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Autore: Layla    25/03/2020    1 recensioni
Questa fiction inizia alla fine dell'ultimo capitolo pubblicato del manga.
Cosa è successo a Nana? Come mai se ne è andata?
Come ha raggiunto Londra.
E Hachi? Hachi cerca di vivere la sua vita senza di lei, imprigionata nella sua vita di casalinga con due figlie, ma innamorata di un altro uomo. Il suo scopo è trovare Nana.
Quando troverà Nana troverà il coraggio di cambiare la sua vita?
Shin, da parte sua, troverà finalmente l'amore in qualcuno di inaspettato...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nana Komatsui, Nana Osaki, Nobuo Terashima, Reira Serizawa
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo settimo

 

Sai, Hachi…
Non mi sono mai chiesta né avevo mai pensato a come si
fosse sentita mia madre il giorno in cui mi aveva abbandonato.
Credevo che mai sarei diventata come lei, ma mi sbagliavo, la fuga era
nel mio DNA, né più né meno della somiglianza fisica con lei.

 

Il bento non sapeva di molto, ma il consumarlo fuori dall’ospedale mi rendeva felice.
Non avevo mai amato molto gli ospedali e poi lì c’era il mio passato, c’erano le persone che, pur volendomi bene, mi avevano ferita, lì c’erano delle conseguenze da affrontare che io volevo evitare.
Estrassi la lettera di Misato e la rilessi di nuovo.

“Quando una persona che amiamo così tanto ci lascia in modo così improvviso le parole perdono il loro potere e quelle che contano davvero sono quelle che non abbiamo detto.
Io però vorrei provare a esserci, sempre che tu lo voglia.
Casa mia è sempre aperta per te, vieni pure e piangeremo insieme, in fondo alla lettera ci sono l’indirizzo di casa mia, quello del ristorante dei miei genitori e il mio cellulare.
Non so quando riceverai questa lettera, ma può darsi che quando accada io non sia più qui: voglio venire a Tokyo.
Ti voglio un mare di bene e ti porgo ancora le mie condoglianze.
Sei sempre nei miei pensieri.”

Sorrisi all’ingenuità di mia sorella, al suo essere così buona e candida, dava l’impressione di essere un’anima forte, ma gentile. Volevo conoscerla, magari sarei stata da lei per un po’ e poi avrei cercato un altro posto.
Buttai via il contenitore del bento e mi diressi a un bancomat, prelevai il massimo consentito e poi presi la metro per andare all’appartamento 707, buona parte dei miei vestiti erano ancora lì, come se avessi sempre saputo che le cose non potevano andare bene per sempre.
Una volta arrivata lì, salii i piani di scale e riempii un borsone con il necessario, avrei voluto prendere la mia chitarra, ma mi avrebbe resa riconoscibile e poi era carica di troppi ricordi. Era una delle cose che dovevo lasciare indietro se volevo sopravvivere.
Avrei dovuto lasciare lì la mia chiave dell’appartamento, invece me la infilai in tasca come a dimostrare che non si possono recidere tutti i legami con il passato. Non ci pensai troppo, quella notte il mio cervello era sfasato sull’idea di fuga ed escogitava tutti gli espedienti per non farmi trovare. Non potevo stare nell’appartamento o nella città da dove provenivo, erano entrambi luoghi prevedibili, quindi Okayama sembrava una buona opzione.
Andai in stazione, sentendomi avvolta da uno strano senso di déjà-vu, un anno fa circa ero scesa da un treno carica di sogni. Mi ero lasciata indietro la cittadina in cui ero vissuta per vent’anni, tutte le vicende dolorose della mia famiglia e Ren, pronta a cominciare una nuova vita in città.
Volevo diventare una cantante affermata ed ero proiettata in questo, ora invece cosa ero?
Ero una fallita, una che aveva mandato a puttane i suoi sogni.
La mia band aveva perso ogni possibilità di continuare a suonare per colpa mia, avevo perso Ren e avevo perso Hachi, la mia unica amica. Un anno fa credevo di non avere nulla, ora avevo meno di niente.
Scossi la testa, non volevo pensarci, faceva troppo male, era stato uno degli anni più intensi della mia vita, ma mi aveva bruciata. Ero stata una candela che aveva dondolato per un po’ in una tempesta, ignorando che il mio destino era quello di tutte le candele: spegnersi.
Andai alla biglietteria e comprai un biglietto di sola andata e poi andai al binario ad aspettare che il mio treno arrivasse, mi accesi una sigaretta e ignorai la gente che mi stava attorno. Speravo che il cappuccio alzato e un cappellino da baseball mi aiutassero a farmi passare inosservata, a essere una ragazza come tante.
Un quarto d’ora dopo il treno era arrivato, io avevo obliterato il biglietto ed ero salita, mi ero seduta su un sedile accanto al finestrino, quella sensazione di ritorno al passato non mi abbandonava.
La pallida giornata primaverile diventava a tratti una notte di neve e mi aspettavo da un momento all’altro che Hachi inciampasse e finisse per cadermi addosso per poi raccontarmi la sua vita.
Sospirai.
Non sarebbe successo – e lo sapevo benissimo – ma il mio cervello non lo accettava, andava frenetico dal passato al presente senza soluzione di continuità.
Il treno cominciò a muoversi, uscì dalla stazione e Tokyo iniziava ad allontanarsi metro dopo metro, forse era una città maledetta visto che non aveva portato fortuna né a me né a Ren.
Cullata dai miei pensieri mi addormentai, sognai di nuovo il mio ragazzo che si allontanava da me come durante i primi giorni. C’era solo una piccola variazione, quando arrivavamo nell’acqua e io lo toccavo per farlo voltare i primi giorni mi svegliavo, ora lo vedevo: Ren non aveva più un volto, era solo uno scheletro.
Mi svegliai agitata, ma finii per addormentarmi di nuovo.
Questa volta ero nell’appartamento 707 e c’erano i ragazzi e Hachi, parlavano di me, dicevano che ero scomparsa. Io provai a farmi notare, ma era come se fosse invisibile, nessuno si accorgeva di me, Nobu passò addirittura dentro il mio corpo: ero diventata un fantasma.
Continuai ad alternare i due sogni fino a che arrivai a destinazione, quattro ore dopo, erano circa le sette e mezza del mattino.
Scesi dal treno e mi feci spiegare dove era il ristorante degli Uehara, ci arrivai giusto per vedere Misato che usciva in uniforme e Misuzu sulla soglia che la salutava.
Mi nascosi dietro una macchina, ero stata una stupida a venire lì, come avevo potuto sperare di incontrare mia sorella senza vedere mia madre?
La guardai un attimo, i suoi capelli castani erano tagliati fino alle spalle e mi somigliava, avevamo un volto molto simile e la stessa forma degli occhi.
Sprofondai ancora di più nel mio travestimento e seguii Misato, era una ragazza sorridente, ma aveva un fondo di tristezza negli occhi. Era molto più felice di quanto lo fossi io alla sua età e questo mi ferii un po’, la guardavo chiacchierare con una ragazza dai capelli corti e spettinati e mi resi conto che io non avevo mai avuto un rapporto del genere con le mie compagne di classe. Nobu aveva dovuto stanarmi come un gatto dispettoso prima di riuscire a diventare mio amico.
Erano così le persone che avevano una famiglia che le amava?
Avevano questo scudo che le difendeva dai cattivi pensieri e dalla cupezza? Da cosa era dato?
Dall’amore? Dal sapere che c’erano delle persone che ti guardavano le spalle?
Non avrei saputo dirlo, ma in quel momenti sentii freddo dentro, ero sola al mondo.
Guardai Misato entrare a scuola e sorrisi, le augurai di avere una vita lunga e felice, volevo ancora conoscerla, ma avevo l’impressione che se l’avessi fatto avrei rovinato anche la sua esistenza.
Yasu non era diventato avvocato, Nobu era destinato a tornare alla pensione Terashima, Shin sarebbe caduto di nuovo nel giro della prostituzione, Misato Uehara – la nostra aiuto manager – si era rovinata l’innocenza e in quanto ad Hachi era incinta e sposata a un uomo che non amava.
E tutto perché avevano incontrato me.
Cosa avrei fatto alla mia sorellina se fosse entrata nella mia vita?
Mi voltai e tornai a passi lenti verso la stazione, dove sarei andata ora?
Avevo bisogno di una base per decidere le mie prossime mosse, ma tutti i miei luoghi erano stati cancellati.
Ricordai all’improvviso una bambina che mi somigliava e con cui giocavo a volte nelle mie estati solitarie, era la figlia del fratello di mio nonno. Una cugina in seconda che si chiamava Miyako, l’avevo incontrata una volta a Tokyo prima di andare a vivere nell’appartamento 707. Lei lavorava come segretaria dell’ufficio comunicazioni tra l’ambasciata giapponese e quella americana, viveva nel quartiere diplomatico e si ricordava di me. Mi aveva dato il suo numero di telefono e detto di chiamarla se avessi avuto bisogno di una mano.
Mi sedetti su di una panchina, era passato quasi un anno e probabilmente non si ricordava più di me, ma non avevo altre opzioni. Non sapevo dove andare e lei avrebbe potuto aiutarmi a uscire dal paese, solo all’estero avrei potuto essere libera dal peso della fama.
Sospirando presi in mano il cellulare e chiamai il numero, il telefono squillò a vuoto per un po’, poi mi rispose una voce allegra.
“Pronto, qui è Miyako Osaki! Chi parla?”
“Miyako, io sono Nana Osaki. Ti ricordi di me?”
“Certo che mi ricordo di te! Sei riuscita ad avere fortuna, la tua band è diventata famosa.”
Io sorrisi mio malgrado, contagiata dal suo entusiasmo.
“Già. Ti ricordi che mi avevi detto di chiamarti se avessi avuto bisogno di una mano?
Ora ho bisogno di una mano.”
“Dimmi  pure.”
“Dopo il mio malore al concerto per strada di ieri la casa discografica ha licenziato la mia band, io non ho un posto dove andare perché, per varie vicissitudini, non posso andare dai miei… amici.”
“Capisco. Beh, me le racconterai davanti a una tazza di the, ti ospito volentieri… anche perché anche io ho bisogno di una mano e chi può aiutarmi meglio che una di famiglia?”
“Ti ringrazio.”
“E di che? Chiamami quando sei quasi arrivata, manderò qualcuno a prenderti, farò in modo che sia una cosa discreta, girano strane voci.”
“Del tipo?”
Il mio cuore accelerò i battiti.
“Che sei scomparsa, che ti sei suicidata.
Ho il sospetto che tu non voglia essere trovata, mi sbaglio?”
“No, non ti sbagli. Grazie mille ancora.”
“Nessun problema.”
Chiusi la chiamata, ero metà sollevata e metà agitata.
Sollevata perché presto avrei potuto avere un luogo – per di più protetto dall’immunità diplomatica – per pensare, agitata perché la mia fuga aveva messo in allarme tutti e generato pettegolezzi e chiacchiere di cui non avevo bisogno.
Ma cosa avrei potuto fare arrivata a quel punto?
Scappando dall’ospedale avevo scelto una strada e non potevo tornare indietro, dovevo solo andare aventi e vedere dove mi avrebbe condotta. Non era quello che sognavo, ma ormai non mi importava più, ero così stanca e sfiduciata. Hachi aveva detto una volta che Reira odiava la sua voce, la stessa che da molti era considerata un dono di Dio, io al momento non avevo capito, ma ora era tutto chiaro.
Una voce potente ti spinge su un’unica difficile strada, ti chiude tutte le possibilità, abbandonarla diventa quasi impossibile e finisci per essere schiacciata dai tuoi stessi sogni.
Beh, io ero riuscita a scappare e dovevo considerarmi fortunata a modo mio.
Tornai in stazione e acquistai un biglietto per Tokyo, era la seconda volta in un giorno in cui salivo su di un treno. Lo aspettai paziente e quando arrivò vi salii, non ebbi incubi. A pochi chilometri dalla capitale chiamai Miyako e le dissi dove ero, lei mi dissi che qualcuno sarebbe venuto a prendermi fuori dalla stazione, io la ringraziai.
Un quarto d’ora dopo il treno rallentava entrando nella stazione, io raccolsi il mio borsone sospirando: volevo allontanarmi da Tokyo, ma sembrava che avessi addosso un elastico che mi rimportava al punto di partenza se mi allontanavo troppo. Dovevo tagliarlo.
Scesi dal treno e uscii dalla stazione sospinta dalla massa dei pendolari, nel parcheggio c’era una macchina scura con un uomo appoggiato ad essa. Mi fece in segno discreto, io lo raggiunsi e mi sorrise.
“La signorina Osaki?”
“Sono io.”
“Somiglia alla nostra signorina Osaki.”
“Siamo cugine.”
Risposi con voce incolore.
Chissà come sarebbe stato questo incontro?
Baci e abbracci o fredda cortesia?
A parte la chiamata di poche ore prime, l’unico ricordo che avevo di Miyako era quello di una bambina sorridente dai lunghi capelli neri che indossava tutti i vestitini allegri e femminili che a me erano stati vietati.
Il quartiere delle ambasciate era un luogo tranquillo, c’erano dei bei palazzi con enormi giardini protetti da muri e cancellate che gridavano al mondo il bisogno di privacy. Mi chiesi se anche Miyako vivesse in un casa del genere, erano persino più grandi dell’appartamento di Ren o di quella di Hachi a Shirogane.
La casa si fermò davanti a un’elegante palazzina, che era un condominio notai con un certo sollievo.
“La signorina Miyako abita all’ultimo piano.”
“Sì, grazie.”
Presi il mio borsone e suonai il campanello, poco dopo sentii il sistema d’allarme disinserirsi e la porta aprirsi, dentro c’era un enorme atrio con un gabbiotto di vetro per il portiere, una scala che saliva a chioccola in una curva raffinata sottolineata dalle  ringhiere in ferro sinuose e un ascensore retrò.
Mi avviai verso quello, era in stile liberty con una porta in ferro battuto che si aprì quando schiacciai il pulsante. Dentro digitai il pulsante dell’ultimo piano e quando ci arrivai notai che l’appartamento di Miyako era il numero 7, sorrisi e suonai il campanello.
Aspettai e qualche istate dopo lei arrivò ad aprirmi con lunghi capelli e lisci capelli rossi, divisi da una scriminatura centrale, indossava una maglia dei Black Stones e i pantaloni di una tuta, aveva anche un sacco di buchi alle orecchie per essere una che lavorava nella diplomazia.
“Ciao, Nana!
Vieni, entra!”
Mi trascinò dentro insieme al mio borsone, sembrava di buon umore, aveva una sorriso che le illuminava il volto.
“Ciao, Miyako. Scusami se ti sono piombata in casa così all’improvviso.”
“Non c’è alcun problema, mi stavo annoiando.
Vuoi del the? Del caffè?”
Volevo una birra, ma era decisamente troppo presto.
“Del the va bene.”
“Ok.”
Sempre sorridendo sparì in cucina, non capivo il suo atteggiamento, ma almeno non era ostile.
Sembrava quasi di essere davvero in famiglia, da bambina le stavo simpatica anche se i suoi genitori non volevano giocasse con me: io ero la rinnegata.
Figlia di una madre che era scappata di casa a diciotto anni, che aveva iniziato un amore illecito, era rimasta incinta e aveva abbandonato la propria prole.
Credo temessero tutti che avessi il DNA della troia, ecco perché dovevo sopportare tante privazioni ed era meglio che non si giocasse con me, potevo essere contagiosa per quel che ne sapevano loro.
Miyako tornò con due tazze di the verde e le depose sul tavolo.
“Sono stata davvero felice quando la tua band è diventata famosa, probabilmente sei l’unica nella famiglia Osaki che abbia fatto qualcosa di interessante.”
“Credo sia perché non ho mai davvero fatto parte della famiglia.”
Lei non disse nulla per un po’.
“Probabilmente hai ragione, mia madre si arrabbiava molto quando giocavo con te, non capivo il perché, ma adesso lo so. Sono come tua madre, ma non parliamo di me.
Cosa ti è successo?
Come mai sei qui?”
Bevvi un sorso del mio the, ottimo anche, e cominciai a raccontare tutto, dal principio. Da quando Ren se ne era andato a Tokyo per seguire i suoi sogni lasciandomi indietro, alla notte in cui anche io ero salita su di un treno per lo stesso motivo. Le raccontai tutto quello che era successo in un anno folle: Hachi, ritrovare Ren, la gravidanza della mia amica, il mio quasi matrimonio, la morte dell’unico uomo che io avessi mai amato e tutto il resto.
Miyako mi ascoltava in silenzio, senza interrompermi e con lo sguardo attento, ogni tanto un brillio di emozione faceva capolino in quegli occhi così simili ai miei, ma non voleva che io perdessi il filo.
Dopo quelle che parvero ore tacqui e la guardai, era innegabilmente triste e mi dispiacque per lei che si era fatta carico di una fallita come me.
“Nana, mi dispiace.
Vieni da un anno durissimo, capisco perché tu voglia scappare. Rimani pure quanto vuoi, se vorrai andare all’estero ti aiuterò volentieri. L’unica cosa che non capisco è perché tu voglia escludere i tuoi amici.”
“Sono davvero miei amici?
E se lo fossero, sono una presenza utile nella loro vita o l’ennesima grana di cui occuparsi?
Non voglio essere una grana.”
“Capisco, forse con il tempo cambierai idea.”
Sparecchiò e lavò le tazze.
“Miyako?”
“Sì?”
“Cosa significa che sei come mia madre?”
Lei si toccò la pancia.
“Sono incinta, il padre del bambino è sposato e non lo riconoscerà mai.
Mi ha detto che lo manterrà, ma non vuole incontrarlo o incontrarla.”
“Di quanto?”
“Due mesi.”
“Hai mai pensato all’aborto?”
Lei mi guardò scandalizzata.
“No! Amo questa piccola vita!”
Anche lei!
E io ancora non capivo, come potevano desiderare e persino amare qualcosa che era un ostacolo per la loro vita futura? Perché io non avevo un istinto materno?
Perché per me avere un figlio era un’idea più spaventosa del morire stesso?
Avere figli era una cosa naturale, perché io non la concepivo come tale, ma come una minaccia?
In ultima analisi era stata quella la cosa che mi aveva allontanata di più da Ren dopo i Trapnest, lui mi aveva sempre detto di volere dei figli, ma io gli avevo opposto un rifiuto granitico, avevo continuato a prendere la pillola fino alla fine.
Come sarebbe la mia vita ora se avessi avuto un figlio da lui?
Vorrei ancora scappare o avrei una ragione per rimanere e andare avanti?
Mi toccai il mio ventre vuoto e scossi la testa, ormai le cose erano andate come erano andate e non c’era motivo di torturarsi sull’ennesimo “se” della mia vita. “Se” era la particella che più odiavo, implicava possibilità di futuri migliori del presente in cui ero condannata, ma erano impossibili da raggiungere.
Se avessi accettato di avere un figlio da Ren, se lui non se ne fosse andato, se Hachi non fosse rimasta incinta, se Nobu avesse combattuto di più per lei, se qualcuno mi avesse detto della tossicodipendenza di Ren, se Reira non fosse scappata, se mia madre non mi avesse abbandonata…
Se, se, se e ancora se.
“Hai l’aria stanca, vuoi riposare?”
Mi chiese Miyako.
“Sì, grazie.”
Mi accompagnò in una stanza grande più o meno come la mia nell’appartamento 707 e mi indicò letto, armadio e dove fosse il bagno.
“Grazie, Miyako. Credo che farò una doccia e dormirò.”
“Va bene, qualsiasi cosa ti serva io sono di là.”
Annuii e tirai fuori il necessario per la doccia dal borsone e mi infilai in bagno: era bianco, con una bella doccia e una grande vasca da bagno. La accarezzai distratta, pensando a quella con le zampe di leone dell’appartamento 707.
Alla fine feci una lunga doccia che mi aiutò a togliermi un po’ della stanchezza dovuta ai due viaggi in treno e a una fuga dall’ospedale.
Chissà se qualcuno mi stava cercando a quest’ora?
Riuscivo a percepire nettamente Hachi e Nobu smuovere montagne per me, ma non Yasu e Shin, non più. Yasu non era più la persona che credevo di conoscere e Shin non sembrava felice di avermi attorno nell’ultimo periodo. Doveva essersi stancato anche lui del mio carattere da psicopatica o forse qualcuno gli aveva detto come ero stata rapida a decidere di sostituirlo con Ren al primo problema.
Scossi la testa, avevo finito di asciugarmi i capelli, quindi mi buttai a letto, cercando di non pensare e di non ricordare. Avevo intrapreso questa strada da sola e da sola dovevo percorrerla, avevo trascinato con me troppe persone nei miei casini.
Dove potevo andare?
Questo fu l’ultimo pensiero che ebbi prima di cadere in un sonno senza sogni, nero e spesso che mi avvolse come una coperta e tenne lontano incubi e ricordi.
Dovevo essere allo stremo delle forze fisiche e mentali se il mio inconscio veniva così violentemente espulso dal posto che gli competeva.
Mi svegliai che era pomeriggio inoltrato, la luce proiettava ombre lunghe nella stanza.
Mi ci volle qualche secondo per capire dove ero e come ci fossi finita, il mio cervello stava già iniziando a liquefare i ricordi del giorno prima in una nebbia indistinta che mi lasciava disorientata.
Mi alzai, indossai qualcosa di comodo e andai in salotto, Miyako stava lavorando sul suo portatile: le dita correvano leggere e veloci sui tasti. Ne rimasi affascinata, io a stento sapevo usare il cellulare e mandare messaggi prima che finisse l’anno corrente.
“Oh! Ciao, Nana!”
“Ciao, Miyako.”
“Come ti senti?”
“Non lo so.”
Risposi sincera, era tutto così strano che non riuscivo a elaborarlo come i primi giorni dopo la morte di Ren.
C’è una parte in me restia ad accettare tragedie e cambiamenti, una piccola bambina sperduta con un orso di peluche in mano, la stessa che venne abbandonata da sua madre a quattro anni.
“Nana, sei sicura che sia la cosa giusta?”
“Se io tornassi adesso verrei di nuovo coccolata da tutti, ma per loro sarei un peso, le nostre vite prenderanno direzioni differenti. I Blast sono morti, io li ho uccisi.”
Lei sembrò voler dire qualcosa, ma poi tacque.
“Un po’ ti invidio, hai sempre avuto questa forza, anche da piccola.
Non te fregava nulla di quello che pensavano gli altri, inclusa la nostra famiglia e sei sempre andata avanti, io invece ho paura.”
“Paura?”
Si toccò il ventre.
“I miei genitori mi hanno cacciata, è come se fossi morta per loro perché ho infranto il loro codice. La mia vita era già programmata, avrei lavorato qui – nel settore della diplomazia – fino a che loro non avrebbero trovato un uomo ricco e prestigioso con cui mi sarei sposata e avrei avuto dei figli.
Ora invece sono incinta di un uomo che non potrò mai sposare e ho una paura folle, non so che futuro potrò assicurare a me e a questa vita. Ecco perché vorrei avere il tuo coraggio.”
I genitori di Miyako erano così diversi da quelli di Hachi che me ne stupii, data la mia ignoranza in campo familiare pensavo che fossero tutti uguali. Era una conclusione ingenua, in fondo la mia famiglia era stata tremenda con me e con mia madre.
“Senti, starò con te fino a che avrai partorito. Ti va?”
“Sì, ci sto. Grazie, Nana.
Ma cosa farai dopo?”
“Non lo so, vorrei lasciare il Giappone perché sono stanca dei giornalisti, ma non ho ancora deciso dove andare, ci penserò in questi mesi.”
“Capisco.”
“Io volevo solo una cosa: cantare.
Pensavo fosse una benedizione, l’unica che gli dei mi avessero concesso in questa vita, ma i realtà era una maledizione. Si è portata via tutto ciò a cui tenevo, vorrei essere come Reira che si rifiuta di cantare, ma io voglio continuare a farlo e questo egoismo mi fa soffrire.
È come se fossi sopra una pila di cadaveri dei mie amici e me ne fregassi di loro.
Ho sempre cordialmente detestato Reira, pur ammirandola dal punto di vista professionale, credevo di essere migliore di lei, ma mi sbagliavo.
Pur essendo infantile e egoista è migliore di me.”
“Io credo che ti giudichi con troppa durezza.”
Io scossi la testa.
In un angolo della stanza c’erano Ren e mia nonna, entrambi mi guardavano con disapprovazione, i loro occhi erano freddi e ora capivo perché.
Io non onoravo i morti, andavo semplicemente avanti ignorando la loro esistenza e ora erano entrambi a ricordamelo e sapevo che ci sarebbero sempre stati.
Non importa dove fossi andata, in ogni angolo di qualsiasi stanza in cui sarei stata loro sarebbero sempre stati lì.
I morti se non li onori ti uccidono, ecco perché preghiamo per loro.

   
 
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