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Autore: manpolisc_    10/04/2020    11 recensioni
•Primo libro della trilogia•
Sharon Steel è una ragazza di diciassette anni che vive a Ruddy Village, una cittadina tra il Nevada e la California. La sua vita non è mai stata semplice: è stata definita pazza per le cose che vede e alle quali la gente non crede, che l'hanno portata a sentirsi esclusa. Solo l'arrivo di una persona come lei riuscirà a farle capire di non essere sbagliata, ma solo diversa. Scoprirà la sua vera natura e dovrà decidere del proprio destino.
Dal testo:
- È solo un bicchiere che è caduto. - Mormoro. Mi guarda, accennando un sorriso divertito.
- E la causa della sua caduta è solo qualcosa alle tue spalle, che brancola nel buio, pronto ad ucciderti. -
Genere: Azione, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo 6

L'estate ormai è iniziata da una settimana e già tutti sono pienamente nello spirito estivo, se così si può dire. Delice è anche andata alla sua prima festa e presto andrà anche alla seconda. Tutto normale alla fine, tranne per gli incubi frequenti. Sembrano davvero reali, ma appena mi sveglio li ricordo a pezzi. Di Jackson non ci sono tracce, letteralmente. Mi chiedo che fine abbia fatto. Vorrei che mi spiegasse cosa sia successo a scuola, cosa fosse quell'essere e che mi dia la conferma di non essere pazza. Ho troppe domande, ma poche risposte. Mia madre, riguardo all'incidente negli spogliatoi, non ha saputo nulla per fortuna. So quanto lei possa essere protettiva nei miei confronti e, se le fosse giunta questa voce, mi avrebbe accompagnato ovunque tenendomi la mano. È anche strano che nessuno l'abbia avvisata, o che non ne abbia sentito parlare. È come se l'intera faccenda fosse stata seppellita.
Il cielo è grigio, nuvoloso, ma non promette pioggia, almeno non ancora. Il calore, però, è sempre presente. Se ci fosse stata mia madre, avrebbe commentato dicendo che tira “aria da terremoto", ma lei esagera in tutto.
Scendo in cucina. I miei passi rimbombano nella casa vuota e il pavimento di legno scricchiola al mio passaggio. Decido di uscire: ne ho abbastanza di stare chiusa in casa e se rimango qui, con questo silenzio, comincio a pensare, e non ho voglia di deprimermi. Esco di casa e inizio a camminare senza una meta precisa. Poi mi ricordo di mia zia Tess: è da molto che non la vedo. 
***
Quando busso alla porta mi viene ad aprire una signora non molto anziana. È bassa e magra, con gli occhi grigi come se avesse il ghiaccio al loro posto, e capelli argentati ben pettinati in uno chignon, mantenuto da due matite. Indossa una gonna marrone che arriva fino al ginocchio e una semplice e leggera camicia bianca con dei fiori abbinati. Mi saluta con un sorriso accogliente e un abbraccio caloroso. Non la vedo spesso e le poche volte che vado a trovarla mamma non lo sa. È la sorella della mia nonna paterna e lei e mia madre non vanno molto d'accordo. Quest'ultima non la sopporta, anche se non ho mai capito il perché. Io, invece, le sono molto affezionata. È una donna molto intelligente, sempre informata su tutto e tutti. La sua più grande passione è la storia. La prima cosa che risalta all'occhio quando si entra in casa sua (decisamente rustica, almeno il soggiorno) è un'enorme libreria con centinaia di libri su ogni civiltà esistita: Maya, Romani, Egiziani. C'è veramente di tutto. In minor parte, ci sono libri su poeti e scrittori. Tre scaffali pieni delle opere di Oscar Wilde, il suo autore preferito. I suoi libri li ha letti e riletti e non si stanca mai di leggerli un'altra volta. Sarebbe stata capace di sposarlo, se solo lui non fosse stato omosessuale e vissuto in un'epoca totalmente differente. Inoltre se la cava benissimo anche ai fornelli, soprattutto con i dessert: i suoi sono i migliori dolci che io abbia mai mangiato.
Dopo aver preso biscotti e tè, e averli portati a tavola, ci accomodiamo. La prima cosa che vuole sapere, da brava "gossip girl", è cosa sia successo a scuola.
- Si è solo rotto un tubo. - Le rispondo e addento un biscotto. Non c'è molto da dire, in realtà. Cosa le avrei dovuto riferire? Non ho mai avuto problemi a parlare con lei dei sogni che faccio, ma questo purtroppo non è solo un sogno.
- Io vorrei sapere la tua versione. - Dice dolcemente, ma con sguardo deciso. Annuisco, riconoscendo quella luce nei suoi occhi. Quindi le inizio a raccontare cosa è successo realmente, anche se non dovrei. Non posso neanche mentirle perché, non so come, riesce sempre a capire quando lo faccio. Lei mi ascolta attentamente e, non appena ho finito, annuisce, portando le labbra vicino alla sua tazza dopo averci soffiato sopra, rimuginando sulle mie parole o cercando qualcosa di adatto da dirmi. Infine beve lentamente. Quando le racconto cosa mi capita, lei non ha mai trovato scuse per spiegarmi che non sono vere le cose che sogno o vedo, a differenza di mia madre. Forse perché ha una visione diversa, avendo anche più anni di esperienza rispetto a lei. Inoltre è anche appassionata dei messaggi che i sogni a volte celano. Non c'è bisogno che dica perché s’interessi tanto ai miei: chiunque li considererebbe troppo singolari, quasi al di fuori del normale. - Tesoro... io ti ho sempre creduto, lo sai... - Prende una pausa per pulirsi le labbra con un tovagliolino di carta. - ... ma con la paura e la botta in testa questa volta magari hai visto cose non vere. - Alzo di poco le sopracciglia e sgrano gli occhi, spiazzata dalle sue parole, poi abbasso lo sguardo sul tè e lo giro con il cucchiaino, non riuscendo a guardarla negli occhi. Non ce la faccio a capacitarmi del fatto che non mi creda. Oppure non l'ha mai fatto, ma fingeva solamente. Così si fa con i pazzi, no?
Trattengo le lacrime, mordendomi il labbro. Odio quando vengo invasa da una sensazione di abbattimento, senza saperne il motivo, e l'unica cosa che voglio fare è cullarmi sulle mie debolezze. Molte volte penso di avere un brutto carattere, mi butto giù con fin troppa semplicità se qualcosa non va e mi sento come se non avessi nulla, come se non fossi nulla. Vengo inondata da questa sensazione di angoscia così profonda e pesante che non conosco neanche, ma che mi impedisce tutto, costruendo dubbi su dubbi fino a sommergermi.
- Io ti credo, tesoro, sto solo dicendo... -
- ... che sono pazza. - Concludo. - Che vedo cose che non esistono, ma so che mi uccideranno prima o poi. Io vorrei solamente sfogarmi con l'unica persona che mi crede. - Dico riportando lo sguardo nei suoi occhi, sentendo i miei fin troppo lucidi. Li chiudo un attimo per prendere un respiro, impedendo che le lacrime possano scendere. - Credeva. - Apro nuovamente gli occhi, correggendomi. - Ma alla fine è come se parlassi al muro. - Dico con voce spezzata. Mi asciugo una lacrima che percepisco scorrere sulla mia guancia e che non mi ero resa conto di aver fatto scappare mentre la gola inizia a pizzicarmi.
- Io ti credo e tu sei così forte e coraggiosa a portare avanti la tua teoria da non fregartene di quello che dice la gente. Perché tu conosci la verità, una verità che loro non potranno mai capire, ma a volte bisogna tacere. - Dice lei con tranquillità, tenendo lo sguardo fisso nei miei occhi.
- Io non sono forte. Sono solo svitata. - Sussurro, prendo un altro respiro che rilascio subito dopo. Lei mi sorride con dolcezza.
- Oh tesoro, sei più forte di quanto tu creda. E un giorno, quando esserlo sarà necessario, te ne renderai conto. - Tiro su col naso, sentendolo umido, e mi asciugo definitivamente gli occhi. Prendo la felpa, alzandomi e infilandomela. Non credo di riuscire a stare ancora qui. Mi sento in un certo senso tradita. Non pensavo che anche lei mi avrebbe voltato le spalle come tutti.
- Devo andare. Grazie per il tè. - Mi dirigo verso la porta, esco e me la chiudo alle spalle mentre lei rimane seduta a finire la sua bevanda.
***
Il sole inizia a tramontare e io ancora vago per la strada, non avendo la benché minima idea di cosa fare. Potrei chiamare Delice e chiederle di raggiungermi, ma anche oggi è impegnata. Mi chiedo cosa faccia alcune volte, ma non importa molto: alla fine mi basta una bella passeggiata e quest'aria fresca perché ne avevo proprio bisogno. Fortuna che ho portato la felpa. Non mi reputo una persona freddolosa, ma a volte il vento che tira dà abbastanza fastidio. E poi non che questa sia così pesante.
Alcuni negozi sono ancora aperti, soprattutto bar e ristoranti, altri stanno per chiudere. Mi siedo su una panchina e mi guardo intorno. La gente è più allegra, non corre perché è in ritardo per il lavoro o per qualche appuntamento. Sono più spensierati. Questa è la cosa che adoro di più delle vacanze. Tuttavia, questo stato di pace è interrotto quando mi sento osservata in un certo senso. Quando mi volto verso sinistra, non molto lontano da me, noto una ragazza con degli occhiali da sole in testa per impedire a delle ciocche di capelli viola di caderle sul volto perfetto. Sembra sia fatto di porcellana. Indossa un giubbotto di pelle nero, strappato sul braccio destro, all'altezza del gomito. Poi ha dei pantaloncini di jeans e degli stivali neri. Distolgo lo sguardo, sentendomi immediatamente fuori luogo. Non mi piace che la gente mi fissi per troppo tempo, degli estranei poi. Mi alzo e riprendo a camminare, non sopportando più i suoi occhi sulla mia schiena. La ragazza si allontana subito dal muro al quale era appoggiata e mi segue. Al primo vicolo giro per seminarla e mi nascondo dietro un cassonetto della spazzatura. Non appena sarà passata tornerò indietro per l'altra strada, in direzione opposta alla sua. Molti mi prenderebbero per sciocca per il mio comportamento, ma non è la prima volta che vengo seguita senza alcun motivo, e ciò sta diventando inquietante.
- L'hai seminata? - Chiede una voce femminile dietro di me. Annuisco senza pensarci e giro la testa, trovandomi dietro la ragazza di prima. Non mi dà il tempo di alzarmi che mi afferra per il collo e mi butta dall'altro lato del vicolo, nell'altro cassonetto. Sbatto con la schiena contro la sua parete. Gemo per la botta che mi toglie il respiro per un attimo, per poi mugolare di nuovo quando mi alzo ed esco da lì, tenendomi la spalla che mi fa male. Lei mi guarda mentre schiocca le dita, ma non si avvicina. Mi massaggio il collo per la sua forte stretta e mi metto in piedi nonostante barcolli. Non capisco come sia arrivata alle mie spalle in così poco tempo e senza che me ne accorgessi.
- Ma sei impazzita?! Ma che cosa vuoi? - Sussurro cercando di stabilizzare il mio respiro e il battito del mio cuore. - Non ti ho fatto niente. -
- Niente? - Scoppia in una fragorosa risata. - Hai ucciso i miei fratelli. - Fa un passo avanti. Io indietreggio e mi schiaccio con la schiena al cassonetto. Quando la osservo negli occhi, noto che sono viola e il suo sguardo è gelido.
- Non li conosco i tuoi fratelli. - La mia voce trema dalla paura, sebbene cerchi di rimanere calma. Lei mostra un sorriso a trentadue denti. Schiudo la bocca, incredula, non appena noto che dalle sue gengive sono spuntati dei canini affilati. Ci passa la lingua sopra. Non può essere un vampiro. Ma questo spiegherebbe come sia riuscita a lanciarmi nel cassonetto... ma che pensieri sto facendo?!
- La tua specie dice sempre le stesse cose. Vi danno un copione da imparare? - Appena finisce la frase la sua testa si piega di lato, fino a staccarsi e cadere a terra con un tonfo sordo. Il corpo, senza vita, casca in ginocchio. Urlo, ma subito mi tappo con forza la bocca fino a far diventare sia le mie guance sia i miei polpastrelli bianchi. Non voglio attirare l'attenzione. Anche il corpo stramazza definitivamente sul terreno. Dal collo inizia a fuoriuscire del sangue abbastanza scuro, quasi nero. Cerco il più possibile di non urlare, ma il mio stomaco inizia a girare come una centrifuga. Un senso di vomito sta aumentando dentro di me.
- Quanto è melodrammatica. - Dice una voce maschile, una che sto ascoltando fin troppo spesso negli ultimi giorni. Guardo la testa della ragazza: lo sguardo fisso nel nulla e gli occhi non più viola, bensì neri sulla pupilla, ma intorno iniettati di venature rosse. Jackson ha un'ascia in mano, imbrattata di sangue, e tocca il corpo della ragazza con il piede per assicurarsi che non prenda vita magicamente. Pulisce l'arma e, dopo aver rotto il manico di legno, la butta nel cassonetto. Io rimango pietrificata, con lo sguardo pieno di terrore. Probabilmente mi ha appena salvato la vita, ma non ha potuto davvero uccidere una persona.
- Andiamo. -
- Ma vai tu! Hai appena ucciso una ragazza! - Gli urlo e mi metto in piedi. Mi allontano il più possibile da lui. Alza gli occhi al cielo, infastidito della mia reazione. Non capisco come avrei dovuto reagire, buttandomi tra le sue braccia e ringraziandolo? Magari facendogli anche una torta con su scritto "Grazie per aver decapitato una ragazza! Mi hai salvato la vita!"?
- Se non te ne fossi accorta, non era umana. - Mi afferra il braccio e mi fa avvicinare a lui. Mi gira e mi tiene saldamente la spalla. - Oh, grazie Jackson! Sei il mio eroe! - Esclama con voce poco virile, cercando di imitare quella di una ragazzina. Mi strattona con forza il braccio tirandolo verso di lui, cosa che mi fa urlare dal dolore, ma lui mi fa solamente segno di muoverlo, noncurante. Almeno ha rimediato a questo, anche se non so esattamente cosa abbia fatto. So solamente che mi sta mettendo una confusione assurda in testa. Prima mi mente, negando qualsiasi evento strano in cui ultimamente mi sto imbattendo, poi non si fa problemi a dirmi che questa tipa non è umana. Davvero non ci sto capendo più nulla. Non capisco il motivo del suo comportamento.
- Grazie... - Mormoro massaggiandomi la spalla mentre lo guardo. - Chi sei tu? - Chiedo. Non mi risponde. Si abbassa e afferra la testa della ragazza e me la lancia. La afferro al volo in modo meccanico, ma poi la lascio cadere, ripugnata. Gli occhiali da sole che aveva in testa cascano sul cemento. Sento che sto per rimettere. Lui nel frattempo prende una busta da uno dei cassonetti e ci mette il corpo dentro, poi se lo carica in spalla. Io rimango ferma a guardare la testa, immobile vicino ai miei piedi. Distolgo lo sguardo subito dopo. Davvero mi sto per sentire male. Nonostante la puzza, mi muovo verso i cassonetti con una mano sulla bocca. Se dovessi vomitare, non causerei altri danni a terra. Inizio a tossire, sentendo qualcosa risalire su per la gola, mentre lui pulisce anche il sangue sul cemento. Comincio a prendere dei respiri profondi, cercando di calmarmi.
- Mettila in una busta, ti guarderebbero male. - Mi consiglia, riferendosi alla testa della ragazza.
- Dici? - Chiedo sarcastica. Non ho intenzione di toccarla. Appena nota che non mi avvicinerei neanche morta, butta il corpo a terra e mette anche la testa, insieme agli occhiali, in una busta. Dopo afferra tutto, incamminandosi e uscendo dal vicolo. Quanto diamine è forte per portare tutto? Vedo i bicipiti contrarsi sotto la maglietta blu. Io rimango ferma lì. Non ho intenzione di seguirlo, non mi fido. E se uccidesse anche me? Lui, però, sembra non volermi fare del male.
Cerco qualcosa di appuntito da portarmi dietro nel caso cambi idea, ma non trovo niente.
- Vieni o no? - Chiede, girandosi. Ho paura di lui, ma ne avrei di più se un'altra ragazza uscisse dal nulla. E poi, Jackson mi ha appena salvato la vita. Se avesse voluto uccidermi, l'avrebbe già fatto. Cerco un po' di fiducia dentro di me e lo seguo. Non voglio rimanere sola in questo vicolo.
 ***
Decide di andare in un gran parcheggio, spesso deserto a quest'ora, per liberarsi del corpo. Vicino a esso c'è una foresta. Si sta facendo buio e questo posto mette i brividi la sera. Quel briciolo di fiducia che gli ho dato sta man mano sparendo. È una di quelle persone strane da tener lontano, soprattutto adesso che trascina un cadavere e io sono diventata la sua complice.
- Ora la bruciamo. - Butta a terra il sacco e si guarda in giro per assicurarsi che non ci sia nessuno. Come sempre, il parcheggio è quasi vuoto, solo qualche macchina è ancora qui. Il chiosco dei panini è ancora aperto, ma il solito signore con il grembiule bianco e la retina che mantiene fermi quei riccioli neri dorme sul bancone. Il mio stomaco brontola a sentire quel profumo di carne. Jackson, nel frattempo, caccia la testa dalla busta. Ecco di nuovo quel senso di nausea ritornare e quella poca fame che mi era venuta sparire.
- Non mi hai ancora risposto. - Osservo, riferendomi alla domanda di prima, a chi fosse, mentre incrocio le braccia al petto. Si gira a guardarmi, con aria stanca e rassegnata. Forse finalmente mi dirà cosa voglio sapere.
Sta per rispondere quando una macchina, una Range Rover nera, entra a tutta velocità nel parcheggio. Sgomma e si dirige verso di noi. Mi sposto, ma Jackson rimane lì a cacciare il cadavere, imperturbabile, dopo aver dato uno sguardo all'auto. Urlo per avvertirlo di spostarsi: l'avrebbe investito se fosse rimasto ancora lì. Però, la macchina si ferma a qualche metro di distanza da lui. Da lì esce un ragazzo con una felpa nera. Non riesco a vedere il suo volto a causa del cappuccio e i capelli che gli ricadono sulla fronte. Sbatte la portiera così forte che fa tremare l'intera macchina. Infila una mano nella tasca e ne estrae quello che sembra un coltello, poi lo lancia, mirando alla schiena di Jackson.
   
 
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