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Autore: Evil Daughter    17/04/2020    10 recensioni
Oltre ad essere rozza sei priva di delicatezza.
Pensò Vegeta. Dedicandole l’accusa.
Piegò le labbra in giù, fece maggiore pressione e l’ago schizzò fuori portandosi dietro una scia di sangue annacquato.
Ripensò al ricovero in ospedale, rimembrava ogni particolare; almeno da quando aveva riaperto gli occhi. Alcuni dettagli li avrebbe cancellati volentieri. Altri no, sedimentavano. Lo mettevano davanti a diversi interrogativi. Lei lo aveva salvato.
E sai come sprecare il tuo tempo.
Un pensiero ancora rivolto a lei.
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Vegeta? Un folle omicida. Ma Bulma lo sa bene: mai fermarsi a giudicare unicamente la coda del mostro.
La belva deve essere sempre osservata nella sua interezza.
Periodo trattato: triennio antecedente ai cyborg.
INIZIO RELAZIONE TRA BULMA E VEGETA. STORIA ILLUSTRATA.
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Nuovo capitolo, 18: PROGENIE SEGRETA SOTTO LAMPI DI GUERRA.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Dr. Gelo, Vegeta, Yamcha | Coppie: Bulma/Vegeta, Bulma/Yamcha
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'ARANCE MARCE: Bulma e Vegeta, sbagliati e quindi veri.'
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Capitolo IX - Organizzare un omicidio in una camera iperbarica. Amore a parte, senso civico ovunque. 

 

“L’hanno portato via, cara, non abbiamo potuto far nulla, non ci hanno fatti avvicinare.”

Aveva detto il signor Brief alla figlia. Bulma non riusciva a cancellare l'immagine di sua madre che soffocava i singhiozzi premendo contro il viso un fazzoletto bianchissimo in forte contrasto con la cenere che cadeva ovunque come prillanti coriandoli lanciati ad una festa.

Il fato era stato tanto generoso con lei quanto arido con Vegeta. Cos’era il contrappasso? Una legge fisica. Se le avessero posto il quesito, avrebbe saputo cosa rispondere, ma non chi ringraziare.
Tossì. Non si era preoccupata di coprirsi la bocca, aveva respirato molto fumo. La sirena intanto ululava roteando senza sosta il suo occhio di luce rossa. Lei doveva vomitare.
Ricordi cosa pensasti un mese fa?
Il saiyan è un negletto; se sparisse, non se ne accorgerebbe nessuno.
È colpa tua.
Rammentava la coscienza.
L’entusiasmo che l’aveva accompagnata fino a West City era sfumato nell’aria, arso nelle fiamme; la libertà poco assaporata, nella chiara e arridente cognizione di dovere nulla a Yamcha, da entusiasmante consolazione si era rovesciata in una ferita in suppurazione. 
«Signora Brief, stiamo per arrivare, dovrà seguirci subito in Pronto Soccorso», disse il medico a bordo, la scienziata non rispose. Sentiva i suoi vestiti puzzare di bruciato. Il fuoco forse le aveva ridotto Vegeta in qualcosa di irriconoscibile e poi... Divenne pallida: c’era una domanda repentina che la tormentava: perché i soccorritori avevano urlato? Gridato come se avessero dovuto proteggersi?

“Respira, respira!
A-Aahrg!
Oh, mio Dio, fermatelo!
Aiuto, fermatelo!”

Cosa era accaduto a Vegeta?

«Se non si sente bene, possiamo trasportarla in barella.»
Parlò ancora il medico, Bulma trasalì, non si era neppure accorta che l’ambulanza si era fermata. E non si mosse.  Restò seduta, sprofondata nell’atassia: le sue gambe erano giunchi secchi pronti a spezzarsi al primo passo. Tentennò. Prendere a calci quel pompiere che non l’aveva fatta passare, salvandola dalle fiamme ma impedendole di vedere il saiyan, l’aveva sfinita.
«Portate qui la barella, non ce la fa!», ordinò il medico ai suoi uomini. I diligenti soccorritori si mossero solerti per costringerla a stendersi sulla portantina. Quando uno di loro la sfiorò, Bulma si sottrasse ferocemente: «Fermi! Non toccatemi! – alzò la voce, Vegeta era giunto in ospedale prima di lei, non lo vedeva, glielo stavano nascondendo – Lasciatemi!»
«Signora, deve calmarsi! Comprendiamo la situazione, ma non ci hanno ancora comunicato se sarà possibile-»
«È lei! È arrivata! Quella è Bulma, la figlia del dott. Brief!»
Il medico venne interrotto, tutti si girarono: c’era un’armata di giornalisti inferociti assediata all’ingresso dell’ospedale; e qualcuno aveva appena riconosciuto la scienziata e stava barbaramente incitando gli altri a muoversi per assalirla. L’opinione pubblica purtroppo si era scatenata: l’incidente aveva gettato nel panico l’intera Città dell’Ovest, mettendo in fuga più di un quartiere a causa dei fumi velenosi e del grande incendio ch’era divampato; avere uno scatto testimonianza della proprietaria artefice dell’accaduto, magari ferita, sarebbe stato sciacallo, ma succulento per accompagnare i già vociferati titoli di prima pagina che avrebbero capeggiato infami sui quotidiani locali e non:

La Capsule Corporation brucia, l’ennesima follia Brief colpisce la città; Fermiamoli! West City non è un laboratorio!

I dottori però si comportarono bene: riuscirono a salvare Bulma bloccando in tempo l’indomita orda di giornalisti; le fecero attraversare velocemente il Pronto Soccorso sottraendola agli scatti repentini delle reflex dalle grandi lenti vogliose di immortalarla, e la mescolarono a un immenso campionario di urgenze e lunghe attese. Bulma si arrese, affidata ad un’infermiera si lasciò trasportare tra lenzuola, piedi, tubi, polsi, aghi, flebo. Si guardava intorno alla ricerca di lui, con inquietudine, e sollievo quando non lo riconosceva in alcuno dei degenti incontrati nel nosocomio.
«Attenda qui, le farò cenno quando e se sarà possibile farla entrare.»
Disse l'infermiera, che sino a quel momento non si era degnata di elargire a Bulma alcuna parola o frase rassicurante.
L’infermiera sparì dietro una grande porta smerigliata, lasciandola sola. Sopra la porta era infissa l’insegna della rianimazione. Impossibile non notarla. Rianimazione: rossa, luminosa, incisiva in un ambiente totalmente bianco. No, quelle tinte non avevano nulla di rassicurante e di liberatorio, non come lo erano state per la scienziata sull’isola del Genio. Difficile sostenerne la vista, l’ingresso sarebbe stato foriero di brutte notizie. Bulma si voltò provando a concentrarsi su altro, le finestre. Ne trovò una lunga fila alle sue spalle, percorrevano il lato sinistro del reparto, lei si affacciò. Davano su un cortile interno all’ospedale: desolato, non c’era nessuno; così, i suoi occhi andarono oltre il perimetro della struttura, verso le luci lontane di West City, e la vide, poteva scorgerla laggiù, la Capsule Corporation, la sua casa, che ancora albeggiava di fuoco, visibilissima in quella notte tremendamente buia.

D’un tratto, le sembrò di sentire qualcuno muoversi alle sue spalle, forse era l’infermiera di ritorno; ma quando si girò, trovò l’ingresso alla rianimazione ancora chiuso, ancora inaccessibile, sempre più allarmante. Un brivido la percorse in ogni particella del corpo, finendo per accumularlesi nello stomaco. Aveva paura. Oltre a lei, la sala d’attesa era vuota e il corridoio alle sue spalle deserto. Di Vegeta nessuna notizia. Eppure, si sentiva come spiata. Oppressa in mezzo a una trincea. In trappola. 
E quaranta minuti trascorsero lenti, altri cinque in più parvero incepparsi; solo dopo l’infermiera tornò facendo capolino dalla porta.

«Ora può venire, il Primario la attende.»

Il cuore riprese a batterle forte, Bulma attraversò l’ingresso del reparto quasi ne fosse risucchiata. Avanzò guardinga nella terra di nessuno, ed eccolo, il dottore stava in mezzo al corridoio stretto e lungo che gravava in una penombra azzurro grigia. Era alto, magro, sembrava incarnare lo stesso punto esclamativo spaventoso con cui la scienziata aveva gridato il nome del saiyan, così tante volte da squarciarsi la gola, ingoiando pezzi di vetro ad ogni urlo.
In quello spazio asettico, l’odore forte del disinfettante era terribilmente aggressivo da graffiarle i polmoni.

«Signora Brief, molto piacere, sono il Primario dell’ospedale responsabile del reparto di anestesia, rianimazione e chirurgia. Lei è la moglie?»

Il dottore la accolse prima ancora che Bulma potesse pronunciarsi, la accolse e la frastornò.

Moglie?

Avrebbe ottenuto quel titolo se fosse rimasta accanto a Yamcha, per questo la parola non le piaceva. Ma adesso, lo stesso termine assumeva un significato diverso, straordinario, performativo, le conferiva una sorta di potere. Consorte del saiyan era un appellativo delizioso per la fame dei suoi sogni. Però, il dottore aveva detto lei è la moglie?, non solo moglie, la domanda intera stonava melodrammatica, era sottinteso che il primario stava riferendosi a Vegeta, ma nei panni del paziente, del ferito, malato, morto.
Era morto?

«I-io...», tartagliò.

«Quello è suo marito? Lei è la moglie?»

Il dottore ripeté nuovamente la domanda e le indicò con la mano inguantata nel lattice la stanza davanti a loro. Bulma seguì la direzione del braccio teso vestito in camice bianco. La traiettoria andava oltre una parete trasparente, la cornice scialba di un triste scenario. E il colpo agli occhi arrivò, la prese in pieno, come una palla da bowling lanciata contro la sua fantasia e la sua speranza fattesi cristallo. Finì per fracassare entrambe: il saiyan era lì, distrutto, e lei non era la moglie.

«Vegeta!»

«Si fermi! Non può entrare!»

Severo il dottore. Bulma lo guardò supplichevole, aveva gli occhi già colmi di lacrime.
«Sono sua moglie, mi lasci andare da lui... »
«Mi dispiace, durante la prima fase della rianimazione non sono ammesse visite, e comunque, ho bisogno di parlarle, Signora.»
Il primario la invitò ad avvicinarsi per poter conversare in modo tranquillo. Bulma, tornando ad una adeguata distanza utile all’ascolto, tentò inutilmente di tenere lontana l’evenienza che l’avrebbe portata ad essere presto la vedova. Vegeta era irriconoscibile.
«Suo marito è stato fortunato, i soccorritori sono intervenuti immediatamente, salvandolo dall’incendio. C’è stato un forte boato, una brutta esplosione, di certo è stato il peggior incidente mai avvenuto all’interno dei vostri stabilimenti. Tornando a quel che mi compete, io mi limito a misurare i danni presenti sul corpo delle persone e come avrà visto sono arrivati in ospedale molti fra quelli rimasti intossicati – il dottore fece un sospiro, preparò la voce per argomentare il resto – per quanto riguarda suo marito, siamo riusciti a bloccare una emorragia esterna
. Nonostante, egli ha perduto molto sangue. Per questo stiamo eseguendo una trasfusione, ergo, stiamo tentando di eseguire una trasfusione perché... Come posso spiegarle...  Suo marito possiede un gruppo sanguigno inesistente, sconosciuto. E non sappiamo come sia possibile. Stiamo provando lo zero rh negativo, di maggiore compatibilità e con poche possibilità di rigetto... – altra pausa, il medico primario osservò attentamente Bulma, dopo, riprese – sfortunatamente, a gravare sulle condizioni del suo coniuge c’è anche una severa intossicazione da monossido di carbonio che gli sta provocando una grave insufficienza respiratoria. Stiamo procedendo con l’ossigeno terapia, tuttavia, non le nego che potrebbe essere previsto un trattamento nella camera iperbarica.»

Guardalo, sembra dormire profondamente.

«Signora?»

Lei era rivolta al dottore, ma il suo sguardo sfuggiva verso Vegeta.

Hai mai visto un saiyan in quello stato? Mortalmente inoffensivo, non trovi?

«Signora Brief?!»

Bulma non rispondeva. Ascoltare il dottore era sfiancante, ogni parola diventava un pugno, la scienziata non faceva in tempo a riprendersi che le arrivava addosso l’ennesimo gancio, senza però avere la possibilità di cadere al tappeto e porre fine alla continua tortura. Il peggio doveva ancora arrivare e il primario, ne era convinta, si stava trattenendo.

«Dottore, se c’è la cattiva notizia, smetta di evitarla.»

Bulma non era stupida. Il medico ne restò sorpreso e interdetto. Dopo, si guardò intorno e facendosi più vicino alla scienziata proseguì a parlare:

«D’accordo. Non ci girerò intorno, c’è una domanda imprescindibile che devo farle: suo marito, e la prego di essere sincera, ha mai manifestato un comportamento violento?»

Come, prego?

Odiava avere ragione quando i presentimenti affioravano infausti. Ma questa, decisamente, non se l’aspettava.
Per un breve attimo, le ballarono davanti i ricordi: Vegeta, il suo arrivo da saiyan conquistatore, la Terra aveva tremato a causa sua; Namecc: l’affascinante ragazzo tramutatosi in un viscido mostro, Vegeta lo aveva trafitto con un sol pugno e fatto esplodere. Poi c’era una cicatrice sul suo ginocchio destro. I soccorritori che urlavano.

È un saiyan, comportamento violento è relativo.
Dottore, scommetto che nessuno la ha mai accusata di essere un macellaio, eppure incide la carne, la ricuce, asporta, anastomizza...

Sarebbe stata la risposta, tuttavia, l’istinto le suggeriva che in quella sorta di psicoanalisi che il medico primario stava tentando di iniziare, ci stavano rientrando anche le sue reazioni. Curioso sarebbe stato scoprire perché il dottore fosse passato dal parlare della salute di Vegeta al chiedere giudizi e chiarimenti sul comportamento del saiyan.

«Cosa sta cercando di dirmi?!», esclamò Bulma, bellamente incredula.

«Signora, le condizioni di suo marito sono stabili, non deve preoccuparsi, però vogliamo capire ed essere certi che si sia trattato solo di un caso, ed escludere la possibilità che suo marito possa essere un pericolo per lei e per gli altri.»

Un saiyan può essere un pericolo per chiunque, basta non farlo arrabbiare.

«Dottore, non sto capendo nulla, sono preoccupata, agitata, probabilmente sull’orlo di una crisi di nervi e lei continua a farmi domande strane quando dovrebbe solo darmi risposte e rassicurarmi!»

«Perfetto. Non mi dilungherò ulteriormente. Mi ascolti molto bene: suo marito ha spezzato un braccio e ha spaccato la mascella a due dei barellieri che lo hanno soccorso.»

Così aveva senso, eccome, doveva immaginarlo. Era stato Vegeta a farli cantare.

Si sentì sollevata, non si trattava di altre brutte notizie per lui, ma stette attenta a non darlo a vedere. Infatti, non fiatò; e il dottore, interpretando il silenzio come una conseguenza allo shock, continuò ad accusare Vegeta: 
«I soccorritori hanno detto che non voleva farsi toccare. Quando i pompieri l’hanno portato via dalla fiamme, era in un forte stato confusionale, certo, ma nonostante le gravi condizioni, suo marito è riuscito lo stesso a... be’, dovrebbe fare una visita al reparto di chirurgia qui a fianco, e vedere in che stato li ha lasciati. Uno di loro rischia di perdere il braccio... Non glielo nascondo, volevamo avvisare immediatamente la polizia, non l'abbiamo fatto perché sapevamo che c'eravate di mezzo voi della Capsule Corporation. Ma la prego di essere sincera. Glielo domando ancora una volta, può confermarmi che suo marito non ha mai avuto comportamenti violenti?»

Statica come una statua, lapidata dal dottore, Bulma era incerta sul da farsi: l’intervento della polizia sarebbe stato un grosso problema. Non c’era da sperare che da quel dì la faccia di Vegeta non fosse stata registrata negli archivi segreti della sicurezza mondiale; due alieni che arrivano dallo spazio e commettono una carneficina non si dimenticano facilmente.
La scienziata era stanca. Il primario no, con le domande, le illazioni moleste, l’atteggiamento ostile, le sbatteva in faccia un ragionamento pari a quello che gli amici avevano sfoderato contro di lei, ed accadeva nella medesima serata. Sembrava che tutti si fossero messi d’accordo al fine di intralciarla. Si sentiva minacciata.

Bulma osservò meglio il dottore, ripensò a quanto le aveva detto poc’anzi sull’inesistenza del gruppo sanguigno di Vegeta. No, non le ispirava fiducia, doveva liberarsene, non avrebbe abbandonato suo marito nelle mani dei medici: polizia a parte, prima o poi, questi si sarebbero accorti che la temperatura perennemente alta che egli aveva non era dovuta a febbre da infezione, bensì, era la normale temperatura del saiyan; e che sul fondoschiena Vegeta non aveva una cicatrice ma l’inizio di una coda di scimmia. 
A tutti i costi, la scienziata avrebbe impedito che lo usassero come un interessante campione di studio. Vegeta non era la loro cavia!

«Può stare tranquillo, Dottore, mio marito non mi ha mai sfiorata, nemmeno con un dito, avrà reagito d’istinto, vede, è un esperto di arti marziali, sarà stato un tentativo di difesa. Lo ha detto pure lei: era in uno stato confusionale... Però, mi dica almeno che non è in coma!»
Neppure lei sapeva da dove era riuscita a tirar fuori tanta persuasiva loquacità. Era allo stremo e non aveva un buon odore, sembrò comunque venderla bene, il dottore parve rasserenarsi.
«Coma farmacologico – rettificò prontamente il primario – per motivi legati alla prognosi, oltre che alla sicurezza. Era un obbligo per noi avere la certezza che una volta sveglio suo marito non avrebbe fatto del male a nessuno.»

Lo tenete a nanna, quindi.

«E quanto crede che ci metterà a riprendersi?»
«Mi astengo dal risponderle, non voglio illuderla, per il momento bisognarà aspettare.»

Intende, il tempo necessario per effettuare le giuste "analisi", Dottore?

Bulma non si fidava. Non era un medico, però, da scienziata sapeva riconoscere la febbricitante euforia che si celava dietro gli occhi grigi del primario, una specie di ebbra follia che pregustava anche lei nel momento in cui comprendeva di aver fatto una scoperta eccezionale o di aver creato qualcosa di straordinario.

«Signora Brief, se per questa notte vuol rimanere in ospedale, non ci sono problemi, avviserò il personale paramedico, ma come le ho già detto, non potrà entrare, per cui devo chiederle di seguirmi fuori.»

Non c’era molto da fare, la scienziata dovette arrendersi, momentaneamente.
Rammaricata, diede un ultimo sguardo a Vegeta, lo accarezzò con gli occhi, non poteva toccarlo.

Ti prometto che ti porterò fuori di qui, resisti!

 

 

 

Il medico primario se ne andò lasciandola nella sala d’attesa del reparto.
C’erano solo sedie su cui appoggiarsi, scomode.  Ma così esausta, Bulma sarebbe crollata persino su un tappeto di chiodi. Non avrebbe comunque chiuso occhio,  doveva escogitare un piano per far uscire Vegeta da lì, in salute possibilmente, senza effetti collaterali causati da strane sperimentazioni. E prima che fossero riconosciute la faccia del saiyan e la sua provenienza aliena.

Non stai dimenticando qualcuno?

Giusto, pensò fosse arrivato il momento di contattare i suoi genitori, non si era nemmeno preoccupata di avvisarli e chiedere loro come stessero. Quando prese il telefono, però, Bulma notò che sul display del cellulare appariva un’allarmante notifica: trentadue chiamate non risposte, da parte di Yamcha.

Per esempio lui.

Non ne rimase sorpresa, la scienziata semplicemente non si spiegava il perché di tutte quelle telefonate. Era talmente avanti con la testa che oramai lo spilungone non alloggiava più in alcuna delle sue preoccupazioni. Doveva ufficialmente lasciarlo, questo sì, comunicargli il nuovo status di libero scapolone. Gli faceva un favore. Lei non era arrabbiata, semmai anestetizzata a qualunque emozione. Interagire con Yamcha in quel momento le avrebbe dato la stessa trepidazione provata nello scrivere un reclamo all’ufficio postale.
Il telefono squillò a vuoto per quattro volte, lo stava chiamando, poi le arrivò una risposta, ma alle sue spalle:

«Bulma! Grazie al cielo, ti ho trovata!»

La scienziata non riuscì a crederci, lui era lì, davanti a lei, sbucato dal nulla con tempismo angosciante. Restò arida di parole, ciononostante, la sua espressione doveva mostrare tanto di quello stupore che Yamcha esplicò presto la sua comparsa.

«Oh, tesoro, la notizia ha fatto il giro del mondo, non ho esitato un attimo e sono partito. Ero passato alla Capsule Corporation, e quando i tuoi mi hanno detto che ti avevano portata in ospedale mi sono precipitato. Ho creduto fossi rimasta ferita! Stai bene, vero?! Non ti sei fatta male?!»

 Ma come ha fatto ad entrare e arrivare qui? I dottori non permettono a nessuno di- No, non ci provare, non avvicinarti!

Yamcha fece per abbracciarla.

«Fermati!», lei mise le mani avanti.

«Che... Che succede?!», lo spilungone era incredulo. Ma già aveva un sinistro dubbio, lo mascherò male.

«Yamcha, posso accettare che tu mi sia venuto a cercare perché ti sei sentito preoccupato per me, però... »

«Certo che sono preoccupato! Sei la mia donna, sarai mia moglie!»

Le aveva parlato sopra, non facendola finire, certificandosi come il classico prepotente.
Nessun problema: Bulma ebbe il tempo di ingoiare saliva e non strozzarsi.

«Appunto, è qui che ti sbagli.»

Era il momento della verità.

«Cos-? Amore, che vuoi dire con questo?!»

Che ti sto scaricando e mi dispiace non avere avuto il coraggio di farlo prima.

Brava! La tua audacia ci piace. Ma dovresti aggiungere che è facile fare i duri quando non ci sono più bambini da partorire. E che immaginarsi essere la moglie di Vegeta è molto più elettrizzante che fingersi la serva di un terrestre infedele.
I dettagli.

La sua coscienza non conosceva mezze misure.

«Yamcha, ti prego, guarda, sono calma e possiamo pacificamente restare amici.»

Amici lontani, lontanissimi.

«Ma di che cavolo stai parlando?!»

Ecco il tono che non le piaceva, alto, autoritario. E a lei toccavano sempre le spiegazioni.
Poteva farla breve: «Ti ho visto in tv e ho visto la ragazza che ti ha baciato, e l’anello. Il mio anello.»
Aveva elencato i dati, sommandoli uno ad uno, tirando fuori un risultato che per Yamcha equivaleva ad un salato conto da pagare.
Lui sorrise beota, cifra esosa. Abbassò la testa e si passò una mano fra i capelli, come da abitudine per far scemare lo stress. Pensò di poterla risolvere, la sua Bulma era solo gelosa. Sì, era meglio non svelarle che averla trovata sana come un pesce non gli era piaciuto, e lo aveva disgustato vederla ad ascoltare il dottore preoccupata per quel bastardo, che di un soffio non li aveva graziati liberandoli dalla sua parassitica presenza.

«Ho capito, posso spiegare.»

«No, è chiaro. Non devi delucidarmi su nulla.»

«Bulma, ascoltami! Non so chi sia quella donna, mi è saltata addosso, sarà forse una mia vecchia fan, io-»

«Non importa, ti ho detto che per me è finita.»

Era diventata pazza?
Poteva trattarsi di un brutto incubo per lo spilungone, suo malgrado, il tintinnio provocato degli orecchini indossati dalla sua donna ricalcava perfettamente il vero: lei articolava le labbra in un continuo apri e chiudi, a seconda delle parole pronunciate, e muoveva il viso accompagnando il modulare del discorso; gli orecchini oscillavano seguendo questa stressante danza facciale. E facevano rumore, un rumore fastidioso. Che andava corretto con un ricordo gradevole: gli orecchini della sua Bulma tintinnavano allegri quando lei continuava ad indossarli mentre lui la piegava contro le sue spinte.

«Quello non era il tuo anello! Sei tu che lo hai perduto!»

«No, Yamcha! Quell’anello te lo sei ripreso e hai montato su questa balla, non so perché l’hai fatto, non voglio saperlo! Possiamo lasciarci senza problemi.»

«Come fai a parlare così?! Bulma, sono io, il tuo Yamcha! Ci sposeremo e presto avremo un bambino!»

«Finiscila! Se tu vuoi continuare a divertirti fai pure, non ti giudico e non ti odio per questo. Ma Yamcha... io non ti amo più.»

L’aveva detto, la dichiarazione precipitò veloce e tagliente come una ghigliottina, che finì a decapitare il sogno ameno di un Yamcha anch’esso acefalo di senno. La scienziata serrava la bocca coriacea, non lo guardava, pensava solo a quanto tempo aveva sprecato e lasciato inutilmente scorrere prima di arrivare ad eseguire quella necessaria esecuzione.

«Bulma... Perché non vuoi credermi? – Stronza, non farmi arrabbiare – È a causa sua, vero?»

Anche per lo spilungone era giunto il momento di propinare quella convinzione lasciata a fermentare nell’odio: il sospetto dall’ombra scimmiesca non se ne ara mai andato.

«Che stai dicendo?»

Si giocava a carte scoperte, ora.

«Lo so, da quando lui è arrivato, tu sei cambiata. Sì, è stato quel saiyan a portarti via da me.»

«Ti sbagli, Vegeta non c’entra nulla, sei tu a non-»

«Guarda come ti piace dire il suo nome! Che bugiarda, perché non me la dici tu la verità?!»

L’ acredine traboccava, sembrava che Yamcha potesse spruzzarla in giro, pari a veleno. 
Bulma indietreggiò come se avesse dovuto evitarne gli schizzi, allontanandosi da lui che le stava camminando contro con le più cupe intenzioni a infestargli il volto.
Pochi passi ancora e si sarebbe trovata spalle al muro.

«Stai alzando la voce, calmati.»

«E che hai paura di svegliarlo? Dai, dimmelo, da quanto va avanti, eh?»

«Non sono affari che ti riguardano, non c’è nulla!»

Lo spilungone non resistette, era accecato dalla rabbia, intasato, tutta quella che non era riuscito a sfogare stava per trovare un buco da cui vuotarsi. Furioso fino al midollo, acchiappò Bulma per le braccia: lei era impazzita, c’era una scimmia nella testa della sua Bulma; la scimmia andava defenestrata. Cominciò a scuoterla per liberarla dal primate alieno.

«Guardami negli occhi e dimmi la verità!»

«Mi stai facendo male! Fermati!»

«Te lo stai scopando vero?!», la scuoteva avanti e indietro, gli orecchini pendenti si scontravano violenti.

«Non ti permetto di parlarmi così!», divincolarsi per lei era impossibile.

«Ti stai facendo sbattere dal mio assassino!», più energico, sconquassandola. Ma la scimmia non usciva.

«Vegeta non ti ha ucciso! Sei tu a non essere stato abbastanza forte da arrivare ad affrontarlo!»

Lo spilungone rimase a bocca aperta, non ci credeva. Bulma, la sua Bulma... faceva schifo, come poteva  difendere quel balordo?
Doveva staccarle la testa.

«Lasciami! LASCIAMI!»

«Che sta succedendo?! – ma un infermiere arrivò in tempo, Yamcha si fermò – Questo è un ospedale, bisogna mantenere il silenzio!»

L’infermiere cercò gli occhi della scienziata.

«Tutto bene Signora?»

«Sì, la Signora sta bene, io me ne stavo giusto andando.»

Rispose lui, impedendo a Bulma di proferire  parola.

«Bene, se ne vada, non sono ammesse visite a quest’ora, la Signora ha un permesso speciale, ma lei non può stare qui.»

Ribadì l’infermiere. Yamcha lasciò andare Bulma, senza smettere di fissarla, a farle intendere che tra loro non era finita. Poi, se ne andò veloce, sbattendo la porta dietro di sé. 
Appena lo vide sparire, la scienziata si lasciò andare sul pavimento tenendosi la testa tra le mani per assicurarsi di averla ancora attaccata al collo.
Crollò tutta la sua resistenza. 
L’infermiere le accorse in aiuto: «Si sente bene?!»
No, non stava bene. Al suo ex era esplosa la bussola e chissà che diavolo avrebbe potuto farle.
«Grazie, non si preoccupi.»
«Se vuole, posso portarle qualcosa di caldo da bere»
L’infermiere aveva intuito il genere di situazione a cui aveva assistito, ma restò discreto.
«No, grazie... Però, la prego – Bulma provò ad avanzare una  richiesta – mi conceda di vedere mio marito, mi lasci entrare.»
La disperazione spesso riusciva a generare consenso, e agli occhi profondi di Bulma era difficile dire di no.
«V-va bene – l'infermiere acconsentì – 
le darò dieci minuti non di più, se ci scoprissero verrei licenziato. E mi raccomando, non tocchi nulla, è di vitale importanza».

 

Nella piccola sala di rianimazione una macchina dava voce al battito del cuore di Vegeta, una eco regolare ma molto lenta, troppo umana.
A lei cadde l’occhio su un tubo che finiva in una sacca che gocciolava liquido rosso. Lui era orribilmente immobile.

Perdonami, se ti fossi rimasta accanto, se avessi lasciato Yamcha sin da subito, forse tutto questo non sarebbe accaduto.

Ah, sì! E come lo avresti impedito? Togliendogli il giocattolo pericoloso?

Le veniva da piangere.

Sei ridicola Bulma.

Vegeta aveva le braccia fasciate, la testa con un enorme cerotto sulla tempia destra, i polsi invasi da aghi e il torace con applicati diversi elettrodi che sembrava ci fosse un insediamento alieno. Altri alieni, e lui così simile ad un uomo terrestre. Debole. Indifeso.
Il resto del corpo era coperto dal lenzuolo.
Bulma si accostò al letto, accertandosi prima che l’infermiere non fosse in procinto di tornare. Sembrava di no. Così, si chinò sul saiyan. La mano di Vegeta era lì, inerme ma caldissima, lo scoprì toccandola. Non era possibile baciarlo, la mascherina per l’ossigeno era una barriera deterrente e fastidiosa. 
Bulma si accontentò: appoggiò impercettibilmente le proprie labbra sulla fronte di Vegeta. In un intimo e segreto contatto. Il primo rubato al saiyan.

 

 

 

~ ~ ~

 

 

Yamcha non era andato via. Attendeva fuori dall’ospedale.
Quando era iniziato a piovere, al fine di non sgualcire il completo dandy che indossava, aveva trovato riparo nella sua automobile. Aspettava di vedere Bulma uscire.

I giornalisti erano quasi spariti, forse qualcuno ancora attendeva al Pronto Soccorso. Ma Yamcha era furbo, sapeva che Bulma pur di evitarli sarebbe uscita da un passaggio secondario. Lui la aspettava nel parcheggio riservato ai medici e posteriore alla struttura ospedaliera.
L’auto era accesa e i tergicristalli ripetevano il loro movimento meccanico, monotono, quasi lamentandosi; reiteratamente spostavano da una parte all’altra l’acqua che dal cielo cadeva e si schiantava sul parabrezza dell’automobile in moto.
Lo spilungone era aggrappato al volante, l’unico oggetto che come sempre continuava ad infondergli una illusoria parvenza di controllo su se stesso e sulla situazione. Aspettava, con la ragione diluitasi nell’odio e tramutatasi in una aspra e irragionevole giustizia da applicare.
Finché  la riconobbe, anche se le gocce di pioggia ne distorcevano l’immagine, che però veniva ricomposta ad ogni colpo dei tergicristalli e che subito dopo si frantumava nuovamente disgregata dal cadere della pioggia sul vetro anteriore dell’auto. Fine, questa, accaduta anche all’opinione che Yamcha aveva a proposito della sua donna – per lui ancora tale – divenuta però una figura deforme, astratta, manchevole di sincerità, multipla. Traditrice.
La spiò, osservandola uscire dall’ingresso secondario dell’Ospedale Generale di West City, fra le mani stringeva un piccolo ombrello giallo per proteggersi dalla pioggia forte che grondava a catinelle.
La cadenza dei passi della scienziata, agli occhi di chi la stava osservando con la lente dell’errato giudizio, cioè Yamcha, poteva essere equiparata all’avanzare ingessato e cupo di chi stava allontanandosi da un sepolcro dopo averne letto il triste epitaffio. Quell’accorato dolore era dedicato alla scimmia comatosa.
Yamcha maledisse Bulma, desiderò che l’anatema su cui si stava concentrando la colpisse immediatamente; facendogliela cadere proprio lì davanti, sulle scale che lei stava scendendo, bisognosa sotto i suoi occhi.

Mi rimpiangerai, Bulma. Un giorno verrai da me e mi implorerai di perdonarti.
Avevamo un futuro da costruire insieme, io avevo un futuro… Come hai potuto?!

La vide lanciare una capsula Hoipoi. Aspettò che salisse sul mezzo comparso e abbandonasse il parcheggio dell’ospedale, lei non si era accorta di lui. Sicuro di non essere stato visto, Yamcha spense l’automobile e la fece sparire riportandola alla forma di capsula.
S’avviò in direzione del reparto di rianimazione dell’ospedale.

Sto arrivando, saiyan.

 

 

~ ~ ~

 

 

L’unico modo per sottrarre Vegeta alle grinfie dei medici era guarirlo completamente e subito. Non capì come aveva fatto a non pensarci: una cura speciale dall’effetto immediato esisteva. Ed era conservata in un piccolo tempio nascosto tra le nubi del cielo. Era il santuario di Karin, situato in cima a una torre. Bulma era diretta da quella parte.
La scienziata ricordava a stento la strada per il tempio che una volta Son Goku le raccontò aver percorso durante la lotta contro l’armata dell’esercito del Red Ribbon. Fortunatamente, non era un luogo troppo lontano da West City e quando vi arrivò, a bordo del suo elicottero, trovò in cima all’obelisco un candido eremo. Il sole stava nuovamente sorgendo in quella zona della Terra e illuminava di luce calda il marmo freddo della struttura, rendendola visibile e colorata.
Bulma atterrò senza problemi, non aveva idea di chi avrebbe potuto aiutarla, e non si sarebbe mai aspettata di essere ricevuta da... Yajirobei, era lui, con il chimono marrone, la pancia e i capelli arruffati, e l’aria tremendamente scocciata. Probabilmente, la scienziata lo aveva svegliato.

«Tu che cosa ci fai qui?! Sei l’amica di Goku, ti conosco! Non lo sai che è vietato venir qui senza aver scalato la torre?!»

«Davvero? Mi dispiace, come puoi vedere, sono una dolce e debole signorina, non avrei mai potuto scalare a mani nude una torre così alta!»

«Infatti, significa che questo posto per te è vietato e non sei la benvenuta!»

«Oh, insomma! Non essere scortese, se sono qui di certo non è perché avevo voglia di vedere il tuo brutto muso!»

«Come ti permetti?! Arrivi all’alba senza avvisare, mi insulti e pensi di essere accettata!»

«Faccio quello che voglio, come voglio! Non ho bisogno del tuo consenso!»

«Che cosa?!»

«Basta, silenzio!»

Una terza voce si aggiunse alla discussione, Bulma si girò e trovò davanti a sé un paffuto e bianco gatto parlante.

«Tu sei Bulma.»

«Esatto.»

«So perché sei venuta, vedo molte cose da qui.»

La scienziata rimase sorpresa a quell’affermazione, ma presto smise di stupirsene. Aveva a che fare con una specie di divinità.

«E sembrerebbe essere una nobile causa la tua – proseguì il gatto – ma sei sicura di non stare facendo un errore seguendo il tuo egoismo?»

«Perché parla di egoismo? Io sto solo-»

«Sfamando un tuo desiderio, assecondando un tuo sentimento.»

«Si può sapere che state dicendo?!»
Domandò turbato Yajirobei, che era andato a sedersi poco lontano da loro.

La faccia di Bulma si fece molto seria: «Ha bisogno di cure, immediate.»
Fu laconica, perché tempo per altre chiacchiere inutili non lo aveva.

«Lo so – riprese Karin – tuttavia, se si è ridotto così è colpa sua, deve imparare dai suoi errori, e poi, non vi è alcuna positiva motivazione in lui. Egli è accecato dall’odio, questo lo sai.»

Bulma parve vacillare, tutti le evidenziavano l’empietà di Vegeta.

«Io devo salvarlo! Mi aiuti, almeno lei.»
Il gatto rimase in silenzio, parve rifletterci. Era affascinato dalla determinazione pura della scienziata.
«Aspettami qui», le disse.
Tornò poco dopo che stringeva tra le zampe un vaso in terracotta.
Si avvicinò a Bulma e lo protese verso di lei che ci guardò dentro.
«Terra?»
«Sì, e c’è anche quello che stavi cercando, sboccerà a breve, dovrai conservarlo in un luogo asciutto e buio.»
«Quindi mi sta aiutando?»
«Sì, però è meglio che tu te ne vada subito, perché potrei ripensarci. La persona che vuoi salvare non si è mai comportata be-»
Bulma abbracciò il Maestro Karin. Gli diede anche un bacio sul muso.
«Oh, che fai? Così mi metti in imbarazzo!»
«Grazie!»
« ... Va', sbrigati!»

La scienziata prese il vaso, aveva una speranza, bisognava solo attendere che sbocciasse. Se ne andò.


«Da quand’è che ti lasci intenerire dalle ragazzine?!»
Chiese Yajirobei, infilandosi un mignolo nel naso, che usò come una sonda alla ricerca di qualcosa nella sua narice sinistra.
«Ma che dici?! Sono solo un tenero gatto, non mi lascio intenerire.»
«Be’, le hai dato una pianta di Senzu.»
«Nascerà un solo fagiolo.»
«Per chi era?», domandò Yajirobei
«Ti ricordi quel saiyan? Quello venuto dallo spazio, poco più di un anno fa?»
Il ragazzo smise di ispezionare il suo naso.
«Hai combattuto anche tu contro di lui.», sottolineò Karin.
«Cosa?! Non vorrai dirmi che il fagiolo magico è per quel coso scimmione... Ehmm, Vegeta?!»
«Esatto!»
Yajirobei quasi svenne.
«Come? Ma è matta! Vuole aiutare quel mostro! E perché tu glielo hai dato?!»
Il gatto sorrise.
«Per motivi che non capiresti.»
«Cioè?!»
«Non te ne sei accorto? Lei lo ama.»
«Ma come si fa ad amare quel coso brutto e peloso?»
Yajirobei ricordava ovviamente e solo la scimmia mannara con la quale aveva combattuto e a cui aveva tagliato la coda, rimembrava bene persino il tonfo forte di quella carne tosta e irsuta che nulla aveva potuto contro la sua katana affilatissima. Di questo andava ancora orgoglioso.

«Yajirobei, non possiamo metterci contro il destino, dobbiamo assecondarlo. Quel ragazzo deve nascere.»

«Eh? Chi deve nascere?»

 

 

~ ~ ~

 

 

 

Yamcha era un esperto di arti marziali tra i terrestri e un mediocre fallito se comparato con un saiyan. Del suo grado di esperienza si servì per fregare i primi ed entrare nel reparto di rianimazione dove stava rinchiuso e dormiente il secondo. La fortuna girava anche dalla sua parte, oltre alle macchine che monitoravano il saiyan, nessun infermiere o medico era presente in quella stanza, ma questa condizione favorevole non sarebbe durata ancora per molto. Doveva sbrigarsi, se voleva servire ottimamente la sua Regina Vendetta.
Si avvicinò a Vegeta, lo guardò con il grado di sprezzo più alto che possedeva.
«Volevi farci sparire dalla faccia dell’universo, e ora sei steso su un letto, bello e addormentato, e noi terrestri ti prestiamo assistenza. Assurdo, vero? Purtroppo non ho molto tempo da dedicarti, quindi, cercherò di fare in fretta. Peccato che non stai abbastanza a pezzi da essere tenuto completamente in vita da queste macchine. Avrei staccato la spina e sarebbe stato più comodo per entrambi, ma vorrei anche evitare che qualcuno se ne accorgersse in tempo da salvarti cosicché  tu la faccia franca un’ennesima volta.»
Yamcha tolse con forza la maschera di Venturi che forniva l’ossigeno a Vegeta. I laccetti  che la tenevano salda al volto del saiyan rimbalzarono come schiocco di fruste. La buttò accanto alla  spalla del saiyan, abbandonandola a rilasciare inutilmente particelle di ossigeno.
Lo spilungone, sicuro di sé, prese i cuscini su cui era adagiata la testa di Vegeta.
«Non saresti dovuto tornare in vita, ma è successo. Pazienza, correggerò io questo sbaglio. Libererò il mondo dalla tua pericolosa presenza. Soprattutto, libererò Bulma e me. Credevi che te la lasciassi senza fare nulla? Oh no, lei è mia. E non mi interessa se adesso è diventata pazza e non mi vuole, so che la colpa è tua, le hai fatto perdere la ragione. Lei odiava quelli come te, e non capisco come tu sia riuscito ad incantare pure i suoi genitori, ma io non ci casco. Metterò a posto ogni cosa. E finalmente vivremo felici, senza di te, perché per te, qui, non c’è posto.»
Calò energicamente i cuscini sul volto addormentato del saiyan, tendendo le braccia e schiacciando le mani una sull’altra con tutta la forza che aveva, per assicurarsi che nemmeno una molecola d’aria riuscisse a passare.
«Sarai pure uno dei guerrieri più forti dell’universo, ma nelle condizioni in cui ti trovi non te ne fai niente della tua maledetta forza! Buon viaggio all’inferno, saiyan!»
Presto, i  bip dei battiti del cuore di Vegeta rallentarono. Yamcha li ascoltò come candida eufonia, godé vedendo Vegeta inerme ed immobile sotto di lui. Quando non sentì più nulla, finalmente, qualcosa scivolò via. Si era liberato del mostro che gli aveva rovinato la vita, aveva fatto ciò che Goku non si era preso la responsabilità di compiere. L’avrebbero applaudito, lo sapeva, i suoi amici l’avrebbero ringraziato e già vedeva Bulma correre da lui per baciarlo e gridargli di amarlo perché l’aveva fatta guarire dalla pazzia e liberata dal demone scimmia.
«Spero t’abbiano sbattuto nel girone più basso dell’inferno!»
Rimise i cuscini al loro posto, sotto la testa di Vegeta, e in malo modo gli risistemò la mascherina sul volto.
Doveva andarsene, perché di lì a poco molti uomini vestiti in azzurro e verde scuro avrebbero circondato il mostro ammazzato nel vano tentativo di rianimarlo, era meglio per lo spilungone non farsi vedere lì in quel momento. Ma appena Yamcha avanzò con un piede, allontanandosi dal letto del  saiyan, si sentì bloccato. Il suo braccio era tirato per il polso e  gli impediva di procedere.  Cosa poteva essere tanto forte da fargli sembrare di avere la mano come inchiodata? Dietro di lui non c’era cosa o persona, Vegeta era ormai un corpo senz’anima sdraiato su un letto. Ragionamento sensato, però lo spilungone aveva escluso volontariamente il suono elettrico di una macchina riprendere i suoi bip; e aveva sapientemente occultato il tatto di una mano d’acciaio che lo aveva agguantato.
Non voleva girarsi a vedere, se la stava facendo nei pantaloni.
«Impossibile, io l’ho ucciso…»
Passi, tanti passi prodotti da più di tre paia di gambe si stavano avvicinando alla sala di terapia intensiva.
Voltò la testa, il saiyan aveva gli occhi sigillati.
«Tu sei morto, lasciami subito! Lasciami!»
Suonava quasi ironico  mentre chiedeva ad un cadavere di lasciarlo andare. I passi intanto si facevano pericolosamente adiacenti.
Con un energico strattone Yamcha tentò di liberarsi e niente. Riprovò ma, addirittura, la morsa, oltre che a bloccarlo  lì, si stava facendo dolorosa.  Era diventato un bagno di sudore, sudore che rendeva i suoi capelli più lucidi, li ungeva e glieli  appiccicava sulla fronte. Il suo viso era diventato rosso per lo sforzo. Voleva urlare per il dolore, non poteva.
«Lasciami andare!»
Niente, il morto non mollava.
Gli sfuggivano i lamenti  tra i denti che teneva serrati in una brutta smorfia.
I dottori stavano arrivando, erano lì, forse erano già entrati e lui non se ne rendeva conto. Non c’era più tempo. La paura di venire scoperto lo portò a tirare con tutta la sua forza, avvertì le ossa della sua mano rompersi, schiacciarsi, deformarsi. Ma fu libero. La mano sinistra aveva una forma innaturale, dolorosa al solo guardarla, avrebbe pensato dopo a sistemarla. La nascose infilandola nella tasca della giacca e scappò via. Sentì qualcuno gridargli contro mentre apriva la porta dell’uscita d’emergenza e saltava dalle scale antincendio, verso il vuoto, volando via.

 

 

Continua…

Note:

1. Vi pare che con Vegeta ci sia andata giù pesante?! No, io non credo, in fondo, nell’anime lo vediamo a letto e attaccato a delle bombole di ossigeno dopo l’esplosione della navicella spaziale. Io l’ho semplicemente spedito in ospedale.

2. Sì, è accaduto. Bulma e Yamcha sono arrivati alla rottura. Mi auguro di aver orchestrato il susseguirsi della vicenda in modo interessante (non è finita), non scrivo plausibile perché il comportamento di Bulma non è stato per nulla plausibile, piuttosto incomprensibile e difficile. Ognuno reagisce a modo proprio e io non sto qui a rendere lineare ogni personaggio che tratto, purché questo resti IC, ovviamente. Specie, non voglio annoiarmi.

3. Yamcha è un uomo che non sta capendo più nulla, è disperato. Vede i suoi sogni svanire, la sua ragazza difendere il saiyan, e lei addirittura lo taccia di non essere stato all’altezza di combattere contro Vegeta. Ma la scienziata ha ragione di farlo, perché effettivamente Yamcha non ha perso la vita per mano del saiyan. Ok, tralasciamo che Vegeta avrebbe comunque eliminato tutti i terrestri se Goku non fosse intervenuto. Ma così non è stato. E poi, consideriamo che Bulma ora vede tutto con altri occhi, che vi piaccia o meno.

4. Ringrazio tutti i lettori che mi stanno seguendo. Sarebbe un piacere conoscere la vostra opinione, se accadrà ne sarò lieta.

5. Ammetto che questo capitolo ha la particolarità e coincidenza spiacevole di essere in qualche modo in tema con quanto stiamo vivendo. Per cui, meglio averlo tolto subito dalle scatole. La storia in bozza era già completa con questa parte, e non ho voluto modificarla.

6. No illustrazioni. Recupererò più avanti. Ci tenevo a pubblicare il capitolo ad un preciso mese di distanza dall’ultima pubblicazione.
L'illustrazione c'è. Appena fatta. Ore 18:27 del 17-04-20. Mi dipsiaceva lasciare il capitolo senza. Comunque, potrei aggiungerne altre.

7. Piccola parentesi sul nome di Bulma: io faccio parte di chi ha la cattiva abitudine di chiamarla Bulma Brief, usando Brief come cognome. È sbagliato. A me fa comodo così, ma è sbagliato. Lei è solo Bulma, Brief è il nome del padre. Punto. Non esiste il cognome. 

   
 
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