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Autore: carlyxy    31/03/2020    1 recensioni
Con l’avanzare degli eventi si era inconsciamente accorta di non sopportare più nulla di Connor. Ma non era per i suoi interminabili silenzi o il modo improvviso in cui spariva per mesi interi senza dare notizia alcuna. No, il suo problema era che Connor era stato inevitabile.
Inevitabile era una parola opprimente e le sbatteva in faccia ogni cosa: l’inevitabilità di fissare la sua schiena quando le camminava d’avanti, l’inevitabilità del bisogno di sentire la sua voce, l’inevitabilità di lanciare uno sguardo in sua direzione con la coda dell’occhio e l’inevitabile dolore che provava quando scopriva che mai una volta l’indiano ricambiava il suo sguardo.
A quel punto le sarebbe piaciuto poter tornare indietro, riavvolgere il nastro e azzerare tutto.
Ma era conscia che qualsiasi cosa avesse fatto, non avrebbe fatto differenza. Era questo il problema: anche se fosse tornata indietro, in alcun modo avrebbe potuto fare a meno di innamorarsi di Ratonhnhaké:ton. [Connor x OC]
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Connor Kenway, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Icu Wana
  – 03 Capitolo –
 
Tenuta Davenport, 1776
 
 
«Mira donde vas, imbècil!»
Lily raccolse i resti del piatto che gli era caduto e alzò appena lo sguardo sull’uomo che aveva urtato per sbaglio: un marinaio ispanico a quattro ante.
«Perdonatemi, non vi avevo visto», bofonchiò, riponendo i resti sul vassoio che teneva in mano.
L’altro le prese il mento fra le dita. «Niñita», disse con finta gentilezza. « Il tuo posto dovrebbe essere in cucina o in un letto ma non ai tavoli».
Risate.
Ah.
Ah.
AH.
Lily si scansò bruscamente e sospirò di frustrazione. Una parte di lei avrebbe voluto levarsi lo sfizio di mandarlo al diavolo ma era troppo per bene e troppo ragionevole. Sapeva fin troppo bene che a voler rispondere per le rime a quelli come lui non ci si guadagnava niente.
Era passato circa un anno dall’apertura della locanda e le cose erano andate meglio di quanto avessero potuto immaginare: i marinai dell’Aquila –ebbene si, Connor possedeva persino una nave ed una ciurma- affollavano l’osteria continuamente, poi c’erano i cacciatori di passaggio, i viandanti e ovviamente alla lista di certo non mancavano gli abitanti del piccolo villaggio che si riunivano dopo il lavoro per un sorso di birra e un po’ di compagnia.
«Signore!», sentì la mano di suo padre stringerle la spalla in maniera rassicurante. «C’è qualcosa che non va?».
«Ce l’ha la tua cameriera qualcosa che non va! Guarda aquì», sbraitò indicando la nuova macchia sul gilè che in realtà faceva pendant con tutte le altre.
«Dovete perdonare la mia giovane figlia. Le porto subito una birra, offre la casa». Si scusò con un sorriso per poi trascinare la ragazza per il gomito. «Devi stare più attenta, Lily», disse fra i denti.
«Mi dispiace ma non l’ho proprio visto, è difficile non finire addosso a qualcuno fra tutti questi scimmioni».
«Lo so, non sono arrabbiato con te ma dovevi urtare proprio il più idiota tra gli idioti?», sospirò alzando gli occhi al cielo. «Va al bancone e restaci. Qui me ne occupo io».
«Si, padre». Lily si fece spazio fra la folla e si diresse verso l’altro lato del locale dove era appena stata confinata.
Quando si avvicinò al bancone notò che sua madre era intenta a conversare con una figura che riconobbe all’istante. Connor era seduto su di uno sgabello con le braccia poggiate al bancone mentre versava del vino nel suo bicchiere.
Da quel che aveva sentito vociferare tra gli abitanti, era tornato qualche settimana fa da Boston ma era la prima volta che lo vedeva seduto alla locanda.
«Come stanno andando le cose ultimamente?», lo sentì dire una volta che fu abbastanza vicina.
«Così bene che vi meritate la consumazione gratis», rispose prontamente sua madre.
«Sono un cliente fortunato».
Lei agitò una mano e sorrise. «No, lo siamo noi. Se non fosse stato per voi saremmo già in qualche fossa comune».
«Adesso non esagerare», s’intromise Lily mentre sollevò la pazienza e la sbatté sul bancone, letteralmente, assieme al vassoio.
«Ditemi un po’ Connor», disse Corrine mentre asciugava dei bicchieri con uno straccio senza guardare sua figlia. «Nella vostra tribù, cosa fanno le madri esasperate alle figlie che hanno la lingua troppo lunga?».
«A volte capita di metterle alla gogna con una molletta alla lingua. Ma la trovo una punizione eccessiva», rispose l’indiano sollevando gli angoli della bocca.
La signora Powell sospirò scuotendo la testa. «Un popolo meraviglioso. Avremmo molto da imparare».
Lily roteò gli occhi.
«Sciocchezze a parte, finisci tu di asciugare questi bicchieri, presto serviranno nuovamente», disse passandole lo straccio. «Vado a vedere se tuo padre ha bisogno di aiuto».
«Lo fanno sul serio?», chiese Lily dopo che sua madre si fu allontanata. «La storia della gogna».
«A volte».
«Mi toccherà nascondere tutte le mollette che abbiamo in casa».
Connor nascose un sorriso dietro il bicchiere di vino.
«Posso farvi una domanda?».
«Lo hai appena fatto».
La ragazza roteò gli occhi ma non si fece scoraggiare. «Ecco, era da un po’ che mi domandavo..non che voglia essere scortese, ma mi chiedevo se Connor fosse il vostro vero nome», disse contorcendo lo straccio fra le mani.
«Il mio vero nome è Ratonhnhaké:ton».
«Oh. E preferite che vi chiami Raton..Radonna-beh, avrò bisogno di esercitarmi prima».
Il ragazzo sollevò un angolo della bocca. «Chiamami Connor. Tutti i miei amici lo fanno e per favore», disse allargando le braccia «Dammi del tu».
La ragazza avvertì avvampare le guance. «In realtà anche il mio nome non è Lily, ma Elizabeth», sorrise brevemente. «Cioè, con questo non voglio dire che sia la stessa cosa» abbassò il capo e tornò a spolverare i boccali. «Lasciamo stare».
«Un amico una volta mi ha detto “I nomi cambiano ma le persone restano le stesse”», le sorrise. «Va bene così e poi Connor mi piace, ha qualcosa di speciale».
Lei annuì silenziosamente e Connor le lanciò uno sguardo prima di tornare a tagliare il pane.
Lily invece tornò a guardarlo per un lungo attimo. Così da vicino, il suo profilo era lungo e lineare. Aveva una curva verso la punta del naso ma era quasi invisibile, le labbra carnose e scure erano in sintonia con la tonalità calda della pelle. Le sopracciglia nere erano corrugate – si era accorta che lo faceva spesso, anche inconsciamente - creando delle linee sottili sulla fronte.
La camicia bianca che indossava faceva quasi contrasto con gli occhi color carbone che però gli davano un’aria dolce. O forse ce l’aveva per natura, ogni volta che lo aveva incontrato era stato estremamente gentile.
Fu come se dopo tanto tempo Lily si accorse che Ratonhnhaké:ton era bello. Ma nel senso ampio del termine. Lily aveva assimilato quell’informazione quasi inconsciamente.
Quella dell’indiano era una bellezza strana, singolare, che stava nel modo di fare le cose, la percepivi attraverso tutti i sensi anziché col solo sguardo.
«Elizabeth Powell!». 
Girò la testa di scatto e si rese conto di essere rimasta a guardarlo per tutto il tempo.
«Tuo padre mi ha detto tutto! E’ la terza volta questa settimana».
«Non è colpa mia se qui dentro non c’è più nemmeno lo spazio per respirare», si difese.
«Te lo avevo detto», la ignorò rivolgendosi al signor Oliver. «Te lo avevo detto che non siamo a Boston e questo non è posto per una ragazzina!».
«E che vuoi che faccia?», alzò le braccia il proprietario della locanda. «Che la tenga chiusa in camera sua?».
«Ci potresti almeno provare».
«Basta voi due!», sbottò la ragazza. «Starò più attenta e poi non è successo niente di così grave».
«Lily», sospirò suo padre. «Il tuo aiuto ci è comodo ma tua madre non ha del tutto torto».
«Se posso permettermi», s’intromise Connor. «Vorrei proporre una soluzione».
A quelle parole tutti spostarono la loro attenzione sull’indiano che aveva ascoltato silenziosamente la discussione mentre terminava il suo pasto. Non che ci fosse da stupirsi visto che sua madre aveva l’abitudine di parlare ad un volume che andasse oltre la comune decenza.
Si schiarì la voce. «Tra qualche giorno dovrò recarmi a New York per alcuni affari, perciò la casa sarà vuota e ad Achille farà sicuramente più che comodo una mano e poi un po’ di compagnia non potrà che fargli bene».
Lily sbatté le palpebre. «Vuoi che faccia la domestica?».
«Riceverai un compenso e potrai andar via quando lo desideri. Sempre che tu decida di accettare, ovviamente».
«Certo che accettiamo».
«Padre!».
Connor sollevò gli angoli della bocca. «E’ meglio se prima ne parlate fra di voi», disse alzandosi dallo sgabello. «Quando avrete preso una decisione mi farete sapere».
 
«Io non ci voglio andare!».
Il signor Oliver sospirò per l’ennesima volta quella sera a cena. «Lily, mi renderesti molto più tranquillo se non dovessi preoccuparmi di dove sono le mani dei miei clienti».
«E sarai tranquillo nel sapermi sola con un vecchio sconosciuto?».
«Oliver, per una volta nostra figlia non ha tutti i torti», intervenne Corinne. «Come farà a trovare marito se resterà tutto il giorno chiusa in casa col signor Davenport?».
A quel punto la ragazza iniziò a sobbollire come una pentola a pressione. Di certo il matrimonio non era una delle sue preoccupazioni principali in quel momento ma decise che non era il caso di mettersi contro il suo unico alleato.
«Nostra figlia è ancora giovane», respinse l’obiezione addentando una fetta di pane. «Lasciamo che passino almeno un altro paio d’estati prima di preoccuparci di matrimoni».
«La fai facile tu», sospirò la signora Powell.
Lily alzò gli occhi al cielo. «Resta il fatto che non voglio passare il resto delle mie giornate a fare la domestica. Preferisco dare una mano alla locanda, non potete gestire tutto da soli».
«Tesoro, io e tua madre ci occupavamo della locanda prima che tu nascessi e continueremo a farlo dopo che avrai preso marito. E poi non hai sentito? Avrai persino uno stipendio».
«Oh, certo. Dovrebbe importami di monete che andranno nelle tue tasche?».
«Elizabeth», per un secondo nello sguardo di suo padre si disegnò un’espressione ferita. «Che razza di padre pensi che io sia? I soldi si aggiungeranno alla tua dote».
«Questo si che mi allieta» sbuffò. «I miei soldi finiranno nelle tasche del mio ipotetico marito».
«E comunque non sarai sempre sola. Connor dovrà pur tornare da New York prima o poi».
«Pensandoci bene..», s’intromise sua madre che aveva assunto una strana luce negli occhi e un sorriso malizioso. «Connor è il padrone della tenuta e non è poi tanto più grande di te. Figlia mia, se fossi un po’ più furba fremeresti per del tempo da sola con il ragazzo. Avresti una casa più grande di tua cugina Jane e magari dei domestici tuoi».
«Oh, per la miseria!».
«Linguaggio, signorina!».
«E comunque Connor non è il padrone ma il signor Davenport».
«Il signor Davenport non ha eredi, a chi credi che andrà tutto quando deciderà di tirar le cuoia?».
«Madre, sei terribile».
«Adesso basa con le sciocchezze, ne avete dette troppe per una sola sera!», intervenne bruscamente il signor Powell. «Cosa deve fare un uomo per poter cenare in santa pace?».
A quel punto, ormai esasperata, Lily si alzò dalla sedia. «Bene, allora me ne vado a letto. Ma sappiate, entrambi, che non lavorerò a casa di Achille Davenport né domani né mai!».
 
Dopo circa un anno dal suo arrivo alla tenuta, mentre si ritrovava ad affondare la pala per sollevare lo sterco e la paglia sporca nella stalla del signor Davenport, Lily si ritrovò a maledire il giorno in cui aveva messo piede fuori da Boston.
Fra tutte le cose che aveva immaginato di pulire alla tenuta, le stalle non erano fra quelle. Era umiliante e ancora una volta, la colpa di tutto era da attribuire all’indiano.
Era difficile odiare qualcuno come Connor ma ogni suo gesto di gentilezza si rivelava un cambiamento drastico e soprattutto non apprezzato, nella vita della ragazza.
Quando tre giorni prima si era ritrovata di fronte all’alta porta in mogano della villa, il primo impulso era stato quello di scappare.
Accettare era stata una pessima idea. Un’idea imbecille. Quando si era voltata per tornare indietro il rumore della porta che si apriva la sorprese, costringendola a voltarsi.
Connor l’aveva fatta entrare e presentata all’effettivo padrone della tenuta.
Stando ai racconti degli altri abitanti, Lily aveva immaginato Achille Davenport come un vecchio schivo e silenzioso. La realtà non poteva essere più differente. Silenzioso non era un aggettivo che poteva rappresentare Achille visto che non lasciava correre occasione per lamentarsi e commentare ciò che non gradiva e ad Achille non piacevano molte cose. Una di queste era sicuramente Lily.
Non era d’accordo sulla decisione presa da Connor e non lo aveva nascosto neanche quando la ragazza era ormai giunta alla villa.
«Dagli tempo», le aveva detto il ragazzo. «Le sue pareti possono sembrare dure ma Achille è una persona gentile, soprattutto con chi stima».
Nonostante quelle parole, Lily era arrivata alla conclusione che Connor, seppur sempre con buone intenzioni, possedesse uno strano talento nel rendere infelici le persone che lo circondavano.
Quando ebbe finito il lavoro uscì dalla stalla ma sussultò quando uno strattone la riportò indietro di qualche centimetro.
«Ma che diamine..». La gonna si era impigliata in uno dei cardini della porta.
Cercò di sfilarla delicatamente ma sembrò non voler lasciare la presa. Dopo un paio di strattoni riuscì a liberarsi ma ci guadagnò un buco nella stoffa. Non era molto visibile ma sbuffò ugualmente. L’ultima cosa che voleva fare una volta tornata a casa era di armarsi di ago e filo e mettersi a rattoppare i suoi vestiti.
«Dovresti mettere dei pantaloni».
Si voltò al suono della voce del vecchio Achille. «Come?».
«Non puoi lavorare in queste condizioni», sospirò il vecchio tenendo le mani unite sul bastone piantato nel terreno. «Hai bisogno di pantaloni».
Lily aggrottò la fronte. «Ma non sono un uomo».
Achille assottigliò lo sguardo con fare teatrale. «Grazie al cielo me lo hai fatto notare».
La ragazza ebbe voglia di roteare gli occhi ma si trattenne.
«Penso che in casa ci sia ancora qualche vecchio pantalone di quando Connor aveva la tua età, userai quelli».
«Ma mi andranno lunghi».
«Sciocchezze», rispose, sbrigativo. Aveva un fastidiosissimo modo di chiudere i discorsi, senza che ci fosse modo di trattare. «Li metterai dentro gli stivali oppure tagliali, non m’importa».
«Sono pronto».
Per fortuna l’arrivo di Connor e dell’ altro uomo distolse completamente l’attenzione di Achille dalla ragazza, che ormai non aveva più nulla di valido con cui replicare.
«Bene, prendi i cavalli», gli disse rivolgendo il suo interesse verso l’altro.
L’uomo, che rispondeva al nome di Benjamin Tallmadge, doveva esser arrivato alla tenuta il giorno prima in tarda serata perché quando Lily era andata via non c’era e quando era arrivata, il mattino seguente, era già in casa. Non si sarebbe stupita se Achille lo avesse tenuto nascosto in qualche armadio o qualche stanza segreta poiché aveva fatto di tutto pur di tenere Lily a distanza dall’uomo.
Non aveva permesso neanche che gli preparasse il the.
Il signor Tallmadge doveva appartenere a qualche famiglia importante o comunque rivestire qualche carica di spessore nella società, più che dagli abiti lo si notava dal modo in cui si muoveva e da come parlava.
Pulire i cavalli e le stalle probabilmente era l’ennesimo modo per tenerla lontano dall’uomo.
Non che Lily preferisse la compagnia del signor Davenport a quella dei più gioviali e simpatici cavalli, ma si domandava se la trovasse inadeguata  alla presenza del signor Tallmadge.
Magari le domestiche dell’alta società erano diverse e con un’educazione ben precisa, e Achille non voleva che il signor Tallmadge si potesse sentire offeso dalla presenza della ragazza.
Ad ogni modo, quando vide arrivare Connor assieme a Benjamin Tallmadge, ancora una volta, ebbe l’impulso di scappare.
Dopo un pomeriggio passato nelle stalle era sporca di fango e probabilmente puzzava di sterco di cavallo e per lei fu una grande vergogna apparire in quelle condizioni davanti ad un uomo di quel lignaggio. Perlomeno ancora non indossava i pantaloni, ennesima punizione che il signor Davenport sembrava ansioso di appiopparle, in modo da apparire proprio come un ragazzotto di campagna.
«Mi spiace tu debba ripartire così in fretta dopo un viaggio simile».
«Non c’è tempo da perdere, amico mio», rispose mettendo un braccio sulla spalla di Achille. «Ogni giorno in cui indugiamo è uno in più per loro».
Achille annuì e non aggiunse altro e Lily, ovviamente, non aveva idea di quello a cui alludevano.
Quando Connor ritornò con due cavalli il signor Tallmadge salutò Achille a salì sul suo animale.
«Allora vado», annunciò e poi si rivolse con il suo solito sorriso verso la ragazza. «Sono contento di saperti qui, prima che io arrivassi questo posto cadeva a pezzi, letteralmente».
Lily sorrise per metà. «Buona fortuna a New York. Deve essere una bella città, ne parlavano bene a Boston».
«O puzza di piscio o puzza di bruciato», commentò il signor Tallmage da sopra il suo stallone.
«Perfetto». Connor scosse leggermente la testa prima di salire sul cavallo. «Ti farò avere notizie appena possibile, Achille».
«Connor», Achille afferrò una briglia del cavallo. «Ricorda ciò che ho detto. I dubbi fanno perdere tempo prezioso», la voce del vecchio era dura, tagliente.
Connor annuì e spinse i talloni nei fianchi del cavallo per poi galoppare via. I due si allontanarono fra un’ondata di terra e polvere seguiti dallo sguardo pensieroso di Achille.
C’era qualcosa di strano e di teso in tutti loro, Lily lo avvertiva sotto la pelle.
Achille si voltò e la fissò per un attimo. «Hai finito qui?».
«Si, signor Davenport».
«Allora cosa fai qui impalata? Torna a casa, sta per farsi buio», disse incamminandosi verso l’uscio di casa.  Il vecchio si voltò per un momento mentre saliva le scale. «E fatti un bagno, puzzi di sterco».
 
***
 Ce l'abbiamo fatta a giungere al terzo capitolo finalmente! Fra lavoro e vita sociale mi ci voleva la quarantena per riuscire ad avere il tempo necessario ad aggiornare. A proposito, state tutti bene? Spero di si e spero anche di avervi regalato 10 minuti di svago dalla noia che dilaga in questo periodo.
Tornando a noi, spero non abbiate trovato troppo banale l'idea di spedire la nostra protagonista dritta tra le mura di casa Davenport ma era il modo più semplice per far si che Connor e Lily interagiscano il più facilmente possibile in questa piccola storia.
Vi lascio con qualche breve delucidazione, grazie per aver letto e se ne avete voglia ci ribecchiamo al prossimo!♥
Oh, un grazie doveroso va alle persone che hanno commentato, davvero mille grazie, portate sempre un sorriso nel mio cuoricino ahah.

 
*«A volte capita di metterle alla gogna con una molletta alla lingua. Ma la trovo una punizione eccessiva»: anche se non so quanto fosse effettivamente comune, era una punizione reale ai tempi delle colonie che veniva usata per le donne reputate troppo "chiacchierone". Non c'è prova che questa 'punizione' fosse usata anche degli indiani ma mi sono presa questa piccola libertà.
**La frase “I nomi cambiano ma le persone restano le stesse” viene detta da Norris durate una delle missioni della tenuta. Inoltre, quando Connor dice che il suo nome è speciale, lo è perchè come sappiamo dal gioco è il nome del vero figlio di Achille.

***Quando vediamo Lily lamentarsi circa la sorte del suo stipendio non è perchè suo padre è un cattivone ma, all'epoca, essendo le donne  proprietà prima del padre e poi. del marito nel caso in cui percepissero un compenso non apparteneva a loro stesse e non finiva nelle loro tasche. Indovinate in quelle di chi? Purtroppo funzionava così.
****«O puzza di piscio o puzza di bruciato»: come anche visto nel videogioco, nell'epoca coloniale New York era stata 'colpita' da vari incendi, dolosi e non. Ecco a cosa si riferisce Benjamin con la puzza di bruciato.

 
   
 
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