Anime & Manga > Card Captor Sakura
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Autore: steffirah    10/04/2020    1 recensioni
A causa del lavoro del padre Sakura verrà ospitata a casa di una sua cugina, in una cittadina dal nome mai sentito prima, nell'estremo nord del Paese. Qui farà nuovi incontri, alcuni dei quali andranno oltre la sua stessa comprensione, mettendo a dura prova le sue più grandi paure. Le affronterà con coraggio o le lascerà vincere?
Una storia d'amore e di sangue, di destino e legami, avvolta nel gelo di un cielo plumbeo, cinta dalle braccia di una foresta, cullata dalla voce di un lupo.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eriol Hiiragizawa, Sakura, Sakura Kinomoto, Syaoran Li, Tomoyo Daidouji | Coppie: Shaoran/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nuova amica



 
Per tutto l’inizio della primavera andai avanti nella mia spensieratezza, ancorandomi alla mia forza interiore e a quella che Syaoran-kun riusciva a prestarmi, fino a che non ci fu un piccolo cambiamento.
All’inizio del nuovo anno scolastico si trasferì nella nostra classe una nuova studentessa. Era carina, gentile e simpatica. Il suo nome era Shinomoto Akiho. Era ospite presso Chiharu-chan essendosi conosciute un po’ di tempo fa, durante una vacanza nello Shikoku, e avrebbe vissuto qui per il primo semestre. Il motivo non mi era molto chiaro, ma sembrava centrarci con le stagioni e i paesaggi, perché a quanto m’era parso di capire era una sorta di suo hobby ricercare luoghi ameni in giro per il mondo da fotografare e in cui avere al contempo la possibilità di leggere con calma i suoi libri preferiti, essendo un’appassionata di letteratura. Da ciò ci aspettavamo che si iscrivesse al club di letteratura, invece si unì a quello di coreutica, essendo il canto la sua seconda grande passione.
Era affascinante ascoltarla, in quanto pur avendo la nostra stessa età aveva già avuto modo di viaggiare un po’ in tutta Europa: era nata in Inghilterra, s’era poi trasferita per un certo periodo in Germania, in Francia, in Italia e persino in Cina, fino a trovare le sue origini in Giappone. Di tutti i posti visitati ci mostrava le fotografie e noi non potevamo far altro che ascoltare a bocca aperta i suoi racconti di civiltà lontane, dai costumi e le tradizioni più svariate.
Era una ragazza veramente dolcissima e adorabile. Molti dicevano che mi somigliasse, ma a differenza mia sembrava più timida e riservata. Essendomi anche io trasferita lì da un’altra città cercai di restarle accanto per sostenerla e supportarla nei momenti di bisogno, tanto che il primo giorno io stessa le feci fare un giro per l’istituto, sostituendomi a Chiharu-chan, sebbene quello fosse uno dei suoi compiti in qualità di rappresentante di classe.
Un giorno ci mettemmo di nuovo tutte d’accordo per andare a dormire da Chiharu-chan e grande fu la mia sorpresa quando vidi che anche Akiho-chan dormisse sempre insieme ad un peluche, chiamato Momo: era un coniglietto bianco con gli occhi chiusi, una sciarpetta pelosa celeste, l’orecchio destro piegato e il sinistro dritto, su cui c’era una coroncina con quelle che sembravano delle lancette di un orologio. Era troppo kawaii e, in cambio, le mostrai le foto che avevo sul cellulare del mio Kero-chan, facendole capire che non dovesse vergognarsi o ritenersi infantile se ancora dormiva con un pupazzo perché tutte noi avevamo ancora abitudini che preservavamo da quando eravamo bambine.
Scoprimmo, infatti, che anche Naoko-chan aveva il suo cuscino personalizzato coi personaggi della sua fiaba preferita che tuttora abbracciava, Rika-chan aveva ancora dei peluche sparpagliati sul letto, mentre Chiharu-chan ne conservava due mensole piene nella sua vecchia cameretta, ora modificata in stanza-studio.
Stavamo costruendo, quindi, una bella amicizia, ma di questa sembrava inspiegabilmente essere contrariato Syaoran-kun. Quando le rivolgeva la parola era sempre tirato, come se gli richiedesse uno sforzo enorme, e ogni volta che rimanevamo soli mi consigliava di non avvicinarmi troppo e non affezionarmi eccessivamente a lei. Di più non si mostrava disposto a rivelarmi, così, un giorno di fine aprile in cui non avevamo scuola, non riuscendo più a sopportare quell’enigmaticità e silenzio, lo costrinsi ad andarcene sulla roccia nel bosco, quella che affacciava sul villaggio che sorgeva sul fiume, spronandolo a parlarmi dei suoi turbamenti.
Neppure lui stesso ne sembrava molto convinto, fatto sta che con aria molto frustrata mi disse: «Non lo so, Sakura. Non mi piace.»
«Ma perché?» insistei, chiedendomi che danno gli avesse inflitto. Era sempre cortese con tutti!
«Non lo so» ribadì guardando lontano, verso l’orizzonte, riflettendo. «Forse è perché sembra un artificio.»
«Un artificio?» ripetei spiazzata.
«Sì, insomma… È troppo simile a te e, al contempo, l’opposto di te.»
Fece spallucce, mentre io scoppiai a ridere, non aspettandomelo.
«Quindi è perché mi somiglia?»
Scosse la testa, confuso. «Non è per quello che tutti ti dicono. Avrete anche un carattere, una solarità, un viso, un fisico e un nome simile, ma non è questo il punto. Quel che mi turba è il fatto che lei sembri… finta. È come se prendesse tratti che ti appartengono, facendoli suoi.»
«Non ha alcun senso» obiettai, spintonandolo per gioco, tentando di farlo rilassare. Era fin troppo serio.
«Forse no» riconobbe, spettinandosi i capelli con un sospiro. «Forse è solo per il suo odore.»
A quel riferimento mi sentii pugnalata dritta al cuore.
Volsi lo sguardo sulle case, rifiutandomi di guardarlo, non trovandone il coraggio. Anche il suo odore aveva effetto su di lui? Mi pareva quasi di soffocare. Cos’era quel sentimento che mi bruciava viva? Sembrava corrodermi e sbranarmi dall’interno, avviluppandomi il cuore, annerendolo. Era forse… gelosia? Ma se effettivamente fosse stato così?
«È… buono?» Dato che non rispose precisai sottovoce, torturandomi nervosa le pellicine accanto alle unghie: «L’odore del suo sangue, dico.»
«Affatto, è disgustoso» rispose prontamente, sconvolgendomi. Lo guardai ad occhi sgranati e lui li alzò al cielo, aggiungendo sprezzante: «È proprio questo il punto, Sakura. Il tuo profumo è vellutato, floreale, pacificante, dolce, soave. È l’essenza della vita e della primavera. Il suo, invece, mi ha a sua volta investito appena ha messo piede in classe, ma in senso negativo. Il suo è… marcio. È autunnale, sa di caduco, deperimento e… morte» concluse, storcendo il naso contrariato.
Mi chiesi come potesse un’essenza suscitare tutte quelle impressioni, ma lui mi richiamò da quelle valutazioni, guardandomi corrucciato.
«Per questo ti consiglio di non stare troppo in contatto con lei.»
«Temi che il mio profumo venga sconvolto dal suo?»
Era quello a preoccuparlo? Forse sì, perché l’idea parve rabbrividirlo, facendogli assumere un’espressione di ribrezzo.
Ma forse no, perché ribatté: «Temo che il mio istinto non mi stia ingannando e che lei possa apportarti sofferenza.»
«Non mi sembra una persona capace di fare del male.»
«No.» Sospirò, prendendomi delicatamente le mani, affinché io potessi smetterla di torturarmi. Non mi ero neppure accorta di starlo ancora facendo. «Ma questo non significa che non possa portarti sventura.»
«Perché dovrebbe?»
Ero confusa, non riuscivo proprio a capire perché si tormentasse tanto su una cosa del genere. A mio parere, non c’era nulla di cui preoccuparsi; la sua era una mera impressione, Akiho-chan non sarebbe stata in grado di ferire neppure una mosca.
Mi carezzò lievemente il viso, sorridendomi tristemente.
«Perché tu possiedi un cuore grande, Sakura. Sei la ragazza più buona, gentile, altruista e comprensiva che io conosca. Sei una persona bellissima, sia fuori che dentro. Una rarità per questo mondo e mi è stato insegnato che le cose migliori vengono distrutte con facilità, perché tutti le desiderano. E sebbene ne porti lo stesso nome, non voglio che tu sia evanescente come i ciliegi.»
Lo fissai basita, col cuore in gola, non sapendo cosa dire. Tutte quelle cose, io le pensavo di lui. Era lui ad avere un cuore enorme, ad essere il ragazzo più buono, gentile, altruista e comprensivo del mondo. Come poteva dire quelle cose di me?
Mi prese tra le sue braccia, stringendomi a sé, e nel modo in cui tremavano le sue spalle capii che stava parlando per paura che qualcosa di brutto potesse realmente accadermi. Ricambiai il suo abbraccio, cercando di rassicurarlo che io ero lì, stavo bene e sarei stata bene.
Stavo per dirglielo, quando mi anticipò nel riprendere parola; la sua voce, adesso, era piena di dolore.
«Non permetterò che tu soffra, Sakura. Nessuno ti farà del male, nessuno riuscirà neppure a sfiorarti. Ti proteggerò sempre, con la mia stessa vita se necessario, affinché tu non svanisca.»
«Non sparirò» lo interruppi, affondando il viso sulla sua spalla, trattenendo le lacrime. «Te lo prometto, Syaoran-kun. Ti prometto che starò attenta a tutto ciò che mi circonda.»
Mi staccai di poco, rivolgendogli un breve sorriso, guardandolo direttamente negli occhi.
“E non ti lascerò solo” aggiunsi nella mia mente, cercando di comunicarglielo con lo sguardo.
Lui ricambiò il mio sorriso con uno altrettanto flebile, posando per un secondo la fronte contro la mia, ad occhi chiusi. Quando si allontanò mi accoccolai di nuovo sul suo petto, lasciando che mi carezzasse con leggerezza la schiena, con fare calmante. Affondai il volto contro il suo collo, chiudendo gli occhi, sorridendo rilassata.
Syaoran-kun non poteva capire quanto mi facesse bene il suo freddo. Quando ero con lui mi sentivo costantemente andare a fuoco, per cui il contatto con la sua pelle era come del ghiaccio lenente.
Mugugnai appagata, finché non mi prese in giro.
«Non addormentarti.»
Scossi la testa, osservando la stoffa a pochi centimetri dal mio viso.
«Sai, ho notato che prima, fuori da scuola, ti vestivi sempre con colori scuri, sui toni del nero. Ultimamente invece sei passato a tinte più chiare.»
«Mi adeguo alla stagione» scherzò.
Risi con lui, per poi sorridergli e parlargli con onestà, indicando la camicia che indossava. «Questo blu ti dona. Scommetto che anche il turchese, l’azzurro, il cobalto, sono tutti colori che ti starebbero benissimo.»
«I colori del cielo e del mare?»
«I colori dell’estate, sì» confermai allegra. «Fanno risaltare in maniera incredibile i tuoi colori naturali.» Piegò la testa su un lato, come se non capisse, per cui specificai: «Il marrone dei tuoi capelli e l’ambra dei tuoi occhi.»
Mi fissò stupito, per poi fare un lieve sorriso imbarazzato. «Non ho mai ricevuto un complimento del genere.»
Ridacchiai in risposta e lui aggiunse: «Sai che sono nato proprio in estate?»
«Davvero?» domandai stupita, assimilando quella nuova informazione. «Quando?»
«Il 13 luglio.»
«È nel cuore dell’estate!» Mi illuminai, per poi fare un’osservazione: «Ma è un po’ paradossale.»
Annuì con un mezzo sorriso e io rimuginai sulla sua condizione, dispiacendomi.
«Non hai mai avuto la possibilità di godertela…»
«In effetti, no» confermò tranquillo, come se la cosa non gli pesasse.
«È così triste» soggiunsi depressa, adombrandomi. «Non hai mai potuto prendere il sole, andare al mare o in piscina, in un lunapark o un parco acquatico, mangiare macedonie e gelati, giocare ai gavettoni, accendere i fuochi d’artificio, far volare aquiloni, ammirare tutte le sfumature con cui l’alba o il tramonto dipingono il cielo e l’oceano passeggiando sulla spiaggia a piedi nudi, fare un castello di sabbia, ascoltare lo sciabordio delle onde e sentire l’odore salmastro della salsedine… E percepire la sensazione del sale e la sabbia che si appiccicano addosso dopo un bagno -»
Mi interruppi, guardandolo con le lacrime agli occhi, convinta di star rattristando anche lui raccontandogli di queste cose che, purtroppo, non aveva mai avuto modo di vivere. Sorprendentemente, invece, lo trovai con un sorriso sereno.
«Ascoltare te, Sakura, mi basta per visualizzarle, sentirle, vederle e percepirle.»
«Non basta, invece» ribattei con un groppo in gola. Ci pensai su, chiedendomi cosa potessi fare per lui, quando poi mi illuminai. Afferrai con foga le sue mani, riempiendomi di entusiasmo a quella prospettiva. «Ho trovato! Un giorno andremo al mare di notte, così almeno avrai la possibilità di vederlo!»
«Insieme?» si accertò, con l’accenno di un sorriso sulle labbra.
«Insieme!» assicurai energicamente, promettendoglielo.
Lui ne sorrise, palesemente felice, per poi subito cambiare discorso e riprendere il precedente, sorprendendomi con le parole che seguirono.
«Ad ogni modo, anche tu stai bene con i colori che prediligi.»
Arrossii, raggiungendo probabilmente la stessa tonalità di un pomodoro maturo, mentre gli spiegavo: «Il bianco e il rosa sono i miei colori preferiti, il verde dicono che risalta i miei occhi.»
«È vero» confermò, guardandomi. E più mi guardava più mi sentivo attorcigliare le budella e la testa andare nel pallone. Il suo sguardo era troppo dolce, troppo gentile, troppo… troppo innamorato. Ma non poteva essere così, no? «Il verde è il mio colore preferito.»
Continuai a sentire il calore infiammarmi il viso, anche perché non aveva staccato neppure per un istante lo sguardo dal mio. Mi portai una mano sul cuore, sperando non decidesse di fuggirmi dal petto. Mi schiarii la gola, eppure la mia voce uscì sottilissima.
«Pe-perché?»
Mi rivolse un sorriso enorme, indicando le foreste attorno a sé. «È uno dei primi colori che ho visto, ciò con cui sono cresciuto.»
Tornò a guardarmi e io annuii, capendo quel discorso.
Non colsi subito l’intensità del suo sguardo, finché non posò delicatamente una mano accanto ad una mia tempia, spostandomi dal viso una ciocca più lunga della frangetta, fluttuante al vento. Stavolta il sangue percorreva tutto il mio corpo con una gioia senza pari, il mio cuore stava facendo le capriole e la mia mente, ormai, doveva essere diventata una pappina inconsistente.
Mi fece sollevare lievemente il viso, affinché fosse parallelo al suo, mozzandomi il respiro.
«Mi fa sentire a casa» aggiunse in tono basso, roco, facendomi tremare l’animo. Che fortuna che fossimo seduti e lui stesso mi stava sostenendo! «E mi permette di essere me stesso.»
A questo sorrisi e anche lui ricambiò. Mi carezzò delicatamente una guancia, le sue dita tremavano, quasi timorose di poter compiere un’azione sbagliata; io automaticamente chiusi gli occhi, abbandonandomi contro il suo corpo. Ormai di me poteva fare tutto ciò che desiderava.
«Stai per addormentarti di nuovo?»
«Ma no!» sbuffai contro la sua camicia, gonfiando le guance.
Ridacchiò brevemente, tornando subito serio. Riprese le mie mani nelle sue e mi toccò mogio le zone accanto alle unghie, sfiorando appena le pellicine che prima mi stavo tirando.
«Guarda che ti sei combinata. Fa male?»
Voltai un po’ la testa, guardando ciò che mi stava mostrando. E allora impallidii.
Mi tirai indietro di scatto, ritraendomi dal suo tocco, nascondendomi le mani dietro la schiena.
«Perdonami» mi scusai, senza fiato.
Piegò la testa su un lato, come se non capisse perché mi comportassi così.
Lo fissai timorosa, mordicchiandomi un labbro. Quanta sofferenza gli stavo apportando in quel momento?
«È terribile, vero?» domandai dispiaciuta.
Alzò un sopracciglio, tentando di decriptare le mie parole. Poi i suoi occhi s’illuminarono di comprensione e scosse la testa, seppure allontanandosi di poco.
«Non è poi così terribile.»
«Me ne vado per prima, così ti lascio del tempo per riprenderti» decisi frettolosamente.
Feci per alzarmi ma lui mi afferrò il braccio, tenendomi giù, guardandomi rassicurante.
«Puoi restare. E in ogni caso non te ne faccio andare da sola.»
Mi ammusai, incerta sul da farsi. Forse stavo reagendo in maniera troppo esagerata. Forse questa minima quantità di sangue non bastava a fargli del male. Forse c’era davvero una qualche speranza per noi.
Mi riguardai l’indice destro, osservando quella lineetta rossastra che si intravedeva sotto pelle. In effetti, non stavo propriamente sanguinando, ma sarebbe bastato finire di tirarmi la pellicina o una lieve pressione per farne uscire almeno una goccia. Cosa avrei dovuto fare?
«So controllarmi» mi assicurò, pur adombrandosi repentinamente; abbassò lo sguardo, quasi pentito. «A meno che non hai paura.»
«Mai» negai prontamente. «So che tu non mi faresti mai del male, quindi non ho paura.» Sorrisi sincera, prima di rattristarmi. «Piuttosto, sicuro di non starti sforzando? Sono preoccupata.»
«Che io possa morderti?»
«Che tu possa soffrire» ribattei, sentendomi il cuore stringersi. Non avrei potuto sopportarlo.
«Non rappresenti alcuna sofferenza, per me.» Prese delicatamente la mia mano nella sua, portandosela accanto al viso, sbigottendomi. «Lo vedi? Sto benissimo.»
Sorrise tranquillo, poggiandosi le dita proprio all’altezza del suo naso. Chiuse con calma gli occhi, inspirando il mio odore, liberando tutte le gru ingabbiate nel mio stomaco. Ormai non si trattava più di farfalle, considerando quanto mi sentivo sconquassata.
Riaprì lentamente le palpebre e io osservai attenta quelle iridi ambrate sfavillare d’oro.
Smettendo di pensare mi feci più vicina, raggiungendo l’altezza del suo sguardo. Mi persi totalmente in esso, attratta come se lui fosse la gravità stessa. Anche lui sembrò immergersi nel mio colore, avvicinandosi maggiormente, fino a far sfiorare le punte dei nostri nasi. Mi sentii totalmente in balìa di una corrente d’amore e dolci sentimenti, per cui lasciai che fosse essa a farmi inclinare la testa, a farmi avvicinare alla sua guancia, a farmi chiudere gli occhi nell’odorare la sua pelle. Aveva sempre quel sentore di bosco e foresta, quel qualcosa di pungente e selvatico, caldo e familiare come un caminetto acceso e contemporaneamente freddo ed elettrico come una giornata di pioggia. Lui, da solo, era così tanto…
Spostò la mia mano dalle sue labbra e, così, il suo respiro mi raggiunse, carezzandomi l’epidermide. Tremai, non sapevo se nel corpo o nel cuore. Mi fu inevitabile ricordare ciò che successe a San Valentino sul mio letto. Allora lui non era in sé, si trovava in dormiveglia; ma in quel momento era diverso. In quel momento, lui era consapevole, doveva essere presente almeno quanto lo fossi io – sebbene, in realtà, mi sentissi più fluttuare in aria che sedere in terra. Doveva volerlo, quanto lo volevo io.
Per questo schiusi le labbra, accogliendo il suo respiro in me, cercando di far sparire quei pochi millimetri che ancora ci separavano… ma nient’altro accadde, perché prontamente mi prese per le spalle, allontanandomi da sé.
Sbattei le ciglia, smarrita, mentre lui mi guardava con le sopracciglia aggrottate, in un misto di vergogna e pentimento.
«Non possiamo» decretò in tono duro, di rimprovero.
Sgranai gli occhi, sentendomi colpevole.
«No-non volevo!» mi scusai, chinando il capo, afflitta. «Davvero, io non so perché… Non era mia intenzione… Mi dispiace!» Di più non riuscivo a proferire. Sentivo, soltanto, il cuore martellarmi con prepotenza nelle orecchie.
Lui per primo si alzò, non proferendo più nulla, e mi diede una mano per mettermi a mia volta in piedi; fatto ciò mi voltò le spalle, cominciando a camminarmi davanti. Lasciandomi vedere di sé soltanto la sua schiena.










 
Angolino autrice:
Buonsalve! Come ve la passate? Spero bene! 
Non ho molto da dire, eccetto spiegare il termine "kawaii", che significa "carino/a", e avvisarvi che da qui in poi le cose iniziano un tantino a... complicarsi. 
Dato che c'è un continuo, cercherò di pubblicare il prossimo capitolo il prima possibile!
Buona giornata, buon weekend e buona Pasqua a tutti!
  
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