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Autore: MaxB    10/04/2020    4 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ecco il quarto capitolo! Questo si basa sulla scena della quasi-morte di Ofelia per via del barone schifoso-odioso-marcio-putrido-Melchior.
Pagine da 480 in poi del secondo libro, Gli scomparsi di Chiardiluna. Se vi va, vi consiglio di rileggere quelle pagine prima di farlo con il capitolo, o addirittura di leggere tutto insieme. Inutile dire che io ho cercato di rendere il punto di vista di Thorn (perdonami in anticipo, grandissima Dabos). Ma non ne sono certa perché il nostro amato intendente è più insondabile di un blocco di marmo.
Grazie mille a tutti per l'attenzione^^


4. Coeur

Pazza lei. Pazzo lui. Pazzi tutti.
Erano tutti fuori di senno. E lui odiava quella situazione. Aveva ripudiato Ofelia per tenerla al sicuro. L’aveva fatto; aveva posto fine a qualsivoglia tentativo di minare la sua sicurezza, nessuno l’avrebbe più cercata, intimidita, reputata un problema da eliminare. Lo aveva fatto per lei. Ofelia non lo amava, ma lui purtroppo, purtroppo, sì, e l’avrebbe sposata anche contro la sua volontà pur di averla al suo fianco. Quella era forse l’unico gesto egoistico che si sarebbe mai concesso. Invece non l’aveva fatto: aveva infranto ogni giuramento e contratto. Annullato il matrimonio. Rinunciato alla lettura del libro. Rassegnato le dimissioni. Non era più solo un bastardo, era una nullità, un individuo la cui esistenza non aveva più alcuno scopo, niente di niente.
E tutto per lei. Per Ofelia. Per lei, che nemmeno ricambiava i suoi sentimenti. Per lei, maledetta lei, testarda, impulsiva, coraggiosa, onesta, giusta e pura, così buona e pura, così ingenua, intelligente, bella, altruista, integra e coerente. Così coerente con se stessa da continuare a voler fare di testa sua, da volerlo salvare.
Idiota, ecco cos’era stato, un colossale stupido a pensare che annullando il matrimonio e tagliandola fuori da ogni cosa l’avrebbe salvata. No, così facendo l’aveva spronata a gettarsi a capofitto nella tana del lupo. Era così imprevedibile da destabilizzarlo ogni santa volta, gli faceva venire una tale voglia di imprecare da fargli male fisicamente.
I suoi pensieri furibondi e vorticosi trasparivano dalla mascella contratta, dal ticchettio secco delle scarpe sull’asfalto, dalle lunghe falcate che lo portavano a percorrere quelle strade vuote, con l’eco come unico compagno e testimone del suo avvicinamento.
Matematica. Logica. Tutto vano, tutto buttato alle ortiche. Avrebbe dovuto immaginarlo, quello ingenuo era lui. Povero illuso. Nell’ordine naturale delle cose, se A è fonte di B, e B è un problema, bisogna eliminare A. A era Ofelia, B era quell’insieme di ricatti, minacce, sotterfugi e illusioni che avevano come epicentro lui e lei. Lui. E. Lei. Ergo il loro matrimonio. Eliminando A, cioè Ofelia, B sarebbe crollato. Ma con Ofelia non funzionava così. Sarebbe stato troppo facile.
Ofelia si era gettata su B come un’amante, ecco cosa aveva fatto. Lui li aveva separati, aveva seppellito il problema, lo aveva arginato, l’aveva messa in salvo, e lei aveva deciso di sua spontanea iniziativa di ignorare il buon senso, di prendere e scappare per risolvere un enigma che non la riguardava nemmeno più.
Scosse la testa e imprecò di nuovo, accelerando l’andatura, quando un minuscolo brandello di pensiero misto a speranza fece breccia nel suo cervello già sovraccarico: lui aveva salvato lei condannando se stesso; e se lei avesse agito per lo stesso motivo? Per salvare lui? Impossibile. Illogico. Ofelia non gli doveva nulla, non erano nemmeno più fidanzati.
Non lo amava. Anche qualcosa di più.
Dannata la sua impulsività, aveva capito fin da subito che quella fidanzata gli avrebbe causato problemi. In tutti i sensi immaginabili, non per ultimo in ambito sentimentale. Desiderava odiarla con tutte le forze, così tanto da sentire gli artigli, tesi allo spasimo, rivoltarsi quasi contro di lui, contro il suo odio per se stesso, un individuo che non sarebbe mai stato amabile, specialmente da una creatura come Ofelia. Erano sui piatti opposti della bilancia, non avrebbe mai funzionato per loro.
Perché si rincorrevano in quel modo, allora?
Desiderava odiarla. Voleva odiarla. Gli stava facendo passare le pene più infernali che avesse mai conosciuto.
Quindi perché quando entrò dalla porta di quell’orribile e fatiscente Immaginatoio immorale e perverso si sentì sollevato sentendo la sua voce, viva, calda? Perché il suo cuore accelerò, nonostante fosse stato tranquillo e pacato durante la camminata folle? Perché diamine lei continuava a torturarlo in quel mondo, scombussolandolo, mettendo a soqquadro se stesso e tutte, tutte le sue convinzioni?
Perché l’amava così tanto da provare un dolore fisico reale e divorante?
E perché l’amava così tanto da fargli venire voglia di bruciare ogni cosa nell’udire il suono del tonfo di un corpo al piano di sopra, di un osso che si spezzava, il suo urlo di agonia, il suo dolore?
Imponendosi di calmarsi, nonostante all’esterno il suo viso non lasciasse trasparire la benché minima emozione, prese un profondo respiro e placò il vortice che aveva nella testa, preparandosi alla battaglia. Salì le scale in silenzio, furtivo, dono che aveva perfezionato nel tempo e sapeva che gli sarebbe tornato utile un giorno.
Il barone Melchior stava premendo Ofelia contro il sudicio parquet nel corridoio, sovrastandola con la sua rivoltante pancia grassa, torcendole malamente il braccio dietro la schiena in un’angolatura innaturale. La scena era già di per sé macabra e sbagliata, profondamente sbagliata, ma ciò che lo turbò più di tutto, più dell’osso rotto, di quella serpe viscida sopra Ofelia, di quel posto putrescente e ammuffito, erano le lacrime di Ofelia. E il suo silenzio, senza un lamento, mentre sopportava il dolore stoicamente. Non si sarebbe mai arresa, era una guerriera, in ogni ambito della sua vita, familiare, matrimoniale, sociale. Nessuno avrebbe mai potuto metterle i piedi in testa, imporle qualcosa contro la sua volontà.
Quanto sbagliato era stato il giudizio affrettato che le aveva dato su quell’aeronave che li aveva portati al Polo, alla vigilia del loro incontro! Non supererete l’inverno. Era lui quello che non avrebbe mai superato indenne uno scontro con lei. Mai avrebbe potuto immaginarlo.
Si impose di ignorarla dopo aver salito le scale ed essersi trovato in piedi di fronte ai due, sul pianerottolo. Non poteva guardarla: gli serviva mantenere il controllo sulla sua voce. Quella scena non lo scalfiva. Non gliene importava. Non lo riguardava. Doveva convincersene. Solo così avrebbero potuto uscirne indenni.
Il barone appariva destabilizzato, era un bene. L’effetto sorpresa giocava a suo vantaggio.
La voce gli uscì limpida quando spiegò come aveva fatto a trovarli, perché era lì. Fu una provvidenza che avesse evitato di guardare Ofelia, perché il suo volto, quando il barone la costrinse ad alzarsi facendo leva sul braccio rotto, era una maschera di dolore: lacrime, capelli, sorpresa, tutto si mischiava su quel viso solitamente serio ma sereno. Non poteva guardare. Già il solo notare come la pancia orrendamente prorompente di quel burattino di corte premeva sulla schiena di Ofelia era disgustoso e disturbante. Che quelle sue mani sudicie stessero toccando lei…
Doveva distrarsi. Mentre disquisiva con il barone, prendendo tempo, controllò l’ambiente discretamente, ma non sembrava che ci fossero complici: questo avrebbe semplificato notevolmente le cose. Le parole grondanti bugie e false promesse del barone non lo scalfivano nemmeno, Thorn rispondeva meditando attentamente su cosa dire, ma non lasciava che i vuoti vaneggiamenti dell’avversario si depositassero e intaccassero la sua mente.
Sentì una fitta viscerale pungerlo come uno dei suoi artigli quando disse che non era più fidanzato con Ofelia. Per quanto fosse vero, per quanto l’avesse fatto per salvare lei, faceva male. Avrebbe sopportato qualsiasi dolore pur di metterla in salvo.
- Discutiamo la faccenda fra noi, solo voi e io, che ne dite?
Ecco dove voleva arrivare. Il barone sembrava compiaciuto e soddisfatto, ma non ottemperò alla sua richiesta. Ofelia rimaneva premuta contro di lui, il braccio rotto dietro la schiena, le mani dell’uomo a mantenerne il controllo. Tuttavia, non poté impedire alla proposta del barone riguardo alla sua Memoria e al Dio che serviva di solleticare la sua curiosità. Si stava sbottonando, quel burattino, rivelando chi servisse e da chi ottenesse quel potere e quelle informazioni.
Thorn si mostrò interessato, finse di cadere nel suo tranello, era l’unico modo per non destare sospetti di alcun genere. Lo assecondò. Si alleò con lui. Avrebbe fatto di tutto pur di togliere Ofelia da lì, da quella posizione, da quell’impiccio.
Per questo intrise la voce di ogni piccola particella di serietà e convinzione quando, rispondendo al barone, disse che incontrare Dio era il suo più grande desiderio. A giudicare dalle occhiate che Ofelia gli rivolgeva, o tentava di rivolgergli, dato che lui stette ben attento a non incrociare i suoi occhi, doveva essere stato convincente. Fin troppo convincente, forse, nel palesare il suo disinteresse nei confronti dell’ex fidanzata.
Quando il barone insinuò che avrebbero dovuto sbarazzarsi di Ofelia, che aveva visto e sentito troppo, nonostante gli anni di rigido contenimento a cui aveva sottoposto il suo corpo, nonostante la calma apparente che dimostrava sempre, nonostante dentro gli infuriasse la tempesta, e nonostante il controllo che riusciva ad esercitare su di sé, non poté impedire al suo labbro di contrarsi.
Per questo si passò l’indice sul labbro inferiore: per tentare di coprirne il tremore. Lo sguardo sconvolto di Ofelia, che notò brevemente prima di spostare i suoi occhi da un’altra parte, dimostrava che era stato convincente, ma questo non lo faceva stare meglio. Voleva urlare, per una volta nella sua vita voleva perdere il controllo, sottrarre Ofelia alle grinfie di quel maledetto depravato e stringerla a sé, baciarla, quasi con violenza, non lasciarla mai più andare.
Invece l’aveva dissuasa che non contasse nulla per lui, glielo leggeva in volto. Maledetta lei, maledetto lui, maledetti tutti. Perché non capiva?!
Eppure la sua voce rimase implacabile, gelida come un blocco di ghiaccio, senza la minima emozione quando suggerì di modificarle la memoria, invece di ucciderla. Un ottimo compromesso per lasciare in vita lei, affinché non si macchiassero di omicidio, e per uscirne puliti, senza ombra di dubbio alcuno sui loro maneggi.
Avrebbe voluto tirare un sospiro di sollievo quando vide un guizzo di comprensione negli occhi della diretta interessata. Finalmente. Si ritrovò a benedire la sua curiosità e la sua sete di conoscenza, che all’inizio lo avevano tanto infastidito, ma l’avevano spinta, non molto tempo prima, a Sabbie d’Opale, ad interrogarlo sulla sua Memoria, il dono degli Storiografi, di cui condivideva il sangue e il patrimonio genetico e mnemonico. Lei sapeva che non poteva in alcun modo fare ciò che si stava proponendo di attuare come soluzione. Doveva capire quanto lui non volesse il suo male. Tutt’altro. Era lì per lei, non era mai stato presente per nessuno, non si era mai dato la briga di aiutare qualcuno, eppure in quel momento era lì; non solo in quel momento, oltretutto, aveva messo a rischio la propria vita diverse volte pur di salvaguardare lei, di proteggerla. Le avrebbe sempre fatto da scudo, con il proprio corpo, se fosse stato necessario.
Sperava che finalmente lo avesse capito.
Con sollievo, un sollievo divorante che mascherò a malapena, vide il barone riportare il braccio di Ofelia alla posizione naturale, ponendo fine allo strazio. Lo stomaco gli sussultò di disgusto quando lo vide farle il baciamano. Disgusto e gelosia. Non voleva che quelle orrende e sporche mani la toccassero un istante di più, ma non poteva muoversi, o si sarebbe svelato, facendo cadere la messinscena in già precario equilibrio che aveva architettato.
Voleva che il barone sparisse. Voleva spalancare le braccia e stringere Ofelia, mentre questa si avvicinava a lui con passo incerto, l’espressione non del tutto sollevata, leggermente spaventata e confusa. Lei non aveva mai paura, e vedere il suo volto intimorito gli fece esplodere dentro una rabbia cocente e violenta come non l’aveva mai provata. Era sicuro che gli artigli lo avrebbero straziato e dilaniato da dentro se avessero avuto effetto sul suo stesso sistema nervoso. Fortunatamente non era così, ma a volte il dolore serve a schiarirsi i pensieri e la mente annebbiata, riportando ogni cosa alla giusta prospettiva.
L’importante era che Ofelia fosse viva, che stesse bene. Poterla riportare a casa, nelle braccia della sua famiglia, anche se ciò che desiderava più di tutto era che lei scegliesse le sue, di braccia, per essere consolata e rassicurata.
Che illuso. Un doppio illuso, dal momento che qualcosa andò storto.
Ofelia si irrigidì, prima di tutto, cominciò a sbattere le palpebre freneticamente e una mano corse ad artigliarsi il petto, afferrando la stoffa come a volerla strappare. Il respiro accelerò, lei barcollò.
Thorn la prese per le spalle, la strinse così forte da rischiare di ferirla, ma non importava né a lui, né a lei, che sembrava in preda all’agonia e di certo non badava alla morsa delle sue dita.
- Che le avete fatto?
Si meravigliò delle parole che avevano lasciato spontaneamente la sua bocca. Non credeva di essere in grado di parlare, data la situazione. In seguito alla nefasta verità che il barone gli mise davanti, svelando la natura di quel baciamano mortifero e maledetto, Thorn sentì Ofelia scivolargli tra le dita, in tutti i sensi possibili e immaginabili, e rimase ad osservarla impotente per un attimo, prostrata sul pavimento, inerme. Si stringeva le braccia al petto come per cercare di tenere uniti i pezzi di sé, che stavano sfuggendo al suo controllo. Eppure non emetteva un rantolo, l’unico suono percettibile era il suo respiro spezzato e stentato.
Thorn avrebbe voluto rubarle quella sofferenza. Avrebbe sopportato dieci volte quella tortura, centinaia di volte se fosse stato necessario, pur di non veder agonizzare in quel modo, languire come la fiammella morente di una candela.
Poteva tollerare tutto, ma non quello.
Per la prima volta nella sua vita la paura gli ghermì il petto come gli artigli di un qualche uccello rapace, lancinante e intollerabile. Come la sua calma apparente, incontrollabile. Ogni riserbo, ogni autocontrollo svanì.
Snudò gli artigli come fa una bestia con le zanne, rivelando la sua vera natura, quella che ripudiava, che si rifiutava di vedere, che non voleva vedere e che non aveva mai voluto, ma che era parte di lui come la Memoria: la parte assassina. Le dita del barone caddero a terra con piccoli tonfi sordi e il tintinnio degli anelli, facendo sgorgare dai moncherini sangue scarlatto come la sua ira divampante.
Si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui aveva fatto ricorso a quell’arma odiosa, i suoi artigli, il suo stesso sistema nervoso, e per la prima volta, la prima e unica volta, ringraziò di averli, li accolse, li canalizzò, li accettò come una salvezza, una benedizione. Li sentiva muoversi accanto a lui come prolungamenti dei suoi arti, della sua stessa pelle, bramosi di sangue e di devastazione, pronti ad infliggere ciò che il suo cuore solitamente indifferente stava provando. Bruciando.
- Annullate l’illusione.
Il ringhio di una belva, di un omicida, la voce stessa della morte, dell’odio e del disprezzo. Il gemito della disperazione più profonda. Ofelia peggiorava di secondo in secondo e tutto ciò che voleva da Melchior era un consenso, un’accettazione, un annullamento di quella diabolica e mortifera illusione.
Più i discorsi insensati e i balbettii sconnessi di Melchior aumentavano, più ribolliva il sangue nelle vene di Thorn. In qualche occasione gli era capitato di vedere gli occhiali di Ofelia cambiare colore, solitamene sul tono del blu slavato e del grigio esangue, ogni tanto anche del rosa tenue, e si chiese se ad Ofelia fosse mai capitato di vederci rosso come lui in quel momento. Se le sue lenti si fossero mai tinte di sangue, carminio e denso, così intenso da renderlo quasi cieco.
In un attimo gli fu davanti, afferrando Melchior per il bavero, avvicinando quella rivoltante faccia grassa e sudata al suo viso spigoloso mentre sibilava ancora, con la voce dell’odio e della morte: - Annullate l’illusione!
Vide il braccio del barone scattare, sentì qualcosa sfiorargli la guancia, ma non poté prevenire il colpo, di cui non sentì il benché minimo effetto su di sé. Lo sfarfallio delle ali di una falena, ecco cos’era stato. La sua attenzione, di solito acuta e totale, quasi eccessiva, era troppo influenzata dal suo stato d’animo alterato, e non aveva visto arrivare quel colpo irrisorio che tuttavia era andato a segno. Ma non commise lo stesso errore due volte.
Quando il braccio scattò di nuovo per colpirlo, dopo alcune parole senza senso e importanza sputacchiate dal barone, Thorn gli mozzò il resto delle dita della mano sana, facendo cadere anche il bastone con cui aveva intenzione di offenderlo.
Thorn lo mollò e lo osservò mentre barcollava contro la balaustra precaria e instabile, implorando, pregando, supplicando che il legno marcio cedesse sotto il peso di quel corpo inutilmente grasso. Arrischiò uno sguardo verso Ofelia, che osservava la scena in silenzio, per quanto gli permettesse il respiro rantolante, ma Thorn notò che il suo campo visivo si stava stringendo, che dietro gli occhiali la vista si stava offuscando. Forse non stava guardando affatto.
- Annullate l’illusione! – ordinò per la terza volta, smanioso di urlare ma incapace di farlo.
Non ascoltò la risposta insignificante del barone. Percepì solo la sua orrenda risata, sbagliata, e il suo corpo reagì autonomamente. Era consumato da artigli, odio, rabbia, paura e struggimento, il tutto alimentato dall’amore per quella donna che stava morendo ai suoi piedi.
Gli calciò la pancia adiposa e ingombrante, facendolo precipitare di sotto. Sperando con tutto se stesso di averlo ucciso.
Ne diede per scontata la conferma e si voltò verso Ofelia, che aveva gli occhi strizzati e il volto esangue. Si inginocchiò accanto a lei in un battito di ciglia, terrorizzato perché il respiro era ancora accelerato e il viso pallido. Perché non si stabilizzava subito? Perché ci voleva così tanto? L’illusione era sparita con Melchior, il creatore, quindi perché Ofelia ci metteva tanto, troppo, a riprendersi?
Rimase accanto a lei per un’eternità, adeguando il respiro al suo, desiderando toccarla, stringerla, sgridarla, scuoterla dalla rabbia, baciarla. Diamine, se voleva baciarla. Avrebbe dato la vita per lei. Per il suo amore avrebbe dato molto di più.
Il sangue si raffreddò nelle sue vene, gli artigli si ritirarono e il suo cuore si placò mentre le stava vicino, timoroso di toccarla, notando i piccoli cambiamenti che avvenivano il lei: le gote che riprendevano colore, il sangue che diminuiva la richiesta di ossigeno, il cuore che si assestava, riacquisendo pian piano un ritmo accelerato, non forsennato, e poi naturale, forse solo leggermente più veloce del normale.
In Thorn, prosciugato, rimase solo desiderio. Al di là del livore, dell’acredine, della paura che gli aveva lasciato un orribile gusto in bocca, voleva lei. Voleva toccarla, voleva fisicamente unirsi a lei, strappare i vestiti che indossavano e stringerla così forte da farla entrare dentro di sé, assorbirla. Solo quello avrebbe placato il suo tormento. Mai aveva provato una cosa del genere in vita sua, un bisogno così sconfinato e travolgente di un tocco, di pelle, di calore, di umanità. Erano cose che lo disgustavano. I contatti umani gli avevano solo portato dolore, ne erano la prova le cicatrici che indossava come un abito. Ma Ofelia non gli avrebbe mai fatto del male.
La desiderava con impetuosità, necessità, angoscia, dolore.
L’amava come non avrebbe mai amato nessun altro.
Quando finalmente Ofelia riaprì gli occhi, raddrizzandosi e mettendo a fuoco l’ambiente circostante, Thorn non resistette più. Le scostò i capelli folti e ribelli che le nascondevano il volto accaldato, per poterla vedere meglio; le tolse gli occhiali, desiderando che anche lei lo guardasse senza ostacoli, iridi contro iridi, anima contro anima. Le scrutò le pupille, che seguirono il suo movimento, rassicurandolo. Poi le prese il mento tra le dita, stringendo forse più forte del necessario, per impedirsi di attirarla a sé e baciarla; glielo girò da una parte e dall’altra, sollevato che i suoi occhi lo seguissero con scioltezza, senza difficoltà.
Questo non allentò la morsa della paura e dell’angoscia su di lui. Stava stringendo la mascella tanto forte da sentire lo scricchiolio dei denti, aggrottando la fronte tanto da sentire un solco scavarsi tra le sopracciglia. Del resto, meglio quello che saltarle addosso, o cedere e afflosciarsi, svuotato di ogni energia. La tensione nervosa lo teneva in vita, in forze, seppur una forza malsana. La rabbia gli artigliava ogni nervo del corpo.
Cercò di non far caso alla preoccupazione dipinta sul volto di Ofelia. Il suo sguardo puntava dritto alla sua guancia, quella colpita dal barone Melchior, un innocuo taglietto. Eppure lei sembrava quasi più spaventata da quello che dalla sua stessa condizione, più provata dalla rabbia che lui mascherava a stento che dal rischio di morte che aveva accarezzato fino a pochi istanti prima. Possibile che fosse davvero più interessata a lui che a se stessa? Anche se in lei c’era qualcosa che minacciava di esplodere, lo percepiva, la sua angustia era rivolta a lui.
Imprevedibile, avventata e incosciente.
Dovette prendere lui la parola, costringendo la sua mandibola a muoversi, per assicurarsi che stesse davvero bene: - Il cuore?
Bastarono i suoi balbettii, la sua calda e pacata voce spezzata per mandarlo in frantumi. Senza nemmeno lasciarle finire i suoi borbotti rassicurativi, ogni centimetro del suo corpo si fiondò su di lei, fagocitandola nel primo abbraccio della sua vita, intrappolandola tra le sue braccia, cercando di tenerla insieme, affinché rimanesse intera. Non si rendeva conto che in realtà, in quella morsa, stava cercando di tenere insieme se stesso, per evitarsi un tracollo.
La sentì trattenere il respiro, ma non oppose resistenza. Rimase rigida contro di lui, presa alla sprovvista. Era così piccola che probabilmente, premuta contro di lui, non vedeva altro che oscurità. Solo in quel momento si rese conto del battito erratico del suo cuore, frettoloso e disorientato, che gli rimbombava nelle vene e nella testa, coprendo ogni pensiero. Come se l’illusione di Melchior fosse passata da Ofelia a Thorn, uccidendo lentamente lui. Lei aveva l’orecchio premuto proprio contro il suo petto, perciò l’aveva sicuramente percepito. Chissà cosa stava pensando in quel momento. Era calma, troppo calma. Chiunque sarebbe caduto in stato di choc istantaneamente. Lei invece si stava quasi facendo cullare da lui.
Sollevato com’era, non poté trattenersi. Non sopportava quel silenzio, era una sua prerogativa, non di Ofelia. Lei avrebbe dovuto parlare, come sempre. Prese il suo posto per quell’unica volta. – Quando vi ho detto che avevate una predisposizione naturale alle catastrofi non era un invito a dimostrarmelo.
Un tentativo di alleggerire l’atmosfera; una frase, purtroppo vera, che avrebbe dovuto suscitare in lei una reazione. Qualsiasi reazione sarebbe stata bene accetta: una spinta e uno schiaffo, che avrebbe accolto come una carezza, una risata addirittura, come se non fosse successo nulla e loro non fossero circondati dal sangue di un cadavere.
Non si aspettava il pianto. Ma del resto, Ofelia era umana, anche se tendeva a dimenticarlo, e lo stato di choc aveva solo tardato qualche secondo. Scossa da profondi singhiozzi, in preda ad un pianto isterico, Ofelia si aggrappò a lui, lo strinse a sé, quasi percependo il suo bisogno di averla più vicina, nonostante i loro corpi aderissero in ogni punto. Le braccia di Thorn si irrigidirono, rispondendo alla sua sorpresa di fronte a quella reazione, e le sue orecchie accolsero le sue grida liberatorie come una ninna nanna.
Liberati, liberati, liberati, avrebbe voluto sussurrarle. Forse lo fece, e lei non sentì, forse non lo pensò nemmeno, e quelle parole venivano in realtà da qualcun altro. Magari dallo stesso luogo profondo e inaccessibile da cui venivano le urla di Ofelia, un posto così remoto da far sembrare distante la sua voce, che si perdevano nell’aria dissolvendosi, come se non fossero nemmeno esistite, purificandosi dal male che le aveva generate.
Thorn non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, quante lacrime Ofelia avesse versato, se i tremiti che la sconquassavano fossero dovuti al pianto, alla paura o al freddo. Sapeva solo che non voleva guardare l’orologio, voleva che il tempo si fermasse, stringerla ancora un po’, lasciare che continuasse a bagnargli la camicia e tirare su col naso. Voleva stare lì con lei, in quel posto ovattato e nascosto al resto delle Arche, come due naufraghi alla deriva, in attesa che Ofelia tornasse da lui.
A poco a poco i suoi gemiti si placarono, lasciando solo il silenzio a tener loro compagnia, insieme a qualche sporadico singulto e respiro tremolante.
- Volevo aiutarvi. Ho rovinato tutto.
La voce di Ofelia era roca e fragile, attutita dal suo petto, ma gli fece accelerare il cuore. Poco male che lei lo sentisse, non aveva più nulla da nascondere. Il suo corpo era sincero, lasciava trapelare senza vergogna quei sentimenti che non era mai in grado di dimostrare, che non lasciava mai prendere forma sul suo viso.
- Avete rimpianti? Io no.
Forse avrebbe voluto che quell’abbraccio avvenisse in circostanze diverse. Che lei avesse sempre bisogno di lui, non solo quando rischiava una morte imminente e lacerante. Ma non era un rimpianto di cui intendeva metterla a parte. Non lì, non in quel momento.
La sentì addossarsi la colpa di tutto, di ogni gesto, parola, pensiero che li avevano portati dove si trovavano, accusandolo di essersi preso sulle spalle un peso insostenibile, a causa sua. Non si rendeva conto che, proprio perché se n’era preso carico per causa, quel peso era sopportabile. Anche qualcosa di più.
Impacciato, si rese conto che le sue mani non si muovevano con la certezza e la comprensione che lui aveva dei propri sentimenti. Erano quasi spaventate, timide mentre le sfioravano i riccioli setosi, intricati quanto lei, la nuca calda e le spalle tremanti, gracili, al contrario delle sue. Era così indifesa, ancora aggrappata a lui come un neonato alla propria madre, come ci si aggrappa al corrimano di una scala insidiosa e ripida, con disperazione, abbandono, incertezza. Sembrava che ogni sua percezione si fosse acuita, rendendogli fin troppo eloquente il modo in cui il suo corpo morbido aderiva al suo, senza far nulla per scostarsi. Senza imbarazzo, o schiaffi di circostanza.
Sembrava che lei avesse capito qualcosa che a lui sfuggiva, accettato il fatto che erano lì insieme, che lui l’aveva salvata.
Thorn liberò delle parole che non aveva mai pronunciato in vita sua, parole di contrizione, parole che uscirono balbettando, esitando, sommesse e in borbottii. La sua eloquenza era addestrata per discorsi tecnici e burocratici, di certo non per formulare scuse o esprimere stati d’animo. Forse perché prima di lei non c’era stato niente del genere, dentro di lui. Niente. Aridità e gelo, sferzati da odio e repulsione per se stesso.
A seguito di quelle sue strascicate parole, sentì qualcosa cambiare. Ofelia si rilassò contro di lui, quasi impercettibilmente, premendo ancora di più la testa contro il suo torace ossuto, rinsaldando la presa sulla stoffa che indossava, come se avesse preso una decisione.
O l’avesse accolta, dopo averla respinta per tanto tempo.
Qualunque cosa fosse, sperava che non l’allontanasse da lui. Non voleva illudersi, sapeva che un singolo momento, sebbene più intimo di qualsiasi unione fisica, non avrebbe cambiato la visione che Ofelia aveva di lui, non l’avrebbe spinta ad amarlo. Ma non gli importava. Voleva solo vivere e morire in quel momento, mentre la imprigionava tra le sue braccia, lenendo quel desiderio consumante che si era impossessato di lui, appagando con un semplice contatto, e il calore del suo corpo vivo, il bisogno che aveva di lei.
E poi, ovviamente, lo sorprese nuovamente.
Gli chiese chi era Dio. Tra tutte le domande che poteva fare, le azioni che poteva compiere, gli scenari immaginabili, Ofelia voleva sapere tutto della conversazione che Thorn aveva avuto con il barone Melchior. Non si smentiva mai.
La sua voce riprese il tono normale e distaccato mentre disquisiva con lei di politica, di intrighi, con una donna, la donna che gli era stata scelta come moglie. Quale donna del Polo avrebbe mai potuto, o voluto, sostenere una conversazione del genere? Solo lei ovviamente, la cui sete di conoscenza quasi eguagliava la sua, ed era forte in lei quanto la sua compassione ed empatia.
Troppo presto la sentì staccarsi da lui, distratta da quella maledetta ed irrequieta sciarpa. Si allontanò senza incrociare il suo sguardo, si rimise gli occhiali e prese subito una decisione, formulando un piano.
Avrebbe voluto trattenerla, vivere in quell’istante per sempre, senza nemmeno curarsi della camicia bagnata che gli aderiva al corpo, poco piacevole come sensazione. Invece doveva concentrarsi. Pianificare. Organizzare. Di certo non poteva lasciare che Ofelia decidesse di testa sua, non dopo tutto quello che era accaduto.
- Non c’è più un “noi” – si costrinse a dire, implacabile e apatico come sempre, nonostante quella piccola frase lo facesse morire dentro.
Le illustrò il piano, quello sensato, lungimirante e obiettivo, come se stesse discutendo una decisione amministrativa sulle derrate alimentari anziché sulla sua resa e conseguente condanna certa. La vide aprire diverse volte la bocca per intervenire, per interromperlo e opporsi, ma non gliene lasciò l’occasione.
Alla fine del suo discorso, fece una cosa che non aveva mai fatto. Mai in vita sua.
Le chiese un parere. No, non un parere, molto di più. Le chiese di rispettare una sua decisione.
Lui era la legge. Lui era i numeri della contabilità del Polo, veritieri, trasparenti, logici e innegabili. Lui si faceva obbedire. Nessuno aveva mai potuto obiettare un suo verdetto e uscirne vincitore, nessuno la scampava dopo essersi opposto. Tutti obbedivano a ciò che lui non chiedeva, ordinava. Ofelia, questo lo aveva capito ancora meglio di quanto avesse compreso quanto ormai fosse perso per lei, anteponeva sempre il libero arbitrio a tutto il resto. Lui era il cervello e lei il cuore, lui era il piano e lei l’azione. Lui era l’odio e lei era l’amore. Lui la dannazione, lei la liberazione.
Le chiese il permesso.
Le chiese. Il. Permesso.
Era l’unico modo per assicurarsi che si attenesse a ciò che lui si proponeva. Non imporle la decisione, ma darle la possibilità di scegliere di rispettarla, facendogli un favore. Si trattava di un favore.
- La rispetterò – sancì lapidaria infine, dopo un lungo silenzio.
Il cuore di Thorn sprofondò del tutto nell’oscurità, come se fosse stata lei, e non lui stesso, a decidere di consegnarlo alla giustizia. Come se non si fosse condannato da solo, non quando aveva ucciso il barone Melchior, bensì prima, quando aveva rotto il fidanzamento e annullato il matrimonio, forse l’unica cosa che si fosse reso conto di desiderare in quella vita.
Tuttavia, una scintilla di speranza continuava a fargli battere quel cuore nero in petto, come una fiaccola morente in un tunnel buio, dove regnavano le tenebre e la luce perdeva la battaglia: il suo viso, cocciuto mentre pronunciava quelle due parole.
Cocciuto, amareggiato, triste. Dimesso.
E tuttavia, non rassegnato.
Mai rassegnato.
  
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