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Autore: Afaneia    18/04/2020    3 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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incomunicabile

Incredibile ma vero, sono di nuovo qui!

Come avevo preannunciato, la mia vita ha preso pieghe inaspettate dal 2018 a oggi, mi sono ritrovata senza preavviso a vivere da sola e quant'altro, quindi il tempo che mi rimane è sempre poco: ma non per questo abbandonerò mai questa storia, non ora, specialmente, che m'identifico con Emir più che mai. Perciò mi dispiace davvero impiegare sempre secoli per ogni aggiornamento, ma spero che ancora vi vada di perdervi un po' con me nei sotterranei della Villa Pokémon... perché a me va ancora, davvero.

Nel caso aveste bisogno di un rapido riassunto degli episodi precedenti, in puro stile Beautiful: dopo la perquisizione del Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, Emir si è totalmente allontanato da suo padre e si è recluso nella villa. Dopo qualche mese, Rotwang si è trasferito da lui; ma col passare del tempo Emir si sente sempre più solo e prigioniero della villa, e per ingannare il tempo inizia a studiare di nascosto i comportamenti di Mew. Nel frattempo, al Laboratorio, Valérien è sempre più isterico e licenzia Dolarhyde.

Ciò detto, prima di lasciarvi al capitolo, come sempre un paio di righe per i ringraziamenti: un enorme abbraccio a cristal_93, Fiulopis, Persej Combe e BlazePower per le loro recensioni al capitolo precedente, che mi hanno enormemente riempita di piacere. Siete anche troppo gentili!

A Fiulopis ha come al solito betato questo capitolo, e che lo ha fatto a tempo di record!

E infine, dedicato a Persej Combe, come misero regalo di compleanno. Date le circostanze non ho potuto fare altro, ma a te vanno tutti i miei auguri più cari.


Ciò detto, buona lettura a tutti, e mi auguro che possa portarvi un po' di distrazione in questo momento enormemente difficile e doloroso per il nostro popolo. Un enorme abbraccio, per quello che vale.


Afaneia




Capitolo XI – Incomunicabile.


Si fece molto difficile tener conto del tempo, dal sotterraneo. Il mondo lo riguardava ormai tanto poco che neppure il giornale lo interessava più: talora, quando Rotwang lo lasciava in bella vista per lui sul tavolino dell'ingresso o sul divano del sotterraneo, Emir neppure trovava la forza di sfogliarlo. A che sarebbe servito? Per il mondo egli non esisteva più, ed egli scopriva ogni giorno di più quanto poco s'interessasse del mondo.

Gli pareva che ormai solo la diversa qualità dell'aria lo informasse del trascorrere del tempo, e soltanto nelle poche ore che trascorreva al di fuori del sotterraneo. Durante la primavera Rotwang tornava a casa profumando di caldo e di polline, e d'estate cenavano sulla grande terrazza coperta su un orrido tavolo tarmato, alla vista del mare. Queste erano tutte le differenze che intercorrevano nella sua vita.

Ma fu durante un autunno umido e insolitamente freddo che Emir capì che qualcosa non andava, il mattino in cui Rotwang entrò in cucina ancora in pigiama, si mescolò nervosamente un caffè, leccò il cucchiaino e poi, per fargli dispetto, glielo infilò nella tazza senza dire una parola. Emir ne fu talmente attonito e disgustato che d'impulso allontanò la tazza da sé ed esclamò: «Ma che cazzo fai?»

«Quando scopiamo però non ti faccio tanto schifo» ringhiò Rotwang sedendosi a tavola di fronte a lui. Fu solo in quel momento che Emir realizzò che non era vestito per il lavoro.

«Sei ancora in pigiama?»

«No» ribatté Rotwang. «È un frac.»

Emir rettificò rabbiosamente. «Mi perdoni, vossignoria. Forse avrei dovuto chiederle per quale motivo indossa il pigiama a quest'ora?»

Fissandolo negli occhi con aria di sfida, Rotwang scandì lentamente: «Perché lo smoking di giorno è da cafoni. Sei contento?»

Dopodiché, prima che Emir facesse in tempo a scavalcare il tavolo per cercare di ammazzarlo, Rotwang gli fece cenno di lasciar perdere, come se la sola idea di discutere lo stancasse tanto da non valerne la pena: «Lascia stare, dai. Oggi resto a casa perché non mi va. Sei soddisfatto?»

«Ah.» Quella notizia era decisamente... inaspettata. Emir fece mente locale per valutare se ci fosse qualcosa di cui si era scordato o cui non aveva prestato attenzione. «E per quale motivo?»

«Nulla di speciale. Ho telefonato in laboratorio e ho detto che sono malato.» Rotwang tamburellò scontrosamente con le dita sul tavolo, fissandolo come aspettandosi qualcosa. «Beh? Non mi chiedi perché?»

Quella conversazione stava assumendo una direzione che Emir non riusciva più a seguire. Avrebbe voluto domandare, ma la sua perplessità era tale che tutto ciò che fece fu allargare le braccia con rassegnazione e replicare: «Servirebbe a qualcosa chiedertelo?»

«Relativamente» ammise Rotwang. «Me l'ha consigliato Portia, in realtà. Ha detto che faccio bene a non farmi vedere in Laboratorio per un paio di giorni. Lestournelle ha troppa paura di me per protestare o mandarmi un controllo, perciò sto pensando sul serio di restare a casa anche domani...»

Preso dall'esasperazione, Emir gridò: «Si può sapere che c'è?»

Finalmente Rotwang perse l'aria di strafottenza che aveva da quando era sceso, i suoi occhi si fecero stanchi, amareggiati, ed egli mormorò: «Torniamo in Guyana. Partiamo tra cinque mesi.»

Gli pareva passato un secolo da quando aveva pensato alla Guyana per l'ultima volta. Era come veder tornare d'improvviso qualcuno di lontano che credeva d'aver dimenticato per sempre e non saper come reagire, se fosse buono o cattivo; e poiché non sapeva come rispondere Emir rimase in silenzio. Ma dalla sua espressione Rotwang intuì più di quello che aveva da dire, e scrollando le spalle mormorò: «Già... è quello che ho pensato anch'io.»

«Valérien non vi aveva detto niente?»

La smorfia di Rotwang gli avrebbe fornito la risposta anche se lui non avesse detto niente. «Non credo che volesse rischiare di discutere con noi prima ancora di avere la risposta della Silph; e una volta che è arrivata la conferma non restava più nulla per cui chiedere il nostro parere. E poi, tecnicamente, non stiamo andando a cercare un Mew» puntualizzò. «La Silph non può permettersi di cercare pubblicamente un Mew per poi rischiare di fallire, perciò la spedizione sarà ufficialmente per cercare altri fossili...»

Emir sorrise appena. «La gente non è stupida.»

«No, ma se è per questo non sa neppure bene che cosa sia un fossile, e a quanto pare la Silph spera che un articolo di mezza colonna su una spedizione in cerca di fossili passi più inosservato rispetto a un titolo a caratteri cubitali sulla ricerca di un altro Mew. O almeno Lestournelle ha detto così.»

Anche quello aveva senso, quantomeno dal punto di vista di Dale; eppure tutto sembrava enormemente dispersivo: prima la Silph aveva interrotto il progetto sui fossili per occuparsi di Mew, poi, dopo il furto, aveva riportato l'équipe al progetto originario; e adesso che non aveva né Mew né una concreta speranza di trovarne un altro esemplare, improvvisamente metteva nuovamente in pausa il progetto, forse per sempre, per tornare in Guyana nella speranza di poter riprodurre la specie del Pokémon più raro del mondo. Emir aggrottò la fronte per un attimo.

«Non va bene per niente al Laboratorio, eh?»

«Non ti si nasconde nulla, eh?» ribatté Rotwang dopo un momento di silenzio. Pareva seccato alla sola idea di doverne parlare. Sospirò. «Non lo so, Fuji. Veramente. Stiamo per finire, o almeno io non vedo che cos'altro manchi, ma da un po' ho la sensazione che Lestournelle stia facendo di tutto per perdere tempo prima di passare alla fase sperimentale. Non ne ho parlato con nessuno, ma comincio a credere che Lestournelle non abbia idea di come procedere alla clonazione dei fossili senza di te, e che questa spedizione gli faccia prendere tempo.»

Emir scosse la testa senza riflettere. Non era possibile. «Questo non ha senso, Richard, e lo sai anche tu. Valérien non sarà un granché come direttore, ma è comunque un biologo eccezionale, e poi...»

«E poi cosa? Tutti gli studi genetici li abbiamo fatti io e te, e Lestournelle si è occupato solo degli studi ambientali ed evolutivi» lo interruppe Rotwang. «Te lo ricordi o no? Non sto dicendo che Lestournelle sia uno stupido, ma non ha un dottorato in ingegneria genetica. L'unico in tutto il Laboratorio che poteva clonare quell'Aerodactyl eri tu, e Lestournelle dev'essersi reso conto che prima o poi verrà fuori che lui non ne è in grado.»

«Anche se avesse un altro esemplare di Mew dovrebbe lo stesso procedere alla clonazione» obiettò Emir debolmente.

«Certo, senza alcun bisogno di intervenire sul DNA per modificarlo, però, e poi ci vorrà un secolo prima di passar ai fatti. Emir, mi prendi per il culo? Non ti è bastato far perquisire casa tua e quella di tuo padre per colpa delle sue paranoie? Di che altro hai bisogno per capire a cosa è capace di arrivare quel ragazzo pur di mascherare la sua incapacità?»

La cosa peggiore delle argomentazioni di Rotwang era che erano tutte vere, e che non c'era modo di obiettare oltre. Rotwang poteva essere un cinico stronzo polemico e poteva odiare Valérien dal preciso giorno in cui era stato assunto, ma restava pur sempre un professionista; e non c'era nessuno al mondo più qualificato di lui per giudicare. Non rimaneva altro da dire, ma Emir si sforzò ugualmente di trovare una risposta. Dopotutto, una soluzione doveva pur esistere se la Silph era disposta a investire del denaro.

«Vuol dire che quando verrà il momento assumeranno qualcun altro, se ce ne sarà bisogno.»

«Tipo uno stagista sottopagato che ha miracolosamente un dottorato in ingegneria genetica? Fuji, questo è il solo complimento che ti farò in vita mia, ma lo sappiamo tutti e due che tu eri l'unico al mondo in grado di clonare quel Pokémon. Su quel progetto avremmo dovuto lavorare io e te, e ora che tu sei chiuso qua dentro, ci siamo solo io e quel cretino succhiapalle. Non ci riusciremo mai.»

«Non...» iniziò Emir per puro istinto di ribattere; ma un'occhiata eloquente di Rotwang lo mise a tacere, ed egli lasciò perdere. «Pensi che ci saranno problemi in Laboratorio, se non troverete un altro esemplare di Mew?»

Rotwang scrollò le spalle. «Può darsi.»

«Pensi che potresti perdere il lavoro, se le cose peggiorassero?»

Per qualche momento Rotwang rimase in silenzio. Non ebbe moto. «Ce la caveremmo, Fuji, lo sai. Ce la caveremo sempre in qualche modo.»

«Anche se tu non lavorassi più e dovessimo comunque mantenere questa villa?»

Rotwang sorrise appena. «Ce la siamo cavata per due anni, Emir. Due anni sono tanti.»

Due anni erano tanti dato quello che avevano fatto, ma non serbavano per questo alcuna garanzia per il futuro; ma Emir preferì evitare d'insistere oltre. Il futuro gli appariva ora più nebuloso e incerto di quanto gli fosse sembrato mai, e angosciarsi in quel momento non avrebbe cambiato niente.



Nessuno in tutto il laboratorio aveva voglia di partire, e paradossalmente neppure Valérien. A quanto pareva, Rotwang aveva ragione: quel viaggio costituiva l'unica possibilità che gli rimanesse di nascondere alla Silph di non essere all'altezza delle loro aspettative. Se non avessero trovato un esemplare di Mew col quale eseguire la riproduzione, avrebbe dovuto ammettere di non esserne capace, o tirar le cose talmente per le lunghe che la Silph avrebbe tratto le proprie conclusioni; e in ogni caso sarebbe stato ben difficile da spiegare alla dirigenza. Era stato Dale ad assegnargli quell'incarico, per poterlo comandare in un momento di crisi senza attendere da lui alcuna reazione, già sapendo bene che non era per clonare Pokémon né tantomeno per dirigere il laboratorio che Valérien era stato assunto; ma se le cose fossero andate male e il progetto si fosse bloccato, Dale se ne sarebbe misteriosamente scordato e si sarebbe rivalso sul capro espiatorio più immediato e indifeso.

Quanto agli altri, di dover lasciare le sue figlie per la seconda volta in due anni Portia aveva ben poca voglia, a maggior ragione in quanto, per massimizzare il più possibile l'investimento, l'azienda aveva previsto per la spedizione un periodo minimo di un mese, arrivando addirittura ad assumere guide e speleologi locali per l'esplorazione della giungla; e tutto lasciava intendere che forse non avrebbero trovato un esemplare di Mew, ma avrebbero fatto di tutto per non tornare a casa senza di esso. Di tutti loro soltanto Ami, la giovane neolaureata in Tecniche di laboratorio che Dale aveva assunto in tutta fretta, appena sfornata dall'Università di Azzurropoli, senza nemmeno farle il colloquio né consultare Valérien, non era contrariata all'idea del viaggio; ma stando a quanto diceva Rotwang, che parlava di lei con malcelato compiacimento come di una protegée particolarmente soddisfacente, Ami era una valida collega e una brava ragazza, ma era giovane, e delle misteriose e complesse trame del mercato e della Silph non aveva mai avuto esperienza. Un viaggio in Guyana alla ricerca del Pokémon più raro del mondo, ad appena otto mesi dalla laurea, costituiva per lei l'occasione di una vita; e poi era all'alba della carriera, e forse ancora tutto le appariva roseo; ma persino lei era sgomenta alla prospettiva di un viaggio tanto lungo e tanto inutile.

Ma chi aveva preso peggio la notizia di quel viaggio era lui. Di fronte a quella prospettiva, Emir provava la sensazione di trovarsi nell'abisso di un pozzo che andasse riempiendosi a poco a poco con ritmo ineludibile, e il ritmo era quello dei giorni. Provava un'intollerabile angoscia. Avrebbe voluto sfogarla in qualche modo, ma la villa era vuota e silenziosa; le stanze echeggianti non gli offrivano alcun conforto.

Rotwang osservava in silenzio il viluppo di emozioni che lo animava. Non gliene parlava mai direttamente, ma quando sedevano a tavola, la sera, di fronte a una cena messa insieme un po' alla buona, Emir sentiva il suo sguardo soppesare la magrezza del suo corpo, indugiare sulle sporgenze lievi delle sue vertebre che gli percorrevano la schiena.

«Sei uscito, oggi?» domandava talora a bassa voce, col tono di fare una domanda qualsiasi ma lo sguardo preoccupato che non si distoglieva da lui. Non c'era un motivo preciso, eppure ogni volta a quella domanda Emir si sentiva colpevole di qualche cosa.

«Sono stato giù con Mew» rispondeva invariabilmente, e poi qualcosa sul tono di «Ho letto l'articolo di Dujardin sul sequenziamento del DNA mitocondriale» o sciocchezze del genere, per le quali Rotwang non provava il minimo interesse.

«Dovresti andare a correre sulla spiaggia, Fuji. Non che la cosa mi riguardi, ma visto che sei tutto il giorno recluso qui... ti farebbe bene alla schiena, ai polmoni, a...»

Fare attività fisica sulla spiaggia l'avrebbe aiutato a sfogare la sua angoscia, a placare i suoi pensieri, era questo che Rotwang cercava di dirgli: ma la villa era la sua casa, e dentro la sua casa egli si sentiva soffocare ma al sicuro. Come dirgli che tornare al mondo esterno costituiva per lui un'attrattiva e assieme un incubo, che ogni giorno che trascorreva in quella casa lo legava sempre più a essa, e che restarne prigioniero lo atterriva tanto quanto uscirne?

Ma non c'era modo di dirglielo, e forse neppure Rotwang avrebbe voluto davvero sentirselo dire, perché avrebbe significato perdere anche l'ultima illusione che aveva di aiutarlo. Ogni sera, quando Rotwang tirava fuori l'argomento, Emir si ritrovava a non saper che dire, e ogni volta annaspava in cerca di una scusa da porgli. Di solito taceva. Ma una sera in cui forse si sentiva più stanco, o più amareggiato, o in cui soltanto Rotwang doveva aver insistito più del dovuto, Emir levò gli occhi dal piatto e rispose: «Hai paura che finisca per ingrassare?» L'aveva detto senza rabbia, ma si rese conto troppo tardi di quanto dolore fosse carica la sua voce. Quella fu l'ultima sera in cui Rotwang menzionò la questione.

Non riusciva a intravedere un futuro che andasse oltre il giorno della partenza. Gli sembrava di vivere un conto alla rovescia, e alla fine di esso, più nulla, come se la sua vista non arrivasse lontana a sufficienza. Eppure quel giorno non sarebbe finito niente: Rotwang sarebbe tornato entro uno o due mesi e tutto sarebbe tornato di nuovo come prima – quel prima faceva schifo, certo, era un prima monotono e noioso, angustiante; ma era tutto quello che aveva, e in quel prima egli si sentiva a casa come un cane randagio in mezzo ai suoi rifiuti. Alla solitudine della villa era ormai assuefatto, ma la solitudine senza Rotwang gli faceva orrore.

Rotwang era molto più empatico di quanto lui stesso credesse. Non gliene avrebbe parlato mai, così come mai gli avrebbe confessato perché premeva tanto per spronarlo a uscire di casa; ma forse anche lui viveva quei giorni come l'inafferrabile sgocciolar via del tempo, o quantomeno di certo s'era accorto che era così che la viveva lui. Emir percepiva la sua pietà nel suo sguardo che gli correva addosso, talora avrebbe voluto respingerla, rifiutarla; ma opporvisi avrebbe voluto dire parlarne, infrangere per la prima volta il precario equilibrio di silenzio che s'era stabilito tra loro da quando avevano smesso di scontrarsi; ed Emir era troppo ipocrita e vigliacco per rischiare.

Rotwang tornò una sera a casa una mezz'ora più tardi del solito e venne a cercarlo con l'aria di dovergli dire qualcosa d'importante. Al suo ritardo Emir non avrebbe prestato una particolare attenzione di per sé, prima di tutto perché non guardava mai l'orologio, e poi perché, se anche vi avesse fatto caso, avrebbe dato per scontato che fosse ancora al lavoro; ma quando gli apparve davanti, Rotwang aveva l'aria seria e concentrata del medico, e la cosa lo lasciò perplesso.

«Va tutto bene?» domandò con una vaga inquietudine, allontanando la sedia dalla scrivania per guardarlo meglio. Naturalmente non fu così semplice: Mew esigeva d'esser sempre la prima delle preoccupazioni di chiunque varcasse la soglia del sotterraneo, e in quel momento non fece eccezione. Perciò la sua risposta dovette aspettare che Rotwang accogliesse sorridendo i suoi assalti amorosi e le sue vigorose richiese d'affetto, ed Emir se ne scoprì impazientito. Solo quando Mew si fu ormai calmata, e parzialmente soddisfatta si acquattò contro il fianco di Rotwang, seminascosta col muso affondato tra la sua giacca e il panciotto ad annusare gli odori ch'egli portava con sé dal mondo esterno, Rotwang ebbe modo di rispondere. «Nulla di grave, Fuji. Ma c'è una cosa di cui ti devo parlare. Hai un minuto?»

Emir spalancò le braccia a indicare la vacuità dello spazio intorno a sé: era alquanto evidente che un minuto ce l'aveva, ma Rotwang non colse la sua ironia. Si accomodò di fronte a lui sul divano, compostamente, sollevando appena con la punta delle dita i pantaloni sulle ginocchia, e tossì con discrezione per trovar le parole.

«Credevo che volessi chiedermi perché ho fatto tardi.»

Emir sbatté le palpebre un paio di volte. «Eri in Laboratorio... no?»

«No. Cioè, ovvio, ma dopo il lavoro. Non vuoi sapere dove sono stato?»

Il palese nervosismo di Rotwang lo confondeva a tal punto che Emir non approfittò neppure dell'occasione per ripagarlo con una risposta sarcastica. Si strinse nelle spalle perché mancava quasi d'ogni parola. «Richard, si può sapere che hai?»

«Dio... senti, Emir, penso che sia alquanto chiaro a entrambi che tu non stai bene qua dentro. O sbaglio?»

Era la prima volta che uno di loro affrontava apertamente l'argomento. Colto alla sprovvista, senza saper che dire, Emir aprì la bocca per rispondere, annaspò un po' e poi la richiuse. All'occhio clinico di Rotwang bastava così: lo osservò in silenzio per un momento e poi, come se non volesse infierire oltre: «Va bene così, Fuji... lascia stare. Io non sono nessuno per costringerti a dirmi qualcosa che non vuoi, non posso obbligarti a parlare con me... ma non posso neppure partire sapendo di lasciarti qui così. Ti è chiaro, questo?»

Emir annuì senza dire una parola.

«Beh, almeno su questo siamo d'accordo» borbottò Rotwang un po' rinvigorito, sebbene palesemente si aspettasse una qualche reazione più corposa di quella. Ma questo doveva comunque essere il momento che aveva aspettato: si spalancò la giacca, cavò un pacchetto bianco di farmacia e lo posò sul tavolino di fronte a sé. Emir lo fissò in silenzio senza far nulla per prenderlo: doveva essere quello che Mew aveva annusato prima, contro il suo panciotto, e su di esso tornò a concentrarsi, fluttuando a mezz'aria attorno al tavolino e usmando l'aria per decifrare quel misterioso ingresso nel suo regno. «Sia chiaro che non sono contento di questa soluzione, ma non posso lasciarti in queste condizioni, e non so che altro fare. Tu non vuoi parlarne con me, non vuoi uscire di casa e non possiamo parlare con nessuno al di fuori di questa casa, perché la Silph è dappertutto e non possiamo fidarci di nessuno che non siamo noi due. Perciò questa è l'unica soluzione che ho trovato.»

La sua mente iniziò finalmente a lavorare informazioni anziché a girare a vuoto come un macchinario inceppato, ed Emir accumulò infine sufficienti pensieri razionali da capire, o almeno così sperava. «Quelli sono farmaci?»

«Antidepressivi» confermò Rotwang con esattezza. «Non possiamo fare altro, Emir. Davvero. Sono notti che ci penso, ma questo è l'unico modo che ho trovato per aiutarti... soprattutto quando non sarò qui per farlo di persona. Ma la scelta è tua.»

C'era ancora qualcosa che non gli era chiaro in tutto ciò, sebbene ancora non riuscisse bene a realizzare cosa. Emir continuò a fissare il pacchetto sul tavolino come se da esso dovesse provenire chissà quale illuminazione.

«Tu sei un medico per Pokémon» obiettò infine.

Rotwang aggrottò la fronte. «Beh, fa piacere che te ne ricordi di tanto in tanto» commentò. «In ogni caso, ottima obiezione. Ho un ex che lavora in farmacia. Cioè, non è proprio un ex, è più uno che ho scopato un paio di volte, ma comunque... sono passato in farmacia e gli ho chiesto di darmi qualcosa per aiutarmi a superare un brutto periodo. Non gli ho parlato di te» puntualizzò. «L'ho messo già sufficientemente a disagio così, ma in fin dei conti sono comunque un medico, e sa che non posso creargli problemi. E poi, è meglio che pensi che siano per me.»

Sentendosi stupido fin nelle proprie viscere, Emir domandò: «Perché?»

Rotwang si strinse nelle spalle e alzò gli occhi al cielo per non doverlo guardare. «Dio, Fuji, non prendiamoci per il culo... lo sappiamo entrambi che sei un soggetto che tende ad abusare dei farmaci. Te l'ho già detto: se avessi trovato un'alternativa, non avrei mai scelto questa. Il mio amico farmacista mi fornirà i farmaci mensilmente fino alla partenza, e una scorta che dovrebbe bastare per tutto il tempo che sarò via. Che ne pensi?»

C'erano troppe informazioni dalle quali Emir si sentiva sopraffatto e che non riusciva ad analizzare. «Richard... perché?»

Rotwang tacque improvvisamente. Si chinò in avanti verso il tavolino, per allontanare gentilmente il muso di Mew dal pacchetto, e riprese dopo un istante, con qualche difficoltà: «Te l'ho già detto, Emir. Sono stanco di vederti patire così, come un cane, e non posso lasciarti qui così. E poi, bisognerà provvedere a Mew, qui» soggiunse dignitosamente, impettendosi, e per tornare a distogliere lo sguardo si attirò Mew sulle ginocchia e l'accarezzò piano in mezzo agli occhi. Mew pigolò di piacere.

Emir se ne stette buono e in silenzio per un po' a osservare le moine di Mew e l'ondeggiare di gioia della sua coda. Non sapeva che dire, e a dire il vero neppur bene che pensare; ma aveva l'impressione che quella rinuncia ai propri principi fosse costata a Rotwang molto più di quanto volesse ammettere, e che fosse meglio da parte sua non dire nulla.

«Grazie» accennò soltanto, e Rotwang assentì col capo senza guardarlo. Ma quando Emir tese la mano per prendere il pacchetto e dare almeno un'occhiata a quello che conteneva, la voce di Rotwang bloccò la sua mano là dove si trovava.

«Aspetta. Se scopro che esageri ancora come l'altra volta, ti ammazzo. Te ne ricordi?»

Certo che si ricordava. Emir annuì. «Sì... me ne ricordo.»

«Non sto scherzando. Te lo giuro, Emir. Sto facendo quello che posso per aiutarti, sto rischiando la carriera, e non mi importerebbe, dato che tu hai fatto lo stesso per Mew, ma ora c'è anche la carriera di un altro in gioco, e il minimo che tu possa fare è non rischiare la vita. Sono stato chiaro?»

«Richard» lo interruppe Emir. «Non lo farò.»

Finalmente Rotwang parve convinto. Ma l'atmosfera s'era fatta greve e troppo tesa nella stanza, e quando già la sua mano aveva raggiunto il pacchetto, Emir ci ripensò. Tornò ad appoggiarsi contro lo schienale della sedia.

«Uno con cui sei andato a letto qualche volta, hai detto?» domandò.

Questo Rotwang non se l'aspettava. Levò gli occhi su di lui: aveva capito il suo gioco, e la cosa lo divertiva. «Già.»

«Quanto tempo fa?»

«Che ne so io? Quattro, cinque anni fa. Non me lo ricordo. Non che ci fosse molto da ricordare, comunque.»

Questo era discretamente confortante. «Come si chiama?»

Rotwang scavallò pigramente le gambe. «Ehi, Fuji. Qui qualcuno è geloso?»



Ci voleva del tempo perché i farmaci iniziassero a fare effetto: su questo Rotwang aveva insistito molto, e del resto Emir non aveva bisogno di sentirselo dire da lui. Iniziò ad assumerli dal giorno seguente.

D'improvviso cambiarono i suoi sogni. Emir non s'era mai soffermato a riflettervi su, ma reputava d'aver sempre sognato come dovevano sognare un po' tutti: sogni più o meno significativi, che ricordava oppure no, piacevoli o confusi, qualche volta incubi, ma nell'insieme sogni di cui a stento si ricordava per più di qualche giorno; ma ora i suoi sogni s'erano fatti strani e meravigliosi, avventurosi e turbolenti come un film d'avventura. Non avevano sempre una trama precisa, e non sempre riusciva a ricordarli a lungo dopo il risveglio, ma lasciavano in lui una sensazione indistinta e piacevole di entusiasmo e di vita. Al risveglio rimaneva a lungo immobile sotto le coperte, con gli occhi chiusi, a bearsi del dormiveglia e delle atmosfere del sogno mentre Rotwang attorno a lui si preparava al giorno; e gli pareva d'aver appena vissuto una grande avventura.

I sogni costituivano però l'unico miglioramento concreto nella sua vita. Quanto al resto, tutto restava lo stesso: Rotwang se ne andava al mattino e tornava alla sera, e lui rimaneva solo. Mew non lo appagava più come all'inizio, quando almeno la consapevolezza d'averla salvata lo ripagava di ogni rinuncia. Erano passati due anni, e l'entusiasmo s'era spento allo scontrarsi con lo squallore della quotidianità. Non ci aveva guadagnato nulla, aveva al contrario perduto tutto, e Mew rimaneva ancora la stessa del primo giorno, fatua e affettuosa e del tutto imperscrutabile. Neppure studiarla lo appagava più, dal momento che non c'era mai niente di nuovo da annotare. Gli pareva di diventar pazzo, forse perché soffriva tanto che non vedeva altra via d'uscita. Ma tutto ciò che ebbe il coraggio di dire a Rotwang fu che i farmaci non funzionavano. Rotwang sorrideva cupamente.

«Non sono antidolorifici, Fuji. Non senti passare il dolore dopo mezz'ora che li hai assunti, e non basta assumerli un paio di settimane. Non ti accorgi del cambiamento a meno che tu non smetta di assumerli bruscamente, perciò evita di rompere le palle e fidati di me.»

Il tempo passò come se gli venisse sottratto di soppiatto, mentre lui non guardava. D'un tratto, come un incubo, venne febbraio.

I bagagli erano già pronti, o quantomeno così sosteneva Rotwang, ed Emir preferiva non immischiarsene. La sola idea della partenza dell'indomani lo angosciava e lo nauseava come la prospettiva di una morte, e preferiva ignorare quel pensiero relegandolo in un angolo buio della sua mente.

Trascorsero la giornata a letto, a fare sesso con più angoscia che passione, come se dovessero disperatamente approfittarne perché non ve ne sarebbe stata più occasione; ma poiché non avevano più vent'anni, passarono la maggior parte del tempo a rigirarsi pigramente tra le lenzuola sfatte, senza parlare ma senza neppure allontanarsi. Rotwang era pensieroso, ed Emir scrutava la sua fronte angosciata con dolorosa apprensione.

«Sei preoccupato per domani?»

«Pane e volpe a colazione, eh, Fuji?» lo rimbeccò Rotwang, ma il suo volto si distese quando parlò. «Brutti ricordi.»

Non c'era alcun bisogno di chiedergli quali brutti ricordi risvegliasse in lui il pensiero della Guyana, ed Emir si pentì quasi d'aver parlato. «Non troverete niente, Richard. Non abbiamo trovato niente due anni fa, quando abbiamo cercato, e a maggior ragione non troverete niente a distanza di tutto questo tempo. M1 ed M2 erano gli unici della loro specie, e nel giro di due mesi sarete di nuovo sull'isola a cercare di clonare Aerodactyl.»

Rotwang sorrise amaramente. «Quindi nel giro di due mesi la Silph ci spedirà tutti nella succursale russa, se non ci licenzierà.»

«Credevo fossi convinto che ce la caveremo sempre» gli ricordò Emir, che non ci aveva mai creduto, sebbene gli facesse piacere sperarci, ogni tanto.

«Infatti è quello che penso. Ciò non toglie che, se sono molto fortunato, l'anno prossimo sarò in qualche laboratorio siberiano e ti spedirò i soldi dalla banca di Tiksi. Ce l'avranno una banca, poi? Dev'essere un posto così di merda...»

Rotwang stava scherzando, ma Emir si sentì ugualmente in dovere di intervenire. «Se ci trovassimo alle strette potrei sempre spiegarti come intervenire sull'embrione da solo. Potresti farlo tu al posto di Valérien, se ce ne fosse bisogno. Sarebbe una soluzione, no?»

Il modo in cui Rotwang aggrottò scetticamente la fronte fu quasi gentile. «Sicuro, come no. Emir, ti ricordo che sei tu quello specializzato in ingegneria genetica, non io. Sulle modifiche del DNA puoi intervenire solo tu.»

Emir cacciò via le sue parole con la mano come per allontanare un insetto. «Se io l'ho fatto da solo all'Università, sono certo che potresti farlo anche tu. Non sei un chimico, sei un medico genetista, e poi... anzi. Mi è tornata in mente una cosa. Vieni con me.»



S'era quasi dimenticato di quella stanza.

Quando aveva scoperto il sotterraneo e l'aveva eletto a tempio del suo genio, gli era parso naturale crearsi là sotto qualcosa che assomigliasse a uno studio privato. Naturalmente era stata una delle cose più vanagloriose e inutili che avesse mai fatto, e di conseguenza non se n'era servito quasi mai. Tutto ciò che aveva fatto in quella stanza era stato sistemare un paio di manuali costosi che non aveva bisogno d'avere a portata di mano, e ovviamente tutto il materiale della sua tesi di dottorato. Ci si era seduto ogni tanto con ostentata soddisfazione, ed era finita lì. Forse aveva pensato di farne una specie di laboratorio segreto , chissà.

«Erano un paio d'anni che non provavo la sensazione di venir accompagnato da uno scienziato pazzo in un luogo segreto in cui nessuno può sentirmi urlare» commentò Rotwang ad alta voce, ma forse più per smorzare la tensione che altro. Mew aveva ricevuto un pezzetto di toast come parziale indennizzo della loro negligenza ed era rimasta di là, senza unirsi a loro nella loro esplorazione.

«Tu vivi in una casa in cui nessuno può sentirti urlare» obiettò Emir aprendo la porta dello studio. Era un secolo che non ci tornava, almeno da cinque anni, forse di più, e quando trovò a tentoni l'interruttore della luce la stanza rimase immersa nel buio. Sentì che Rotwang soffocava una risata.

«Che cos'è che avrei dovuto vedere?»

«Fanculo» rispose Emir seccato. «Comunque, non importa. Vieni dentro lo stesso. È una cosa veloce.»

Lo studio era troppo lontano dalla stanza principale perché vi giungesse luce da lì; non appena dentro, era talmente buio da non vedersi l'uno con l'altro. Il volto di Rotwang era per lui solo un'oscura silhouette nera, e solo i suoi occhi brillavano appena nell'ombra. Lo trascinò per un braccio verso il centro della stanza, là dove ricordava più o meno di averlo visto l'ultima volta, e cercò a tentoni nel buio un oggetto rigido.

«Metti la mano qui. Senti...?»

Rotwang tacque un istante. «Senti, non mi piace toccare alla cieca cose di cui non conosco la natura, quindi se qui dentro c'è qualcosa di mostruoso tipo feti abortiti...»

«Rotwang!» protestò Emir scandalizzato.«È solo un'incubatrice. Che idee ti vengono in mente?»

Questa volta il silenzio di Rotwang fu più prolungato. «Il fatto che tu abbia un'incubatrice quaggiù dovrebbe essere più rassicurante?»

«È il mio vecchio progetto di dottorato, coglione. È l'incubatrice tramite la quale sono intervenuto sul genoma di embrioni di Rattata in formazione a cinque giorni dalla fecondazione. Naturalmente per motivi etici l'Università ha imposto al mio relatore di non impiantare mai gli embrioni in una femmina adulta e di distruggerli entro sette giorni, perciò è rimasto tutto in teoria, ma tutti i test indicavano che gli embrioni erano sani, perciò è probabile che le fecondazioni sarebbero andate a buon fine, se...»

«Che cos'avevi modificato?» chiese Rotwang. La sua voce si era fatta improvvisamente più bassa e seria, ed Emir seppe di avere tutta la sua attenzione.

«Il colore, in realtà. Il mio relatore è stato irremovibile, perché a quanto pare era l'elemento meno problematico dal punto di vista etico, e anche l'unico che sarebbe stato evidente già al momento della nascita, nel caso l'Università ci avesse concesso l'autorizzazione a procedere alla sperimentazione in una fase successiva; e poi bastava a dimostrare che la sequenza genetica era modificabile a nostra discrezione, e alla commissione interessava questo.»

«Hai fatto tutto da solo?»

«Certo» mormorò Emir, e per qualche momento, se Rotwang avesse parlato, non l'avrebbe sentito. Provava un improvviso senso di nostalgia di quei giorni in cui era l'unico vero responsabile del suo lavoro. «Neppure il mio relatore riusciva più a starmi dietro, dopo un po'.»

«Non stento a immaginarlo» commentò Rotwang, per una volta privo di sarcasmo. «Non avrei voluto essere tuo relatore per nulla al mondo.»

Emir rise tra sé. «Sei stato mio collega, però. Dev'esser stato peggio. Comunque andiamo, dai. Non so nemmeno perché te l'ho fatto vedere...» Ma mentre gli passava di fianco per uscire, Rotwang lo afferrò d'improvviso. «Che c'è?»

«Dovremmo restare qua» mormorò Rotwang nel buio.

«Che cosa vuoi dire?»

«Che sarebbe tutto più semplice se restassimo qua. Ci hai mai pensato? Che se d'un tratto scomparissimo, se non uscissimo mai più da questa stanza, nessuno saprebbe dove venire a cercarci. Non dovremmo mentire mai più. Non ci hai mai pensato?»

Quella stanza non conosceva limiti né confini; tutto era buio, e lo spazio avrebbe potuto essere sterminato e infinito ed estendersi in ogni direzione nel tempo e nello spazio. Emir si accorse solo dopo un istante di aver trattenuto il respiro.

Rotwang non stava parlando della vita reale, naturalmente, di una vita in cui bisognava pagare le bollette e fare la spesa e portare a casa uno stipendio – era un'altra vita che poteva aver luogo solo in quella stanza buia, in quel momento, una vita in cui Mew non era mai piombata nelle loro giornate e loro non avrebbero mai dovuto nascondersi, o quantomeno lui non avrebbe mai dovuto tornare in Guyana.

«Già... sarebbe bello.»

Da qualche parte di fronte a lui, nel buio, gli occhi di Rotwang non si distoglievano da suoi: Emir lo percepiva soltanto attraverso il buio, eppure non aveva bisogno di vederli. «Se non fosse per lei dovremmo farlo, Emir. Piantare tutto e andarcene, persino il progetto dei fossili, persino la Silph, e andarcene in Germania o in America o dove ti pare a cercare un altro lavoro. Dico sul serio.»

«Sì... dovremmo» mormorò Emir, sforzandosi di soffocare un'improvvisa stretta al cuore. Rotwang l'aveva detto senza pensare, solo per ribadire ch'era in nome di un grande amore che rinunciava; ma involontariamente aveva detto la verità – che sarebbero stati liberi, se non fosse stato per lei.

Si sarebbe potuto mentire, illudersi; dire ad alta voce che, quando tutto fosse finito e avessero trovato il modo di liberare Mew in sicurezza, allora liberi lo sarebbero stati veramente... ma Rotwang era troppo intelligente e troppo scettico e non era questo che voleva sentirsi dire. Forse in realtà non voleva sentirsi dire proprio niente.

«Restiamo un po' qui?» propose Emir con un filo di voce. Rotwang accostò la porta, le loro sagome oscure non s'intravidero più, ed entrambi rimasero in silenzio a fingere di non esistere nella quiete e nel buio, dove nessuno avrebbe mai potuto trovarli.


   
 
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