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Autore: LilithGrace    15/04/2020    1 recensioni
"Ci sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare".
(Oriana Fallaci)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dick Grayson, Jason Todd, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Piansi tutta la notte, così tanto da avere difficoltà a prendere sonno.
Mi alzai più di una volta cercando di scacciare via quella morsa di malessere che in passato ero riuscita a confinare in qualche angolo remoto del mio cervello.
Mi trovai a fissare la parete del mio piccolo salotto, pieno di foto: ce n’erano di mie da piccola, del periodo liceale ed anche quello universitario.
In particolare mi soffermai su una piccola polaroid che avevamo scattato io e Jolyne, ad una festa scolastica. Jolyne era la Jolene di Dolly Parton: capelli ramati, occhi verdi e risata cristallina…. Insomma, i genitori non potevano scegliere nome migliore per lei.
Frequentavamo insieme il corso di scienze e ricordo ancora che quel giorno fu proprio l’ultima lezione che avevamo seguito prima di precipitarci a casa sua, emozionate per la festa d’istituto. Perdemmo l’intero pomeriggio a vedere video sul pc senza preoccuparci di poter far tardi…
poi una telefonata, Jonathan.
Da lì a poco sarebbe arrivato da noi e saremmo andati insieme a scuola.
Tra varie risate e imitazioni di quel che avrebbe potuto dire il poverino, indossammo in gran fretta i nostri abiti scelti accuratamente, per fortuna, quasi una settimana prima: lei indossava un vestito verde di velluto, in tinta con i suoi occhi ed io uno nero, sempre in velluto, con un piccolo scollo a barca.
Quella sera, fu la sera in cui Jason mi baciò la prima volta. Davanti a tutti. Che vergogna.
Era seduto vicino l’ingresso della sala, un po’ nascosto: stava fumando e non era permesso.
Lyn, così la chiamavo io, intravide una sua conoscenza e con la scusa, ci lasciò soli facendomi un occhiolino: era il suo modo per darmi coraggio.
Mi avvicinai e mi fece spazio e mi accomodai accanto a lui.
Non erano servite parole, semplicemente ci trovammo l’uno di fronte all’altro: i nostri sguardi si incatenarono reciprocamente all’altro, Jason lasciò cadere la sigaretta senza neanche spegnerla e a quel punto totale blackout. Con un movimento rapido e deciso, ma delicato, con un braccio avvolse le mie spalle, mentre con la mano libera mi prese una guancia e mi baciò le labbra; schiuse gli occhi cercando un segno d’approvazione da parte mia e poi mi baciò di nuovo… il mio primo, vero, bacio in assoluto.
Ricordo ancora che avevano il sapore di menta e tabacco, erano morbide nonostante le piccole crosticine di quelle ferite che, in fin dei conti, trovavo affascinanti.
Mi trovai a sorridere a quel tenero ricordo; poi il mio sguardo proseguì fino ad una foto con Jonathan, la foto del diploma. Poi ce n’erano altre come quella, sempre con lui o in gruppo: feste, campeggio, piccoli viaggetti e presto sarebbe arrivata anche la nostra foto della laurea. Ormai mancava pochissimo.
In ognuna, nonostante tutto, sembravo allegra.
Ero diventata brava a sorreggere quel peso, a sorridere e a mantenere le apparenze.
“Fanculo”, imprecai ripensando a tutti quei momenti che non ero riuscita a vivere con il massimo della spensieratezza, a tutte quelle volte che ero andata al cimitero a dire una preghiera ad un Dio che non ero sicura esistesse affinché si prendesse cura di Jason, a tutte quelle volte che ero andata a portare un fiore ad una tomba vuota.

Fischiai per richiamare JayJay, avevo bisogno di lui.
Niente.
Lo richiamai più e più volte, decidendomi poi ad alzarmi e tornare nella mia camera da letto: lo trovai sul letto accoccolato sulle gambe dell’ultima persona che avrei voluto incontrare in quel momento.
“È violazione di domicilio e lesa privacy, sai?”, incrociai le braccia al petto con fare spazientito.
“Il tuo cane non è un buon cane da guardia, o sbaglio?”
“No, non lo è. Ed ora se non ti dispiace, vorrei rimanere sola con lui”, così dicendo schioccai le dita e il cane mi raggiunse in un batter d’occhio, scodinzolante.
“Fai quello che devi fare, sono solo venuto a riposarmi un po’”, si distese sul letto, “ho avuto un gran da fare prima”
“Chissà chi altri hai minacciato…”
“Peggio”
“Ma davvero credi che voglia darti asilo? Ma sei fuori di testa? Non costringermi a chiama—” mi interruppe piuttosto bruscamente, scattando in piedi.
“Chi vorresti chiamare? Jonathan, Dick, Batman o magari il nuovo piccolo Robin?”
Rimasi in silenzio, effettivamente aveva ragione. Odiavo quando aveva ragione.
Tornai sul divano insieme a JayJay, maledicendo il ragazzo.


Era notte inoltrata ed ero piuttosto stanca di arrangiarmi a casa mia sul divano.
Ero decisa più che mai a svegliare il mio ospite per mandarlo via.
“Senti, è ora che tu vada…”, dormiva profondamente.
Mi accomodai accanto a lui e mi presi tutto il tempo per studiare i lineamenti del viso e del corpo accontentandomi di pochi raggi lunari: la pelle era segnata da tante piccole cicatrici non troppo evidenti, era alto, aveva il fisico massiccio di chi si era allenato duramente per anni.
Poggiai istintivamente la mano sul suo viso, incurante del fatto che avrebbe potuto reagire istintivamente.
Sospirò ed aprì lentamente gli occhi.
Si sollevò a mezzo busto.
Ci osservammo, proprio come quella sera.
Distolsi lo sguardo solo per qualche istante, giusto il tempo di togliergli quell’insulsa maschera che indossava sotto il casco.
A parole non eravamo mai stati troppo bravi, neanche da ragazzini.
Ci guardammo negli occhi e passai entrambe le mani tra i suoi capelli, mentre lui intrecciò le sue dita tra i miei.
Le nostre labbra si toccarono nuovamente dopo tanto, ma avevano lo stesso sapore di allora; i nostri baci erano caldi e bollenti. Sapevano di occasioni mancate, tempo perso, di amore ed anche di rabbia. Noi, chi per un motivo chi per un altro, eravamo sempre arrabbiati e forse era questo che ci legava: ci capivamo più di chiunque altro.
Ci spogliammo famelici di scoprire ogni angolo del nostro corpo perché, in fin dei conti, non avevamo avuto modo: le sue labbra percorsero perfettamente i contorni del mio viso, scendendo lentamente lungo le linee disegnate dalla mia stessa muscolatura tesa sino alle clavicole, che accarezzò con la punta del naso.
Mi guardò dal basso, ancora una volta, cercando un mio segno di approvazione.
Mi morsi un labbro istintivamente e lui ne colse perfettamente il significato proseguendo il suo viaggio di perlustrazione sino ai seni. Sentivo le sue mani su di me, su ogni angolo, anche quello più remoto: volevo abbandonarmi a quella piccola follia, il mio unico assaggio di un ricordo ormai marchiato a ferro nel mio cuore e nella mia mente; aprii leggermente le gambe, accogliendolo tra esse e lasciai che la mia fantasia ci riportasse indietro nel tempo e permetterci di vivere quell’momento a quando eravamo poco più che adolescenti, quando meritavamo di vivere la nostra prima volta.
  
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