Capitolo I
Addio palazzi incrostati d'argento
Una maestosa carrozza, pesantemente addobbata di legni dorati e di
fantasticherie rococò, sul cui sportello troneggiava l'aquila imperiale,
viaggiava lentamente alla volta di Soissons, una cittadella della Piccardia. A
seguito della vettura vi erano altre quarantacinque carrozze.
Sulla prima
carrozza viaggiavano due donne. Una era di piccola statura, aveva i lineamenti
regolari, incorniciati da riccioli scuri e possedeva un certo charme non
inferiore all'aria intelligente dei suoi occhi magnetici. Era elegantemente
adagiata sullo schienale azzurro trapuntato di api in filo d'oro e, nonostante
fosse in viaggio da ore, non mostrava di essere affatto stanca e continuava a
parlare ininterrottamente.
Di fronte a lei vi era la sua compagna di viaggio,
così diversa, così distante. La donna, o meglio, la ragazzetta, non si poteva
dire una bellezza, sebbene fosse dotata di pregevoli virtù. Nonostante la
giovane età, diciotto anni, era piuttosto alta e ben fatta e l'attillato abito
stile impero non celava le sue forme di rubensiana carnosità. Mani e piedi erano
piccoli e bellissimi, come quelli di una bimba. E da bimba era la sua
carnagione, bianca come il latte e rossa come una ciliegia, soprattutto in
prossimità delle guance e della punta del nasino che guardava all'insù un poco
raffreddato. Gli occhi erano di indicibile beltà, grandi e dalla forma
affusolata, acquosi e trasparenti come il cielo che si rispecchia in un gelido
lago del Settentrione. Erano sovrastati da piccole sopracciglia dorate che si
estendevano ad ala di gabbiano su una fronte limpida e candida sotto una folta
chioma di riccioletti biondi. Eppure, nonostante tutte queste lodevoli
caratteristiche, non la si poteva dire bella. Forse erano le sue labbra troppo
tumide e carnose, che le donavano l'aria di broncio, forse era la rigidità del
suo poco aggraziato portamento, forse era l'abito stile impero che la fasciava
troppo. C'era qualcosa in quella bionda figura che non convinceva del tutto e
che faceva esitare ad appellarla col nome di Cipride.
L'inarrestabile parolaia
mediterranea continuava a conversare, in maniera graziosamente monotona, con
un'assente interlocutrice, col ridicolo risultato di dare luogo ad un monologo
da prima donna, quale costei era realmente. Figlia del bel mondo parigino, la
bella Carolina faceva domande frivole, osservazioni inutili, commenti
inappropriati. Non che fosse stupida, tutt'altro! Pensava semplicemente che la
sua giovane compagna fosse avvezza a simili amenità e pertanto aveva abbassato
il suo registro linguistico e culturale. È vero che la giovanetta non era né
colta, né brillante, ma era anche lontana dall'essere una calamita di mondanità
e di maldicenze. La buona e brava bambina era, piuttosto, una piccola casalinga
in arme: cuciva, preparava dolci per il caro papà, coltivava verdure e piante,
disegnava nature morte e paesaggi per i suoi fratellini, suonava il pianoforte
per la gioia di tutta la famiglia. I balli, le feste, le liaisons di cui
Carolina sembrava tanto esperta non erano materie di sua competenza. Pertanto,
all'inizio si era limitata ad annuire od a rispondere sì e no alle domande di
Carolina; poi i suoi discorsi monosillabici cessarono del tutto.
La gran
dama, però, continuava tranquilla la sua parte di brava attrice, infilando una
parola dietro l'altra, pensando che l'altra fosse o stupida o semplicemente
stanca. «Lì da Lei, le dame maritate escono con l'accompagnatore se il marito è
indisposto, oppure escono da sole oppure rimangono a casa?», «Laggiù che colore
va di moda in questa primavera? Il rosa pallido di camelia orientale
screziata o l'azzurro sporco del cielo di Londra?», «Lei preferisce
gli abiti in mussola o quelli in seta?», «E le sue scarpe sono alte o basse?»,
«E...».
Iniziò a cadere una lieve pioggerellina. Nell'arco di un
battito di ciglia si trasformò in un temporale biblico. Era tipico di marzo:
sole e pioggia andavano a braccetto. «Che disdetta!» sbottò Carolina «È da un
mese che l'acqua va e viene. Spero almeno che non piova il giorno delle nozze!».
Nozze.
Quella parola risvegliò l'apatica Luisa che guardò, attraverso il finestrino, al
cielo cupo che si rispecchiava nei suoi occhioni melanconici. Tra meno di
una settimana si sarebbe sposata e non aveva ancora visto in volto il suo futuro
consorte, se non in ritratto. Era davvero l'uomo perfido e cattivo che conosceva
attraverso i commenti dei "grandi"? Era o no colui che, quando era piccina,
aveva fatto soffrire tutta la sua famiglia? Realmente meritava l'appellativo di
"Anticristo", come lo chiamava la sua sublime e affettuosa nonna? Nella
piccolezza della sua mente ancora acerba e inesperta, la bimba non riusciva a
capire come potesse essere finita in quella situazione, lì su quella carrozza,
insieme ad una bella donna sconosciuta che presto sarebbe stata sua cognata.
Le lacrime
le inondarono i grandi specchi della sua anima, alla mente tornavano insistenti
i volti dei suoi familiari che forse non avrebbe mai più rivisto. Il caro papà
Francesco, che gli affanni avevano prematuramente invecchiato uccidendo la
vitalità del suo sguardo fiorentino, l'adorata matrigna Ludovica, più amica che
mamma, tanto forte nell'animo quanto debole nel corpo, tanto più ricolma di
sinistra bellezza, quanto consumata nei polmoni. E i suoi fratellini... Nandl
era così malaticcio sin dalla nascita, sarebbe arrivato alla maggiore età o il
tempo se lo sarebbe portato via? Chissà se il suo piccolo Franzl e la sua bella
e rotonda Poldl stavano ancora piangendo da quando era partita. Quante lacrime
avevano versato quei poveri piccini dai loro occhioni blu! Quanta desolazione vi
era nel grande cuore triste di Luisa, strappato dal corso degli eventi al suo
nido paterno!
«Addio palazzi incrostati d'argento e rilucenti di specchi,
scrigni compositi, cari a chi è nato tra voi e a chi vi ha amato, quanto i
gioielli delle vostre stanze, prediletti mortali di stirpe divina! Addio!
Separata ormai dalle braccia più miti e distrutta nell'intimo del cuore, la mia
spoglia lascia questi palazzi dorati alla volta d'un dove non noto, regno di
barbare genti che non ha mai desiato di conoscere e, vuoto fantasma di una bella
morte spaventosa, non riesce a nutrire speranza di ritorno. Addio!».
Carolina notò le sue lacrime e smise di parlare.
Fortunatamente erano arrivate a Courcelles, dove sarebbero stati cambiati i
cavalli. La carrozza si fermò e Luisa smise di piangere. Si era appena
ricomposta, quando all'improvviso fu spalancato lo sportello. «Sua Maestà
l'imperatore!» tuonò la voce dello scudiero e in quell'istante tuonò anche il
cielo, che pareva non aver punta intenzione di calmare i suoi bollenti spiriti.
Luisa tremava dalla paura e timida com'era per natura abbassò gli occhi quando
lui le diede un bacio sulla guancia. «Che cosa ci fa qui mio marito?» pensò
dentro di sé «Non ci saremmo dovuti incontrare che domani!». I suoi occhi
cristallini, ancora arrossati dalle lacrime, fissavano intensamente e con
ostinazione appassionata... i suoi piedi. La fanciulla non osava distogliere lo
sguardo da terra né tantomeno accennava ad aprire quelle sue labbra così tumide
e rigide che le davano l'aspetto di una statua altezzosa ed altera. Si domandava
cosa lui stesse pensando di lei. Era in viaggio da ore, era vestita in maniera
semplice ed era un poco spettinata. Aveva appena finito di piangere e
l'imbarazzo l'aveva fatta diventare ancora più rossa di quanto non fosse già.
«Non sono bella! Non sono affatto bella!» pensava con insistenza, senza
domandarsi se anche lui fosse o meno altrettanto "non bello". Non era mai stata
vanesia, amava i vestiti comodi e larghi e non si truccava. Non apprezzava che
le si facessero doti smisurate, né che si decantasse la sua bellezza, perché lei
non si riteneva certo una dea. Eppure, adesso, era ossessionata da questa sua
mancanza di charme: cos'altro poteva offrire ad un marito impostole se non se
stessa? Certo non avrebbe potuto intrattenerlo e incantarlo con la sua cultura,
che non era mirabilmente grande. E se poi si fosse messo a ridere sentendola
parlare? La sua voce era sì molto dolce e accogliente, ma il suo forte accento
tedesco era quantomeno folkloristico.
Fortunatamente lui non sembrava essere
così logorroico quanto la sorella e si limitò soltanto a dar loro il buongiorno.
Carolina calcò nuovamente la scena e finalmente aveva un interlocutore che,
sebbene non fosse molto loquace, almeno emetteva suoni che non fossero dei
lunghi e ripetitivi monosillabi. Luisa, tuttavia, notò un certo cambiamento. La
bella Carolina, che fino a quel momento aveva creduta sciocca e frivola, parlava
adesso di politica con la passione e l'esperienza di un consumato parlamentare
d'Inghilterra! Quante parole complicate, quanti nomi altisonanti e sconosciuti
uscivano da quella boccuccia di rosa. La ragazza si domandava se anche lei, un
giorno, avrebbe dovuto parlare di consigli direttivi, di ministri, di imposte e
di commercio.
Fuori dalla carrozza continuava a piovere a dirotto, ma
fortunatamente le strade percorse dal corteo imperiale erano state tutte
sterrate per l'occasione. Luisa sapeva che quella sera avrebbe dovuto alloggiare
a Soissons e che il giorno dopo avrebbe incontrato suo marito nel castello di
Compiègne. Ma adesso lui era lì, a qualche centimetro da lei. Non ardiva alzare
lo sguardo, tuttavia, poteva intravedere qualcosa dalla sua scarsa
visuale. Poteva immaginare ben poco, l'unica cosa che vedeva erano due gambette
che parevano piuttosto corte, seminascoste da un pastrano grigio e sporco, zuppo
d'acqua. Almeno constatò che il marito aveva una voce calda e accomodante.
Luisa alzò gli occhi fuori dal finestrino e vide un ponte di pietra, vecchio ma ben costruito e solido. Su quella struttura si ergeva impavido un drappello di soldati, agghindato in una vistosa uniforme blu e che sfidava la pioggia battente con intrepida fermezza. Come Luisa sospettava il percorso del suo viaggio sarebbe mutato: suo marito ordinò di proseguire sino a Compiègne e inviò una piccola delegazione ad informare la corte nomade di spostarsi da Soissons. Il viaggio riprese e non appena la carrozza oltrepassò il ponte, Carolina commise una gaffe imbarazzante. «Sa, Madame» disse rivolgendosi a Luisa «esattamente su questo ponte è passata sua zia Maria Antonietta quando venne in Francia per esser data in sposa al Delfino». Luisa ebbe appena il tempo di sgranare gli occhi, quando suo marito, che aveva trovato davvero inopportuno l'errore della sorella, disse: «Una donna che non aveva se non gli onori senza il potere, una principessa straniera, il più sacro degli ostaggi, trascinarla dal trono al patibolo, attraverso ogni sorta d'oltraggi, vi è in ciò qualcosa di peggio del regicidio». Non aveva certo migliorato la situazione! Zia Maria Antonietta, patibolo, regicidio! Luisa chiuse gli occhi e finse di appisolarsi, ma tra sé e sé iniziò a pensare alla zia, che più precisamente era la zia di suo padre. Non l'aveva mai conosciuta, ma a casa aveva visto un sacco di suoi ritratti. Le assomigliava, anche lei era alta e formosa, aveva la pelle perlacea e rosea, i capelli biondi e grandi occhi azzurri. E anche lei aveva quelle labbra un po' troppo pronunciate, che caratterizzavano tutta la famiglia di Luisa. Eppure la zia Maria Antonietta era considerata una delle più belle donne del suo tempo e Luisa riusciva vagamente a immaginare, osservandone i ritratti in cui indossava sontuosi abiti di broccato, quella sua grazia e raffinatezza quasi leggendarie. Non aveva ancora compiuto due anni quando la zia morì, eppure sin da piccola aveva capito quanto quella donna maestosa e giunonica fosse importante, ma anche sventurata. Di lei si parlava in maniera estremamente rispettosa, sebbene si preferisse in realtà non parlarne affatto. Sua nonna, la nobile e intrepida regina di Napoli, le raccontava di quanto amasse la sorella minore e Luisa non era indifferente al dolore di quell'anziana signora che si rivolgeva alla defunta in maniera estatica: «Ave a te o Maria piena di grazia!». Ricordava anche che, quando aveva dodici anni, era andata a pregare ad una messa funebre in onore della zia e della sua famiglia acquisita, giacché era appena stato ucciso un altro importante principe di quella sfortunata dinastia. E per ironia della sorte, era stata assassinato proprio da quello stesso uomo che adesso le sedeva di fronte e parlava ossequioso di Maria Antonietta e di regicidio. Alla fine tutti questi pensieri dolorosi debilitarono sul serio la sua psiche stanca e appannata e Luisa si assopì fino alla fine del viaggio.
Carolina l'accarezzò con delicatezza per svegliarla. Erano
finalmente arrivati al castello di Compiègne. Il suo sposò era già entrato a
dare ordini e ad essere riverito, quando Luisa scese dalla carrozza. Era già
buio, ma al castello c'era una gran confusione: l'arrivo improvvisato aveva causato un
certo fermento. Nel cortile all'improvviso la giovane si sentì osservata, tutti
gli occhi erano puntati su di lei. Ma era troppo stanca e le mancavano le forze
per assumere un contegno quantomeno regale. Davanti ai suoi occhi vide passare
una gran quantità di cavalieri e gentildonne che le facevano la riverenza e la
salutavano ossequiosamente, ma il suo unico desiderio era la pace di un buon
riposo.
Le venne incontro il marito, che ancora non aveva realmente
osservato, le porse il braccio e la condusse verso lo scalone centrale. Sebbene
sperasse ancora che egli fosse affascinante e, nonostante la curiosità, si
riservasse di osservarlo per bene più tardi, Luisa non poté fare a meno di
giungere ad una deludente e triste constatazione: quanto era basso l'uomo che
aveva al suo fianco! Sullo scalone erano in posa una serie di persone, alcune di
bell'aspetto, altre meno, alcune col sorriso, altre con lo sguardo sdegnoso e
una smorfia di disprezzo sulle labbra serrate. Avevano quasi tutti un aspetto
piuttosto mediterraneo, all'infuori di due biondi, un uomo e una donna, alti e
ben formati. Quella era la sua nuova famiglia. Luisa, che per natura era timida,
si trovò a salutare persone dai volti sconosciuti e il suo atteggiamento risultò
ancora più infantile del solito. A quelli bene intenzionati fece certo
un'impressione di tenerezza, a quelli sprezzanti sembrò una bambina vestita da
signora.
Infine fu condotta nelle sue stanze dove poté essere felicemente
turbata da una visione davvero inaspettata. Il suo amato cagnolino, Lipp, le era
corso incontro e le aveva fatto le feste. In un angolo, dentro a una gabbietta
bianca di forma rotondeggiante, cinguettavano i suoi canarini e sul bel tavolino
istoriato a motivi grecizzanti, era poggiato un ricamo che aveva iniziato a
Vienna. Luisa chiese subito informazioni alle dame che aveva intorno in merito
alla presenza, in quella stanza, degli oggetti che aveva lasciati a casa sua. Le
fu risposto che erano stati portati lì già da tempo per espresso ordine di suo
marito. Luisa era davvero commossa: che gesto galante, anzi nobile! Forse non
era poi tanto cattivo quell'uomo che da piccola le veniva presentato come
l'incarnazione in terra del diavolo, dell'Anticristo. Toltasi il mantello, si
diede una rapida sistemata perché erano ormai le dieci di sera e lì, nelle sue
stanze, le dame stavano preparando la tavola per la cena. Aveva appena finito di
pettinarsi quando le furono annunciati suo marito e sua cognata: «Sua Maestà
l'imperatore dei francesi! Sua Maestà la regina di Napoli!». I tre regali
convitati si sedettero e finalmente Luisa guardò in volto quello che per procura
era già suo marito.