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Autore: Adeia Di Elferas    26/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La notte che era appena trascorsa aveva lasciato in un tutti una strana sensazione, in bilico tra la dolcezza e l'amarezza. Anche Caterina non faceva differenza e, quando si era risvegliata, aveva avvertito quella strana impressione, non riuscendo a decifrarla.

Al suo fianco, Pirovano aveva schiuso un occhio, disturbato dal suo muoversi sotto le coperte e aveva borbottato qualcosa di indecifrabile, riaddormentandosi subito. La donna, però, accorgendosi dell'ora ancora antelucana, non aveva voluto lasciarlo riposare e l'aveva ridestato con un bacio.

Inizialmente un po' restio, l'uomo non aveva lasciato cadere nel vuoto l'invito della sua amante e aveva accettato di buon grado di lasciare le braccia di Morfeo per tuffarsi in quelle della Tigre. Solo dopo, a mente più fresca, quando l'aveva tenuta vicino a sé, lo sguardo rivolto al soffitto e una mano che ancora le stringeva possessivamente un fianco, l'uomo si era lasciato prendere da mille dubbi.

Aveva provato a chiederle che cosa avesse fatto realmente quella notte, per capire se il tradimento era stato solo un suo sospetto, o se aveva un fondo di verità. La Contessa non aveva risposto e così il milanese aveva avuto una conferma scomoda, tanto spiacevole da convincerlo a non fare altre domande.

Di comune tacito accordo, i due rimasero ancora un po' sotto le lenzuola, dandosi qualche bacio rapido e apprezzando con carezze e sguardi l'uno il corpo dell'altro, in un modo molto simile a come era capitato loro di fare nei primi tempi, quando ancora la Sforza era contesa tra Giovanni e Manfredi.

Era stata la Tigre, alla fine, a decidere che era il momento di smettere. Si era messa a sedere sul letto, quasi con bruschezza, e aveva detto all'amante che non voleva far tardi. Pirovano, come sempre un po' confuso dagli scatti repentini e ruvidi della sua donna, aveva alzato le mani, senza provare a rimbeccare in alcun modo.

Prima che il sole sorgesse, Caterina era uscita dalla sua stanza, lasciando Giovanni libero di continuare a dormire ancora un po', ed era andata a cercare Argentina.

La bandiera bolognese che aveva fatto preparare era pronta, anche se, un po' per colpa del rosso scelto e un po' per la forma sgangherata del leone che vi campeggiava nel mezzo, ricordava in egual misura l'araldo di Bologna e quello di Venezia.

Non c'era tempo, però, per farne un'altra: la Sforza voleva sfruttare ogni occasione e, non sapendo quanto l'ambasciatore di Giovanni Bentivoglio si sarebbe fermato a Forlì, era necessario agire in fretta.

“Issatela al posto della nostra – ordinò, consegnandola al Capitano Mongardini e a suo fratello, il Contino di Melzo – in modo che si veda bene dalla città.”

I due, un po' perplessi, annuirono, senza fare domande. Presero la bandiera e la consegnarono subito a un soldato, spiegandogli quel che andava fatto.

Solo Scipione, che stava accanto alla Tigre, imperterrito sotto la neve che ancora scendeva leggera e insistente, la guardò con aria interrogativa.

La donna si accorse della sua perplessità, ma, non avendo alcuna voglia di spiegare i suoi ragionamenti a chicchessia, disse solo: “Vediamo quanta vergogna sa provare, un messo bolognese...”

Il Riario si corrucciò, chiedendosi se avesse capito bene e, ancor più confuso di prima, si trovò a chiedere apertamente: “E cosa dovrebbe accadere, se l'ambasciatore di Bologna vede questa bandiera?”

“Non lo so.” rispose in fretta la Tigre, andando già verso la scaletta: “Potrebbe non far nulla, così come potrebbe fare di tutto. Staremo a vedere.”

 

“Vi dico che è una bandiera veneziana!” sbottò l'Alégre, gli occhietti penetranti che saettavano scintille: “Questo è tradimento! La Serenissima è alleata nostra!”

Yves, di norma posato e tranquillo, quella mattina sembrava un altro uomo. Aveva i corti capelli in piedi, gli abiti sgualciti e perfino la sottile barba castana che di norma gli incorniciava il mento con un preciso disegno geometrico, non era stata spuntata, dandogli un'aria abbastanza trasandata.

Il Vendôme, più cauto, teneva le braccia allacciate dietro la schiena e, guardando preoccupato verso il Borja, borbottò: “Suvvia, suvvia... Non può essere... Quella donna è una pazza, lo sanno tutti, guidata da istinti da bestia e temeraria ai limiti della insania... Di certo sta cercando di giocarci qualche brutto scherzo...”

Anche gli altri generali si accapigliavano, chi sostenendo che la Sforza stesse provando a giocare d'astuzia, altri preda della paura, convintissimi che, a breve, l'esercito veneziano sarebbe piombato loro addosso, annientandoli.

A peggiorare la situazione, fin dalle prime luci dalla rocca erano partiti colpi di cannone, tirati con una precisione agghiacciante: stavano colpendo uno dopo l'altro i simboli della città, riuscendo a evitare, almeno apparentemente, tutti i punti in cui avrebbero potuto causare danni ai forlivesi. Si trattava, a quel che sembrava, di un attacco non atto a sterminare la popolazione, quanto a insinuare nel nemico un profondo senso di scoramento, come se la città appena conquistata si stesse trasformando, senza che loro potessero far nulla, in un cumulo di macerie.

A quel piccolo conciliabolo era stato invitato anche Bernardi, chiamato in fretta e furia affinché dicesse quel che sapeva sui rapporti tra la Tigre e la Serenissima. Il barbiere, corrucciato, aveva detto quel poco che sapeva, che non era molto, e poi si era messo in un angolo, senza più aprir bocca, sperando che gli permettessero di assistere comunque al dibattito, anche se la sua presenza sembrava inutile.

Malgrado tutto, Andrea non aveva perso la sua proverbiale curiosità da cronista e voleva vedere da vicino come funzionava un consiglio di guerra dell'esercito francese. Una spina velenosissima gli perforava il cuore, pensando a come, in tutti gli anni passati a servire fedelmente la Sforza, salvandole, in un paio di occasioni, perfino la vita, non avesse mai e poi mai potuto assistere a uno dei suoi consigli militari. Per la Leonessa, c'era poco da dire, lui non era mai stato altro se non qualcuno da usare e presso cui rifugiarsi quando tutti gli altri la scansavano: appena aveva trovato di meglio, l'aveva dimenticato senza il minimo problema.

Cesare non sapeva cosa pensare. Gli sembrava assurdo, sì, a dir poco assurdo che in un momento tanto delicato la Leonessa si mettesse a giocare con loro. Che senso avrebbe avuto, mostrare la bandiera veneziana, senza essere davvero impattata col Doge?

D'altro canto, però, tutti, compreso suo padre, l'avevano messo in guardia sulla malizia, l'arguzia e l'insondabile ingegno di quella donna.

Che fare, allora? Aspettare? Attaccare? Mettere in salvo i soldati per paura che stessero davvero arrivando i veneziani?

“Mio signore.” uno degli attendenti del Valentino arrivò nel salone di palazzo Numai, chinando il capo: “Mio signore, alle porte della città c'è un messo veneziano che chiede di incontrarvi.”

Quelle parole scatenarono il panico tra i generali del Borja. Anche quelli più scafati ed esperti, come il Ligny o l'Aubigny, si abbandonarono a bestemmie ed esclamazioni di scorno. Solo Cesare, tanto spaventato da essere diventato per reazione temerario, rimase saldo al suo posto.

“Ebbene, che venga qui!” si risolse subito: “Ma solo! E disarmato!”

 

Caterina era sulle merlature, gli occhi stretti contro il sole pallido che cominciava a squarciare le nubi bianche cariche di neve. Quel giorno, la notte di Natale appena trascorsa le sembrava lontana.

Era tutto passato, come fosse stata un breve momento di allontanamento dalla realtà. Poco dopo aver fatto issare la bandiera bolognese, la donna aveva dato ordine di far fuoco contro la città e, benché fosse già metà mattina, non aveva intenzione di smettere.

Il Facendina si era messo al comando dei pezzi d'artiglieria migliori e, su ordini precisi della sua signora, riusciva a indirizzare i colpi in modo che arrivassero esattamente dove la Tigre voleva: non una singola palla andava sprecata.

“Proviamo la passavolante dell'Ordelaffi?” chiese, a un certo punto, il soldato, avvicinandosi alla Contessa.

Caterina ci ragionò sopra per un po'. Non le quadrava il silenzio dei francesi. Non capiva perché non contrattaccassero. Non voleva illudersi che la bandiera bolognese fosse servita a qualcosa, né pensare che i due colpi di cannone che stava facendo esplodere bastassero a spaventare un esercito numeroso come quello dei suoi nemici. Qualcosa di grosso le stava sfuggendo, e non capire che fosse la rendeva nervosissima.

“Sì, sì, va bene... Proviamo. Indirizzate i colpi alla Torre del Popolo.” fece la Leonessa, distratta.

La passavolante che il Facendina voleva utilizzare era un pezzo d'artiglieria molto pregiato, ma, purtroppo, un po' datato. Caterina l'aveva trovato alla rocca, quando vi era andata ad abitare, anni prima, e aveva scoperto che quell'eccelso marchingegno era stato costruito quando su Forlì governava Pino Ordelaffi.

Per via delle sue grosse dimensioni, non l'aveva mai provato, ma l'aveva sempre tenuto come seconda linea, proprio per casi disperati come quello.

La Sforza osservò da lontano il trafficare del Facendina che, assieme a Costantino Bolognese, stava calibrando la passavolante. Voltandosi, dando loro le spalle, la donna si mise in attesa di sentire esplodere il colpo. Udì ancora del vociare, un paio di altri bombardieri che si aggiungevano ai primi due, e poi, finalmente, avvertì i rumori che preludevano allo sparo.

Nel momento in cui si aspettava di sentire il colpo e veder partire il proiettile, però, la Sforza si sentì buttare in terra da una forza impalpabile. Come lei, tutti i soldati sui camminamenti finirono al suolo, chi coprendosi la testa, chi tappandosi le orecchie.

L'esplosione, improvvisa e fragorosa, spaventò tutti, o, meglio, lasciò tutti molto confusi. La stessa Tigre, con le orecchie che fischiavano e la testa che girava così tanto da impedirle di rimettersi in piedi in fretta, non capiva cosa fosse accaduto.

Aggrappandosi alla pietra fredda delle merlature, la donna strizzò gli occhi, cercando tra il fumo i suoi soldati e la passavolante. Appena la foschia si diradò un po', tra i fiocchi leggeri di neve che ancora svolazzavano sospinti dal calore dell'esplosione, Caterina finalmente vide il Facendina e Costantino, entrambi in terra, ma apparentemente illesi.

“Questa bestia d'una passavolante!” stava imprecando il nipote di Roberto Sanseverino: “Che gli venisse un colpo all'Ordelaffi e a quando l'ha fatto fare! È andato in mille pezzi appena l'abbiamo messo in azione!”

La Sforza chiese a voce alta se qualcuno si fosse fatto male, ma non riuscì a sentire le sue stesse parole, perché la testa ancora le rimbombava e non udiva quasi nulla, se non un persistente e costante fischio.

Quando riuscì a rimettersi dritta e i suoni tornarono intelligibili si rese conto che molti soldati erano accorsi per vedere che fosse accaduto. La passavolante era stata fatta a pezzi dalla sua stessa esplosione, e due degli artiglieri erano ancora a terra, l'uno tenendosi una mano e l'altro apparentemente privo di sensi.

Cominciando a dare ordini in modo automatico, la Tigre si avvicinò ancora di più. Si rese conto che uno dei due soldati aveva perso due falangi, mentre l'altro, svenuto, doveva aver battuto la testa.

In breve alcuni uomini si fecero avanti, richiamati dalla loro signora e, mentre la donna spiegava loro dove portare i due feriti e come medicarli, giunse sul posto anche Alessandro: “Tutto bene? Ti sei fatta male?” chiese subito, posando una mano sulla spalla della sorella.

La Contessa scosse il capo, ma, invece di rispondere, si lasciò distrarre dalle chiacchiere che stavano correndo tra i soldati assiepati attorno alla passavolante distrutta.

Alcuni di loro stavano borbottando, dicendo che si trattava di un cattivo auspicio, che quella doveva essere una punizione divina per aver fatto fuoco anche in un giorno santo come il Natale, e che, forse, sarebbe stato meglio cessare le ostilità almeno onorare quella festa. I più decisi arrivarono perfino a far notare che i francesi non esplodevano un colpo dal giorno prima, probabilmente proprio in rispetto a Dio.

Vedendo il nervosismo crescere tra i suoi uomini, la Leonessa decise in fretta sul da farsi. Si mise in un punto alto, dove tutti potevano vederla e richiamò l'attenzione sollevando un braccio. Solo quando fu certa di avere gli occhi di ogni soldato presente puntati addosso parlò.

“Non è più mia volontà che si diano buone feste con cannonate al mio popolo di Forlì nel primo giorno del Natale.” disse, avvertendo, intanto, un lieve senso di nausea e di vertigine, ancora figlio della recente esplosione: “La buona parte del mio popolo non mi odia, e mi ha lasciata per il Duca per stato di forza. Facendina!”

Il nipote del Sanseverino, raddrizzando le spalle, gridò di rimando: “Ordinate pure, mia signora!”

“Arrestiamo i colpi verso la città – fece la Tigre – da oggi in poi non voglio più che si prenda a tiro Forlì.”

Il Facendina parve perplesso dal tono perentorio con cui la sua signora stava, di fatto, vietando ogni azione intimidatoria verso la città. Tuttavia non poté far altro che abbozzare un inchino e accettare quella disposizione.

“Sei sicura che sia una buona idea?” chiese Alessandro, inseguendo la sorella che, ancora provata, stava raggiungendo le scale.

“Lasciami in pace.” ribatté lei, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.

 

Proprio mentre Meleagro Zampeschi entrava nel salone, si era udito in lontananza un frastuono incredibile, come se stesse esplodendo un intero arsenale. Gli uomini del Borja si erano guardati l'un l'altro, troppo spaventati per farsi apertamente delle domande.

Anche il Novacula era molto teso. Giocherellava nervosamente con un anello d'oro, nuovissimo, dono recente del suo nuovo signore, e non osava sollevare lo sguardo, per paura che qualcuno chiedesse a lui quale potesse essere l'origine di un simile fracasso.

Siccome, però, il messo veneziano si stava presentando e, oggettivamente, dopo quel gran botto, non si sentì più altro, nemmeno i consueti colpi di cannone, tutti si permisero di tranquillizzarsi, dicendosi che, qualsiasi cosa fosse stata a far vibrare perfino le finestre di palazzo Numai, ormai era passata e, in caso di bisogno, qualcuno dei soldati sarebbe giunto da loro per fare rapporto.

“Sono qui – spiegò Zampeschi, ancora chino in un segno di ossequioso rispetto – come portavoce del Doge, per discutere con voi l'evoluzione dei termini della nostra alleanza.”

“La nostra alleanza!” sbottò Cesare, già teso come la corda di un arco, esasperato dall'incertezza di quei giorni, che per lui si stavano tramutando in un incubo: “Come mi spiegate la bandiera che la Tigre ha messo sul suo pennone?!”

Meleagro si accigliò. Non aveva la più pallida idea di cosa il Borja stesse dicendo, ma, invece di chiedere, attese che fosse proprio lui a spiegare.

“Da stamattina all'alba – fece subito il Valentino – quella meretrice ha fatto sventolare una bandiera che porta chiaramente l'effige del leone di San Marco. Come lo spiegate, visto che sostenete che Venezia sia ancora nostra alleata?”

“Ma infatti il Doge è vostro servo fedelissimo.” si schermì Zampeschi: “Assolutamente non...”

“Dicono che quella – proseguì imperterrito il figlio del papa, sollevando l'indice con tono ammonitore – abbia trovato un patto con il vostro Doge e che abbia deciso che è meglio cedere a lui questo Stato, piuttosto che lasciarlo a Santa Madre Chiesa!”

Il tono accusatorio con cui il giovane Cesare gli si stava rivolgendo, scaldò l'animo di Meleagro che, sentendosi offeso, gonfiò il petto e ribatté, senza più traccia di ossequio o calma: “Io non ho veduto questa bandiera di cui parlate, ma lasciate che vi dica io una cosa! Signori miei! Lasciate pure che questa donna faccia sventolare quanti stracci di stendardi può avere nella sua rocca! Ché io so ben che tutto è vano, e che la mia Repubblica non si punto ritirata da questa Lega, che, anzi, fu bandita come perpetuale!”

La fermezza con cui l'uomo stava parlando sembrava già aver convinto buona parte dei presenti. Ci voleva poco, per persuadere ascoltatori come Cesare, che in quel momento, pur di aver rassicurazioni, avrebbe creduto anche al suo peggior nemico, ma altri, come l'Aubigny o il Balì di Digione, erano di tutt'altra pasta, eppure anche loro si stavano convincendo della buona fede del messo veneziano.

Bernardi, affamato di notizie, guardava con occhi sgranati e ascoltava con le orecchie tese, certo che quello fosse il vero e che la Leonessa, come aveva già fatto in passato più volte, avesse deciso di giocare d'azzardo. Quel giorno, però, a differenza di tanti episodi del passato, il suo tempismo era stato pessimo.

“E vi dirò di più – proseguì Meleagro, ancora più accorato – vi dirò che, anche potendo, essa non vorrebbe mai prendere in protezione costei, perché ogni volta che il Senato volle raccogliere Caterina nelle sue braccia, ella, sprezzante e cieca, non ne volle sapere giammai!”

Quel finale, detto a braccia spalancate e con gli occhi infuocati, tolse ogni dubbio sulla veridicità delle parole di Zampeschi. Dopo ore di tribolazioni e discorsi, erano bastati pochi minuti per convincere tutti quanti che la Sforza aveva provato a prenderli per il naso, lasciando loro credere che alle sue spalle ci fosse un esercito robusto come quello veneziano.

“Dunque quella donnaccia ha solo cercato di buttarci sabbia negli occhi...” soppesò il Duca di Valentinois, sporgendo il mento in fuori, trovando il gesto della sua nemica molto sciocco, ma allo stesso tempo tanto audace da intrigarlo.

“Questa trovo sia l'unica spiegazione.” convenne Meleagro.

“Molto bene.” soffiò Cesare, premendosi la punta delle dita sulla fronte: “Dunque ora possiamo parlare più tranquillamente della nostra alleanza.”

Mentre il messo dogale cominciava il suo discorso, rispondendo alle domande dei generali francesi e ponendone a sua volta, il Borja si chiuse in un pensieroso silenzio.

Si vergognava come un ladro, per la situazione in cui si trovava. Temeva che suo cugino Juan, una volta a Roma, descrivesse a suo padre il papa un quadro tutt'altro che idilliaco. Non voleva passare alla storia come l'uomo che si era fatto fermare da un donna. La rocca di Ravaldino era una fortificazione ben congegnata, ma doveva esserci un modo per catturarla... Avevano un esercito enorme, rispetto a quello della Sforza. Avevano armi nuove e tecnologicamente avanzate. Dovevano sfruttare questi punti di forza e trovare il modo di chiudere in fretta la questione.

All'inizio si poteva far leva sul bisogno di far riposare l'esercito, per scusare quel ritardo, ma se la resa della rocca non fosse arrivata entro Capodanno, che cosa avrebbero detto tutti di lui? Che era un incapace? Che si lasciava prendere per i fondelli da una donna? Da una donna, per altro, come la Tigre?

Massaggiandosi di nuovo la fronte, mentre Zampeschi stava ancora parlando, il Borja si alzò un momento dal suo scranno e, scusandosi con tutti, si ritirò un momento nella stanza che occupava fin dal suo arrivo a palazzo Numai. Fece chiamare Luffo e gli domandò quale fosse, a suo parere, il modo migliore per discutere apertamente con la Sforza.

Il forlivese ci ragionò a lungo. La risposta migliore sarebbe stata quella di andare subito da lei, essendo Caterina una donna molto diretta, incapace di sottrarsi a un dialogo chiesto in modo aperto.

Però, parteggiando sempre e con tutto il cuore per lei, volle cercare il modo di aiutarla, senza insospettire il figlio di Alessandro VI.

“La Tigre detesta chi pretende di parlarle senza farsi annunciare – spiegò, sperando di suonare molto convincente – e dunque io vi consiglio di mandare prima una trombetta a chiedere in vece vostra un abboccamento.”

Il Valentino lo scrutò per un lungo istante e poi, stringendosi nelle spalle, borbottò: “Se così pensate sia un buon modo... Fate venire qui uno dei miei messaggeri, in modo che lo istruisca sul da farsi.”

Trattenendo un sorriso di trionfo, per essere riuscito a indirizzare così facilmente il Borja, Numai chinò il capo e uscì dalla stanza a passo svelto, sicuro che, benché fosse un misero sostegno, alla Leonessa sarebbe servito avere quel piccolo vantaggio temporale, in modo da pensare a come gestire quell'incontro, evitando, forse, al suo sangue caldo di infiammare più del dovuto il dibattito.

 

Caterina si era ritirata nel suo laboratorio, in cerca di un momento di pace. L'esplosione della passavolante l'aveva provata molto più di quanto non volesse ammettere perfino con sé stessa. Era stato diverso, rispetto a quello che aveva vissuto in battaglia: il pericolo le era arrivato alle spalle, inatteso, e avrebbe anche potuto ucciderla.

Per distrarsi, aveva cercato di dedicarsi ai distillati che ancora poteva confezionare con le scarse scorte della sua dispensa, ma le mani le tremavano troppo per riuscire a combinare nulla.

Da sola, circondata dagli strumenti d'alchimista che aveva raccolto negli anni e che, a volte, aveva costruito lei stessa, le sembrava quasi che la guerra fosse un affare d'altri, qualcosa che la sfiorava appena. Poco importava se addosso aveva ancora la corazzina e se le sue mani, di norma curatissime, portavano i segni delle piccole battaglie che l'avevano vista protagonista nelle ultime notti.

Il suo umore era cupo. La paura, un sentimento che era sempre riuscita a imbrigliare abbastanza bene e che, spesso, aveva visto cancellato dalla rabbia, che prevaricava sempre ogni suo altro sentimento, si era fatta quella mattina una presenza molto più ingombrante e concreta.

Scoprirsi così vulnerabile non faceva altro che acuire il suo senso di precarietà e più tentava di pensare ad altro, più la sua mente le riportava davanti agli occhi le immagini peggiori mai viste in vita sua: suo padre che cadeva in terra, trafitto dai pugnali dei suoi assassini, Giacomo che veniva trascinato giù dal cavallo e dilaniato dalle lame dei congiurati, suo figlio Livio, che le si stringeva al collo, con il respiro tanto affannoso da non permettergli nemmeno di piangere, e poi le donne di Mordano, trucidate e lasciate nella chiesa dove avevano cercato rifugio, e poi ancora il corpo disfatto di Manfredi, e quello tumefatto ed esanime di Ludovico Marcobelli, morto per mano sua...

“Mia signora...” la voce di Scipione fece sobbalzare Caterina, tanto che la donna rovesciò in terra parte del composto su cui stava provando a lavorare.

“Che succede?” chiese lei, voltandosi verso il Riario e accigliandosi.

“C'è una trombetta papale che chiede, per conto del Valentino, un abboccamento.” spiegò il giovane, i cui occhi castani stavano indagando il profilo di quella che lui considerava quasi una madre adottiva, cercando di capire cosa la rendesse così distratta e poco presente.

La notizia che il ragazzo aveva portato bastò a ridare alla Contessa una certa lucidità: “La trombetta vuole parlare in vece del Borja o è venuta a chiedere il permesso di parlarmi per conto del suo padrone?”

Scipione, schiarendosi la voce, rispose: “La seconda. Dice che il Duca è nei paraggi e che se accetterete di vederlo, è disposto a parlarvi anche subito.”

La Tigre ci ragionò copra in fretta. Abbassò lo sguardo sui vestiti da uomo che portava, e sulla piastra di ferro che le riparava il petto e l'addome. Doveva incontrare il Borja, cercare di capire cosa avesse in mente, provare a valutare la sua reale forza e quanto fosse spaventato. Fino a quel giorno aveva dovuto misurarsi con un nemico che, in realtà, non conosceva nemmeno superficialmente.

Era un'ottima occasione per scrutarlo e tentare di capirlo. La Contessa sapeva di essere sempre stata abbastanza brava, nel capire le persone al primo colpo. Aveva commesso pochi errori di valutazione, in vita sua, e anche se proprio quelli si erano dimostrati errori imperdonabili, in tutti gli altri casi non si era mai dovuta ricredere troppo su nessuno.

“Va bene. Ditegli che lo incontrerò.” soffiò la donna: “Ma tra un'ora. Prima voglio cambiarmi.”

“Indosserete l'armatura completa?” chiese Scipione, curioso, domandandosi se la Sforza volesse mostrarsi al Valentino in tutta la sua potenza guerriera.

“No, no...” rispose subito lei: “Anzi, chiedi ad Argentina di raggiungermi in camera. Voglio che mi aiuti a scegliere l'abito e che mi sistemi i capelli.”

Un po' sorpreso, il Riario disse che l'avrebbe fatto, ma, appena prima di lasciare il laboratorio della Leonessa, ci tenne a dire: “Vi avrei preferito in armatura...”

“Tu ormai mi conosci – ribatté la donna, con tono familiare – e con te non riuscirei a spacciarmi per un altra... Ma il nostro caro Duca non ha idea alcuna di chi io sia, e, per il momento, voglio che continui a non averla.”

 
   
 
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