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Autore: Adeia Di Elferas    31/03/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La Sforza ci mise un po' a capire cosa fosse accaduto. Sentiva il peso ingombrante del suo stallone premere sulla sua gambe e immobilizzarla. Fu solo la paura a permetterle di spostarsi appena in tempo, prima che lo stesso soldato che aveva ucciso il cavallo uccidesse anche lei.

Le era sfuggita di mano lo spadone, aveva un dolore opprimente al fianco, ma seppe di non essersi rotta nulla nel momento stesso in cui riuscì a tirarsi in piedi senza bisogno di aiuto.

Aveva visto la lama del francese sfiorarla, ma mancarla, e poi, in un insieme confuso di grida e movimento, aveva capito che qualcuno era arrivato ad aiutarla. Mentre Baccino colpiva per la seconda e poi per la terza volta l'avversario, ormai in terra con il cranio fracassato, Caterina sentì tutta la sua attenzione catalizzata dall'immagine del suo bellissimo cavallo riverso in terra in una pozza di sangue.

Anche nella penombra opalescente di quella notte di neve poteva vedere il rosso vermiglio che inzuppava il pelo della bestia. L'istinto non la portò a scappare, né a difendersi, ma a inginocchiarsi accanto all'animale che le era stato accanto per anni.

“Spostati!” stava gridando il cremonese, mentre cercava di tenere a bada un altro nemico: “Non startene lì! Corri!”

Ma la Leonessa non lo ascoltava. Avrebbe voluto piangere, mentre accarezzava con la mano coperta dal guanto ferrato il collo possente del suo stallone. Era una sensazione tanto viscerale da paralizzarla. Sapeva che era una cosa stupida da fare, specie in mezzo a una battaglia caotica come quella, ma la sua mente era come spenta.

Baccino, capendo che la sua signora non era abbastanza lucida, mandò in terra con uno spintone il francese con cui stava duellando, e le si avvicinò. La fece rialzare, prendendola quasi di peso, e poi le gridò nell'orecchio di mettersi al riparo, se non era in grado di continuare.

La Sforza sentiva la voce del cremonese, ma non la toccava. La morte del suo amato cavallo l'aveva come addormentata. Non avrebbe mai creduto di scoprirsi tanto fragile, ma, di fatto, improvvisamente le sembrava tutto troppo pesante da sopportare.

Un lampo, però, l'attraversò, quando vide una freccia piantarsi in terra a poca distanza dal suo piede. Non era abbastanza presente da guidare l'attacco, ma poteva ordinare la ritirata. Ormai i danni erano stati fatti, da una parte e purtroppo anche dall'altra, quindi si poteva dichiarare chiusa l'impresa di quella notte.

“Alla rocca!” gracchiò, con la voce che si spegneva a ogni parola: “Alla rocca..!”

Baccino, che ormai la sorreggeva in pianta stabile, le fece eco, gridando a pieni polmoni: “Tutti alla rocca! Alla rocca!”

Mentre cominciavano a correre via, Caterina riuscì a lanciare un ultimo sguardo al suo purosangue, un animale fantastico, che negli anni si era lasciato cavalcare solo da lei, e si sentì morire pensando, con una similitudine che avrebbe creato sconcerto nei più, ma che per lei non aveva nulla di scandaloso, che, un po' come suo figlio Livio, non avrebbe avuto una sepoltura degna del suo valore, né dell'amore che lei aveva nutrito nei suoi confronti.

Tuttavia, trascinata da Baccino, che faceva del suo meglio per indurla a correre più forte che si poteva, la Tigre faceva del suo meglio per restare al passo. Più avanzava, più sentiva la gola bruciare per colpa dell'aria gelida e delle lacrime trattenute. Le faceva male il fianco destro, e le dava molto fastidio anche la gamba che era rimasta per qualche secondo sotto la mole dello stallone. Era difficile non perdere il gruppo dei suoi soldati, che sembravano tutti in grado di andare più veloci di lei.

“Corri!” gridò di nuovo Baccino, standole appresso, dandole qualche piccola spinta, il massimo che potesse fare, coperto di ferro com'era, per indurla a non cedere: “Andiamo! Abbiamo bisogno di te, non puoi mollare ora!”

Trovando in quelle parole una forza diversa, una sorta di disperata volontà, la Contessa accelerò quel poco che poteva la corsa. Improvvisamente le oltre centoventi libbre della sua armatura le parvero nulla, in confronto al peso che le schiacciava il cuore.

 

“Un'altra incursione..!” fece Cesare, tormentandosi una crosticina sul mento: “Quella donna non ha la minima vergogna... Proprio stanotte, dopo che le ho teso una mano..!”

Il Borja aveva chiesto di essere informato di ogni novità per tempo, e già si era innervosito nel sapere che la Sforza aveva osato attaccarli di nuovo, capire, poi, che l'avviso gli era arrivato con un colpevole ritardo, lo stava facendo uscire di sé.

“Se almeno... Se almeno me l'aveste detto prima...” farfugliò, stringendosi un po' nella veste da camera, senza però sapere come proseguire in modo sincero: “Io... Io avrei mandato qualcuno a contrastarla.” concluse, accigliandosi.

Il portavoce che era andato a dargli la notizia scambiò un'occhiata dubbiosa con Giampaolo Baglioni, che aveva voluto essere presente alla comunicazione. Quello scambio di sguardi non sfuggì al Valentino, che ne restò folgorato.

“Mi credete un incapace!” esplose, alzandosi di scatto dalla poltroncina e stringendo le mani a pugno.

“Non abbiamo detto questo.” chiarì il perugino: “Solo...”

“Solo cosa?!” Cesare sembrava un cane ferito, desideroso di farsi aiutare, ma troppo spaventato per lasciare il prossimo libero anche solo di avvicinarlo: “Piuttosto, vostro cognato? Sa qualcosa di Antonio Maria Ordelaffi?!”

Il Baglioni sollevò le sopracciglia, spiazzato da quell'improvviso cambio di argomento: “Mio cognato? È a Ravenna al momento... Al soldo del Doge...”

“So benissimo dov'è Bartolomeo d'Alviano!” inveì il Valentino, puntando l'indice verso Giampaolo: “Ed è proprio per quello che vi chiedo se vi ha scritto nulla riguardo l'Ordelaffi! Se non lo sapete, quel maledetto è a Ravenna e sta cercando di sobillare i forlivesi contro di me!”

Siccome il condottiero pareva confuso da quella notizia, il Borja si abbandonò a un suono gutturale di esultanza.

“Lo vedete?!” lo rimbrottò: “Mi credete un incapace, ma io ne so mille volte più di voi! Io conosco il terreno su cui mi muovo! Io so come...”

“Cugino..?” il Cardinale Juan Borja si era appena affacciato nella camera e, un po' preoccupato per il tono altissimo della voce di Cesare, era rimasto all'ingresso, senza osare muovere un passo in più.

Il Duca di Valentinois, vedendolo, si impose di continuare la sua recita, pretendendo che tutto stesse filando più che liscio, così, con voce amabile, chiese: “Avete bisogno, cugino caro?”

Stupiti da quell'improvviso cambio di atteggiamento, sia Baglioni, sia l'attendente rimasero in silenzio, capendo che ogni loro intervento, in quel momento, sarebbe stato un errore.

“Ho visto del movimento...” disse il porporato, che, avendo la stanza non molto lontana da quella del consanguineo, era stato svegliato dall'andirivieni di soldati accorsi per discutere delle novità.

“Non è nulla, non è nulla...” minimizzò Cesare, abbozzando addirittura un sorriso: “Anzi – si affrettò a soggiungere, vedendo il cugino poco convinto – stavo giusto spiegando a messer Baglioni che non era il caso di fare tutta questa confusione per una semplice zuffa tra soldati ubriachi...”

“Soldati ubriachi?” Juan sbatteva le palpebre velocemente, come se faticasse ancora a capire.

“L'esercito che mi hanno assegnato non è composto solo da nobili cavalieri.” tagliò corto il Duca di Valentinois: “Abbiamo anche straccioni e gentaglia della peggior specie. Se trovano del vino da rubare, lo bevono subito e finisce che qualcuno si fa male...”

“Capisco...” annuì il Cardinale.

“Ma sono cose di guerra, cose che a un uomo di chiesa non interessano...” continuò Cesare, indicando la porta al cugino: “Tornate pure a dormire...”

Il Cardinale, però, non accennava ad andarsene. Il suo volto era attraversato da un'ombra di perplessità che, per la prima volta da che era arrivato, sembrava in grado di offuscare l'incrollabile e cieca fiducia che aveva nutrito fin da subito nei favolosi resoconti del cugino.

“Anzi, stavo pensando...” fece allora il Valentino, tentando di anticipare ogni pensiero nefasto dell'altro Borja: “Forse sarebbe buona cosa se partiste già domattina...”

“Veramente io...” balbettò allora il religioso, che non si era aspettato quelle parole: “Io contavo di passar qui anche il giorno di Santo Stefano per intero e, se possibile, ripartire tra un giorno o due...”

“Mio padre ha bisogno della vicinanza dei suoi parenti, ora che è iniziato il Santo Giubileo Straordinario...” sorrise Cesare, sforzandosi di essere il più convincente possibile: “E sono certo che vorrebbe avervi al suo fianco, e vorrebbe sentire dalla vostra viva voce i miei progressi, qui in Romagna... A Roma, insomma, c'è urgentemente bisogno della vostra presenza!”

Un po' lusingato e un po' intimamente spaventato dalla fretta che il cugino sembrava avere nel mandarlo via, Juan si grattò un momento la nuca, guardò i due soldati che erano nella stanza con Cesare e poi annuì, incerto: “Forse... Forse, se è questo che serve...”

“Serve eccome.” tagliò corto il Valentino: “Date ordine al vostro seguito di preparare la vostra partenza per domattina presto. Viaggerete più tranquilli, anzi, se partirete prima dell'alba...”

Il porporato avrebbe voluto prendere tempo, ritrattare e prenderla più con calma. Non aveva alcuna intenzione di mettersi per la via quando ancora faceva buio, specie ora che nevicava. Però gli mancò lo spirito di contravvenire a quella che sembrava una decisione irrevocabile. Chinando il capo, disse di sì e assicurò che sarebbe partito il prima possibile.

Salutato il cugino, il Duca di Valentinois tornò a guardare torvo verso Baglioni: “Quella donna ha osato troppo. Questa guerra finisce adesso.”

“Che intendete fare?” chiese Giampaolo, non trovando una soluzione semplice e un problema tanto complesso.

“Lasciate fare a me.” sussurrò Cesare: “So quel che faccio. Che diamine! Cosa ci sarà mai di difficile, nel far inginocchiare una donna!”

“State attento che non sia più difficile che farle sollevar di nuovo la sottana.” commentò a denti stretti Baglioni che, come tutti, aveva ben in mente l'aneddoto che aveva percorso l'intera penisola e che voleva la Tigre in cima alla sua rocca, con la gonna tirata su fino al seno a gridare contro i congiurati che le avevano ucciso il marito e che, nell'arco di pochi giorni, si erano visti battere e umiliare da lei.

Il Borja, però, che non aveva fatto mente locale e non ricordava di aver sentito parlare di quell'episodio, fraintese e ridacchiò: “Se anche sollevasse la sottana, saprei ben io che farne...”

 

Quando gli uomini erano rientrati precipitosamente alla rocca, era parso strano a tutti che, pur essendo in buona parte appiedati e quindi più lenti, non ci fosse nemmeno un francese a inseguirli.

“Deve esserci qualche disposizione del Borja – aveva subito ipotizzato Alessandro Sforza, guardando la scena dall'alto – mi pare chiaro che ha in mente qualcosa.”

“Oppure non ha in mente assolutamente nulla.” aveva ribattuto Marulli, con una scrollata di spalle.

Caterina era stata tra gli ultimi a raggiungere Ravaldino. Giovanni da Casale, a differenza dell'ultima volta, non l'aveva aspettata in camera, ma nel cortile.

Si era sentito a tratti ridicolo, mentre l'attendeva, perché assieme a lui, ad aspettare i soldati di ritorno dalla sortita, c'erano mogli, fidanzate e figli. Poteva dire, eccezion fatta per un paio di giovani che attendevano i fratelli, di essere l'unico uomo nella piccola schiera di gente in attesa.

Quando gli uomini erano tornati, quasi alla spicciolata, chi a cavallo e chi a piedi, Pirovano aveva iniziato a sentire una stretta al cuore, non vedendo la sua donna. Aveva cominciato a vedere le prime vedove piangere, accanto a lui, man mano che capivano che il loro sposo non sarebbe tornato e, per qualche minuto, fu pronto ad aggiungersi ai lamenti.

Poi, però, tra i fiocchi di neve, finalmente la vide. Era scortata da Baccino, lo riconobbe subito, ma in quel momento avrebbe accettato di tutto, pur di saperla viva.

Le corse incontro, fingendo di non vedere il cremonese, e l'abbracciò, infischiandosene tanto degli sguardi curiosi di alcuni, quanto dell'armatura che impediva alla sua amante di ricambiare la stretta.

Nel momento stesso in cui le si allontanò un po', si scoprì coperto di sangue. Era più di quello che, normalmente, insozzava il ferro di un soldato in battaglia. Ci mise qualche secondo, poi immaginò cosa fosse successo. In fondo, si disse, se il suo stallone nero non fosse morto, difficilmente la Sforza avrebbe lasciato il suo cavallo prediletto in balia del nemico.

“Andiamo in camera...” propose, protettivo, Giovanni e, incredibilmente, la donna non ebbe da ridire.

Quando i due furono all'imboccatura delle scale, protetti dal buio quasi totale, Caterina si fermò un istante. Cercò la mano del giovane con la sua guantata di ferro e lo fece avvicinare di nuovo.

“Cos'è successo?” domandò lui, cercando di abbracciarla una seconda volta, ma trovando molto più fastidioso l'ingombro dato dall'armatura.

“Hanno ucciso il mio cavallo.” soffiò lei.

Pirovano, in tutta onestà, non ricordava con simpatia lo stallone. Era una bestia enorme e molto forte, questo doveva ammetterlo, ma aveva un temperamento impossibile. Era testardo, aggressivo e non perdeva occasione di mostrare i denti e scalciare. Solo la Leonessa riusciva a cavalcarlo, perché solo con lei si mostrava docile.

Se avesse potuto parlare liberamente, Giovanni avrebbe ribattuto dicendo che era un peccato che fosse morto solo perché era un esemplare utile in guerra, ma non certo perché fosse stato un animale a cui fosse facile affezionarsi.

Invece, cogliendo un dolore profondissimo, nel baluginio della torcia che illuminava appena il viso della sua donna, si trovò a sussurrare: “È stato un cavallo fedele. Ed eroico.”

“Sì.” annuì Caterina, cogliendo un po' di freddezza nella voce del milanese, ma apprezzando il suo sforzo.

Non trovando altro da dire, Pirovano le sfiorò la guancia e cominciò a salire le scale, sperando che lei lo seguisse. Una volta in camera, l'aiutò a spogliarsi e a lavarsi. Accettò il suo silenzio e fece del suo meglio per non spaventarsi, quando vide i segni della caduta da cavallo impressi sulla sua pelle.

La donna lo mandò a prendere alcuni unguenti di sua invenzione del laboratorio e poi se li lasciò spalmare, sperando che il dolore – sia quello fisico, sia quello dell'anima – si attenuasse.

Giovanni la stava ancora cospargendo di olii che avrebbero dovuto aiutarla a far riassorbire l'ematoma, quando lei si addormentò. L'uomo, quindi, posate le boccette sulla scrivania, la coprì con calma, cercando di non svegliarla, e poi le si stese accanto, accettando di buona grazia di passare quella notte a vegliarla, attento a ogni suo più piccolo movimento, a ogni variazione della sua espressione, in modo da poterla svegliare subito, nel caso fosse caduta vittima di qualche incubo troppo brutto per essere sopportato.

 

Cesare stava aspettando con pazienza che Bernardi finisse di rasarlo vicino alle labbra, per poi poter tornare a parlare liberamente.

Anche se il Novacula stava dimostrando grandi doti non solo come scrittore, ma anche e soprattutto come memoria storica di Forlì, al Borja non dispiaceva nemmeno come barbitonsore e quindi, quella mattina, cercando qualcuno che potesse dare gli ultimi tocchi per renderlo più che presentabile, aveva subito pensato di chiamare a palazzo il barbiere storico.

Andrea, che pure aveva già smesso il rasoio e il grembiule, aveva accettato di buon grado quell'ordine e aveva messo al servizio del suo nuovo signore anche quella sua abilità.

Solo quando sentì la lama affilata sollevarsi dalla pelle, il Borja si schiarì la voce e disse: “E dunque mi dicevate che apprezza gli uomini più giovani...”

Il Novacula, deglutendo, annuì appena, in difficoltà nel parlare di certe cose con il Duca: “Sì, mio signore... O, almeno, è questa l'impressione che ha sempre dato.”

“Ebbene – sospirò l'altro – io sono più giovane di lei di parecchio, direi...”

“Non so quanto possa essere incline a guardarvi come un possibile amante, però...” si azzardò a fare notare Bernardi: “Siete giunto qui come conquistatore...”

Il Valentino agitò in aria una mano e cominciò a controllarsi allo specchio, per vedere se il lavoro di rifinitura del barbitonsore fosse stato ben eseguito. Calcolando che il forlivese aveva dovuto stare attento a non tagliarlo e non fargli sanguinare nemmeno una crosta, si poteva dire che avesse raggiunto un risultato ottimo.

“Che le piaccia o no...” borbottò il figlio del papa, alzandosi: “Farò ancora un tentativo per le buone. Ma sarà l'ultimo.”

Andrea fece un inchino profondo e poi, non riuscendo proprio a trattenersi, commentò: “Fossi in voi caricherei bene l'artiglieria, dunque.”

Cesare lo fulminò con lo sguardo, ritenendo quell'inciso quasi un moto di insubordinazione. Però, non abbandonandosi all'irritazione del momento, comprese abbastanza in fretta che quel barbiere non era avvezzo a parlare con il gran mondo e che, quindi, quei modi apparentemente maleducati andavano scusati.

“Vi intendete di abiti?” chiese il Valentino, inclinando il capo.

Il Novacula, con sincerità, scosse il capo: “Qui non si son visti mai abiti che fossero alla moda di Firenze o Milano... Sotto Madonna, si badava più alla robustezza delle armature che alla lunghezza delle lattughine.”

“Poco importa...” sbuffò il Duca: “Mi sembrate un uomo sensato, consigliatemi come vestirmi per apparire gradevole agli occhi di quella meretrice.”


Caterina, assieme al maestro d'armi e a Gerardo di Sangiovanni, stava controllando lo stato di alcune armature usate nella sortita delle notte appena passata. Rispetto al solito, certe avevano riportato grossi danni e, forse, alcune non sarebbero più state utilizzabili.

“Credete che la brunitura le abbia rese più deboli?” chiese Gerardo, indicando un punto molto scuro di una piastra addominale che sembrava essersi piegato come una ramina sotto i colpi del nemico.

La Sforza avrebbe voluto dire un secco no, ma si rese conto di non poterne essere certa, così lasciò che fosse il maestro d'armi a rispondere al suo posto.

Per fortuna l'uomo, con sicurezza, scosse il capo e ribatté: “Lo dubito. Il problema è che i francesi si sono fatti più accorti. Anche se vengono trovati addormentati o ubriachi, in fondo se l'aspettano, che noi arriviamo e reagiscono più velocemente e con più ferocia. Hanno meno paura.”

La Leonessa stava per dargli ragione, quando il suono di una tromba in lontananza la fece voltare di scatto. Sapeva che sui camminamenti, in quel momento c'erano come responsabili Lazzero Albanese e Giuliano Rossetti. Se uno dei due fosse corso a cercarla, significava che probabilmente per il Borja il discorso del giorno prima non si poteva ancora ritenere concluso.

La donna si mise in trepida attesa, spostando il peso da una gamba all'altra, cercando di non pensare al dolore, ancora abbastanza importante, al fianco e alla coscia e continuò a parlare delle armature.

Solo quando vide arrivare a passo svelto Albanese, capì che la sua presenza era necessaria altrove.

“Che succede?” chiese, lasciandosi alle spalle l'armeria e camminando come meglio riusciva verso il soldato.

“Una trombetta, mia signora – spiegò lui, mentre dalla sua bocca usciva una nuvola densa di vapore, che spostava i leggeri fiocchi di neve facendoli turbinare – dice che il Duca vi vuole parlare subito. E poco lontano dalla trombetta c'è il Valentino. Che rispondiamo?”

La Tigre deglutì. Indossava una corazzina leggera e abiti da uomo. Portava i capelli sciolti, un po' in disordine, e non si era preparata, malgrado tutto, a un secondo incontro.

“Arrivo.” disse, decidendo sui due piedi: “Annunciatemi. E ditegli di mettersi sul lato, come l'altra volta, in modo che si possa parlar più facilmente.”

Quando la Contessa arrivò sui camminamenti, nel punto stabilito, e guardò oltre il fossato, vide un Cesare Borja abbastanza diverso rispetto al giorno prima. L'armatura tirata a lucido era sparita, sostituita da un abito estremamente lussuoso, rifinito con fili d'oro e pietre preziose. Portava una piastra pettorale di protezione, sotto il giubbone, si vedeva benissimo, ma ciò non andava a disturbare troppo l'eleganza del suo portamento.

Abbandonate le vesti prettamente militari, insomma, il figlio di Rodrigo Borja sembrava essere tornato nel suo ambiente naturale e, in abiti civili ed eleganti, sapeva muoversi e atteggiarsi molto meglio che in armatura.

Di contro, il Borja, nello stringere gli occhi contro l'aria gelida e i fiocchi di neve, si trovò a scrutare una donna che gli parve molto diversa da quella vista il giorno prima. La Sforza aveva i capelli sciolti, che si alzavano al vento di quel 26 dicembre come piccole fiammelle bianche, ed era vestita da uomo. Il torace era riparato da una corazzina e non si poteva più vedere la pelle candida del suo petto o del collo.

Con un moto di delusione, che si univa indissolubilmente a una vaga sensazione di paura, l'uomo trattenne le redini del cavallo ed esclamò: “Sono qui di nuovo!”

“Vi vedo, non sono cieca.” ribatté la Contessa, tra il serio e il faceto.

Cesare strinse i denti. Quell'inizio non gli piaceva. Avrebbe voluto parlarle con calma, mostrarsi più affabile di quanto non fosse e, perché no, anche un uomo desiderabile. Se il vero punto debole della Tigre era la sua carne debole, provare a farla cedere a quel modo non sarebbe stato così assurdo...

E invece l'aperta ostilità della Leonessa gli fece subito perdere la pazienza: “Son qui per dirvi che dacché avete detto di non voler aver fede in me per quanto prometto, per me e per il papa mio padre, mi sono ripresentato per dirvi che Monsignor d'Alégre, il Balì di Digione e il Duca di Vendôme, che ha sangue reale di Francia, si fanno mallevadori di tutto.”

Caterina strinse gli occhi, fissando il suo interlocutore. Anche da quella distanza capiva quanto fosse teso, e anche arrabbiato. Quei due sentimenti poco si sposavano con qualcuno in reale ricerca di un punto di contatto, men che meno di un accordo di pace.

Così, dopo aver fatto un respiro molto fondo, la donna si sporse un po' oltre le merlature e gridò, in rimando, con un tono tanto secco da ammutolire il Valentino: “Quando manca il principale, vien meno l'accessorio.” e, detto ciò, gli voltò le spalle e sparì di nuovo nelle viscere della rocca.

Il Duca, ben capendo il senso di quella frase, ovvero che se la Tigre non credeva né a lui né al papa, non poteva certo aver fiducia in persone che considerava loro emanazioni.

Digerendo a stento quell'ulteriore smacco, il Borja fece girare in fretta il cavallo e, trattenendo con difficoltà la collera, cavalcò di nuovo fino a palazzo Numai.

 

Alessandra Scali sembrava ancor più tesa dei figli della Sforza, mentre Fortunati chiariva, punto per punto, le novità che era arrivato a portare.

La padrona di casa, in effetti, aveva già saputo qualcosa grazie ai contatti che aveva con la Signoria, ma sentendo ripetere le medesime cose, per di più con maggior dovizia di dettagli, da Francesco, la stava gettando in un profondo senso di scoramento.

“Tuttavia – precisò il piovano, vendendo gli occhi spersi della donna e quelli apprensivi dei ragazzi, specie Bernardino – per il momento non abbiamo nulla che ci faccia pensare che Madonna sia morta, anzi...”

“Di mio marito non avete saputo nulla, vero?” chiese la Scali, deglutendo.

“Purtroppo no.” ammise il piovano, con un sospiro pesante: “So solo quello che viene riportato per vie ufficiali. Più che sapere che Forlì in mano al Borja e che la rocca è ancora nelle mani della Tigre, non posso dirvi altro.”

Sforzino si mosse un po' sulla poltrona, mordicchiandosi l'interno della guancia, mentre Galeazzo rimaneva immobile al suo fianco, combattuto tra un istintivo dolore, nel pensare alla madre in una simile situazione, e un innaturale senso di straniamento, quasi come se Forlì e tutto ciò che vi era collegato non esistesse nemmeno.

Ottaviano, l'unico in piedi, tra i fratelli, stava contro al muro, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo torvo rivolto al religioso. Stava pensando a qualcosa di impegnativo, lo si capiva subito, ma probabilmente a nulla di realmente utile, come sempre. Si crogiolava da giorni nel rancore verso il fratello Cesare, che ancora non gli aveva dato risposta, ma, a parte quello, sembrava incapace di pensare a qualcosa che servisse concretamente.

“Dovete costringere Firenze a marciare al fianco di mia madre!” sbottò Bernardino, stringendo le piccole mani a pugno e alzandosi di scatto: “Dovete andare da Lorenzo Medici e dirgli che se non farà nulla per mia madre, allora è solo un vile e un codardo!”

“Carlo!” lo riprese Alessandra, che aveva cominciato a chiamarlo a quel modo proprio in risposta a una precisa richiesta del bambino: “Messer Fortunati non può fare proprio nulla di quello che stai dicendo!”

Francesco scosse il capo e, dopo uno sguardo alla Scali, si rivolse al Feo: “Vorrei poter fare tutto, davvero. Ma ha ragione Madonna Alessandra. Non posso. L'unica cosa che posso fare è badare a voi e tenervi informati, per quello che riesco.”

Il bambino fissò a turno il piovano, poi la padrona di casa e infine i fratelli, uno per uno. Capito che nessuno avrebbe aggiunto altro a ciò che era appena stato detto, emise un verso di frustrazione e, prima che qualcuno potesse trattenerlo, scappò fuori dal salone, diretto nella sua stanza.

“Perdonatemi...” fece Galeazzo, chinando un momento il capo e poi, svelto come un fulmine, mettendosi a correre dietro al fratello, nella speranza di intercettarlo e tranquillizzarlo.

“Si calmerà, con il tempo...” fece Francesco, sollevando un sopracciglio: “Il piccolo ha il temperamento di sua madre, ma crescendo qui a Firenze imparerà a dominarsi.”

La Scali annuì e, vendendo che il piovano si stava alzando per andarsene, fece altrettanto: “Mi raccomando, se doveste venire a sapere qualcosa, qualsiasi cosa, su mio marito, non esitate a venire qui.”

“Lo farò.” annuì lui: “Anche se voglio diradare le mie visite. Lorenzo non è stupido, potrebbe intuire qualcosa. Meno ci vediamo, in questo periodo, meglio è.”

La donna annuì e poi, mentre accompagnava il religioso alla porta, gli chiese: “Avete già avvisato anche Bianca?”

L'uomo scosse il capo: “Ma farò in modo di farle avere questa notizia tramite Suor Elena. Ho il modo di contattarla senza dare nell'occhio.”

La fiorentina lo ringraziò di nuovo e poi, dopo aver chiesto a uno dei servi di controllare che fuori fosse tutto tranquillo, lo lasciò andar via.

 

Caterina era nervosa, e, più la giornata andava avanti, più il ricordo del 26 dicembre di tanti anni addietro tornava a perseguitarla. Quella mattina era riuscita a non pensarci molto, ma in quel momento, mentre mangiava a fatica una mezza razione di maccheroni con le verdure, non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine di suo padre riverso in terra all'ingresso della chiesa di Santo Stefano.

A poco servivano le parole concilianti di Vangelista, seduto accanto a lei, che le descriveva di come i soldati rimasti feriti per colpa della passavolante esplosa si stessero rimettendo e fossero d'animo più combattivo che mai. Tutto ciò che la Sforza sentiva era un'accozzaglia di parole prive di senso che la infastidivano e basta.

“Mia signora...” Angelo Della Vella, con un mezz'elmo sotto al braccio, le si era avvicinato con discrezione.

La donna, appoggiando il cucchiaio al tavolo, si voltò verso il soldato e chiese: “C'è bisogno di me?”

“Ecco, mia signora, è appena stato davanti alla rocca un messaggero, che ha lanciato questo verrettone per voi.” spiegò l'uomo, porgendole la freccia a cui ancora stava attaccato il messaggio.

“Grazie.” fece lei, mentre già srotolava la pagina.

Lesse in fretta e trovò la richiesta del Borja pressoché assurda. Voleva incontrarla, ma potendo parlare a quattrocchi, non con una cinta muraria a dividerli. Gli premeva scambiare con lei alcune frasi che era meglio che orecchie estranee non udissero.

Con un'aria di sufficienza, la donna ripiegò la missiva, chiedendosi perché mai un comandante che sulla carta aveva tutti i numeri per batterla, dovesse volerla vedere per la terza volta nell'arco di meno di due giorni.

Stava già per dare ordine ad Angelo di rispondere con un semplice 'no', quando si disse che, con un po' di scaltrezza, quella poteva rivelarsi per lei un'ottima opportunità.

“Ditegli che va bene.” asserì: “Lo incontrerò un'ora prima del tramonto. Che venga solo e si avvicini al ponticello. Lo incontrerò lì.”

Il soldato fece un mezzo ossequio e se ne andò per riferire quanto deciso dalla sua signora.

“Dove stai andando?” chiese Monsignani, vedendo la Tigre lasciare il tavolo con il piatto di minestrone e pasta quasi intonso.

“Devo... Devo organizzare una cosa.” tagliò corto la Sforza.

 

 
   
 
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