non mi ha mai
vista e la prima volta che gli arrivo in studio è per
chiedergli dei sonniferi.
Mi prenderà per una depressa o una drogata.
Riponendo
risolutamente i blister nella loro confezione, la
ragazza si costrinse a respirare profondamente, concentrandosi solo sul
flusso
dell’aria che le entrava e usciva dai polmoni. Con gli occhi
chiusi si portò
una mano all’altezza dello sterno, alla ricerca della riprova
tattile del fatto
che il ritmo del suo respiro si stava facendo più lento e
profondo. Nella piega
del collo, appena al di sopra della clavicola sinistra, avvertiva il
battito
concitato del cuore. Calmati, si impose, svuotando
completamente i
polmoni e poi lasciando che l’aria tornasse lentamente a
riempirli.
Quando
il calore che le aveva invaso il corpo iniziò a
scemare, la ragazza riaprì gli occhi e fissò il
proprio volto pallido riflesso
nello specchio del bagno. Si sentiva già un po’
meglio, ma sapeva per
esperienza che se fosse tornata subito a letto avrebbe vanificato tutti
gli
sforzi compiuti per riprendere il controllo sulla propria psiche.
Venti
minuti,
pensò, abbassando lo sguardo sull’orologio: tanto
ci voleva
perché la pillola che aveva ingerito facesse effetto. Nel
mentre, non poteva
guardare la tv o intrattenersi con il cellulare perché,
stando a quanto le
aveva detto una volta il suo medico, quelle attività non le
avrebbero permesso
di rilassarsi. Lasciando il bagno a passi lenti, Anna si diresse verso
il
salotto. Acciambellata su uno dei cuscini del divano, Calliope dormiva
tranquilla. La ragazza le si sedette accanto con uno sbadiglio,
sentendo già
una piacevole sonnolenza premerle sugli occhi. Probabilmente
mi sto
autoconvincendo che la pastiglia stia già facendo effetto,
ma chi se ne frega.
Distrattamente,
la giovane allungò una mano verso la gatta e
con la punta di due dita disegnò il contorno di una macchia
nera così ben
definita da essere riconoscibile anche nel buio della notte. Calliope
la lasciò
fare per qualche secondo e poi emise un miagolio soffocato,
acciambellandosi in
un gomitolo felino ancora più compatto di prima. Messaggio
ricevuto,
pensò Anna, rimettendosi in piedi con un gemito. Vuoi
essere lasciata in
pace.
Fuori,
lo scroscio della pioggia sembrava essere scomparso. Che
abbia finalmente smesso di piovere? Si chiese occhieggiando
in direzione
della portafinestra. Afferrando la coperta di plaid drappeggiata sullo
schienale del divano, Anna se la gettò attorno alle spalle e
se la strinse
addosso, raggiungendo la porta che dava sul giardino. Non appena ebbe
messo
piede fuori dall’uscio, la ragazza si rese conto di aver
commesso un errore: la
coperta le teneva al caldo busto e gambe, ma non faceva nulla per i
suoi poveri
piedi a contatto con la fredda lastra di marmo posizionata appena oltre
la
portafinestra. Dondolando da un piede all’altro e tentando di
scaldarseli un
poco alla volta appoggiandone la pianta sugli stinchi coperti dal
pigiama, la
giovane annusò l’aria: anche se le nuvole basse
che ancora ingombravano il
cielo avevano smesso di scaricare a terra il loro contenuto,
c’era odore di
pioggia, di terra, di foglie morte e di fumo di sigaretta.
Fumo
di sigaretta? Anna
arricciò il naso e si guardò attorno, cercando di
identificare la fonte di quell’odore molesto. Non fu sorpresa
di scoprire che
veniva dal giardino alla sua sinistra. Eh!
Pensò con un mezzo sorriso
sarcastico. Certo che ce li ha proprio tutti, i difetti,
quello lì! La
cosa che più la incuriosiva, però, era capire che
cosa ci facesse Oleksander in
piedi a quell’ora: che soffrisse anche lui
d’insonnia? Sulle prime non ci aveva
fatto caso, assonnata com’era, ma ora vedeva che
nell’appartamento del suo
vicino di casa c’era una luce accesa.
Anna
represse un brivido. Faceva freddo lì fuori e
l’umidità
che permeava l’aria stava iniziando a superare lo scudo della
coperta di plaid.
Presto le sarebbe penetrata fin nelle ossa, e allora sarebbe stato
difficile
scaldarsi quel tanto che bastava per prendere sonno. Proprio mentre
stava
valutando se potesse tornare a coricarsi anche se non erano ancora
passati i
venti minuti raccomandati dal bugiardino del farmaco che aveva assunto,
un
baluginio arancione attirò la sua attenzione. Oddio!
Pensò la ragazza,
con un sussulto. Ma è in giardino anche lui? Non
me n’ero accorta!
Il
primo istinto fu quello di balzare indietro e di
nascondersi nella sicurezza del suo appartamento, ma si trattenne. Se
l’idea
era ridicola ai suoi stessi occhi, figurarsi a quelli di Oleksander, se
si
fosse accorto della sua fuga scompagnata. Muovendo appena il capo per
evitare
di attirare l’attenzione, Anna sbirciò verso il
giardino alla sua sinistra.
Riusciva a intravvedere la sagoma dell’uomo attraverso la
cortina formata dalla
rete metallica e dai rami del gelsomino che vi crescevano sopra: era
immobile,
esattamente come lei, e solo il suo braccio destro si alzava e
abbassava di
tanto in tanto, portando alle labbra la sigaretta accesa.
Non
si è accorto che sono qui,
pensò, oppure se n’è accorto
benissimo e ha deciso di ignorarmi. Anna si
abbracciò per tenersi un po’ al
caldo e si chiese se fosse il caso di dire qualcosa, magari di
rivolgergli
anche solo un saluto di circostanza per conservare una parvenza di
buone
maniere. Ma ho davvero voglia di mettermi a fare
conversazione? Si
chiese, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla sagoma scura
dell’uomo. E
che cosa dovrei dirgli? “Ehi, ciao, questa è
davvero una bella nottata per
trovarsi in giardino vero? Sai com’è, di solito a
quest’ora dormo, ma questa
notte non riesco a chiudere occhio perché mi sento sola e ho
paura di essermi
infilata in un vicolo cieco e mi sento completamente persa e spaesata.
E tu,
invece? Qual è il tuo problema? Cos’è
che ti spinge a fumare in giardino in piena
notte?”
Le
parole erano lì, sulla punta della lingua, ma Anna
sentì
il fiato morirle in gola. Lasciamo perdere, si
disse. Considerata la
sua disarmante simpatia, come minimo mi ride in faccia e mi dice di
farmi i
fatti miei. La giovane sospirò. L’idea
di parlare con qualcuno che non
fossero le sue gatte era allettante, ma sentiva di non avere la forza
di
intrattenere una conversazione notturna con il suo irritante vicino di
casa.
Con
un’ultima occhiata fugace in direzione dell’uomo,
la
ragazza si voltò per tornare in casa. Con estrema
attenzione, si chiuse la
portafinestra alle spalle, evitando di fare rumore: chissà
perché,
improvvisamente le pareva di vitale importanza che Oleksander non si
accorgesse
che c’era anche lei, appostata nella notte umida di pioggia. Non
voglio che
mi faccia qualche battutina stupida, la prossima volta che ci vediamo,
si
disse. Non voglio trovarmi costretta a spiegargli cosa
c’è che non va nella
mia vita.
Muovendosi
quasi in punta di piedi tornò in camera da letto
e si infilò sotto le coperte. Il lenzuolo ancora caldo la
avvolse come in un
abbraccio e Anna si scoprì a chiudere gli occhi, compiaciuta
e in un certo modo
confortata da quel tepore morbido. Pochi istanti più tardi
piombò in un sonno
improvviso e non del tutto naturale.
♥♥♥
«Sei
sveglia o cosa?»
Anna
sussultò, rendendosi conto solo in quell’istante
che
erano ormai diversi minuti che stava fissando lo schermo del computer
con aria
vacua, gli occhi persi tra le righe regolari di Outlook.
Giulia, seduta
nella scrivania di fronte alla sua, si stava sporgendo dalla sedia per
guardarla meglio. Sembra una volpe,
pensò inconsciamente la ragazza. Le
era sempre sembrata una volpe, col viso pallido e
appuntito, il naso
all’insù, i grandi occhi verdi segnati dalle rughe
d’espressione e i capelli
rossi – palesemente tinti – corti e folti come la
pelliccia dell’animale
selvatico.
La
ragazza sbatté un paio di volte le palpebre nel tentativo
di riprendersi. «Ehm… sì. Scusa, sono
solo un po’ stanca.»
La
sua responsabile si diede una spintarella all’indietro e,
comodamente seduta sulla sua sedia da ufficio, scivolò verso
il muro alle sue
spalle. «Infatti hai l’aria sbattuta»
decretò, studiando la collega più giovane
con aria critica.
Anna
sospirò e si tolse gli occhiali, posandoli accanto alla
tastiera del computer. Si strofinò gli occhi per qualche
istante, ricordandosi
solo quando era troppo tardi che quella mattina aveva deciso di mettere
sia il
mascara che l’eyeliner. Perfetto,
pensò demoralizzata, adesso
sembrerò un panda. «Si nota
tanto?» chiese, inforcando nuovamente la
montatura metallica. «Questa notte ho dormito male.»
Gli
occhi chiari di Giulia si assottigliarono pensosi. «Ti
capita spesso di dormire male?»
Nervosamente
Anna ricordò che la collega aveva intrapreso
degli studi di psicologia e che, anche se non li aveva mai portati a
termine,
amava definirsi un’esperta della psiche umana. «Non
spesso» replicò la ragazza:
solo una mezza bugia, dal momento che l’insonnia
l’aveva lasciata in pace per
parecchi mesi, prima dell’episodio di quella notte.
«Forse sono solo un po’
stressata.»
«È
il lavoro che ti stressa?» la interrogò la donna.
La
ragazza si maledisse mentalmente per quell’uscita poco
fortunata: lavorava in ospedale da troppo poco tempo per potersi
permettere di
far credere al suo capo che si stesse lamentando e che fosse meno che
entusiasta della sua mansione. «No, no» si
affrettò a dire. «Il lavoro mi piace,
lo sai. È tutto l’insieme che mi mette un
po’ in difficoltà. Forse ho un po’
sottovalutato tutti i cambiamenti che sto affrontando in questo
periodo.»
Giulia
annuì saggiamente. «Ti sei trasferita a Lanzate da
sola, vero? Abiti per conto tuo.»
«Già»
confermò Anna. «Sono contenta di essermi
trasferita,
eh, non fraintendermi. Sentivo di aver bisogno della mia indipendenza e
il
fatto di avere finalmente un buon lavoro mi da molta fiducia in me
stessa,
però…»
«Però?»
la incalzò Giulia.
«Be’,
è stato un bel cambiamento. Portare avanti una casa da
sola è meno facile di quello che credessi, ma il punto non
è nemmeno quello.
Prima ero abituata a vivere con mia madre e il suo compagno, e avevamo
anche
una sorta di famiglia allargata, visto che eravamo sempre a stretto
contatto
anche con il mio fratellastro e i suoi bambini. Ero abituata a vivere
nel
rumore e nella confusione e il silenzio che trovo adesso quando rientro
a casa
è… strano.»
«Un
po’ alienante» suggerì comprensiva
l’altra donna.
«A
volte sì» confessò la giovane.
«A volte lo trovo anche
rilassante e non mi dispiace non avere nessuno che mi dice cosa fare e come
farlo, ma credo che mi ci vorrà un po’ di tempo
per abituarmi a questa novità.»
«E
quindi è stato il silenzio a non farti dormire questa
notte?»
le chiese ancora Giulia.
Anna
esitò. «Più che il silenzio, la
solitudine» ammise con
un sospiro.
Sul
volto della sua collega passò un sorrisetto rapido e
malizioso. «Oh… quindi prima
non eri abituata a dormire da sola, eh?»
La
ragazza inorridì nel sentirsi arrossire a quella
frecciatina. «No!» sbottò.
«Cioè, sì! Voglio dire…
avevo un ragazzo, ma non
convivevamo, quindi ero abituata a dormire da sola. Non è
quello il problema.»
Giulia
scrollò il capo. «Ma sì, scherzavo. Ho
capito
benissimo qual è il problema: ti mancano la tua famiglia e i
tuoi amici e tu ti
senti sola e lontana da casa. Il ragazzo c’è
ancora?»
Anna
sbuffò e afferrò istintivamente il mouse,
sentendo l’improvviso bisogno di stringere tra le dita
qualcosa di concreto. «No,
non c’è più»
mugugnò. «Ci siamo lasciati. Anzi, l’ho
lasciato io. Lui non
voleva che io tornassi a Lanzate e mi ha fatto una mezza scenata che mi
ha
fatto capire che tra noi due non poteva andare avanti.»
«Mh.»
Giulia appariva dubbiosa. «Stavate insieme da
molto?»
Anna
scrollò le spalle. «Sì: da parecchi
anni» mormorò. Poi
si riscosse. «Però non mi sono pentita di averlo
lasciato. È stata come una
rivelazione. Come si dice? Un’epifania, ecco:
all’improvviso ho aperto gli
occhi e mi sono accorta che noi due non volevamo veramente le stesse
cose. E a
quasi trent’anni non è una cosa da poco, questa.
Siamo adulti, ormai: non
possiamo più giocare a fare i fidanzatini, è ora
di iniziare a pensare
seriamente al futuro. O no?»
L’altra
donna sgranò gli occhi. «Oddio, ti ricordo che
stai
parlando con una divorziata: per quanto mi riguarda, i piani per il
futuro
valgono quello che valgono. Però, se ne sei convinta tu,
allora hai fatto bene
a lasciarlo.»
C’era
qualcosa nel suo tono che fece storcere il naso ad
Anna. «Tu pensi che non abbia fatto bene a lasciare Lorenzo?
Il mio ragazzo,
intendo?»
Giulia
sollevò cautamente le spalle. «Non lo so, non
posso
giudicare senza conoscere la situazione. Però io mi fido
poco delle
illuminazioni improvvise: ritengo che spesso siano influenzate da umori
del
momento che di profetico hanno poco o niente. Detta in altre parole:
Lorenzo ti
ha fatto girare i coglioni e tu hai deciso che era un verme e che non
volevi
più avere nulla a che fare con lui. Magari, se aveste
ragionato a mente fredda,
avreste potuto vedere le cose in modo diverso.»
Era
davvero così? Anna rifletté attentamente su
quello che
provava e aveva provato per Lorenzo e rivisse la serata in cui tutto
era
finito. Poi scosse il capo. «No, io non credo che si sia
trattato di una
decisione così impulsiva. C’erano già
delle cose che non mi piacevano di lui,
solo che le ignoravo per comodità. Poi è saltato
fuori questo lavoro, c’è stata
la necessità di trasferirsi e abbiamo dovuto affrontare la
faccenda: però sono
convinta che abbiamo solo accelerato le cose. Non credo che sarebbe
andata
diversamente, alla lunga.»
«Quand’è
così…»
«Non
mi manca» continuò Anna. «O meglio,
sì, mi manca, ma
solo perché ero abituata alla sua presenza. Se domani mi
comparisse davanti e
mi chiedesse di tornare insieme, lo caccerei via. Non vorrei tornare
insieme a
lui.»
Giulia
annuì e le rivolse un sorriso incoraggiante. «Ti
vedo
decisa, il che è un bene. Però cosa pensi di fare
per questo senso di
solitudine? Se ti impedisce di dormire bene, è una cosa che
va affrontata.»
Anna
allargò le braccia, sentendosi impotente. «Ho
ripreso i
contatti con due ragazze che conoscevo alle elementari. Siamo uscite
solo una
volta, ma ci siamo trovate benissimo: eravamo molto amiche, da bambine,
e anche
se sono passati un mucchio di anni credo che potremmo tornare a
esserlo.»
Il
sorriso di Giulia si fece più pronunciato. «Bene!
Questo
è un bene.»
La
ragazza si mordicchiò inconsciamente le labbra.
«Sì, però
il problema è che ci vediamo troppo poco, per i miei gusti.
Posso uscire con
loro due o tre volte al mese, ma poi? Tutti gli altri giorni cosa
faccio? Mi
piacerebbe conoscere altra gente, ma non so come
fare…»
La
donna seduta di fronte a lei rifletté per qualche
istante, poi parve illuminarsi. Puntando le punte dei piedi sul
pavimento, si
spinse in avanti e arrivò ad appoggiare i gomiti sulla
scrivania. «Ti serve un
hobby» sentenziò. «Un
passatempo.»
«Lo
so» gemette Anna. «Mi hanno proposto di iscrivermi
in
palestra, ma non ne ho voglia. Io schifo, odio e aborrisco
l’esercizio fisico.»
Giulia
la guardò con disapprovazione. «Sì,
brava. Ne
riparleremo quando ti cambierà il metabolismo e i rotoli di
ciccia si
accumuleranno su quel bel pancino piatto che hai adesso.»
«Grassa,
ma felice» ribatté l’altra,
imperturbabile.
Sul
volto della collega passò un’espressione scettica,
ma la
donna lasciò cadere l’argomento.
«Comunque, se vuoi la mia opinione, penso che
sarebbe una buona idea unire l’utile al dilettevole: ti piace
leggere?»
Presa
in contropiede da quella domanda, la ragazza si
ritrasse leggermente insospettita. «Be’,
sì. Perché me lo chiedi.»
«Ma
anche ad alta voce?» insistette Giulia. «Del tipo,
ti
piace leggere le fiabe?»
La
mente di Anna corse agli innumerevoli pomeriggi di
pioggia passati a leggere fiabe e leggende a Giulio ed Enea. Lei faceva
le voci
dei diversi personaggi e i due bambini ridevano come matti.
«Solo se il
pubblico non è troppo esigente. Perché?»
«Lo
sai che in ospedale abbiamo una biblioteca, vero?» fece
la donna. «I pazienti che hanno il permesso di lasciare il
loro reparto possono
visitarla in determinati orari, ma di pomeriggio offriamo anche un
servizio in
più tramite lo Sportello Volontariato: guarda un
po’ sullo scaffale dietro di
te, dovrebbe anche esserci un volantino.»
Frugando
tra le varie brochure sparpagliate alle sue
spalle, Anna ne trovò una rosa e verde che titolava
“Un Libro per Amico”. «È
questo?» chiese, mostrando l’opuscolo alla collega.
«Esatto»
annuì lei. «In sostanza, siamo un gruppo di
volontari che portiamo avanti una sorta di spazio di lettura. Il
servizio è
attivo dalle 16:00 alle 18:00, ma i volontari possono mettersi a
disposizione
anche solo per una mezz’oretta a settimana, se non hanno
molto tempo libero. Se
ti interessa, potresti andare in biblioteca direttamente dopo il
lavoro.»
Anna
aggrottò la fronte. «Non ho ben capito di cosa si
tratta…»
«Si
leggono dei libri ad alta voce a uno o più
pazienti»
spiegò Giulia con evidente orgoglio. «Ovviamente
la cosa è organizzata in base
a dei gruppi: per i pazienti pediatrici, per esempio, raduniamo quattro
o
cinque bambini e gli leggiamo delle fiabe, magari anche interpretandole
un po’.
Con gli adulti – e parliamo soprattutto di pazienti
geriatrici, di vecchietti –
facciamo invece delle letture individuali, salvo casi particolari.
Insomma,
moduliamo il servizio a seconda del tipo di utenza che
abbiamo.»
Anna
si rigirò il volantino tra le mani. «Sembra una
cosa
carina» mormorò, osservando le foto che
corredavano le didascalie. «Prima di
trasferirmi qui leggevo spesso le fiabe ai miei
nipotini…»
Giulia
sorrise di nuovo. «Oggi pomeriggio hai qualcosa di
particolare da fare? Potresti provare a fermarti anche tu: sbrighiamo
due
formalità burocratiche e poi ti faccio conoscere il resto
del gruppo.»
Prima
ancora di poter formulare una risposta, Anna sentì un
sorriso lento distenderle le labbra. «Mah, perché
no? Non ho impegni
particolari…»
«Ottimo!»
esultò Giulia. «Siamo un bel gruppetto: sono
sicura che ti troverai benissimo. Ci sono anche diversi ragazzi
giovani,
sicuramente riuscirai a farti dei nuovi amici.»
Per
tutta risposta, Anna ricambiò il suo sorriso. Farsi dei
nuovi amici? Quella sì che era una bella prospettiva.