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Autore: Black Swallowtail    05/04/2020    1 recensioni
“Jhin,” aveva chiesto, “ho una domanda.”
Jhin ne era rimasto deliziato.
“Quando una falena esce dalla sua crisalide, ricorda ancora la sua vita da bruco?”
Jhin si era fermato. La musica era cessata ed aveva riflettuto. Aveva ripreso a suonare con una mezza risata. L’aveva guardata danzare e i suoi occhi sembravano non riuscire a staccarsi da lei.
“Non posso risponderti, mia Orianna. Io sono ancora un bruco. Ma spero che tu, un giorno, possa trovarmi e darmi la risposta.”
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Caitlyn, Vi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TRE: schiaccianoci.
 

“Ah, Piltover, anche oggi hai bisogno di me. Anche oggi, ti sei ricordata che è il progresso a servire noi, non viceversa. E quindi, sei venuta da me.”

Erano quindici uomini in totale. Una squadra punitiva molto folta per una semplice irruzione e cattura di un ricercato. Camille era indispettita, ma non lo dava a vedere; suo nipote e tutto il clan Ferros avevano pagato profumatamente perché rintracciasse e catturasse Kada Jhin e lei, che conosceva questa città come fosse il palmo della sua mano, si era affrettata a gettarsi sulla pista.

Era stato più semplice del previsto e, non lo poteva negare, ciò la turbava: i terroristi, di solito, non vogliono farsi trovare. Ma dato il rapporto da Ionia che avevano intercettato, e richiamando alla memoria il profilo psicologico del bersaglio, non poteva meravigliarsene più di tanto. Jhin non aveva fatto nulla per cercare di rimanere nascosto; al contrario, si era fatto vedere in pubblico, aveva avvicinato un automa e l’aveva portato con se. La destinazione era banale, certo, e Camille trovava questa messinscena pacchiana — un artista folle che sceglie un teatro come luogo di uno scontro, una storia vista e rivista, che aveva il sapore di una novella teatrale.

Il consiglio del Clan Ferros era stato chiaro: Jhin doveva essere catturato vivo. Ferito, va bene, non potevano impedirle di fargli del male; sì, anche un arto in meno sarebbe andato bene, avevano la tecnologia per sistemarlo senza troppi problemi. Ma la sua mente e, sopratutto, le sue abilità di assassino efferato andavano preservate.

Un folle attore girovagante che, a quanto pare, era sfuggito al controllo dei suoi padroni, poteva essere un animale perfetto… con il giusto collare. D’altra parte, si trattava di fare un favore anche alla sua città. Se voleva evitare che andasse in pezzi, se voleva proteggerla e fare in modo che il Clan Ferros la muovesse a proprio piacimento, era necessario eliminarne le minacce: così aveva fatto con Jinx, così con Viktor ed Urgot, sempre dalle ombre, senza che quelle due ragazzine se ne accorgessero.

Era sicura che avrebbe incrociato ancora una volta le strade di Vi e Caitlyn e che sarebbe inevitabilmente accaduto quella sera. La polizia di Piltover era lenta, a volte trattenuta dalla morale e da lacerazioni interne, ma sapeva fare il suo lavoro. Quelle due, oltretutto, avevano una capacità singolare nel fiutare i problemi e saltare loro al collo. Sarebbero state un elemento di disturbo, senza dubbio, ma lei aveva dalla propria parte la rapidità. Avevano un netto vantaggio sulle forze dell’ordine e avrebbe chiuso l’incursione in poco meno di cinque minuti. Forse se la sarebbe cavata con meno, senza avere una squadra così folta alle spalle, ma i suoi patrocinanti avevano insistito.

La irritava sapere che, a parere di suo nipote e del consiglio del Clan, questo Khada Jhin rappresentasse un pericolo per lei. Aveva rimosso fin troppi ostacoli dalla strada di Piltover, aveva provato più volte di essere abbastanza forte da spazzare via chiunque. Non aveva abbandonato la sua fragile umanità per nulla, non aveva venduto il suo corpo alla causa ed il suo cuore, il suo amore pulsante, per essere sottovalutata così.

Si era trattenuta, perché sapeva che non era il momento di creare scompiglio nel Clan. Aveva posto suo nipote alla guida del Clan, dopo aver ucciso quel vecchio stanco e psicopatico di suo fratello, e di fatto lo manipolava come più le piaceva; ma a volte quel ragazzino subiva troppe pressioni dal resto della famiglia, da persone i cui interessi iniziavano a farla spazientire. Forse, sussurrò, forse è giunto il momento di fare pulizia.

Si sarebbe occupata più tardi dei problemi che iniziavano a serpeggiare tra le sue fila. Se volevano sfruttare quel vantaggio che avevano sulla polizia, dovevano muoversi; per cui fece un secco cenno con la mano ai suoi, li divise in tre gruppi da cinque e li mandò a circondare l’edificio, per controllarne il perimetro. Cinque sul lato nord, cinque sul lato sud, “Cinque con me,” concluse, diede loro le spalle, pronta a spiccare il balzo, “Irrompiamo ora.”

Le sue gambe un tempo erano state umane: era stata la prima modifica che aveva richiesto, che fossero sostituite da due lame mobili, che inserissero rampini e cavi d’acciaio per permetterle di spostarsi a mezz’aria. Poi era stato il turno degli occhi, per vedere al buio. Si era resa conto che, senza più un cuore, con un motore Hextech che pompava magia compressa nelle sue nuove vene, era molto più semplice abbandonare delle parti superflue di se stessa. Si sentiva leggera, più di quanto non lo fosse mai stata; e i vecchi ricordi, immagini sbiadite di una Camille più giovane, ancora umana, e del suo amore per il proprio Frankenstein le apparivano come diapositive ingrigite… o in questo caso come novelle teatrali, sì.

Senza un cuore, non puoi provare pietà, rimorso o esitazione. Non hai secondi pensieri, non ti fermi a cercare di capire cosa c’è di sbagliato. Camille aveva capito che il mondo era diviso in due parti: c’era la sua e c’era quella sbagliata. Se ne pentiva? No, assolutamente no, sibilò a se stessa, non c’è nulla di cui pentirsi. Il pentimento è ciò che tempra l’acciaio della nostra anima, diceva suo fratello; e ovviamente, nonostante l’età non addolcisse le sue memorie, era sicura di aver fatto la scelta giusta. Se non per se stessa, per il suo Clan e per Piltover.

I rampini scattarono fuori dalle sue gambe meccaniche, un sibilo che fendeva l’aria e si conficcava nel muro del teatro; il suo corpo metallico si eiettò, come un ragno, e arpionata al muro si avvicinò ad una finestra. Sbarrata, ovviamente, con travi di legno marcio e qualche rinforzo d’acciaio. L’ingresso, qualche metro sotto di lei, sembrava essere libero. Qualunque cosa stesse tramando questo Jhin, li stava invitando a braccia aperte.

Alzò gli occhi verso i cinque che aspettavano un segnale, i loro fucili imbracciati e pronti a fare fuoco, ma un secco movimento della mano bastò a dare il via libera.

Si calò lentamente, una piroetta a mezz’aria, ed atterrò con un vago tonfo metallico sul selciato. I suoi uomini la circondarono, si disposero in formazione, dita sui grilletti.

“Entriamo.”

L’ordine secco fece scattare in avanti uno dei soldati, un calcio violento, la porta si spalancò scricchiolando, i cardini infranti, nel rivelare una stanza vuota e polverosa, una biglietteria dalla puzza di muffa e ruggine. Un unico ingresso verso il teatro vero e proprio, una lunga galleria scura dalle bluastre luci intermittenti. Energia elettrica perfino in un luogo tanto abbandonato a se stesso, tipico di Piltover.

Ma c’era qualcosa che la tratteneva dall’avanzare, una sorta di impercettibile vibrare che sembrava solleticarle l’orecchio. Alzò la mano e la sua scorta si immobilizzò come una statua. Conosceva questa musica e conosceva queste note. Certo che le conosceva, si disse, i denti contratti, aveva studiato musica così tanto a lungo. Si era spaccata le mani sul pianoforte per così tanto tempo, per compiacere suo padre e la sua educazione, per essere la donna che serviva al Clan Ferros. Certo che riconosceva quella canzone.

Era un estratto, una piccola parentesi di un’opera per bambini. Una favola. Strinse gli occhi, per richiamare alla mente il titolo, ma più tentava di capire, più la vista si annebbiava e le rimandava solo ricordi divorati dal tempo. Lei seduta al pianoforte, le dita arrossate, lo sguardo appannato, che ripeteva fino alla disperazione quella parentesi; ancora ed ancora, ma ogni volta inciampava su una nota, su un passaggio, quel passaggio maledetto.

Ricominciava di nuovo, dall’inizio, nonostante il suo corpo la supplicasse. Suonava e suonava e suonava, la schiena implorava pietà, ma lei non voleva fermarsi. Suo fratello era seduto dietro di lei e la guardava in tralice, era malato anche quel giorno, se lo ricordava; era spesso malato, con quel suo fisico gracile e i suoi occhi sempre tremanti, l’espressione debole di chi non può reagire.

E lui l’aveva ingannata. Si era fatta ingannare e si era fatta strappare via il cuore, l’umanità, e l’unica persona che avesse mai amato, perché suo fratello l’aveva ingannata. Quel piccolo, gracile ragazzino che sarebbe diventato un adulto visionario, un manipolatore e poi un vecchio psicopatico. L’immagine di suo fratello cambiava, diventava quel vecchio dalla gola aperta, che zampillava sangue, mentre lo portavano via per seppellirlo. L’età, aveva detto in pubblico, la malattia, la fatica — ricordava il discorso al funerale — se lo erano portati via. Povero fratello mio, povero Charles. Quanto aveva sofferto. Sarebbe stato ricordato per sempre, nei Ferros, per il successore degno di suo padre quale era stato.

Quella stessa canzone, in questo esatto punto, l’aveva suonata di nuovo ad Hakim, al suo Hakim, quel giovane cristallografo così promettente. Se lo ricordava, impacciato e timido, un povero ragazzo di Shurima che era stato raccolto chissà come per le sue straordinarie abilità. Quando gliel’avevano presentato, Camille stava suonando questa canzone e Hakim si era scusato. Aveva abbassato la testa e aveva detto, con voce sommessa, che non era sua intenzione interromperla.

Suo fratello lo aveva assunto come loro nuovo Capo Costruttore. Sapeva tutto di modellazione di cristalli e di sviluppi Hextech, abbastanza perfino per sistemare un corpo che era stato smembrato o colpito. Perfino, aggiunse, sostituire un cuore ferito e irreparabile.

A lei sembrava solo un uomo spaesato e che parlava a malapena. Nei mesi successivi, per un anno intero, si sarebbe ricreduta appieno. Avrebbero letto insieme storie e leggende su Shurima, avrebbero parlato di viaggi impossibili in distese di sabbia, tra le rovine dell’impero perduto; avevano discusso di modifiche Hextech e Camille gli aveva confidato di voler abbandonare quel corpo, assumerne uno nuovo, per non invecchiare e servire al meglio suo fratello ed il Clan Ferros.

Com’era successo? Non lo ricordava. Suonava così stupido, alla Camille di ora anche solo a pensarci. Era nato qualcosa tra di loro; e lui le aveva chiesto di rinunciare all’operazione, di non buttare via la sua umanità. L’aveva guardata negli occhi e le aveva detto che non avrebbe dovuto temere il tempo, se l’avesse vissuto appieno.

E Camille ci aveva quasi creduto, davvero. Poi suo fratello l’aveva ingannata e lei aveva abbandonato ogni sogno di fuga. Si era ricordata quale fosse il suo posto e quanto la sua esistenza fosse fondamentale per il Clan Ferros.

Quindi, Hakim le aveva strappato il cuore e le aveva conficcato un motore Hextech.

Quella canzone, per quanto si sforzasse, non voleva tornare da lei.

“Signora..?”

La voce dell’uomo la scosse. Si infuriò con se stessa per essersi fatta distrarre; fosse stata da sola, avrebbe colpito con violenza il petto, lì dove stava il motore, e si sarebbe chiesta se per caso si fosse guastato. Ma non era il momento per tergiversare. Avevano già buttato via abbastanza tempo.

“Schieratevi. Khada Jhin è lì dentro. Accerchiatelo, catturiamolo; non dobbiamo ucciderlo. Permesso di fuoco non letale.”

Annuirono, si mossero in avanti, percorsero il corridoio bluastro, le luci distorcevano l’ambiente e ogni volta che singhiozzavano, con il buio che li avvolgeva, gli occhi di Camille rifulgevano e le indicavano la via. La musica era sempre più forte, scivolava oltre il portone chiuso, si insinuava al di sotto della fessura e risaliva come aria calda.

Il geniere si posizionò di fronte alla porta, l’ariete in mano. Camille alzò le dita.

Tre.

Due.

Uno.

Il colpo seccò infranse il portone, le due ante schizzarono via, rivelarono un anfiteatro completamente vuoto. Era buio, completamente buio, e sopratutto silenzioso. Non c’era pubblico ad assistere alla bizzarra scena che si schiudeva di fronte a loro.

Khada Jhin suonava appassionatamente il pianoforte, dando loro le spalle, come un artista che non possa interrompere l’esibizione per un pubblico in ritardo. Ma sopratutto, al centro del palco, in bella vista, circondata di petali di fiori, c’era l’automa. Una bambola d’acciaio, una marionetta che girava su se stessa, ballava, i movimenti eleganti seguiti dalla sfera che le ruotava attorno.

L’intera scena grottesca era solo una distorta e ripugnante parodia di una vera danza. Perché, per quanto i movimenti fossero precisi, impeccabili, non c’era emozione, non c’era sentimento. Era solo una bambola di acciaio che eseguiva movimenti umani, seguendo quella musica familiare.

Mentre lo pensava, in un secondo, ricordò il nome dell’opera.

Era un brano dello Schiaccianoci.

Un altro cenno, ed i suoi uomini si mossero, i fucili già puntati. Un movimento inconsulto e il corpo di Jhin sarebbe stato il loro bersaglio. Un passo, due, tre, si aprirono a ventaglio per circondare il palco. E poi, qualcuno calpestò un fiore; ed un altro, ed un altro, ed un altro.

Le trappole d’acciaio scattarono, emettendo un scintillio di avvertimento, uno scatto metallico di appena un secondo. Camille scattò in avanti, i rampini delle sue gambe si eiettarono verso l’alto, si proiettarono fino a conficcarsi contro una fila di sedili, poi verso l’alto, sul lampadario appena sopra al palco; alle sue spalle gli ordigni detonarono, i fiori sbocciarono, investirono i soldati, le loro urla divorate dall’esplosione e dal fumo purpureo.

Camille non ebbe tempo di pensare. Si lanciò alla cieca contro Jhin, le gambe affilate tese, una forbice letale per colpire e uccidere. Non voleva risparmiarlo. Voleva solo farlo a pezzi.

Aveva osato suonare quella sua canzone. Aveva osato provare a distruggerla. Il suo motore Hextech si irrigidì — e Jhin, con un movimento fluido, estrasse la sua pistola. Uno, due, tre, quattro, lo sentì sillabare, mentre sparava. Deviò due colpi, un terzo lo allontanò con la mano, lo sentì che scheggiava il metallo e le strappava via un dito. Il quarto, invece, andò a segno.

Rotolò malamente a terra, ma riuscì a rimettersi in piedi in un unico balzo. Si voltò, la mano ferita che affondava nel lato destro del volto, divelto; dove prima c’era il suo occhio, la sua guancia ora un buco rivelava ingranaggi e complessi meccanismi magici.

Sotto alla maschera, Jhin stava ridendo, estasiato. “Magnifico, magnifico! Mia cara,” si voltò verso la bambola, “Mia cara, bellissima Orianna! Guarda il tuo speculo, guarda una donna che ha venduto la sua umanità per avere un posto nel mondo. La invidi, forse, o provi disgusto? Lei è te, la te di un altro tempo, un altro luogo.”

Scattò in avanti, più rapida, si ordinò, più letale. Il suo corpo era stato costruito appositamente per quello scopo. No, urlò a se stessa, io e quella bambola malriuscita non siamo assolutamente la stessa cosa. Il terrorista fece volare la mano al fucile, sparò un proiettile, due, tre; Camille fu abbastanza pronta per eiettarsi verso il pianoforte, scalciandolo via nell’impatto, e nel lanciarsi verso il bersaglio. Era rabbiosa. Si sorprese. Non si sentiva arrabbiata da tempo. Da molto, molto tempo. Da quando aveva scoperto che suo fratello l’aveva manipolata. Da quando aveva scoperto che il suo sacrificio era stata una scelta non sua. Da quando si era resa conto di aver perso l’opportunità per essere, per una volta, fel—

“Quattro!” annunciò Jhin, teatrale; e sparò l’ultimo colpo in canna. Più rapido, più potente. Perforante. Sul lato cieco del suo viso. Le strappò via il braccio destro. Lo vide volare via, dietro di lei, e sentì una scarica di dolore che credeva fosse impossibile; i soppressori di dolore le impedirono di perdere conoscenza, ma non di sbilanciarsi nella traiettoria dell’attacco.

Mancò Jhin di un soffio, lo vide con la coda dell’occhio sinistro che si inchinava. Urlò, questa volta, ed imprecò ad alta voce.

“Nel massacro, sboccio… come un fiore all’alba.”

I suoi rampini scattarono di nuovo, questa volta verso Jhin. Li schivò con un secco movimento, mentre si inchinava di nuovo al suo pubblico; e non si rese conto che si andavano a conficcare nella scenografia, che Camille si tirava verso di lui, che le due lame incombevano. Si voltò di scatto, in tempo per vedere il colpo che arrivava al suo volto, e alzò di scatto braccio e fucile. Il taglio fu netto e preciso, troncò l’arma, scalfì il braccio e tagliò in due la maschera. Il lato destro cadde a terra.

L’attore dal viso scoperto.

“Come hai osato distruggere la mia faccia?!” le urlò, la voce incrinata, “Come hai osato? Non era questo il copione, dannazione!”

Parlava troppo, ringhiò Camille a se stessa, saltandogli contro, un nuovo fendente preparato. Jhin piroettò su se stesso, alzò il mantello; la granata le volò contro, la deviò con un movimento sinuoso, ma mancò ancora il bersaglio. Quel dannato psicopatico continuava a sfuggirle.

“Oh, la mia faccia, la mia povera faccia! Non guardare, Orianna, non guardarmi ora! Sii pronta, sii pronta a mostrare a tutti la tua anima umana, a mostrarla a questo tuo doppio distorto… e a tutta Piltover!”

Il fumo cremisi si dissolse. Un uomo di Camille volò attraverso la stanza, atterrò con violenza di fronte al palco. Un proiettile schizzò, attraverso la stanza, diretto verso il terrorista, nel punto cieco dove si nascondeva il viso, ma mancò di poco il bersaglio quando lui scivolò a sinistra.

“Polizia di Piltover, mani in alto e nessuno si muova!”

“E se qualcuno lo fa, sappia che ho spezzato abbastanza gambe per oggi.”

Jhin sorrise. Piltover era arrivata.

“Ed ora, l’atto finale.”

   
 
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