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Autore: f_dreamer96    15/04/2020    0 recensioni
La casa di Jonathan e quella di Francesca si trovavano una di fianco all'altra e, per i loro primi dieci anni, i due ebbero un'ordinaria vita in una piccola provincia californiana, perennemente insieme, tra gelati rubati e gite in bicicletta. L'improvviso trasferimento della famiglia di lei a Milano li tenne divisi per anni, finché Francesca, ormai studentessa di Giurisprudenza con un posto fisso nel cast del Rocky Horror Show del venerdì sera, non ricevette una lettera spedita da una prigione di Los Angeles.
Una storia di amicizia, amore e famiglia capace di sfidare il tempo e lo spazio.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La mattina dopo, a lezione, non riuscivo a concentrarmi. Per tutta la notte non ero riuscita a chiudere occhio, continuavo a rileggere la lettera di Jon ed ogni volta scoppiavo a piangere. E la voce calda del professore che ci spiegava la distinzione tra delitti e contravvenzioni non riusciva a catturarmi com'era solita a fare. Ero seduta come sempre in ultima fila ed, in una classe di duecento persone, si passava facilmente inosservati. Come molte aule universitarie, quella in cui mi trovavo era ad anfiteatro, i pavimenti e le bancate erano in legno ed ogni minimo scricchiolìo era ben udibile in tutti gli angoli. Perciò, quando Riccardo entrò e si mise a correre per le scale per sedersi accanto a me, il suo ritardo non passò inosservato al professore che non esitò a riprenderlo:

-La prossima volta che arriva in ritardo, signore, è pregato di rimanere direttamente fuori dall'aula.

Riccardo, col fiatone, posò lo zaino accanto al mio e con il tono più cortese che potesse usare rispose:

-Mi scusi professore, ho trovato fila in metropolitana.

Vivere in una metropoli come Milano dava sempre ottime scuse per l'essere in ritardo, i mezzi erano effettivamente sempre affollati.

-Hai perso ancora tempo per stalkerizzare quel povero ragazzo, vero?-gli sussurrai quando finalmente si sedette.

Si ravvivò i suoi boccoli castani e mi strizzò l'occhio.

-Mi conosci troppo bene. Oggi indossava dei jeans più attillati del solito ed ho potuto ammirare le sue gambe perfette.

-Ci attaccherai mai bottone?

Riccardo era la persona più estroversa che conoscessi, proprio grazie a lui avevo conosciuto molti ragazzi con cui poi avevo finito per uscire insieme.

-Solo se ci sarai tu a farmi da spalla-mi sorrise.

Lo conoscevo solo da tre anni, ma era diventato già uno dei miei migliori amici. Apertamente gay e profondamente di sinistra, passavamo pomeriggi interi al Parco Sempione a suonare inni pacifisti alla chitarra e ad ammirare i ragazzi che facevano jogging.

-Ma hai dormito stanotte? Hai delle occhiaie assurde-notò.

-La verità è che ho passato la notte a ripassare le battute del Rocky Horror Show-mentì spudoratamente.

-Ma dai, sono sicura che sarai una bravissima Janet, come ogni venerdì sera!

Dopo un anno passato in Erasmus in Danimarca, quando ci eravamo finalmente rivisti a settembre, mi aveva convinta a fare le audizioni per entrare a far parte della compagnia che ogni venerdì sera metteva in scena il Rocky Horror Show in un piccolo cinema alternativo di Milano. Nessuno dei due pensava venissimo presi sul serio ed invece lui ottenne la parte di Frank'n'Furter ed io di Janet Weiss.

Sperando che Riccardo rimanesse concentrato sul suo portatile, accesi il mio e mi misi a fare un po' di ricerche. Dovetti usare un VPN per collegarmi alle pagine web statunitensi, così da trovare più informazioni possibili. Cercarlo sui social sarebbe stato inutile, ci avevo già provato troppe volte negli anni senza successo. Digitai il nome completo di Jon, Jonathan Michael Forrester, accanto a Metropolitan Detention Center e trovai subito la pagina che cercavo. Il sito della prigione collezionava i rapporti di tutti i detenuti e li pubblicava su Internet con tanto di foto segnaletica. E così finalmente rividi il volto, ormai adulto, di Jon. La genetica era dalla sua parte: suo padre Elias di origini irlandesi e scozzesi, biondo con gli occhi azzurri, e sua madre Grace in parte irlandese ed in parte nativa americana. E così lui si ritrovava grandi occhi occhi azzurri leggermente a mandorla, lisci capelli castano scuro che ricadevano lunghi sul collo, la pelle chiara e poche lentiggini sparse in volto. I tratti erano regolari, le labbra carnose come ricordavo. Dovetti trattenere l'istinto di mostrare la sua fotografia a Riccardo come ero solita a fare con le foto di qualsiasi altro bel ragazzo che trovassi su Instagram. Ad ogni modo era sempre lui, lo stesso volto che aveva da bambino, solo più maturo. Accanto alla foto segnaletica, erano elencate le sue generalità: nome e cognome, data e luogo di nascita, colore dei capelli e degli occhi. Finalmente in fondo alla lista trovai quello che cercavo. Trattenni il fiato mentre lessi che Jon era stato condannato due anni prima, a soli diciannove anni, per spaccio di marijuana, ma che, avendo osservato una buona condotta impegnandosi addirittura a seguire dei corsi online alla Facoltà di Architettura della UCLA, gli avevano recentemente accordato il rilascio anticipato al prossimo marzo a partire dal cui sarebbe rimasto però in libertà vigilata per almeno un altro anno. Continuando a ripetermi che c'erano reati ben peggiori, cercai la pena prevista dal sistema statunitense per lo spaccio di droga: non più di cinque anni di reclusione per lo spaccio di marijuana. Se Jon veniva rilasciato dopo soli due anni e mezzo voleva dire che doveva aver dimostrato un comportamento esemplare. Aprì una nuova pagina e digitai il suo nome completo su Google, per vedere cos'altro potevo trovare. Cliccai sulla pagina della Elsinore High School, la scuola superiore di Wildomar, e mi apparve una sua nuova fotografia, quella volta sul campo di football, con l'uniforme bianca e rossa addosso ma senza il casco. Era più o meno lo stesso ragazzo che compariva sulla foto segnaletica, aveva solo i capelli leggermente più lunghi. La pagina era interamente dedicata a lui, studente d'onore dell'ultimo anno, dov'era riassunta la sua impeccabile carriera scolastica: massimo dei voti, quarterback della squadra di football e membro anche della squadra di calcio, Jon si era inoltre distinto per il suo altruismo, impegnandosi in svariate attività di volontariato. Un vero all-American. Il mio cuore perse un battito quando lessi che era stato accettato alla Facoltà di Legge dell'Università di Yale. Lontana anni luce dalla Facoltà di Architettura della UCLA che aveva finito per frequentare.

Perché un ragazzo così promettente era finito dietro le sbarre?

Proseguendo nel mio stalking mattutino, aprì una nuova pagina e digitai il nome completo di Elias. Mi apparve subito il suo manifesto funebre, l'obituary, un'intera dedica resagli al momento della morte. Elias veniva descritto come un uomo buono, lavoratore, onesto e sincero. Un buon padre di famiglia ed un buon marito, offuscato purtroppo dalla morte della sua Grace, alla quale però si era finalmente ricongiunto. Lasciava indietro i suoi due golden boys, com'era solito chiamarli, Jonathan e James, che ormai erano diventati uomini di cui andare orgogliosi. Accanto alla dedica, era apposta una sua fotografia: un suo primo piano, degli alberi sullo sfondo. Rispetto alle fotografie che conservavamo in casa, sembrava invecchiato di trent'anni. Profonde rughe gli solcavano la fronte chiara, i capelli che una volta erano folti e biondi erano diventati grigi e radi e, sebbene le labbra erano dischiuse in un sorriso, i suoi grandi occhi azzurri erano spenti. Forse avrei dovuto provare un minimo di soddisfazione nel vedere quella pagina, nel sapere che l'uomo che aveva terrorizzato i miei sogni finalmente non era più in vita, ed invece provavo solo una grande tristezza. Per l'uomo che era una volta, l'uomo che non esitava ad aiutare il prossimo, l'uomo che aveva accolto la mia famiglia a braccia aperte e che li aveva fatti sentire a casa anche dall'altra parte del mondo, l'uomo che i miei avevano scelto come padrino per mio fratello. E per Jon e Jim, capitati in quella sventurata famiglia che una volta sembrava essere così perfetta. Dovetti trattenere le lacrime per non insospettire Riccardo.

Chiusi quella pagina web e ne aprì una nuova. Dalla lettera che avevo ricevuto, Jon sembrava essere l'unico rimasto della sua famiglia. E Jim? Digitai il suo nome ma non trovai niente di rilevante, solo le pagine gialle che elencavano una lunga lista di James Forrester più o meno della stessa età. Un certo James M. Forrester di diciannove anni appariva residente in Michigan. Avrebbe potuto essere lui, il suo secondo nome era Malcolm.

-Cerchi i tuoi vecchi amici in America?-domandò Riccardo all'improvviso, lanciando uno sguardo al display del mio portatile.

Sussultai, ricordandomi improvvisamente di essere a lezione, e chiusi il motore di ricerca.

-Così, per curiosità-scrollai le spalle.

 

Richiusi la porta di casa il più silenziosamente possibile per non svegliare il resto della famiglia, già a letto, e mi tolsi il cappotto. Avevo passato la serata sui Navigli con Rachele, Etienne e dei loro amici del Politecnico, ma tutti i cocktail che avevo trangugiato non mi avevano fatto dimenticare la lettera. Ormai anche l'annebbiamento provocato dall'alcol stava svanendo e mi ritrovai a lavarmi i denti con un terribile mal di testa. Una volta a letto, cercai invano di addormentarmi ma continuavo solo a rigirarmi, senza riuscire a spegnere il cervello. Il piumone a fiori, sotto di cui avevo sistemato anche una coperta di lana leggera, non riusciva a darmi la sicurezza che solitamente mi procurava.

Spalancai definitivamente gli occhi ed accesi l'abat-jour sul comodino, la luce debole illuminò le pareti rosa pesca della mia stanza. Alzai gli occhi e li posai sulla bandiera della California fedelmente appesa sopra il mio letto. Era arrivato il momento. Mi sedetti alla scrivania e tirai fuori dal cassetto dei fogli su cui scrivere. Avrei voluto usare delle pagine completamente bianche, come aveva fatto Jon, ma tutto ciò che riuscì a trovare quella notte furono dei fogli di carta riciclata a righe. Vintage, pensai. Decisi di scrivere prima il testo sulle note del cellulare, in modo da non rischiare di riempire il foglio di cancellature, e dopo quattro o cinque tentativi, finalmente mi risolsi a copiarlo a mano.

 

Caro Jon,

l'ultima cosa che mi aspettavo di ricevere era una lettera da parte tua, ma, giuro, ne sono stata felice. Ti ho pensato molto negli ultimi anni e mi sono pentita innumerevoli volte dell'ultima lettera che ti scrissi. Come hai detto tu, un motivo c'era, ma non attribuire tutta la colpa a tuo padre. Quella è stata probabilmente solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Qui a Milano non riuscivo ad ambientarmi. In classe ero La Straniera, nonostante conoscessi la lingua, avessi un nome italiano ed avessi trascorso ogni estate della mia infanzia dai nostri parenti nel sud Italia, non riuscivo ad integrarmi. Non conoscevo le canzoni che loro cantavano, non guardavo i film che loro guardavano, persino i cartoni animati con cui sono cresciuta – o meglio, con cui siamo cresciuti – erano diversi dai loro. Venivo costantemente emarginata. Ricordi quando venisti a prendermi all'aeroporto l'estate dei nostri undici anni, l'ultima estate che passammo insieme, e rimanesti sorpreso dal mio taglio a caschetto? Avevo sempre portato i capelli lunghi, ancora oggi li porto così, e non riuscivi a credere di come mi fossi convinta a tagliarli fino a sopra le spalle. Avevo risposto che volevo cambiare un po'. Ma non era stata una mia scelta.

Ero riuscita a farmi degli amici ma non frequentavano la mia stessa scuola.

E poi sì, successe quel che successe. Tornata a Milano stavo male, a malapena mangiavo, ogni mattina convincermi ad andare a scuola era un'impresa e la notte non riuscivo a dormire. Non avevo raccontato a nessuno quello che era successo ed i miei erano così preoccupati da volermi mandare da uno psicologo, ma avevo paura che, andandoci, sarebbe saltato fuori quello che volevo tenere segreto. E così ho deciso di agire da sola. Dovevo star meglio e dovevo liberarmi di tutti i ricordi negativi. Dovevo ambientarmi in Italia, in um modo o nell'altro, e non potevo rimanere legata ai nostri bellissimi ricordi di infanzia. E così tagliai fuori della mia vita proprio l'amico più caro che avevo, tu.

Le cose cominciarono a funzionare ed al liceo riuscì a costruirmi una rete sociale ed ad accettare la mia nuova vita a Milano, anche a farmela piacere. Ma non ti ho mai dimenticato, di questo puoi esserne certo. Quando a quindici anni i miei genitori mi permisero finalmente di iscrivermi a Facebook, provai subito a cercarti ma senza successo. Ci ho riprovato più e più volte, con tutti i social network a cui sono iscritta, ma non sono mai riuscita a ritrovarti. Certo, ricordavo il tuo indirizzo – che era stato anche il mio, a parte il numero civico – ed il vostro numero di telefono ma non ho mai avuto il coraggio di chiamare o scriverti. Sono contenta che tu sia stato più coraggioso di me. Che tu mi abbia scritto da una prigione non cambia affatto il ricordo che ho di te e mi piacerebbe riprendere i rapporti, se a te fa piacere.

Ci tengo a dirti che non ti ho mai ritenuto responsabile per quello che è successo. La scelta di interrompere i rapporti, come hai visto, è stata dettata dal mio desiderio di stare meglio, non dalla mia rabbia o dal mio risentimento nei tuoi confronti. So, e sapevo anche allora, che non avresti potuto far niente per impedirlo. Eri solo un ragazzino e tuo padre era gigante.

Della sua morte mi dispiace sinceramente, nonostante quello che mi ha fatto, non posso dimenticare l'uomo che è stato per tutta la nostra infanzia: il padrino di mio fratello e come un secondo padre per me.

Anche io ti auguro il meglio e sono certa che, in qualunque brutta situazione ti sia cacciato, riuscirai a risollevarti a testa alta. Sei tu che mi rimanevi accanto quando io prendevo la febbre e non potevo uscire a giocare fuori, sei tu che ti sorbivi High School Musical pur di non lasciarmi sola a letto.

Nella tua lettera non hai parlato proprio di Jim, ma spero stia bene.

Spero di sentirti presto,

Tua,

Francesca.

 

PS: I miei genitori non sanno niente della lettera, so mantenere un segreto. Anche se sono sicura che, come me, non ti guarderebbero mai con occhi diversi.

PPS: Sì, sei ancora autorizzato a chiamarmi silly e lo sarai sempre.

 

Sperando che la lettera non fosse eccessivamente personale, la misi in una busta su cui scrissi l'indirizzo del Metropolitan Detention Center e mi raccomandai di spedirla il giorno seguente.

 

 

  
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