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Autore: Malbethy    30/03/2020    1 recensioni
Emma era una ragazza come tante. Viveva diligentemente per soddisfare il Sistema, lavorava duramente e solo la sera si concedeva il lusso di essere una ragazza di 20 anni.
Ma una sera tutto cambia. La sua vita verrà stravolta e si troverà a dover combattere per poter sopravvivere. Non sarà sola.
Amicizie perdute, amori ritrovati.
Una nuova saga distopica.
Il Sistema vi controlla.
Genere: Avventura, Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Il caldo era soffocante. Più di venti corpi erano stipati all’interno di un furgone.  La puzza di sudore impregnava tutto, non c’era nemmeno una finestra che permettesse di prendere un po’ di aria e i carcerieri non sembravano interessati a far viaggiare quei ragazzi in maniera più comoda.
Una delle ragazze cercava di respirare con la bocca, tentando di dar sollievo al naso da quell’odore così acre. Aveva respirato il fetore di vari fluidi corporei per così a lungo, che sentiva il naso bruciarle, tutte le volte che dimenticava di inspirare l’aria attraverso la bocca.
 La benda che aveva sugli occhi le prudeva terribilmente, soprattutto negli zigomi, ma con le mani legate le risultava impossibile raggiungere la faccia. I primi giorni aveva cercato di sfregare le mani fra di loro per cercare di liberarsi, ma quando si era accorta che non era corda, bensì plastica, quello che teneva i suoi polsi uniti e ci aveva rinunciato. Avrebbe solo rischiato di provocarsi tagli profondi sulla pelle già lacerata.
Continuava a muoversi anche ora, però, cercando di trovare una posizione comoda, ma non riusciva a trovarla. Le mani erano intorpidite, le gambe erano attraversate da fitte di dolore e le sembrava di viaggiare da settimane, ormai. Anche se aveva contato all’incirca otto giorni da quando erano stati rinchiusi là dentro.
Era riuscita a capire il passare dei giorni solo grazie ai pasti che i carcerieri davano loro. Ogni giorno una finestra sopra le loro teste veniva aperta e qualcuno buttava nel furgone pane e acqua. Il pane non lo aveva mai toccato, cadeva sul fondo metallico, ormai lurido, del furgone, dove ognuno di loro era stato costretto a soddisfare i propri bisogni fisiologici. L’acqua, invece, veniva versata direttamente addosso a loro e le bastava aprire la bocca per soddisfare almeno la sete, che le incendiava la gola.
Sapeva che se il viaggio fosse continuato a lungo non avrebbe potuto resistere molto senza mangiare, ma per ora la dignità superava la fame.
Il panico aveva lasciato spazio alla rassegnazione di non capire cosa stesse succedendo, anche se continuava a ripensare alla sera in cui la sua vita e quella dei suoi amici era cambiata. L’aveva ripercorsa mille volte, per cercare un indizio qualcosa che potesse mettere a tacere le brutte sensazioni che si facevano strada in lei, ma non aveva ottenuto nulla.

<< Mi  annoio, facciamo sempre le stesse cose! >> , Mia era conosciuta per le sue lamentele e una volta che iniziava, non la finiva più. Per questo  lanciai un’occhiata a Jason, per cercare di limitare le ore in cui avremmo dovuto ascoltare  il monologo sulla sua vita schifosa.
Mia era sicuramente una delle persone a cui volevo più bene in assoluto, ma era  una bambina mai cresciuta. Le piaceva ancora farsi trattare come une principessa da chiunque conoscesse e quando si arrabbiava o si offendeva faceva i capricci proprio come i bambini.
<< Mia, lo sai anche tu che non ci sono molte cose da fare ormai. E’ già tanto che il Signor Moon abbia aperto questa bettola che da qualcosa da bere, sennò avremmo potuto solo girare nelle zone ancora vivibili della città e ti ricordo che non sono molte >> Jason cercò di parlarle come un padre faceva con la figlia.
<< E’ inutile che tu faccia il maturo della situazione. Dimmi che anche tu non ti sei stancato di restare seduto in questo posto che puzza di pipì tutte le sere, per ore. E tu, Emma, non preferiresti una volta ogni tanto andare a qualche festa? Vivere come ragazzi di venti anni?>>
<< Nessuno vive più così, lo sai bene Non ci sono feste. Dobbiamo  e possiamo solo pensare a lavorare>>.
La capivo.  Capivo la frustrazione di vedere gli anni migliori delle nostre vite strappati  senza poter fare nulla. Ma il mondo non era più quello che raccontavano i nostri nonni. Eravamo tutti registrati, marchiati e assegnati al lavoro che più ci rispecchiava. Non si poteva fuggire dal Sistema, per quanto lo volessimo. La nostra vita era segnata.


Uno scossone segnò la fine del tragitto e qualcuno le finì addosso, facendola sbattere sulla parete metallica del furgone, togliendole il fiato.  Sentiva respiri trattenuti, singhiozzi di persone che cercavano di non piangere, ma soprattutto imprecazioni da parte di ragazzi sicuramente più coraggiosi di lei. Emma se ne stava in disparte, cercando di passare inosservata, anche se sapeva che sarebbe servito a poco.
Con un rumore stridulo le pesanti porte del furgone si aprirono, facendo finalmente respirare ai prigionieri aria pulita. Dalla benda nera,  anche sforzandosi non riuscì a distinguere nulla se non qualche ombra, ma niente che le potesse essere veramente utile per capire dove si trovassero.
L’unica preoccupazione di Emma in questo momento era la sua famiglia. Ormai erano diversi giorni che lo scanner non rilevava il suo codice identificativo a lavoro e per ogni sua assenza il Sistema toglieva o viveri o energia o acqua alla casa dove la sua famiglia viveva.
Sentì i primi ragazzi che scendevano e mettevano i piedi per terra. Lo spazio intorno a lei si allargava, e cercò di distendere le gambe, per riattivare la circolazione. La bocca si distorse in una smorfia di dolore, ma doveva sopportarlo perché riuscisse a camminare quando sarebbe arrivato il suo turno di lasciare quella tomba di metallo. La fortuna non era dalla sua parte, però,  passarono solo pochi secondi e con uno strattone fu trascinata fuori e come previsto le gambe non ressero il suo peso, non essendo più abituate a stare in posizione eretta. Delle mani la sostennero dalla vita, aiutandola a non cadere rovinosamente per terra. 
La testa le girava e le sembrava di dover vomitare da un momento all’altro. Sicuramente lo avrebbe anche fatto avendo qualcosa nello stomaco.
<< Cerca di resistere un altro po’ >>
La voce non le era familiare.
L’unica cosa di cui era certa è che fosse una ragazza, restava solo da capire se facesse parte delle persone responsabili del loro rapimento o fosse una sua compagna di sventura.
<< Ora togliamo la benda, fai la brava però >>.
Sicuramente era dei loro.
La luce la colpì e si ritrovò a strizzare immediatamente gli occhi, cercando di schermirsi il più possibile dalla luce. Cercò di aprire almeno un occhio, nel tentativo di acquisire qualche informazione in più rispetto al nulla di cui era in possesso ora. Riacquisire la vista sarebbe stato un grosso  vantaggio, l’avrebbe resa meno inerme nelle braccia di persone di cui non conosceva le intenzioni, se non che avevano rapito lei, Mia e Jason senza dar tempo loro neanche di ribellarsi.

Mia mise il broncio perché non aveva ottenuto l’appoggio che aveva sperato e dovetti trattenere una risata, per non infierire ancora di più. Se avesse notato che la deridevo, avrei scatenato qualcosa di ben peggiore di un semplice broncio.
<< Posso portarvi altro ragazzi? E tu biondina, hai pensato alla mia proposta? >>
Luke Moon, il figlio del proprietario del locale in cui ci trovavamo ora, aveva un debole per Mia dai tempi della scuola. Ogni giorno le chiedeva di uscire e ogni volta la biondina in questione lo guardava con aria di sufficienza e rifiutava. Jason d’altra parte si irrigidì sul posto, ma stette zitto.
<< Quando capirai che se ho risposto no ieri, sarà un no anche oggi?>>
<< Vedremo. La speranza è l’ultima a morire, no? >>
Il ragazzo si allontanò con un sorriso furbo sulle labbra, facendo un piccolo inchino alla nostra amica. Non si poteva definire un ragazzo brutto con i suoi capelli castani sempre in ordine e quel suo sorriso strafottente aveva mietuto tante vittime nel corso della sua adolescenza.
<< Mi spieghi perché continui a rifiutarlo se in realtà ti piace? E non provare a negare! >>,chiesi incapace di trattenermi oltre.
<< Perché non gli piaccio io, ma il fatto che non sia mai riuscito a farmi cedere. Il giorno che dirò di si, tutto il suo interesse svanirà. Ora è l’unica distrazione positiva. >>, Mia si limitò a rispondere con un’alzata di spalle.
<< Grazie eh!>>, borbottò Jason, dandole un colpetto sulla testa. << Noi cosa saremmo, quindi?>>
<< Un male necessario>>
Mi stiracchiai sul posto, ascoltando il battibecco di quei due e appoggiando la testa sullo schienale di quella poltroncina scomoda.


Ora Emma riusciva a vedere con chiarezza e si ritrovò a sbattere più volte le palpebre, incredula dello spettacolo che si trovava di fronte a lei.
Non è possibile.
Una casa occupava tutto il suo spazio visivo. Chiamarla casa era sicuramente riduttivo, villa forse più appropriato. Il colore grigio era il più diffuso, sia su le colonne all’ingresso, che delimitavano una grande veranda, sia sulle pareti. L’effetto era quello di una grande lastra di granito, con delle venature nere che spezzavano il grigiore e davano quel tocco di eleganza. Gli infissi erano di un nero lucido quasi fastidioso alla vista. La porta principale era di massiccio legno nero a due ante, con maniglie laccate in argento, che proprio in quel momento si aprirono e rivelando varie figure, vestite di nero dalla testa ai piedi, che iniziarono ad uscire lentamente dalla casa. Uomini e donne si alternavano, mentre si disponevano in file ordinate di fronte a noi. A chiudere la fila due uomini, diversissimi tra loro, ma che camminavano con passo più deciso e sicuro rispetto agli altri. Uno biondo con un grande sorriso stampato in faccia, l’altro moro con l’espressione più cupa, quasi come se fosse scocciato di stare lì.
La ragazza che aveva aiutato Emma si ricongiunse con i propri compagni. Trenta paia di occhi guardavano con interesse i ragazzi frastornati, alcuni sorridevano, altri sogghignavano.
Fu il biondo a parlare per primo, attirando l’attenzione su di se.
<< Benvenuti, benvenuti!! Sono contento di constatare che quest’anno il gruppo è numeroso. Molti di voi sapranno chi siamo, altri di voi invece si chiederanno cosa fanno qui. Mi chiamo Joseph, sono il capo qua dentro, per farla breve. Come sapete il Sistema è una macchina ben oliata. Tutti noi serviamo a qualcosa. Voi servite a qualcosa ed è per questo che vi hanno mandati qui da noi!>>
La morsa che le stringeva il cuore si allentò di poco, se la sua assenza da lavoro era stata giustificata, i suoi genitori e il suo fratellino Cam non stavano patendo né la fame, né il freddo. Soprattutto Cam che aveva solo dieci anni, ed era troppo piccolo perché capisse cosa significasse vivere a Seattle. Il mondo era cambiato drasticamente negli ultimi cento anni. La natura si era ribellata agli umani. Troppa popolazione, troppo inquinamento, troppo di tutto.
Era cominciato piano, con i livelli di ossigeno nell’aria che diminuivano, le scosse di terremoto che si facevano più frequenti, gli oceani e i mari che diventavano innavigabili. L’economia era crollata, tutte le nazioni erano troppo preoccupate cercando di far sopravvivere la popolazione, che non a commerciare e ben presto tutti si ritrovarono da soli. La città di Seattle era stata una delle più colpite: era iniziato tutto con una leggera scossa, che però non aveva allarmato nessuno. Ormai tutti si erano abituati a sentire la terra tremare. Ma quella scossa non finì, si trasformò in un terremoto che fece sprofondare mezza città senza consentire alle persone di mettersi in salvo. Erano morte migliaia di persone e nessuno aveva potuto fare nulla.
Seattle rimase immobile nel suo lutto per diversi mesi, chi si era salvato aveva pagato un prezzo più alto di chi aveva perso la vita. Erano da soli, senza energia elettrica, senza capi che dessero una direzione. Il cibo era razionato, perché il terremoto aveva colpito le principali industrie di sostentamento.
Così che nacque il Sistema. Alcune delle persone più forti ed influenti, presero il comando della città. Si innalzarono sulla popolazione come capi, senza che nessuno li eleggesse. Decisero di registrare ogni singolo cittadino e di munirlo di un codice identificativo, attraverso un microchip che veniva impiantato nel braccio. Ormai erano passati decenni, tutti venivano monitorati costantemente. Scienziati assegnati al Sistema controllavano  i progressi a scuola, i comportamenti, le aspirazioni, gli hobby di ogni cittadino e attraverso questi dati si veniva smistati secondo le competenze che loro ritenevano più consone. Non ci si poteva ribellare. Il Sistema non sbagliava mai.
Emma cercò di farsi un’idea generale di cosa la circondasse. Oltre un giardino che circondava l’ampia villa e ragazzi che erano spaesati quanto lei, vide Mia e Jason in fondo alla fila alla sua destra che si guardavano intorno nervosamente. La ragazza bionda fu la prima a notarla e con un colpetto richiamò l’attenzione di Jason verso di lei, indicandola con un dito. Il volto del ragazzo si rilassò all’istante e fece cenno ad Emma con la mano invitandola a raggiungerli. Lei però scosse la testa e con le dita gli fece intendere che si sarebbero incontrati dopo, gli occhi scuri di Jacob si incupirono, ma sembrò capire e riportò l’attenzione verso il ragazzo biondo che ora li scrutava attentamente.
<< Pochi sanno di noi ed è meglio così. Serviamo il Sistema da molto vicino, risolviamo i problemi, troviamo le soluzione e cerchiamo di far vivere ai cittadini una vita spensierata. Non usiamo metodi tradizionali. Ma questo lo scoprirete , non vi voglio di certo rovinare la sorpresa >>
Un sorriso,che assomigliava più ad un ghigno, si fece strada sul suo viso.

Furono scortati all’interno della villa e se possibile l’interno risultò ancora più maestoso dell’esterno. Se fuori avevano optato per colori tenui, qua il marrone, il rosso e l’oro facevano da padroni. L’ambiente aveva un’aria confortevole. Loro si trovavano in un ampio ingresso, che si affacciava su due stanze. Non c’erano porte, ma due archi separavano gli ambienti. Alla sua sinistra una specie di salottino, con poltrone e un divano di velluto rosso posizionati di fronte ad un cammino. Tavolini di mogano erano sparsi qua e là per l’ambiente senza un reale motivo. Alla sua destra riusciva a scorgere solo scaffali alti addossati alle pareti, ma non molto di più. La stanza era completamente al buio.
<< Bene miei  cari, ora vi lascio al mio braccio destro. Spero che la vostra permanenza qua sia delle migliori >>, con un inchino ci salutò e si rivolse al moro vicino a lui, <> e con quest’ultima frase, sparì lungo la scala che si stagliava di fronte a loro.
<< Il mio nome è Ash, ma a meno che voi non siate in punto di morte, preferirei che non pronunciaste il mio nome. Non mi piace essere disturbato se non per questioni importanti. Questa sarà la vostra casa per i prossimi mesi e se supererete l’addestramento e le prove, per la vostra vita. Al piano superiore troverete gli alloggi, ognuno di voi dormirà con un altro allievo. La colazione sarà servita alle sei in punto, chi arriverà in ritardo, non mangerà. Gli allenamenti inizieranno esattamente due ore dopo e saranno scanditi solo dai pasti principali. Non ci interessa a che ora andrete a dormire. Buona permanenza.>>
Simpatico.
Ash li lasciò lì, con mille domande ancora da fare e senza aver appianato per niente i suoi dubbi. Possibile che siano tutti così strani? Chi erano? E  cosa ci faceva lei lì?
Emma finalmente poteva guardarsi intorno con molta più facilità, ora che erano tutti rinchiusi dentro la villa.
Qualcuno lo conosceva di vista, altri erano facce completamente nuove. Ma era sicura al cento per cento di non avere niente in comune con nessuno di loro.
In tutto erano in diciassette, sei donne e undici uomini, età praticamente simili.
Nessuno che spiccasse per una qualche dote particolare, nessuno veramente degno di nota.
Solo un ragazzo se ne stava tranquillo appoggiato al muro con le braccia incrociate e con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Non fu difficile capire che faceva parte dei ragazzi arrivati col furgone grazie alla sporcizia che lo ricopriva. Emma si ritrovò a fissarlo. Perché era così tranquillo, perché non sembrava spaesato come lo erano tutti? Non dimostrava un’intelligenza sopra la media, sembrava più la persona da chiamare per picchiare qualcuno. Era alto, con due spalle ben piazzate. La faccia assomigliava a quella di un cane con il muso schiacciato. I capelli scuri tagliati corti e neanche un filo di barba incorniciava il suo viso. In quel momento il protagonista delle sue occhiate si accorse che lo stava fissando e le fece un cenno con la testa.
<< Problemi, piccoletta?>>
<< Tu sai dove siamo, vero?>>
Nel frattempo si era avvicinata o non avrebbe mai sentito quella parola quasi sussurrata dalle labbra di lui.
<< Shadows>>
Un nome che aveva solo sentito una volta, sussurrata dai suoi genitori tanti anni prima e  ben presto dimenticata. Era solo una bambina quando aveva provato a capirne il significato, ma il padre aveva scosso la testa e non aveva mai risposto alla sua domanda. 
<< Spiegati meglio >>
<< Gli assassini del Sistema. Chi viene dai bassifondi come me, li conosce. Sono tra le persone più pericolose di tutta la regione. Riescono ad infiltrarsi ovunque, a raggiungere chiunque. Chi viene scelto è perché ha dimostrato di avere le qualità giuste, non sbagliano mai. Ho visto ragazzi uccidere la propria famiglia per cercare di entrare a far parte degli Shadows, ma non hanno mai capito che non serviva a niente >>
<< Assassini? Non prendermi in giro.>>
<< Questa è una scuola per noi. Ci insegneranno ad uccidere e ad essere maledettamente bravi nel farlo>>
Emma non riusciva a replicare, lei che aveva sempre una risposta pronta, non riusciva a proferire parola. Era sicura che lei non avesse la stoffa per fare l’assassina, aveva fatto giuramento di aiutare le persone non di ucciderle.
Non capiva se quel ragazzo la stesse prendendo in giro per vedere a che punto lei si fosse spaventata o era veramente convinto che qualche setta li avesse rapiti per iniziarli a qualcosa di macabro.
<< Eccoti qua! Trovarti è quasi impossibile, in mezzo a questo caos>>
Riconobbe la voce di Jason ancora prima di sentire le sue braccia avvolgerla e tirarla verso il suo petto. Lo sentì avvicinare la faccia ai suoi capelli e tirare su con il naso, scostandola poi da lui con un’espressione disgustata sulla faccia.
<< Ti serve una doccia>>
<< Simpatico. Ti sei annusato di recente?>>
Jason sorrise e la abbracciò di nuovo, evidentemente non puzzava così tanto se riusciva a tenerla così vicino. L’amico non aveva prestato attenzione al moro vicino a loro fino a quel momento, sentì infatti i muscoli irrigidirsi contro la propria schiena, sollevando la testa osservò in viso l’amico che guardava con diffidenza il ragazzone vicino a loro.
Per quanto Jason superasse il metro e ottanta sembrava minuscolo se paragonato all’altro, che lo superava sia in altezza che in muscolatura.
<< Jason, piacere >>, disse Jason che continuava ad circondarle le spalle con un braccio, mentre tendeva la mano verso l’altro.
<< Raw >>, si limitò a dire l’altro, lanciando un’occhiata nella sua direzione.
<< Attenta piccoletta>>
 
<< Dov’è Mia? >>
Emma non aveva ancora visto l’amica e cercare di identificarla in mezzo a quel marasma di persone non era facile. Figure vestite di nero si mischiavano a ragazzi con vestiti mal ridotti e maleodoranti. Sarebbe dovuto essere facile individuare una testa bionda, se non fosse per il piccolo particolare che quasi tutte le ragazze presenti là dentro avessero lo stesso colore di capelli.
<< Le avevo suggerito di stare vicino alla scalinata, così sarei venuto a recuperare te e poi ci saremmo ricongiunti. E’ più facile trovare te. Sai, per i tuoi capelli. >>
Emma osservò i capelli che le ricadevano sulla schiena e sulle spalle e ne prese in mano una ciocca. Il bianco candido ora opaco a causa dello sporco, era sicuramente più facile da individuare, era certa di sì sembrare un faro in mezzo alla tempesta. Non aveva mai amato particolarmente i suoi capelli proprio per questo. Troppo riconoscibile, troppo difficile mischiarsi in mezzo alle gente. Tutti avevano avuto qualcosa da ridere, all’inizio le aveva dato,  ma con il passare del tempo non aveva fatto più caso delle malelingue. Aveva anche tentato di coprire il bianco con una tinta nera, anche se trovare tinte che durassero più di qualche giorno era diventata un’impresa impossibile, ma le stesse persone che la prendevano in giro per i capelli troppo chiari, avevano trovato un’altra cosa a cui attaccarsi. Un mese le era bastato per rendersi conto che nulla sarebbe cambiato e che l’unica che potesse veramente giudicarla, era lei stessa.
<< Non dovevi lasciarla sola. Sai come è fatta, starà già dando di matto>>
<< E tu non dovresti dare confidenza agli sconosciuti, soprattutto a quelli che assomigliano a quello là>>.
L’ultima parte della frase venne fuori con rabbia dalle labbra di Jason, talmente nervoso da far pulsare il nervo della mascella.
<< Si, papà>>, borbottò Emma  a bassa voce, per non farsi sentire.
Non era interessata a litigare, ma l’istinto di protezione di Jason nei suoi confronti diventava spesso soffocante. Non era la prima volta. Lei e Mia erano state costrette per anni a frequentare i ragazzi di nascosto dall’amico, perché appena lui lo scopriva diventava freddo e scostante. Due anni fa non le aveva parlato per due settimane solo perché aveva scherzato con un uomo.
 Loro, d’altro canto provavano gusto nello stuzzicare la pazienza del ragazzo, civettando, il più delle volte, con gente poco raccomandabile. Secondo Mia, era la punizione giusta per la continua intromissione di Jason nelle loro vite private.
Emma era sempre stata affezionata all’amico e un tempo la sua vicinanza provocava in lei sensazioni che aveva scambiato per amore, ma ora la sua mano stretta in quella di lui, non le provocava altro che senso di familiarità. I suoi occhi non vedevano più il ragazzo per cui avevo preso una cotta quando era più giovane, ma solo Jason.
<< Finalmente! Perché diavolo ci avete messo così tanto? >>
Emma lanciò un’occhiata al ragazzo come per dire “Te lo avevo detto” e si lasciò avvolgere dall’abbraccio dell’amica, che la strattonava e pizzicava per constatare che fosse tutto apposto.
<< Hai finito? La pelle mi servirebbe>>
<>, quasi urlò la bionda.
<< In realtà erano otto>> , dichiarò Emma pentendosi subito dopo.
<< Non sei d’aiuto>>, la rimproverò Jason e tu Mia ora calmati, non è un bene attirare l’attenzione su di noi >>
<< Perché mai? Cosa vuoi che ci facciano?!>>
<< Jason ha ragione. Non sappiamo ancora con chi abbiamo a che fare. >>
<< Non ti ha detto nulla quel Raw, prima?>>
Emma sussultò a quelle parole. Ancora non voleva crederci, assassini. Lei avrebbe dovuto togliere delle vite. Guardò attentamente i suoi amici e non le parve possibile che uno dei due fosse in grado di uccidere qualcuno senza impazzire subito dopo per i sensi di colpa. Gli occhi dolci di Mia e il sorriso contagioso di Jason, non erano tratti di assassini.
Emma, però, non si sentiva pronta a condividere l’informazione  che Raw le aveva dato. Non era mai successo che tacesse loro qualcosa, erano i suoi più grandi confidenti da che aveva memoria, ma qualcosa la tratteneva. Aveva paura che Raw le avesse mentito e non voleva provocare panico, finché non fosse stata sicura.
Se solo riuscissi a parlare con qualcuno che vive qui.
Uno sbadiglio improvviso le face realizzare che la stanchezza iniziava ad essere un peso sugli occhi e sulla sua testa, erano giorni che non dormiva e mangiava bene. Dentro quel furgone era riuscita solo ad assopirsi massimo venti minuti ogni tanto,  il minimo indispensabile perché non iniziasse ad avere le visioni.
<< Quindi?>> la voce di Jason la riportò alla realtà, ma si limitò a scuotere la testa.
<< Troviamo le nostre camere, sono distrutta>>

Eravamo già al quarto bicchiere e sentivo la testa leggera come una piuma che volteggiava indisturbata. Non avevo mai retto bene l’alcool, mi bastavo pochi bicchieri perché iniziassi a ridacchiare come una pazza. Comportamento che avevo anche in questo momento, comunque.
Mi stringevo la pancia con le mani e continuavo a ridere per una battuta che Jason aveva fatto più di dieci minuti fa, quest’ultimo mi guardava con un misto di compassione e divertimento.
Jason non era fra le persone più divertenti, le sue battute facevano sempre pena. Per quanto ci provasse, non riusciva a raccontarne una che provocasse anche solo un sorriso. Questo la diceva lunga sul mio livello di ubriachezza.
<< Emma, missà che è arrivato il momento di andare a casa>>
<< Un altro po’>> , non sono sicura di come pronunciai le mie parole, ma sicuramente non furono chiare perché Mia scoppiò a ridere, mentre scuoteva la testa rassegnata.
La bionda reggeva molto meglio di me l’alcool e anche se aveva bevuto quanto me, era tranquilla seduta sulla sua poltroncina.
<< Non capisco perché continui a bere, Emma, lo sai anche tu che reggi meno di un bambino ancora in fasce>>
<< Questo non è vero>>, la additai con un dito, anche se mi sembrava di sventolarle l’intera mano davanti alla faccia.

Da quando avevo venti dita?
Vedere doppio, in questo caso anche quadruplo, non mi era mai successo. Provai ad alzarmi in piedi, ma sbandai e dovetti appoggiarmi allo schienale della sedia per non cadere rovinosamente per terra.
<< Ok, tesoro, io ti prendo in braccio. Tu per favore cerca di non vomitarmi addosso>>
Jason mise un braccio sotto le mia ginocchia e con l’altro dietro la mia schiena mi sollevò come se fossi fatta di carta pesta.  Non avevo le forze per fare resistenza o oppormi, appoggiai la testa sul petto di Jason e borbottai un grazie assonnato.
Gli occhi iniziarono a chiudersi da soli e ben presto, cullata, dai passi del ragazzo mi addormentai.


Informazione: Pubblicherò all'incirca un capitolo a settimana. Se ci saranno ritardi, chiederò già scusa. 
E grazie mille per chiunque leggerà la mia storia! }
  
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