Sai, Hachi…
Non mi sono mai chiesta
né avevo mai pensato a come si
fosse sentita mia madre
il giorno in cui mi aveva
abbandonato.
Credevo che mai sarei
diventata come lei, ma mi
sbagliavo, la fuga era
nel mio DNA,
né più né meno della somiglianza
fisica con
lei.
Il bento non sapeva di molto, ma
il consumarlo fuori
dall’ospedale mi rendeva felice.
Non avevo mai amato molto gli ospedali e poi lì
c’era il
mio passato, c’erano le persone che, pur volendomi bene, mi
avevano ferita, lì
c’erano delle conseguenze da affrontare che io volevo evitare.
Estrassi la lettera di Misato e la rilessi di nuovo.
“Quando
una persona
che amiamo così tanto ci lascia in modo così
improvviso le parole perdono il
loro potere e quelle che contano davvero sono quelle che non abbiamo
detto.
Io però vorrei
provare a esserci, sempre che tu lo voglia.
Casa mia è sempre
aperta per te, vieni pure e piangeremo insieme, in fondo alla lettera
ci sono
l’indirizzo di casa mia, quello del ristorante dei miei
genitori e il mio
cellulare.
Non so quando
riceverai questa lettera, ma può darsi che quando accada io
non sia più qui:
voglio venire a Tokyo.
Ti voglio un mare di
bene e ti porgo ancora le mie condoglianze.
Sei sempre nei miei
pensieri.”
Sorrisi
all’ingenuità di mia sorella, al suo essere
così
buona e candida, dava l’impressione di essere
un’anima forte, ma gentile.
Volevo conoscerla, magari sarei stata da lei per un po’ e poi
avrei cercato un
altro posto.
Buttai via il contenitore del bento e mi diressi a un
bancomat, prelevai il massimo consentito e poi presi la metro per
andare
all’appartamento 707, buona parte dei miei vestiti erano
ancora lì, come se
avessi sempre saputo che le cose non potevano andare bene per sempre.
Una volta arrivata lì, salii i piani di scale e riempii
un borsone con il necessario, avrei voluto prendere la mia chitarra, ma
mi
avrebbe resa riconoscibile e poi era carica di troppi ricordi. Era una
delle
cose che dovevo lasciare indietro se volevo sopravvivere.
Avrei dovuto lasciare lì la mia chiave
dell’appartamento,
invece me la infilai in tasca come a dimostrare che non si possono
recidere
tutti i legami con il passato. Non ci pensai troppo, quella notte il
mio
cervello era sfasato sull’idea di fuga ed escogitava tutti
gli espedienti per
non farmi trovare. Non potevo stare nell’appartamento o nella
città da dove
provenivo, erano entrambi luoghi prevedibili, quindi Okayama sembrava
una buona
opzione.
Andai in stazione, sentendomi avvolta da uno strano senso
di déjà-vu, un anno fa circa ero scesa da un
treno carica di sogni. Mi ero
lasciata indietro la cittadina in cui ero vissuta per
vent’anni, tutte le
vicende dolorose della mia famiglia e Ren, pronta a cominciare una
nuova vita
in città.
Volevo diventare una cantante affermata ed ero proiettata
in questo, ora invece cosa ero?
Ero una fallita, una che aveva mandato a puttane i suoi
sogni.
La mia band aveva perso ogni possibilità di continuare a
suonare per colpa mia, avevo perso Ren e avevo perso Hachi, la mia
unica amica.
Un anno fa credevo di non avere nulla, ora avevo meno di niente.
Scossi la testa, non volevo pensarci, faceva troppo male,
era stato uno degli anni più intensi della mia vita, ma mi
aveva bruciata. Ero
stata una candela che aveva dondolato per un po’ in una
tempesta, ignorando che
il mio destino era quello di tutte le candele: spegnersi.
Andai alla biglietteria e comprai un biglietto di sola
andata e poi andai al binario ad aspettare che il mio treno arrivasse,
mi
accesi una sigaretta e ignorai la gente che mi stava attorno. Speravo
che il
cappuccio alzato e un cappellino da baseball mi aiutassero a farmi
passare
inosservata, a essere una ragazza come tante.
Un quarto d’ora dopo il treno era arrivato, io avevo
obliterato il biglietto ed ero salita, mi ero seduta su un sedile
accanto al
finestrino, quella sensazione di ritorno al passato non mi abbandonava.
La pallida giornata primaverile diventava a tratti una
notte di neve e mi aspettavo da un momento all’altro che
Hachi inciampasse e
finisse per cadermi addosso per poi raccontarmi la sua vita.
Sospirai.
Non sarebbe successo – e lo sapevo benissimo – ma
il mio
cervello non lo accettava, andava frenetico dal passato al presente
senza
soluzione di continuità.
Il treno cominciò a muoversi, uscì dalla stazione
e Tokyo
iniziava ad allontanarsi metro dopo metro, forse era una
città maledetta visto
che non aveva portato fortuna né a me né a Ren.
Cullata dai miei pensieri mi addormentai, sognai di nuovo
il mio ragazzo che si allontanava da me come durante i primi giorni.
C’era solo
una piccola variazione, quando arrivavamo nell’acqua e io lo
toccavo per farlo
voltare i primi giorni mi svegliavo, ora lo vedevo: Ren non aveva
più un volto,
era solo uno scheletro.
Mi svegliai agitata, ma finii per addormentarmi di nuovo.
Questa volta ero nell’appartamento 707 e c’erano i
ragazzi e Hachi, parlavano di me, dicevano che ero scomparsa. Io provai
a farmi
notare, ma era come se fosse invisibile, nessuno si accorgeva di me,
Nobu passò
addirittura dentro il mio corpo: ero diventata un fantasma.
Continuai ad alternare i due sogni fino a che arrivai a
destinazione, quattro ore dopo, erano circa le sette e mezza del
mattino.
Scesi dal treno e mi feci spiegare dove era il ristorante
degli Uehara, ci arrivai giusto per vedere Misato che usciva in
uniforme e
Misuzu sulla soglia che la salutava.
Mi nascosi dietro una macchina, ero stata una stupida a
venire lì, come avevo potuto sperare di incontrare mia
sorella senza vedere mia
madre?
La guardai un attimo, i suoi capelli castani erano
tagliati fino alle spalle e mi somigliava, avevamo un volto molto
simile e la
stessa forma degli occhi.
Sprofondai ancora di più nel mio travestimento e seguii
Misato, era una ragazza sorridente, ma aveva un fondo di tristezza
negli occhi.
Era molto più felice di quanto lo fossi io alla sua
età e questo mi ferii un
po’, la guardavo chiacchierare con una ragazza dai capelli
corti e spettinati e
mi resi conto che io non avevo mai avuto un rapporto del genere con le
mie
compagne di classe. Nobu aveva dovuto stanarmi come un gatto dispettoso
prima
di riuscire a diventare mio amico.
Erano così le persone che avevano una famiglia che le
amava?
Avevano questo scudo che le difendeva dai cattivi
pensieri e dalla cupezza? Da cosa era dato?
Dall’amore? Dal sapere che c’erano delle persone
che ti
guardavano le spalle?
Non avrei saputo dirlo, ma in quel momenti sentii freddo
dentro, ero sola al mondo.
Guardai Misato entrare a scuola e sorrisi, le augurai di
avere una vita lunga e felice, volevo ancora conoscerla, ma avevo
l’impressione
che se l’avessi fatto avrei rovinato anche la sua esistenza.
Yasu non era diventato avvocato, Nobu era destinato a
tornare alla pensione Terashima, Shin sarebbe caduto di nuovo nel giro
della
prostituzione, Misato Uehara – la nostra aiuto manager
– si era rovinata
l’innocenza e in quanto ad Hachi era incinta e sposata a un
uomo che non amava.
E tutto perché avevano incontrato me.
Cosa avrei fatto alla mia sorellina se fosse entrata
nella mia vita?
Mi voltai e tornai a passi lenti verso la stazione, dove
sarei andata ora?
Avevo bisogno di una base per decidere le mie prossime
mosse, ma tutti i miei luoghi erano stati cancellati.
Ricordai all’improvviso una bambina che mi somigliava e
con cui giocavo a volte nelle mie estati solitarie, era la figlia del
fratello
di mio nonno. Una cugina in seconda che si chiamava Miyako,
l’avevo incontrata
una volta a Tokyo prima di andare a vivere nell’appartamento
707. Lei lavorava
come segretaria dell’ufficio comunicazioni tra
l’ambasciata giapponese e quella
americana, viveva nel quartiere diplomatico e si ricordava di me. Mi
aveva dato
il suo numero di telefono e detto di chiamarla se avessi avuto bisogno
di una
mano.
Mi sedetti su di una panchina, era passato quasi un anno
e probabilmente non si ricordava più di me, ma non avevo
altre opzioni. Non
sapevo dove andare e lei avrebbe potuto aiutarmi a uscire dal paese,
solo
all’estero avrei potuto essere libera dal peso della fama.
Sospirando presi in mano il cellulare e chiamai il
numero, il telefono squillò a vuoto per un po’,
poi mi rispose una voce
allegra.
“Pronto, qui è Miyako Osaki! Chi parla?”
“Miyako, io sono Nana Osaki. Ti ricordi di me?”
“Certo che mi ricordo di te! Sei riuscita ad avere fortuna,
la tua band è
diventata famosa.”
Io sorrisi mio malgrado, contagiata dal suo entusiasmo.
“Già. Ti ricordi che mi avevi detto di chiamarti
se
avessi avuto bisogno di una mano?
Ora ho bisogno di una mano.”
“Dimmi pure.”
“Dopo il mio malore al concerto per strada di ieri la casa
discografica ha
licenziato la mia band, io non ho un posto dove andare
perché, per varie
vicissitudini, non posso andare dai miei… amici.”
“Capisco. Beh, me le racconterai davanti a una tazza di the,
ti ospito
volentieri… anche perché anche io ho bisogno di
una mano e chi può aiutarmi
meglio che una di famiglia?”
“Ti ringrazio.”
“E di che? Chiamami quando sei quasi arrivata,
manderò qualcuno a prenderti,
farò in modo che sia una cosa discreta, girano strane
voci.”
“Del tipo?”
Il mio cuore accelerò i battiti.
“Che sei scomparsa, che ti sei suicidata.
Ho il sospetto che tu non voglia essere trovata, mi
sbaglio?”
“No, non ti sbagli. Grazie mille ancora.”
“Nessun problema.”
Chiusi la chiamata, ero metà sollevata e metà
agitata.
Sollevata perché presto avrei potuto avere un luogo
– per
di più protetto dall’immunità
diplomatica – per pensare, agitata perché la mia
fuga aveva messo in allarme tutti e generato pettegolezzi e chiacchiere
di cui
non avevo bisogno.
Ma cosa avrei potuto fare arrivata a quel punto?
Scappando dall’ospedale avevo scelto una strada e non
potevo tornare indietro, dovevo solo andare aventi e vedere dove mi
avrebbe
condotta. Non era quello che sognavo, ma ormai non mi importava
più, ero così
stanca e sfiduciata. Hachi aveva detto una volta che Reira odiava la
sua voce,
la stessa che da molti era considerata un dono di Dio, io al momento
non avevo
capito, ma ora era tutto chiaro.
Una voce potente ti spinge su un’unica difficile strada,
ti chiude tutte le possibilità, abbandonarla diventa quasi
impossibile e
finisci per essere schiacciata dai tuoi stessi sogni.
Beh, io ero riuscita a scappare e dovevo considerarmi
fortunata a modo mio.
Tornai in stazione e acquistai un biglietto per Tokyo, era
la seconda volta in un giorno in cui salivo su di un treno. Lo aspettai
paziente e quando arrivò vi salii, non ebbi incubi. A pochi
chilometri dalla
capitale chiamai Miyako e le dissi dove ero, lei mi dissi che qualcuno
sarebbe
venuto a prendermi fuori dalla stazione, io la ringraziai.
Un quarto d’ora dopo il treno rallentava entrando nella
stazione, io raccolsi il mio borsone sospirando: volevo allontanarmi da
Tokyo,
ma sembrava che avessi addosso un elastico che mi rimportava al punto
di
partenza se mi allontanavo troppo. Dovevo tagliarlo.
Scesi dal treno e uscii dalla stazione sospinta dalla
massa dei pendolari, nel parcheggio c’era una macchina scura
con un uomo
appoggiato ad essa. Mi fece in segno discreto, io lo raggiunsi e mi
sorrise.
“La signorina Osaki?”
“Sono io.”
“Somiglia alla nostra signorina Osaki.”
“Siamo cugine.”
Risposi con voce incolore.
Chissà come sarebbe stato questo incontro?
Baci e abbracci o fredda cortesia?
A parte la chiamata di poche ore prime, l’unico ricordo
che avevo di Miyako era quello di una bambina sorridente dai lunghi
capelli
neri che indossava tutti i vestitini allegri e femminili che a me erano
stati
vietati.
Il quartiere delle ambasciate era un luogo tranquillo,
c’erano dei bei palazzi con enormi giardini protetti da muri
e cancellate che
gridavano al mondo il bisogno di privacy. Mi chiesi se anche Miyako
vivesse in
un casa del genere, erano persino più grandi
dell’appartamento di Ren o di
quella di Hachi a Shirogane.
La casa si fermò davanti a un’elegante palazzina,
che era
un condominio notai con un certo sollievo.
“La signorina Miyako abita all’ultimo
piano.”
“Sì, grazie.”
Presi il mio borsone e suonai il campanello, poco dopo sentii il
sistema
d’allarme disinserirsi e la porta aprirsi, dentro
c’era un enorme atrio con un
gabbiotto di vetro per il portiere, una scala che saliva a chioccola in
una
curva raffinata sottolineata dalle
ringhiere in ferro sinuose e un ascensore retrò.
Mi avviai verso quello, era in stile liberty con una
porta in ferro battuto che si aprì quando schiacciai il
pulsante. Dentro
digitai il pulsante dell’ultimo piano e quando ci arrivai
notai che
l’appartamento di Miyako era il numero 7, sorrisi e suonai il
campanello.
Aspettai e qualche istate dopo lei arrivò ad aprirmi con
lunghi capelli e lisci capelli rossi, divisi da una scriminatura
centrale,
indossava una maglia dei Black Stones e i pantaloni di una tuta, aveva
anche un
sacco di buchi alle orecchie per essere una che lavorava nella
diplomazia.
“Ciao, Nana!
Vieni, entra!”
Mi trascinò dentro insieme al mio borsone, sembrava di buon
umore, aveva una
sorriso che le illuminava il volto.
“Ciao, Miyako. Scusami se ti sono piombata in casa
così
all’improvviso.”
“Non c’è alcun problema, mi stavo
annoiando.
Vuoi del the? Del caffè?”
Volevo una birra, ma era decisamente troppo presto.
“Del the va bene.”
“Ok.”
Sempre sorridendo sparì in cucina, non capivo il suo
atteggiamento, ma almeno
non era ostile.
Sembrava quasi di essere davvero in famiglia, da bambina
le stavo simpatica anche se i suoi genitori non volevano giocasse con
me: io
ero la rinnegata.
Figlia di una madre che era scappata di casa a diciotto
anni, che aveva iniziato un amore illecito, era rimasta incinta e aveva
abbandonato la propria prole.
Credo temessero tutti che avessi il DNA della troia, ecco
perché dovevo sopportare tante privazioni ed era meglio che
non si giocasse con
me, potevo essere contagiosa per quel che ne sapevano loro.
Miyako tornò con due tazze di the verde e le depose sul
tavolo.
“Sono stata davvero felice quando la tua band è
diventata
famosa, probabilmente sei l’unica nella famiglia Osaki che
abbia fatto qualcosa
di interessante.”
“Credo sia perché non ho mai davvero fatto parte
della
famiglia.”
Lei non disse nulla per un po’.
“Probabilmente hai ragione, mia madre si arrabbiava molto
quando giocavo con te, non capivo il perché, ma adesso lo
so. Sono come tua
madre, ma non parliamo di me.
Cosa ti è successo?
Come mai sei qui?”
Bevvi un sorso del mio the, ottimo anche, e cominciai a raccontare
tutto, dal
principio. Da quando Ren se ne era andato a Tokyo per seguire i suoi
sogni
lasciandomi indietro, alla notte in cui anche io ero salita su di un
treno per
lo stesso motivo. Le raccontai tutto quello che era successo in un anno
folle:
Hachi, ritrovare Ren, la gravidanza della mia amica, il mio quasi
matrimonio,
la morte dell’unico uomo che io avessi mai amato e tutto il
resto.
Miyako mi ascoltava in silenzio, senza interrompermi e
con lo sguardo attento, ogni tanto un brillio di emozione faceva
capolino in
quegli occhi così simili ai miei, ma non voleva che io
perdessi il filo.
Dopo quelle che parvero ore tacqui e la guardai, era
innegabilmente triste e mi dispiacque per lei che si era fatta carico
di una
fallita come me.
“Nana, mi dispiace.
Vieni da un anno durissimo, capisco perché tu voglia
scappare. Rimani pure quanto vuoi, se vorrai andare
all’estero ti aiuterò
volentieri. L’unica cosa che non capisco è
perché tu voglia escludere i tuoi
amici.”
“Sono davvero miei amici?
E se lo fossero, sono una presenza utile nella loro vita o
l’ennesima grana di cui occuparsi?
Non voglio essere una grana.”
“Capisco, forse con il tempo cambierai idea.”
Sparecchiò e lavò le tazze.
“Miyako?”
“Sì?”
“Cosa significa che sei come mia madre?”
Lei si toccò la pancia.
“Sono incinta, il padre del bambino è sposato e
non lo
riconoscerà mai.
Mi ha detto che lo manterrà, ma non vuole incontrarlo o
incontrarla.”
“Di quanto?”
“Due mesi.”
“Hai mai pensato all’aborto?”
Lei mi guardò scandalizzata.
“No! Amo questa piccola vita!”
Anche lei!
E io ancora non capivo, come potevano desiderare e
persino amare qualcosa che era un ostacolo per la loro vita futura?
Perché io
non avevo un istinto materno?
Perché per me avere un figlio era un’idea
più spaventosa
del morire stesso?
Avere figli era una cosa naturale, perché io non la
concepivo come tale, ma come una minaccia?
In ultima analisi era stata quella la cosa che mi aveva
allontanata di più da Ren dopo i Trapnest, lui mi aveva
sempre detto di volere
dei figli, ma io gli avevo opposto un rifiuto granitico, avevo
continuato a
prendere la pillola fino alla fine.
Come sarebbe la mia vita ora se avessi avuto un figlio da
lui?
Vorrei ancora scappare o avrei una ragione per rimanere e
andare avanti?
Mi toccai il mio ventre vuoto e scossi la testa, ormai le
cose erano andate come erano andate e non c’era motivo di
torturarsi
sull’ennesimo “se” della mia vita.
“Se” era la particella che più odiavo,
implicava possibilità di futuri migliori del presente in cui
ero condannata, ma
erano impossibili da raggiungere.
Se avessi accettato di avere un figlio da Ren, se lui non
se ne fosse andato, se Hachi non fosse rimasta incinta, se Nobu avesse
combattuto di più per lei, se qualcuno mi avesse detto della
tossicodipendenza
di Ren, se Reira non fosse scappata, se mia madre non mi avesse
abbandonata…
Se, se, se e ancora se.
“Hai l’aria stanca, vuoi riposare?”
Mi chiese Miyako.
“Sì, grazie.”
Mi accompagnò in una stanza grande più o meno
come la mia nell’appartamento 707
e mi indicò letto, armadio e dove fosse il bagno.
“Grazie, Miyako. Credo che farò una doccia e
dormirò.”
“Va bene, qualsiasi cosa ti serva io sono di
là.”
Annuii e tirai fuori il necessario per la doccia dal borsone e mi
infilai in
bagno: era bianco, con una bella doccia e una grande vasca da bagno. La
accarezzai distratta, pensando a quella con le zampe di leone
dell’appartamento
707.
Alla fine feci una lunga doccia che mi aiutò a togliermi
un po’ della stanchezza dovuta ai due viaggi in treno e a una
fuga
dall’ospedale.
Chissà se qualcuno mi stava cercando a quest’ora?
Riuscivo a percepire nettamente Hachi e Nobu smuovere
montagne per me, ma non Yasu e Shin, non più. Yasu non era
più la persona che
credevo di conoscere e Shin non sembrava felice di avermi attorno
nell’ultimo
periodo. Doveva essersi stancato anche lui del mio carattere da
psicopatica o
forse qualcuno gli aveva detto come ero stata rapida a decidere di
sostituirlo
con Ren al primo problema.
Scossi la testa, avevo finito di asciugarmi i capelli,
quindi mi buttai a letto, cercando di non pensare e di non ricordare.
Avevo
intrapreso questa strada da sola e da sola dovevo percorrerla, avevo
trascinato
con me troppe persone nei miei casini.
Dove potevo andare?
Questo fu l’ultimo pensiero che ebbi prima di cadere in
un sonno senza sogni, nero e spesso che mi avvolse come una coperta e
tenne
lontano incubi e ricordi.
Dovevo essere allo stremo delle forze fisiche e mentali
se il mio inconscio veniva così violentemente espulso dal
posto che gli
competeva.
Mi svegliai che era pomeriggio inoltrato, la luce
proiettava ombre lunghe nella stanza.
Mi ci volle qualche secondo per capire dove ero e come ci
fossi finita, il mio cervello stava già iniziando a
liquefare i ricordi del
giorno prima in una nebbia indistinta che mi lasciava disorientata.
Mi alzai, indossai qualcosa di comodo e andai in salotto,
Miyako stava lavorando sul suo portatile: le dita correvano leggere e
veloci
sui tasti. Ne rimasi affascinata, io a stento sapevo usare il cellulare
e
mandare messaggi prima che finisse l’anno corrente.
“Oh! Ciao, Nana!”
“Ciao, Miyako.”
“Come ti senti?”
“Non lo so.”
Risposi sincera, era tutto così strano che non riuscivo a
elaborarlo come i primi giorni dopo la morte di Ren.
C’è una parte in me restia ad accettare tragedie e
cambiamenti, una piccola bambina sperduta con un orso di peluche in
mano, la
stessa che venne abbandonata da sua madre a quattro anni.
“Nana, sei sicura che sia la cosa giusta?”
“Se io tornassi adesso verrei di nuovo coccolata da tutti, ma
per loro sarei un
peso, le nostre vite prenderanno direzioni differenti. I Blast sono
morti, io
li ho uccisi.”
Lei sembrò voler dire qualcosa, ma poi tacque.
“Un po’ ti invidio, hai sempre avuto questa forza,
anche
da piccola.
Non te fregava nulla di quello che pensavano gli altri,
inclusa la nostra famiglia e sei sempre andata avanti, io invece ho
paura.”
“Paura?”
Si toccò il ventre.
“I miei genitori mi hanno cacciata, è come se
fossi morta
per loro perché ho infranto il loro codice. La mia vita era
già programmata,
avrei lavorato qui – nel settore della diplomazia –
fino a che loro non
avrebbero trovato un uomo ricco e prestigioso con cui mi sarei sposata
e avrei
avuto dei figli.
Ora invece sono incinta di un uomo che non potrò mai
sposare e ho una paura folle, non so che futuro potrò
assicurare a me e a
questa vita. Ecco perché vorrei avere il tuo
coraggio.”
I genitori di Miyako erano così diversi da quelli di
Hachi che me ne stupii, data la mia ignoranza in campo familiare
pensavo che
fossero tutti uguali. Era una conclusione ingenua, in fondo la mia
famiglia era
stata tremenda con me e con mia madre.
“Senti, starò con te fino a che avrai partorito.
Ti va?”
“Sì, ci sto. Grazie, Nana.
Ma cosa farai dopo?”
“Non lo so, vorrei lasciare il Giappone perché
sono stanca dei giornalisti, ma
non ho ancora deciso dove andare, ci penserò in questi
mesi.”
“Capisco.”
“Io volevo solo una cosa: cantare.
Pensavo fosse una benedizione, l’unica che gli dei mi
avessero concesso in questa vita, ma i realtà era una
maledizione. Si è portata
via tutto ciò a cui tenevo, vorrei essere come Reira che si
rifiuta di cantare,
ma io voglio continuare a farlo e questo egoismo mi fa soffrire.
È come se fossi sopra una pila di cadaveri dei mie amici
e me ne fregassi di loro.
Ho sempre cordialmente detestato Reira, pur ammirandola
dal punto di vista professionale, credevo di essere migliore di lei, ma
mi
sbagliavo.
Pur essendo infantile e egoista è migliore di me.”
“Io credo che ti giudichi con troppa durezza.”
Io scossi la testa.
In un angolo della stanza c’erano Ren e mia nonna,
entrambi mi guardavano con disapprovazione, i loro occhi erano freddi e
ora
capivo perché.
Io non onoravo i morti, andavo semplicemente avanti
ignorando la loro esistenza e ora erano entrambi a ricordamelo e sapevo
che ci
sarebbero sempre stati.
Non importa dove fossi andata, in ogni angolo di
qualsiasi stanza in cui sarei stata loro sarebbero sempre stati
lì.
I morti se non li onori ti uccidono, ecco perché
preghiamo per loro.